Note-&-Rassegne-2018

 

 

IMG_20180821_203123Storia e Tradizione. Orientamenti storico-religiosi e concezioni del mondo *

 

CRISTIANA M.A. RINOLFI

Professore aggregato di Diritto romano

Università di Sassari

 

 

* E. MONTANARI, Storia e Tradizione. Orientamenti storico-religiosi e concezioni del mondo [I Saggi, 58], Lithos Editrice, Roma 2016, 233 pp. ISBN: 978-88-99581-17-6.

 

 

Tra le pubblicazioni giunte in Redazione, segnalo il volume dello storico delle religioni Enrico Montanari, Storia e Tradizione. Orientamenti storico-religiosi e concezioni del mondo, Roma 2016. Nell’opera si rielaborano studi, per la maggior parte già pubblicati, al fine, dichiarato in Premessa, di «mostrare alcuni processi di formazione di due indirizzi metodologici»(11) attualmente accreditati, quello storicistico e quello fenomenologico: due orientamenti contrapposti nel panorama storico-religioso, agli antipodi, tra Storia e Tradizione, evocati nel titolo del libro. Secondo Montanari, infatti, la lettura critica del pensiero dei singoli esponenti delle due scuole permetterebbe di «riaprire un percorso comune, che non sembra impraticabile» (28).

 

Montanari-2016 - CopiaIl Capitolo Primo, De Martino e Pettazzoni: aspetti di un confronto metodologico, riguarda il dibattito relativo alle impostazioni metodologiche intercorrente tra due figure di spicco dell’indirizzo storicistico: Raffaele Pettazzoni, il fondatore, ed Ernesto de Martino, fautore della sua radicale formulazione. Nel suo periodo giovanile, de Martino, accogliendo la posizione dei suoi maestri, Adolfo Omodeo e Benedetto Croce, contestò a Pettazzoni il carattere speciale che quest’ultimo riconosceva alla storia delle religioni. Il piano della discussione metodologica si spostò quando de Martino elaborò il tema della “destorificazione” mitico-rituale: secondo lo studioso, la religione mitologica era “in agonia”, per cui essa avrebbe ceduto il passo a un nuovo umanesimo storicistico, privo di ogni forma religiosa; mentre, per Pettazzoni, le esperienze del sacro dovevano essere conosciute storicamente, in quanto la religione era un “elemento immanente della civiltà”, e la sua storia possedeva un carattere salvifico sia indicando alle confessioni religiose tradizionali una prospettiva vitale, sia ritrovando una fede laica. Un “riavvicinamento” di de Martino alle posizioni di Pettazzoni si avviò a partire dal 1955, soprattutto per due ragioni più evidenti, individuate da Montanari: l’attenuazione della sua militanza politica e la possibilità di riattivare l’insegnamento di Storia delle religioni, di cui era stato titolare Pettazzoni, ormai fuori ruolo. La massima espressione di questo nuovo atteggiamento demartiniano è rappresentato dall’opera Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, del 1958, che orienterà favorevolmente la commissione giudicatrice del concorso per la cattedra di Storia delle religioni. Ormai inserito in ambiente accademico, de Martino poteva godere di un’ampia autonomia intellettuale, eppure «farà un uso misurato di questa “libertà”» (50). Alla morte di Pettazzoni, avvenuta a Roma l’8 dicembre del 1959, de Martino lo celebrerà in due circostanze ufficiali (il 27 febbraio 1960 e l’8 dicembre 1962), accomunando le proprie idee con quelle dello studioso scomparso. Questa “lettura” demartiniana generalmente è stata condivisa, e ha concorso alla formazione di una posizione concorde di “laicismo intollerante”; soltanto recentemente si è dato vita a un processo di ricostruzione critica «che potrà contribuire a restituire a ciascuno il suo, evitando una “vulgata” unificatrice e fuorviante che, forse, non era neppure nelle intenzioni di de Martino» (54). In chiusura Montanari afferma di essersi limitato in questa sede a “considerazioni preliminari”, auspica quindi una valutazione più dettagliata che consideri i differenti ambienti storico-culturali dei due studiosi, al fine di favorire «un’operazione invero ardua, che è quella di “storicizzare gli storicisti”, al di là di banalizzazioni apologetiche o di immeritati oblii. Se per molti versi le “vie” indicate da Pettazzoni e da de Martino furono divergenti, la presa d’atto di tali divergenze non deve intendersi alla stregua di un “leso storicismo”: essa non è affatto svalutativa, ma vuol essere anzi motivo di arricchimento» (57).

