Tradizione-Romana-2018

 

 

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SWPS - University of Social Sciences and Humanities

in Warsaw (Poland)

 

Impunibilità di chi agisce nell’interesse pubblico

 

 

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Sulla sua collocazione. – 3. La regola D. 50.15.116.1 nel contesto di altre fonti.Abstract.

 

 

1. – Introduzione

 

La presente ricerca ha per oggetto una delle regole giuridiche meno conosciute del diritto romano. Il suo autore è Ulpiano, giurista tardo-classico. La regola ci è pervenuta attraverso quei compilatori che intesero inserirla nel Libro cinquantesimo del Digesto, sotto il titolo 17 De diversis regulis iuris antiqui. Di seguito, è stato riportato il tenore del testo proposto da Ulpiano.

 

D. 50.17.116.1 (Ulp. 11 ad ed.): Non capitur, qui ius publicum sequitur.

 

Che la regola fosse marginalizzata, lo testimonia il fatto di non essere menzionata in alcuna raccolta di regole, antica[1] o moderna[2], né è stata inserita fra i princìpi del diritto romano. Nella letteratura romanistica questo brano è, essenzialmente, trattato marginalmente[3]. Una modesta collocazione fu data da G. Aricò Anselmo, che prospettò taluni dubbi sulla natura interpretativa, derivanti dal fatto che i compilatori intesero estrapolare la frase dal suo contesto originario e le attribuirono il carattere di principio di diritto[4].

La medesima collocazione della regola ulpianea fatta dai compilatori fa pensare che, presumibilmente, la stessa fosse legata all’undicesimo Libro del commentario di Ulpiano all’editto pretorio.

O. Lenel, nella ricostruzione dell’Editto Pretorio, collocò il passo nel titolo X, § 41 De minoribus viginti quinque annis che assunse il seguente tenore[5]:

 

Praetor edicit: Quod cum minore quam viginti cinque annis natu gestum esse dicetur, uti quaeque res erit, animadvertam.

 

Secondo l’Autore, fu disposto che, colui che avesse compiuto un negozio giuridico con una persona minore di 25 anni, avrebbe dovuto tenere conto di un intervento del pretore qualora, in seguito a tale negozio, fossero stati lesi gli interessi economici dei minores. O. Lenel, nel commentare l’editto, si limitò, esclusivamente, a sottolineare che non era previsto alcun termine entro cui i minores si potessero rivolgere al pretore a mezzo della domanda di curatela pretoria tramite l’adozione dell’istituto in integrum restitutio proptaer aetatem.

Ai fini del presente saggio, detto aspetto risulta, comunque, una questione marginale[6]. È, invece, di rilevante importanza il fatto che O. Lenel non prevedesse nel testo dell’editto né nella ricostruzione del commentario di Ulpiano all’editto alcun riferimento alla regola Ulpianea. Non è facile determinare la circostanza, ma si può affermare che il testo della regola di Ulpiano del D. 50.17.116.1 non fosse per O. Lenel strettamente legato all’editto stesso come tale, né al relativo commento di Ulpiano a quell’editto. La tesi si basa sulla collocazione della regola Non capitur, qui ius publicum sequitur che O. Lenel inserì nella Palingenesia alla penultima collocazione nei conservati frammenti del commentario di Ulpiano all’undicesimo Libro del commento all’editto pretorio.

Ciò su cui occorre dibattere è che la regola di Ulpiano sottoposta a questa nostra analisi, nella sua eloquenza, è tanto espressiva quanto significativa per il diritto romano nonché per i sistemi giurisprudenziali moderni. Essa presenta la soluzione ad un problema giuridico assai rilevante. Non vi è dubbio alcuno, infatti, che meglio possa essere chiarito il regime della responsabilità, e più precisamente la disciplina di esonero (excusatio) dalla responsabilità civile per un danno arrecato nel caso in cui l’attore avesse agito conformemente al diritto positivo.

 

 

2. – Sulla sua collocazione

 

Tutti quei dubbi che si pongono in relazione al significato originario della regola di Ulpiano D. 50.17.116.1 vanno risolti mediante l’analisi della sua collocazione, effettuata dai compilatori e, successivamente, da O. Lenel nella Palingenesia.