 

I tre capitoli successivi tratteggiano il pensiero dell’esponente a cui fa capo l’orientamento storicistico. In La “fede laica” di Raffaele Pettazzoni, Montanari concentra la sua attenzione sulle critiche generalmente mosse a Pettazzoni, per tutto il corso della sua esistenza: “modeste attitudini speculative” e “scarse esperienze religiose”. Questi rilievi furono espressi, nonostante un giudizio nel suo insieme encomiastico, nel novembre del 1923 dalla commissione del concorso di Storia delle religioni per l’Università di Roma, e ribaditi dai commissari per la conferma all’ordinariato nel dicembre del 1926. Secondo Montanari, il giudizio concorsuale «sembra un caso tipico di deformazione percettiva» (59), poiché la prima osservazione, circa le “modeste attitudini speculative” di Pettazzoni, si basava su un errore, in quanto lo studioso aveva scientemente scelto di far ricorso al criterio classificatorio e comparativo in chiave storico-filologica; mentre il giudizio sulle sue “scarse esperienze religiose” era frutto di equivoco, poiché egli costruì la sua religiosità nel corso del tempo, in connessione con la sua produzione scientifica. Montanari passa così a illustrare le “tappe” di formazione della religiosità di Pettazzoni. Le componenti politico-religiose del periodo giovanile sono rappresentate dal magistero di Carducci, propugnatore di una religiosità laica, dalla vicinanza alla ideologia mazziniana di ascendenza massonica e, soprattutto, dall’orientamento socialista. I concetti principali della sua produzione scientifica furono elaborati durante l’intervallo tra le due guerre mondiali; in particolare Pettazzoni constatò con favore il risveglio di una religione arcaica e la sua attualizzazione nell’emersione delle religioni nazionali che in Occidente avrebbe comportato la ripresa di una tradizione superata dall’affermarsi del cristianesimo. In particolare, nella seconda metà degli anni Trenta, lo studioso concentrò i suoi studi sulla Roma imperiale, evidenziandone il carattere sovranazionale da cui poteva scaturire il concetto di Stato con una religiosità da contrapporre al cristianesimo. Così Pettazzoni elaborò una religione “strutturale”, incentrata su una forma di salvazione, distinta dalle religioni “funzionali”, basate su una tipologia di diffusione, come quelle nazionali, sovrannazionali e misteriche. Questi temi saranno approfonditi a partire dal dopoguerra quando «sarà possibile cogliere pienamente “il nesso fra la vita interiore e l’opera”» (63) di Pettazzoni. In tale periodo lo studioso avvierà come afferma Montanari«il suo progetto più ambizioso» (68), la “Storia religiosa d’Italia”, promuovendo una “coscienza religiosa” alternativa, risalente al paganesimo dell’Italia antica. In tal modo egli propugnò una fede laica, foriera di salvezza per lo Stato e connessa con la libertà civica, che si concentrava, sul piano sociale e su quello storico, nella militanza nei partiti politici, nella celebrazione di feste civili e di riti di passaggio, quali, ad esempio, gli esami e il matrimonio. La “religione dello Stato” propugnata non avrebbe interferito con le confessioni religiose tradizionali, poiché modello «inclusivo, compatibile e completivo» (79) che conviveva con la “religione dell’Uomo”. Questa religione non era assoluta, ma, essendo componente di ogni cultura e immanente alle civiltà, si manifestava in forme storiche da studiare attraverso una prospettiva relativistica. L’impegno di diffondere la fede laica fu perseguito da Pettazzoni non solo a livello teorico, ma anche attraverso progetti editoriali, non tutti però andati a buon fine, con la partecipazione associativa, e l’ideazione di istituzioni, come la proposta di erigere un museo della civiltà religiosa; tuttavia, i tentativi dello studioso furono degli insuccessi poiché conclude Montanari – egli «visse nel suo ambiente quasi come un isolato» (86).

 

Nel Capitolo Terzo, Pettazzoni e il “mistero”, Montanari ripercorre lo sviluppo della nozione di mistero nelle riflessioni scientifiche dello studioso. Il concetto di mistero, fin nei primi scritti, è stato inteso da Pettazzoni come una categoria presente in ogni esperienza religiosa, comune a tutte le civiltà, antiche e moderne, espressione di “angoscia esistenziale” e di timore religioso che derivavano all’uomo dal suo rapportarsi con la volta celeste. Lo studioso inoltre, attraverso uno schema classificatorio che anticipò la sua distinzione “religioni dello Stato” “religione dell’Uomo”, contraddistinse le religioni nazionali da quelle universalistiche, poiché queste ultime, attraverso un processo di interiorizzazione, si incentravano sul “mistero della morte”. Intorno agli anni ’50, Pettazzoni, approfondendo il concetto in esame, rinvenne differenti risposte da parte del pensiero primitivo, dove il fenomeno naturale era mitizzato nell’Essere Supremo, e da parte dei moderni, per cui, attraverso un procedimento astrattivo, il mistero rappresentava una categoria religiosa autonoma. Negli appunti del suo periodo conclusivo, pubblicati con il titolo di Ora et labora, il mistero è considerato alla luce della connessione tra il lavoro umano e la preghiera, non è solo cosmico, ma è presente anche nella quotidianità, e, sebbene si rischiara grazie alla cultura, non si può eliminare del tutto. Pettazzoni, attraverso la promozione della fede laica, accolse, così, la religione come “mistero ineffabile”: una posizione che, secondo Montanari, conduce a «un distanziamento rispetto a uno storicismo di estrazione demartiniana, ma anche crociana» (101).

 

Il Capitolo Quarto esamina Eliade nel pensiero di Pettazzoni: riflessioni sugli Ultimi appunti, poiché i rapporti intercorrenti fra i due studiosi rappresentano «un momento esistenziale del processo costitutivo della storia delle religioni» (105). Le differenze fra i due luminari non inerivano soltanto all’età, ma derivavano da diversi fattori, quali, ad esempio, le origini, gli ambiti culturali e le posizioni politiche. Pettazzoni, dopo la morte di Gerardus van de Leeuw sopravvenuta nel 1950, considerò lo studioso romeno come un “interlocutore privilegiato” della fenomenologia (sebbene quest’ultimo non gradiva d’essere annoverato tra gli esponenti dell’orientamento tradizionale), ed ebbe un atteggiamento duplice nei confronti di Eliade, infatti, se, come emerge dalla corrispondenza, egli manifestava “una sincera cordialità”, nella sfera interna mostrava il suo dissenso scientifico. La distanza dei convincimenti emerge specialmente negli Ultimi appunti, editi nel 1960, dove lo studioso italiano criticava gli archetipi ipotizzati da Eliade. Se, per l’autore romeno, la ripetizione ciclica di tali modelli comportava la rimozione della storia, per Pettazzoni, invece, gli archetipi, in quanto prodotti umani tratti dalla esperienza di vita quotidiana, non conducevano a una dimensione metastorica. A fronte di tali critiche, gli Ultimi appunti di Pettazzoni sono stati letti generalmente in letteratura come un “manifesto dello storicismo intransigente”; Montanari, tuttavia, evidenziando la schematicità di questa opera in cui l’autore scrive «con riflessioni di getto, inattenuate e talora semplificate» (112), dubita che una rigida avversione verso la fenomenologia fosse nei reali intendimenti di Pettazzoni, poiché quest’ultimo mostra di tentare una sintesi con il pensiero eliadiano, considerando gli archetipi del sacro come “il mondo mitico delle origini”, dove l’uomo si ripara nei momenti di pericolo.