Dall’analisi dei Digesta, e dall’evidente intento dei compilatori, deriva che, il principio era, in origine, richiamato dall’undicesimo Libro del commentario di Ulpiano all’editto. Il paragrafo 116 del diciassettesimo titolo del Libro cinquantesimo dei Digesta è composto da tre regole di diverso significato ciascuna. La regola oggetto del presente saggio si colloca tra le altre due. L’elemento che le unisce prima facie è proprio Ulpiano.

Risulta, pertanto, necessario comprendere il motivo per cui i compilatori collocassero le tre regole di diverso significato nello stesso paragrafo. Occorre, dunque, effettuare un’analisi semantica delle tre regole collocate in D. 50.17.116.

La prima di esse è qui di seguito riportata:

 

D. 50.17.116 pr.: Nihil consensui tam contrarium est, qui ac bonae fidei iudicia sustinet, quam vis atque metus: quem comprobare contra bonos mores est.

 

La regola su citata riguarda l’efficacia di un negozio giuridico compiuto da un soggetto sotto minaccia (metus). Secondo Ulpiano tale negozio era da intendersi nullo e il suo conseguente riconoscimento costituiva un’offesa contra bonos mores. A. Watson, in questo caso, richiamava l’invalidità del negozio giuridico in quanto avvenuto in assenza del consenso effettivo tra le parti[7].

Il terzo frammento o la terza regola inserita in D. 50.17.116 assume il seguente tenore:

 

D. 50.17.116.2: Non videntur qui errant consentire.

 

Secondo Ulpiano l’obbligazione contratta a seguito di un errore non produce effetti giuridici; il che vuol dire che quella persona che ha agito per errore non avrebbe, effettivamente, acconsentito a porre in essere l’istituto giuridico.

Secondo M. Kaser si tratta, piuttosto, di una accezione post-classica, ricondotta ad Ulpiano solo dai compilatori. Nel periodo classico, appunto, l’errore veniva preso in considerazione esclusivamente quando rendeva impossibile la conclusione di un contratto, quale elemento essenziale (essentialia negotii) del negozio giuridico[8].

Tra le regole sopra richiamate si trova anche quella oggetto del presente saggio ovvero: D. 50.17.116.2: Non capitur, qui ius publicum sequitur, tradotto <Non sostiene la responsabilità, chi segue le regole del diritto pubblico>[9]. Di qui il quesito: cosa unisce le tre regole o i frammenti oltre all’identità dell’autore? La collocazione dei frammenti, eseguita dai compilatori, era casuale? Sicuramente la disamina richiama un’obiettiva circostanza: i tre frammenti si riferivano a questioni in tema di validità o invalidità del negozio giuridico. I compilatori vollero presentare in quel breve paragrafo le tre principali regole recanti le linee guida per decidere sulla validità o sull’invalidità di un negozio giuridico compiuto in seguito ad un errore (error) o sotto minaccia (metus).

L’estrapolazione dei tre frammenti dalla loro originaria collocazione portò O. Lenel a dirimere rilevanti dubbi, in quel tentativo intrapreso nella Palingenesia di invertire l’opera dei compilatori[10]. La prova di ciò è il frazionamento del paragrafo 116 e la collocazione della sua prima parte (D. 50.17.116 pr.) nel libro undicesimo del commentario all’editto sotto il titolo Quod metus causa gestu erit, mentre gli altri due frammenti (D. 50.17.116.1 e 2) furono aggiunti alla fine dello stesso commentario sotto il titolo De minoribus XXV annis.

Si può, con certezza, constatare che i compilatori, nel realizzare il titolo De diversis regulis antiqui nel libro cinquantesimo, preferivano quelle locuzioni idonee ad essere addattate alla forma di principio giuridico. Non di rado ciò comportava una variazione del significato originario[11].

Non si può escludere che la regola di cui ci occupiamo fosse parte dell’analisi eseguita da Ulpiano al fine di spiegare il motivo per cui non fosse adottabile il provvedimento della tutela stragiudiziale - restitutio in integrum, e per il quale la stessa fosse prevista dal pretore nell’editto (com. EP3, 116.3) ai fini della protezione dei minori [minores viginti quinque annis][12].

In tal senso, anche G. Aricò Anselmo ha confermato che l’esclusione dall’applicazione dell’istituto della tutela stragiudiziale era possibile, poiché il compimento di un negozio giuridico con un minore e la sua realizzazione erano conformi alla legge[13].