 

Il pensiero di Mircea Eliade, unitamente ai suoi rapporti con l’orientamento storicistico e quello fenomenologico, è analizzato nei quattro capitoli seguenti. In Eliade ed Evola: aspetti di un rapporto “sommerso”, Montanari esamina le motivazioni alla base “dell’apparente marginalità” in Eliade del pensiero di Julius Evola, sebbene la sua formazione fosse significativamente influenzata dal personaggio italiano, come emerge da un filone di studi, iniziati a partire dagli anni ’20, sull’attendibilità dei fenomeni metapsichici. L’autore romeno, infatti, dissimulò tale importanza già dopo il suo rientro in Romania dall’India, nel dicembre del 1931, quando si manifestarono «i prodromi di una discordanza che, col tempo, andrà accentuandosi» (131). Durante la sua esperienza indiana, infatti, Eliade incentrerà le sue riflessioni sull’“uomo arcaico”, espressione del folclore di civiltà contadine, che avrebbe generato l’“uomo nuovo” capace di affermarsi in Romania e di superare il storicismo dell’Europa occidentale, risultato di cultura borghese-urbana. Quando caddero tali speranze, «perduta la patria, il pensiero di Eliade si “universalizza” e si concentra soprattutto – pur se non esclusivamente – sulla disciplina storico-religiosa» (141).

 

Il Capitolo Sesto, Eros e cristianesimo nel Diario portoghese di Mircea Eliade, prende spunto dall’edizione italiana del Jurnalul portughez di Mircea Eliade, a cura di R. Scagno, postfazione di S. Alexandrescu, Milano 2009, che «ha messo a disposizione degli studiosi un’opera che è al tempo stesso un testo letterario insostituibile e un documento biografico eccezionale. La mancata revisione del testo, unita alla drammaticità degli eventi considerati, fa sì che non vi sia bisogno di scavare sotto i “non detti”, di recuperare il messaggio “vero” che “s’asconde sotto il velame”» (145). Oggetto dell’analisi di Montanari è l’eros in Eliade, importante tema interpretativo elaborato durante il soggiorno in Portogallo, inteso dallo studioso romeno come un elemento metafisico della religiosità arcaica che sopravvive nelle civiltà moderne, e che permette all’uomo capace di incarnarlo di trasformarsi in un essere cosmico a cui si rivelano segreti primordiali. Il tema in oggetto non solo è frutto di riflessione scientifica, ma accompagna anche l’esperienza interiore di Eliade. Dopo la morte della moglie Nina, avvenuta per tumore all’utero nel 1944, lo studioso fu preso dal rimorso di non aver voluto figli, e dal timore che la malattia della consorte fosse stata causata dall’aborto che lui stesso aveva incoraggiato anni prima. Eliade, così, fu spinto verso un eros metafisico per seguire “un percorso ascetico-penitenziale”, alla ricerca di integrità spirituale e di salvezza personale. Questo cammino interiore, al contempo, gli diede modo per rivalutare il cristianesimo, seppur in senso dialettico: «Inizia in questo modo a delinearsi una prospettiva conciliatrice che, anni dopo, si concretizzerà nella formula del “cristianesimo cosmico”, nella quale l’a. tenderà a riconoscersi, fino a una sorta di adesione religiosa» (156).

 

La sapienza esoterica dello studioso romeno è delineata nel capitolo seguente, Mircea Eliade: interprete di segreti, segreti di un interprete, che prende le mosse dall’opera di Marcello De Martino, Mircea Eliade esoterico esoterico. Iaon Petru Culianu e i “non detti”, Roma 2008. In merito, Montanari evidenzia che Eliade, fin dagli anni ’20, rifiutando la cultura illuministica, si dedicò all’analisi degli indirizzi magico-ermetici del rinascimento italiano, nell’intento di avvalorare la “scienza della natura”, unitamente alla metapsichica e a fenomeni, come i poteri psico-magici. Durante il suo soggiorno in India, egli non fu iniziato a saperi segreti, ma fu solo introdotto alla meditazione e allo hatha yoga; dopo il suo rientro dall’Asia, a corollario del suo progetto di “uomo universale”, lo studioso romeno intenderà l’“oggettività dei poteri psichici” come fondamento di un nuovo umanesimo. Secondo Eliade, infatti, i fenomeni parapsicologici erano realtà tangibili di cui le tradizioni popolari conservavano il ricordo: «Questa posizione muta radicalmente i parametri epistemologici dell’antropologia moderna. Non si devono più cercare le ragioni della credulità superstiziosa, ma, semmai, quelle dell’incroyance moderna» (166). A partire dagli anni ’40, l’autore romeno si interessò alla “religiosità cosmica”, quell’“immaginario” inteso come il risultato di poteri psico-ideativi, prendendo le distanze da quell’orientamento da lui definito come “tradizionalismo desueto”. Eliade, infatti, temeva di essere ritenuto un dilettante: «ciò lo avrebbe escluso dal novero degli scienziati accademici e dunque avrebbe reso di fatto irricevibile il suo progetto di sintesi fra i “lumi” e la “filosofia della natura” che si proponeva di realizzare (soprattutto mediante la dimostrabilità dei fenomeni paranormali e il recupero della religiosità “cosmica” attraverso il folclore e la sapienza indiana). Questo, in fondo, è e resterà l’obbiettivo centrale del pensiero eliadiano» (172).