La suddetta argomentazione trova riscontro con quanto proposto da Papiniano (D. 46.1.51.4)[14]. Secondo l’autore, un minor non riceveva la tutela stragiudiziale in forma di restitutio in integrum contro quel confideiussore (fideiussor) che, all’instaurazione della lite (litis contestatio) con uno dei creditori, diventasse insolvente. In una tale situazione, sulla base del beneficium divisionis, ciascun fideiussore poteva chiedere la ripartizione del debito con gli altri fideiussori. Ne conseguiva l’estinzione dell’obbligazione solidale e ogni fideiussore era responsabile solo della parte del debito da lui dovuto e non dell’intero.

Un fideiussore minorenne non poteva esonerarsi dall’obbligo di pagamento della pro quota, ed evidentemente erano utili i provvedimenti di tutela stragiudiziale ovvero la restitutio in integrum. La divisione del debito tra i confideiussori obbligava il minorenne, poiché l’obbligazione derivava non dal contratto ma dalle prescrizioni di legge[15]. Questa regola fu considerata un’eccezione dal sistema di tutela degli interessi del minor.

Ne consegue che il significato della regola di Ulpiano va esaminato nel contesto degli altri, ugualmente problematici, frammenti dei prudentes.

 

 

3. – La regola D. 50.15.116.1 nel contesto di altre fonti

 

Già ad una prima lettura, il testo di Ulpiano D. 50.15.116.1: Non capitur, qui ius publicum sequitur e la sopradescritta analisi dei documenti e della dottrina consentono di accertare che i compilatori intendessero realizzare una regola giuridica che risolvesse il quesito della responsabilità dell’autore di un negozio giuridico sulla base delle prescrizioni del diritto positivo. La questione chiave rimane, comunque, quella di definire l’accezione usata da Ulpiano di ius publicum.

La locuzione ius publicum, prima facie, richiama la nostra attenzione alla ripartizione del Diritto, riportata dai compilatori all’inizio del primo libro dei Digesta.

 

D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 Inst.): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem…

 

Fu Ulpiano a proporre una chiara distinzione tra diritto privato e diritto pubblico[16], distinzione fondata sul concetto di utilità – utilitas[17].

Esistono, appunto, leggi che mirano alla regolamentazione delle relazioni tra persone fisiche e, secondo le comuni moderne espressioni, persone giuridiche. Esistono, poi, quelle leggi prevalentemente pubblicistiche. Niente fa pensare, però, che il concetto di ius publicum così percepito sia identico al concetto adoperato da Ulpiano in D. 50.17.116.1.

Secondo Ch.J. Mühlenbruch[18], pandettista tedesco meno noto, bisognerebbe, piuttosto, fare riferimento alla definizione che Cicerone diede dello ius publicum.

 

Cic., De partitione Oratoria 130: Scriptorum autem privatum aliud est, publicum aliud: publicum lex, senatusconsultum, foedus, privatum tabulae, pactum conventum, stipulatio.

 

Nella sua opera, Cicerone introdusse diverse distinzioni, corredandole di numerosi esempi. Per il diritto scritto (scriptorum), esso si divide in pubblico (publicum) e privato. Nel diritto pubblico si inseriscono le leggi (lex), le delibere senatorie (senatusconsulta), o i trattati di alleanza costituiti dallo stato romano (foedus). Nel diritto privato, invece, rientrano tutti i tipi di documenti privati (tabulae), i contratti (pacta) e le stipulazioni (stipulationes). E’ di tutta evidenza che Cicerone attribuiva al concetto di ius publicum un significato completamente diverso dall’accezione ulpianea di D. 1.1.1.2.

La spiegazione dei significati della locuzione ius publicum adoperati da Cicerone nel sopraddetto testo e da Ulpiano in D. 1.1.1.2 può rinvenirsi mediante l’analisi di ulteriori fonti del diritto di Ulpiano, ma anche di Paolo, Papiniano, Gaio e Callistrato. La prima di esse proviene dallo stesso Ulpiano.

 

D. 26.1.8 (Ulp. l. primo opinionum): Patronus quoque tutor liberti sui fidem exhibere debet, et si qua in fraudem debitorum quamvis pupilli liberti gesta sunt, revocari ius publicum permittit.

 

Nel suddetto brano l’Autore si riferisce alla nomina a tutore dell’ex padrone del liberto minorenne (minor). Nella fattispecie, il tutore era obbligato a rispettare tutte le regole previste dalla legge per tale circostanza[19]. In particolare, il padrone era tenuto ad agire in maniera onesta (tutor liberti sui fidem exhibere debet). Nella seconda frase del sopraccitato frammento Ulpiano riporta un esempio piuttosto rilevante e concernente l’atto pregiudizievole al creditore del minore. Atto che doveva emergere da un negozio giuridico compiuto dal tutore. In teoria, qualora un liberto minore avesse tratto profitto da tale negozio, egli avrebbe dovuto essere protetto dal pretore. Tuttavia non era così in questa situazione, perché, conformemente al ius publicum, i creditori potevano tendere ad annullare un tale negozio. E quindi la locuzione non poteva significare altro che le prescrizioni di diritto positivo che disciplinavano le relazioni tra i privati.

Analogamente, l’accezione dell’espressione ius publicum si trova in un altro testo di Ulpiano.

 

D. 47.10.13.1 (Ulp. 57 ad ed.): Is, qui iure publico utitur, non videtur iniuriae faciendae causa hoc facere: iuris enim executio non habet iniuriam.

 

Il frammento proviene dal titolo De iniuriis et famosis libellis. Secondo Ulpiano la persona che agisce nel rispetto della legge non commette atti contra legem, e con ciò non le si può imputare la responsabilità per iniuria, anche se, in conseguenza agli atti posti in essere, vi fosse un danno. Va, qui, ricordato che la parola iniuria era assai vasta nel suo significato e comprendeva una diversa tipologia di eventi come l’abuso verbale o la violenza aggravata, e, per esempio, l’aver colpito una persona, ma anche eventi in contrasto con le leggi vigenti che non erano disciplinati da regolamenti separati[20].

La locuzione ius publicum in un’accezione simile fu usato da Paolo.

 

D. 27.1.36.1 (Paul. l. 9 responsorum): Lucius Titius ex tribus filiis incolumibus unum habet emancipatum eius aetatis, ut curatores accipere debeat: quaero, si idem Titius pater petente eodem filio emancipato curator a praetore detur, an iure publico uti possit et nihilo minus trium filiorum nomine vacationem postulare. Respondi praemium quidem patri, quod propter numerum liberorum ei competit, denegari non oportere. Sed cum filio suo curator petatur, contra naturales stimulos facit, si tali excusatione utendum esse temptaverit.

 

Nel suddetto frammento, Paolo propose il seguente esempio: Lucio Tito aveva tre figli viventi. Uno di loro fu emancipato dalla patria potestà. Dato, però, che il figlio non aveva compiuto ancora 25 anni, il padre, su richiesta del figlio, fu costituito suo tutore (tutela dativa). Paolo pose il problema legale in forma di domanda e cioè: il pater familias poteva domandare al pretore di essere esonerato da questo obbligo? Si ha a che fare con l’istituto definito excusatio tutelae. Il tutore costituito poteva richiamare una delle causae excusationes e chiedere al pretore (praetor tutelaris) l’esenzione dall’esercizio di questa funzione pubblica (munus publicum)[21]. In cause di questo tipo si inserivano: l’età, la povertà ed anche un numero elevato dei figli, almeno tre. In tal caso, il pater famlias si appellava all’esercizio della patria potestà sugli altri due figli minori. Secondo Paolo, il pater familias non poteva ottenere l’esenzione dalla tutela affidatagli pur statuita dalla legge. Le prescizioni di legge attribuite al ius publicum o all’insieme delle norme del diritto privato rimanevano, nella fattispecie, in conflitto con il diritto naturale – contra natura. Vediamo, quindi, che la locuzione ius publicum utilizzata da Paolo nel suddetto frammento riferiva alla definizione del complesso delle norme del diritto positivo, inteso quale diritto pubblico.

La distinzione e la più chiara ripartizione in tema di diritto, con particolare riferimento alla disamina dei negozi giuridici, si ravvisano in un ulteriore testo di Paolo in cui è citata l’opinione di Pomponio.