 

Il Capitolo Ottavo, Storia e Tradizione. Aspetti recenti di un dibattito storico-religioso, pone a confronto gli orientamenti di Mircea Eliade (il quale viene inserito di norma nell’ambito dell’orientamento tradizionale, sebbene non sussistesse una perfetta coincidenza di vedute) e di Ernesto de Martino (il quale estremizzò le formulazioni della scuola storicistica), in quanto «nessuno più di loro rappresenta così chiaramente la divaricazione fra storicismo e fenomenologia, fra Storia e Tradizione, fra sacro ed etica puramente umana» (180). L’estrema posizione demartiniana è denominata “storicismo assoluto”, espressione coniata da Benedetto Croce, il quale intendeva la storia come “assoluto immanentismo dello spirito”; mentre, per il suo allievo, la religiosità e ogni forma di irrazionalismo avrebbero compiutamente ceduto il passo nella storia a un’etica umana. Per de Martino lo “storicismo assoluto” avrebbe permesso alla cultura occidentale moderna di acquistare coscienza della “storicità dell’esistenza”, e di conseguenza di liberarsi dal sacro e, in ogni tempo e in ogni cultura, realizzare nuovi modelli di società. Lo studioso italiano, perciò, polemizzò contro le posizioni anastoriche di Eliade, considerandolo, al pari di Pettazzoni, un’importante controparte in seno al dibattito storico-giuridico, benché il pensiero dello studioso romeno fosse estraneo al tradizionalismo integrale. Montanari individua un punto di incontro tra i due autori, in quanto entrambi «– sia pure con sensibilità molto diverse – escludono dai loro sistemi di pensiero un richiamo alla tradizione, anche religiosa, come fattore vivente e non “desueto”» (196). La visione umanistica eliadiana, accentuata dal crescere della sua notorietà, culminò infatti nella enunciazione del mito della storia delle religioni come ’“arca di Noè”: «una panoramica descrittiva di simboli e di ierofanie, che può considerarsi complementare rispetto alle interpretazioni degli storicisti» (195).

 