 

D. 39.2.18.1 (Paul. 48 ad ed.): Quod opere facto consecutus sit dominii capione promissor, non teneri eum eo nomine Pomponius ait, quia nec loci nec operis vitio, sed publico iure id consecutus sit.

 

Ed ancora. Paolo si occupò della rilevante disamina in tema di responsabilità per danno futuro (damnum infectum). Assumeva la responsabilità per principio colui che si fosse obbligato a riparare il danno futuro (temuto) a mezzo di stipulazione. Nel frammento succitato il soggetto interessato non era il proprietario dell’immobile, bensì assumeva, esclusivamente, il rischio connesso a quel bene. Poteva, quindi, essere anche un affittuario. Ma a conclusione dei lavori si presentò un danno. Nel frattempo, il promissor diventò titolare dell’immobile per usucapione (usucapio). Emerge, qui, la questione giuridica circa il fondamento della responsabilità per il danno verificatosi, e quindi se il promissor fosse responsabile secondo il primo titolo analizzato o per usucapione dell’immobile. Pomponio asseriva che l’usucapio fosse un istituto del diritto pubblico e come tale non potesse costituire il fondamento della responsabilità del damnum infectum[22].

Per illustrare l’ipotesi principale di questo saggio vanno citati ancora altri due testi di Paolo, estrapolati dai compilatori dalla loro posizione originale e collocati poi nel libro cinquantesimo.

 

D. 50.17.141 pr. (Paul. 54 ad edictum): Quod contra rationem iuris receptum est, non est producendum ad consequentia.

 

D. 50.17.151 (Paul. 64 ad ed.): Nemo damnum facit, nisi qui id fecit, quod facere ius non habet. 

 

Nel primo dei testi succitati Paolo si riferisce alla questione della classificazione dei negozi giuridici in funzione della loro conformità alle disposizioni di legge. Secondo lui, ciò che veniva assunto dalle parti di un negozio giuridico, per es. le disposizioni di un contratto di vendita contrarie alla legge, non poteva produrre effetti giuridici negativi. Nell’altro testo, invece, Paolo presenta una regola generale secondo cui nessuno arreca danno, se non chi compie un’azione che egli non ha diritto di compiere[23].

Anche Gaio si esprimeva in precedenza in un senso simile a Paolo.

 

D. 50.17.55 (Gai. l. sec. de testamentis ad edictum urbicum): Nullus videtur dolo facere, qui suo iure utitur.

 

Gaio, a sua volta, sostiene che nessuno commette dolo se esercita il proprio diritto.

L’adozione della regola di Ulpiano di D. 50.17.116.1, ovvero l’esclusione della responsabilità della persona che aveva agito correttamente a livello di diritto positivo, trovava applicazione anche in riferimento alla valutazione degli effetti giuridici di una condotta conforme alle norme del diritto pubblico, concernente il funzionamento dello Stato come tale, ed in particolare dei suoi organi amministrativi. Secondo Callistrato, il delator, nel denunciare l’autore di un reato, adempiva all’obbligo derivante dal diritto pubblico e, dunque non commetteva un atto illecito.

 

D. 49.14.2 pr. (Call. 2 de iure fisci): Ex quibusdam causis delatione suscipientium fama non laeditur, veluti eorum, qui non praemii consequendi, item eorum, qui ulciscendi gratia adversarium suum deferunt, vel quod nomine rei publicae suae quis exsequitur causam: et haec ita observari plurifariam principalibus constitutionibus praecipitur.

 

La delatio, già dai tempi più remoti, non godeva di un’opinione positiva da parte della collettività. In alcuni casi, però, la denuncia era un atto auspicabile, e il legislatore proteggeva il denunciatore con la tutela dello Stato. In seguito all’adempimento del proprio obbligo legale e civile il buon nome del delator non veniva leso (fama non laeditur), almeno dal punto di vista legale. Tuttavia una denuncia falsa era punibile e il delator diventava una figura negativa soprannominata calumniator[24].

La locuzione ius publicum per definire le norme di diritto privato era usata anche dai glossatori. Accursio, nella sua glossa alla regola di Ulpiano, scrisse che il frammento riguardava la vendita di un servo necessario, servus necessarius, effettuata da un minor. In tal caso non ci si poteva avvalere dell’istituto della restitutio in integrum. Il negozio compiuto dal minore era valido e irreversibile. Non furono più scritte altre glosse a questo frammento. Ciò significa che era un frammento che all’epoca non destava grossi dubbi di natura interpretativa[25].

 

 

Abstract

 

La determinazione del significato dell’espressione ius publicum adoperato da Ulpiano in D. 50.17.116.1 consente di stabilire il tipo di negozio giuridico che una volta realizzatosi non era più reversibile. Ius publicum in questo contesto non significa altro che la precedenza data al diritto positivo rispetto ai contratti ovvero al diritto statuito dalle parti di un negozio giuridico. La regola ulpianea D. 50.17.116.1: Non capitur, qui ius publicum sequitur, collocata dai compilatori nel libro quindicesimo al titolo diciassettesimo dei Digesta, creò molti problemi interpretativi anche allo stesso O. Lenel, quando intraprese il tentativo di ricostruire il libro undicesimo del commentario all’editto pretorio. La sua collocazione da parte dei compilatori della regola ulpianea deriva da un carattere generale. In origine poteva essere strutturata diversamente, ma con il medesimo significato. Non è da escludere che, originariamente, la regola fosse legata al caso di inapplicabilità da parte di un minor di uno dei provvedimenti di tutela stragiudiziale, ovvero di restitutio in integrum propter aetatem nel caso in cui il negozio giuridico compiuto con esso si basasse sulle disposizioni di legge.

L’analisi delle fonti dimostra in maniera evidente che non fu Ulpiano l’autore di questa regola, ma dall’autore nuovamente proposta e, comunque, successivamente a Gaio, Pomponio e Callistrato. In più, i prudentes non sono gli autori della regola, ma i compilatori sulla scorta della opinio communis già nota e usata in precedenza. Così la condotta, o tutti quei negozi giuridici compiuti in conformità al diritto positivo, non potevano aprire verso una responsabilità civile, e con ciò non potevano produrre effetti giuridici negativi per l’attore. Ulpiano intese proporre la regola che i compilatori inserirono in 50.17. Possiamo affermare con inequivocabile certezza che la regola fosse nota già nel II secolo d.C. Con essa si volle, così, affermare un principio: colui che segue la prescrizione di una legge non sarà ritenuto responsabile civilmente.

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Cfr. L. De-Mauri, Regulae Juris, 11 ed. Mediolani 1976, nuova edizione Milano 1990.

[2] Cfr. W. Wołodkiewicz, Regulae iuris. Łacińskie inskrypcje na kolumnach Sądu Najwyższego Rzeczpospolitej Polskiej, Warszawa 2006.

[3] In alcuni studi si dibattono i due frammenti: D. 50.17.116 pr. e 2, si omette invece il frammento collocato in mezzo che non è riferibile né all’istituto restitutio in integrum, cfr. A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del "metus", in Anuario de historia del derecho español 51, 1981, 231; M. Kaser, Zur integrum retitutio, besonders wegen metus und dolus, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 94, 1977, 1001-183, né alla tutela dei minores, cfr. S. Solazzi, La minore età nel diritto Romano, Roma 1912.

[4] G. Aricò Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo 37, 1983, 538-539.

[5] Minores, - erano considerate persone che avevano compiuto 12 anni in caso di donne e 14 anni in caso di uomini e prima di compiere 25 anni. Dovevano essere persone sui iuris ed erano protette in funzione della loro inesperienza. Cfr. A. Petrucci, Lezioni di diritto privato romano, Torino 2015, 62.

[6] O. Lenel sostiene che nel testo originario di Ulpiano non fosse neanche menzionato un termine per presentare la domanda al pretore di concedere la restitutio in integrum. Secondo O. Lenel, il testo originale dell’editto parlava del termine di un anno. Cfr. O. Lenel, Das Edictum Perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung, 3a ed., Leipzig 1927, 116.

[7] Cfr. A. Watson, The Law of Obligations in the Later Roman Republic, Oxford 1965, 49.