Il capitolo conclusivo, Tempo “ciclico” e tempo “lineare” nella Roma repubblicana, incentrato sulla concezione romana del tempo, si apre con l’esposizione delle teorie di Mircea Eliade espresse in Le mythe de l’éternel retour. Archétypes et répétition, Paris 1949. Secondo lo studioso romeno, il Popolo Romano, accogliendo le posizioni dottrinali greco-ellenistiche attraverso la mediazione etrusca, intendeva il tempo come ciclico. I Romani furono perciò “ossessionati” da due scadenze fatali, che essi cercarono in ogni modo di differire: la fine dell’Urbe dopo 1.200 anni (durata connessa all’avvistamento dei dodici avvoltoi da parte di Romolo); l’interruzione della storia dovuta al passaggio da un’età cosmica all’altra, dopo un ciclo di 365 anni. Gli sforzi romani di differire la fine dell’Urbs sono ipotizzati, sebbene giungendo a conclusioni opposte, anche da Marta Sordi, la quale in più occasioni ritorna sull’argomento (I rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, Roma 1960, 143 ss.; Virgilio e la storia romana del IV secolo a.C., in Athenaeum 43, 1964, 80 ss.; L’idea di crisi e di rinnovamento nella concezione romano-etrusca della storia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I.2, Berlin-New York 1972, 781 ss.; Il mito troiano e l’eredità etrusca di Roma, Milano 1989, 31 ss., 77 ss.). Secondo la ricostruzione della studiosa, i Romani acquisirono la concezione etrusca della linearità del tempo (contrapposta all’idea, di stampo pitagorico, di tempo ciclico), per cui la storia si articolava in periodi di crisi, rinviabili attraverso riti di espiazione propri della disciplina Etrusca. Montanari manifesta alcune perplessità intorno all’interpretazione di M. Sordi, sebbene la qualifichi come «una delle ipotesi più penetranti e suggestive sulla formazione dell’idea romana del tempo e della storia» (205). Innanzitutto, l’Autore sostiene che la visione romana della continuità lineare del tempo non sia di derivazione etrusca, poiché, nonostante l’elaborazione di strumenti rituali per il differimento delle scadenze fatali, gli Etruschi presupponevano forme temporali cicliche. La differenza di orientamento tra la concezione romana e quella etrusca del tempo emerge dal confronto tra un gruppo iconografico della Tomba François del IV sec. a.C. e un affresco tombale rinvenuto sull’Esquilino, risalente al III sec. a.C. Nel dipinto di Vulci si raffigura Vel Saties, uno dei proprietari della tomba, abbigliato da trionfatore nell’atto di trarre gli auspicia, mostrando la ripetizione dello stesso esito per età anteriori. Tale rappresentazione dimostra che gli Etruschi intendevano la storia «come “intuizione del tempo storico”, ossia come ricorso di eventi simili, simbolicamente equivalenti» (206). L’affresco dell’Esquilino si presenta invece in tre fasce sovrapposte, dove si ritrae l’ascesa sociale di un soldato romano secondo uno svolgimento continuo di avvenimenti: «anche quando questi si ripetono [...] non costituiscono dei “ricorsi”, né delle riattualizzazioni simboliche a partire da un archetipo fissato in una lontana età “eroica”» (207). Un’ulteriore evenienza, esibita da Montanari contro la derivazione etrusca della concezione romana del tempo lineare, risulta dall’impiego della datazione post Capitolinam dedicatam, testimoniato dalla notizia della dedicatio del tempio alla dea Concordia, celebrata nel 304 a.C. da Gneo Flavio, in qualità di edile curule. Questa cronologia, connessa alla cacciata dei re, segnava l’inizio della nuova era repubblicana. Da ciò emerge come, durante la res publica, i Romani intendessero il tempo svilupparsi con continuità lineare, senza prevedere alcuna scadenza fatale; questa concezione risulta specialmente dalla presenza nel calendario festivo del dies Alliensis, in ricordo della disfatta dell’esercito romano, inflitta dai Galli Senoni nei pressi dell’affluente del Tevere. Tale ricorrenza non rappresentava un ricorso ciclico, ma rievocava l’episodio, al fine di impedire il verificarsi di altri eventi funesti. Secondo l’ideologia etrusca, un sciagura di tale portata era determinata da un intervento divino preconizzante il termine di un ciclo; mentre per i Romani la causa si rinveniva in una azione umana che incrinava la pax deorum (nel caso specifico la violazione del ius gentium), provocando l’ira divina. Un ulteriore rilievo mosso da Montanari riguarda l’ipotesi di M. Sordi sul ruolo basilare dell’aruspicina nella formazione della “concezione romano-etrusca della storia”, almeno a decorrere dal I sec. a.C. L’Autore ritiene questa ricostruzione “eccessiva” innanzitutto a fronte delle differenze fra “le tecniche di consultazione” romane e quelle etrusche, poiché le prime accertavano la volontà degli dèi in relazione a una azione presente (orientamento “attualistico”), mentre le altre miravano ad anticipare il futuro (orientamento “profetico”). Sebbene le difformità tra i due metodi di consultazione si attenuarono con il tempo, a Roma non si arrivò a una loro piena fusione né durante le guerre civili, nonostante il frequente ricorso, per motivi politici, alle consultazioni dei sacerdoti etruschi, né tantomeno quando l’imperatore Claudio ufficializzò l’aruspicina. I Romani infatti, al contrario degli Etruschi, non temevano una loro fine imminente, ma erano pervasi da scrupolo religioso per una corretto compimento delle cerimonie: «a Roma, l’equilibrio della pax deorum dischiude la prospettiva di una temporalità indefinitamente aperta, che propizia la realizzazione della civitas augescens» (216).