[8] Cfr. M. Kaser, Rechtsgeschichte des Altertums, München 1955, 208, nt. 8. Gli effetti giuridici di un errore verificatosi venivano elaborati in maniera casistica. D. 18.1.9 pr. (Ulp. 28 ad Sab.): In venditionibus et emptionibus consensum debere intercedere palam est: ceterum sive in ipsa emptione dissentient sive in pretio sive in quo alio, emptio imperfecta est. Si igitur ego me fundum emere putarem Cornelianum, tu mihi te vendere Sempronianum putasti, quia in corpore dissensimus, emptio nulla est. Idem est, si ego me Stichum, tu Pamphilum absentem vendere putasti: nam cum in corpore dissentiatur, apparet nullam esse emptionem.

[9] Traduzione sulla base della traduzione polacca dei Digesta sotto la direzione di T. Palmirski.

[10] Testo consolidato del libro undicesimo del commento ulpianeo all’editto pretorio si trova in Palingenesia Iuris Civilis, vol. II, Lipsiae 1889, coll. 460-477.

[11] Per approfondimenti circa la stesura dei testi giuridici leggi M. Bianchini, Appunti su Giustiniano e la sua compilazione, I, Torino 1983, 1 ss.

[12] Cfr. T. PALMIRSKI, O różnych regułach dawnego prawa. 17 tytuł 50 księgi digestów. Tekst-tłumaczenie-komentarz, in Zeszyty Prawnicze 6.2, 2017, 314-315.

[13] G. Aricò Anselmo, op. cit., 539.

[14] D. 46.1.51.4 (Papin. 3 resp.): Cum inter fideiussores actione divisa quidam post litem contestatam solvendo esse desierunt, ea res ad onus eius qui solvendo est non pertinet, nec auxilio defendetur aetatis actor: non enim deceptus videtur iure communi usus.

[15] Cfr. T. Palmirski, op. cit., 314.

[16] Cfr. M. Talamanca, La filosofia greca e il diritto Romano, vol. II, Roma 1977, 112.

[17] Cfr. B. Sitek, Utilitas publica z perspektywy prawa rzymskiego i polskiego, in Themis Polska Nova 1(6), 2014, 21-35.

[18] Cfr. Ch.J. Mühlenbruch, Lehrbuch des Pandektenrechts, Tom. 1, Halle 1835, 86.

[19] W.W. Buckland, P. Stein, A Text-Book of Roman Law: From Augustus to Justinian, Cambridge 1968, 160.

[20] Il concetto di iniuria fu definito, tra gli altri, da Ulpiano D. 47.10.1. Vedi A. RODGER, Introducing iniuria, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis 59, 1991, 1-11; P. BIRKS, The early history of iniuria, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis 37, 1969, 163 ss.; D. PUGSLEY, Damni Iniuria, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis 34, 1968, 371-386; A. KOCH, Ewolucja deliktu iniuria w prawie rzymskim epoki republikańskiej, in Czasopismo Prawno-Historyczne 19.2, 1967, 51-74.

[21] Degli obblighi pubblici e delle possibilità di esenzione da essi leggi su D. 50.4. Cfr. G. Viarengo, L’excusatio tutelae nell’età del Principato, Genova 1996, 27 ss. Cfr. anche M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo 1989, 348-349; K. Czychlarz, Instytucje prawa rzymskiego, Warszawa 1992, 353.

[22] Cfr. M. Sobczyk, Protection From the Injury Threatening From Neighbouring Property in Roman Law and Protection from the anticipated Injury in the Art. 439 of the Polish Civil Code, in UWM Law Review 2, 2010, 113; M. Dyjakowska, ‘Superficies’ – rzymskie korzenie prawa zabudowy, in Zeszyty Prawnicze 15.1, 2015, 25; T. Giaro, Nowa hipoteza na temat ‘damni infecti lege agere’, in Eos 64, 1976, 91-106; A. WATSON, The law of property in the later Roman Republic, Oxford 1968, 125 ss.; G. Branca, La responsabilità per danni nei rapporti di vicinanza e il pensiero dei veteres, in Studi in memoria di E. Albertario, I, Milano 1953, 337-367.

[23] Per la spiegazione del significato originario della regola di Paolo D. 50.17.55 cfr. W. Wołodkiewicz, op. cit., 51-52.

[24] Cfr. G. Provera, La vindicatio caducorum: contributo allo studio del processo fiscale Romano, Torino 1964, 131-132.

[25] Digestum Nouum seu Pandectorum Iuris Civilis, v. III, Lugduni 1627, coll. 1905-6.