Memorie-2021

 

 

Luigi ALFIERI | ••• Storie che non devono essere raccontate ••• Il  giornalismo minacciatoLuigi Alfieri

Università di Urbino

 

DUE DOMANDE SULLA DEMOCRAZIA:

LA DEMOCRAZIA È UNIVERSALE?

LA DEMOCRAZIA È ESPORTABILE?

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A Lio,

mio fratello maggiore,

in memoriam

 

1. –

Dal momento che obiettivo di questo lavoro è rispondere (abbozzare una tra le diverse possibili risposte) a domande sulla democrazia, inevitabilmente se ne aggiunge subito un’altra, preliminare e assolutamente decisiva: cosa intendiamo per democrazia? Ma questa domanda, pur logicamente preminente, sarebbe talmente complessa e impegnativa da togliere spazio a tutte le altre. Occorre dunque sbrigarsi alla svelta proprio del problema più arduo, proponendo una definizione esclusivamente operativa che non miri ad altro che a portare avanti il discorso, dandogli complessivamente un senso (ammesso che la cosa riesca).

Comincerei da un elemento quantitativo. La democrazia è il governo del maggior numero, aspetto che troviamo fin dalle sue più antiche, classiche definizioni[1]. Bisogna perciò che la maggioranza della popolazione sia composta di cittadini attivi, che possano concorrere, su basi paritarie, alla formulazione delle decisioni politiche. Aggiungerei un’esigenza che non è presente nelle definizioni classiche ma che possiamo ritenere indispensabile per attualizzarle: che la popolazione generale sia tutta composta di cittadini in atto o in potenza. Chi non è cittadino attivo ora deve poterlo essere in futuro, al verificarsi di determinate condizioni. Le democrazie antiche erano compatibili con minoranze o persino maggioranze di schiavi senza diritti; ma oggi un simile sistema non sarebbe da nessuno riconosciuto come democratico. Le democrazie rappresentative contemporanee fino a tempi assai recenti hanno potuto escludere dai diritti politici le donne, ma oggi ciò è inaccettabile per qualunque sistema che voglia affermarsi come democratico. Gli stranieri residenti debbono poter diventare cittadini a determinate condizioni, variabili a piacere, ma non tali da escludere definitivamente dalla cittadinanza alcun soggetto (debbono perciò essere condizioni conseguibili da chiunque voglia sulla base di adempimenti possibili). È accettabile che dalla cittadinanza attiva siano esclusi i minori, fino al conseguimento dell’età normativamente stabilita; è accettabile che ne siano esclusi gli stranieri fino al conseguimento delle condizioni normativamente previste e sempre che ne vogliano fare richiesta. Può essere accettabile che la cittadinanza attiva sia suscettibile di rinuncia o che possa subire limitazioni in caso di inabilità o di indegnità (condanne penali). Non sarebbero accettabili in un’ottica contemporanea preclusioni o limitazioni su altre basi (genere, razza, religione ecc.), tali da poter produrre, al di sotto della maggioranza, una o più minoranze subordinate e perciò oppresse. I concetti non sono astraibili dal tempo storico, hanno un’evoluzione, ciò che si sarebbe potuto considerare democratico ieri non è più accettabile oggi e non avrebbe più senso usare il concetto di democrazia di Platone o Aristotele, la democrazia oggi è diversa e noi parliamo oggi di oggi.

Non ritengo indispensabile, ai fini di una definizione meramente operativa, entrare nel merito di come e che cosa i cittadini possano collettivamente decidere. Questioni di per sé fondamentalissime, come la rappresentanza, in quest’ottica si possono considerare secondarie. Decisivi sono invece due corollari che possiamo far discendere dal concetto che democrazia è il governo del maggior numero, dal quale in linea di principio nessuno che ne voglia far parte e presenti requisiti ragionevolmente conseguibili possa essere escluso. Il primo corollario è l’uguaglianza, da intendere in due sensi principali: nel senso che l’accesso al numero di coloro che decidono non sia precluso per nessuno da confini invalicabili, e nel senso che il potere decisionale non sia graduato e gerarchizzato in modo tale da creare tra i cittadini delle sottocategorie privilegiate o discriminate[2]. Il secondo corollario è la tutela delle minoranze: il consenso della maggioranza, inevitabilmente, determina la decisione, ma il dissenso della minoranza non deve comportare l’esclusione da decisioni future, o sanzioni di qualsiasi tipo per il solo fatto del dissenso, o condizioni comunque deteriori nella partecipazione alla comunità politica.

Naturalmente ci sarebbe moltissimo altro, ma ai fini limitati della prosecuzione del discorso ci possiamo accontentare di questo. Riassumendo, propongo dunque la seguente definizione stipulativa di democrazia: «democrazia è il governo del maggior numero, a condizione che a tale numero si possa accedere dall’esterno, che non vi siano discriminazioni al suo interno e che il consenso della maggioranza non possa determinare condizioni di partecipazione deteriori per le minoranze». Definizione che volutamente copre tanto la democrazia rappresentativa che quella diretta, tanto le liberaldemocrazie quanto le socialdemocrazie[3].

Su questa base preliminare, affrontiamo ora le due domande proposte.

 

 

2. –

A prima vista, si potrebbe ritenere che la nozione stipulativa di democrazia che si presuppone contenga già in sé la risposta alla prima delle due domande: la democrazia è universale? La risposta sarebbe: no. L’elemento universale, cioè necessariamente presente in qualsiasi possibile forma di governo che si possa sensatamente chiamare democratica, sarebbe infatti soltanto il governo del maggior numero, senza ulteriori specificazioni. Se introduciamo le condizioni dell’uguaglianza e della tutela delle minoranze, stiamo già dicendo che non c’è democrazia se ci sono schiavi, che non c’è democrazia se le donne o i neri o gli omosessuali o i dissenzienti ecc. subiscono limitazioni di diritti, e con ciò stiamo dicendo che la democrazia esiste da pochissimo e in pochissimi casi, se vogliamo essere ottimisti, o che la democrazia non esiste proprio, se vogliamo essere pessimisti (o, penserebbero in molti, semplicemente realisti). Che, così definita, la democrazia sia universale, sembra un non senso.

Però forse bisogna guardare meglio per vedere se la domanda, diversamente intesa, possa ricevere una risposta diversa.

Senza dubbio, non possiamo affermare né che la democrazia sia sempre esistita, né che sia esistita o esista ora dappertutto, né che solo la democrazia esista, né che la democrazia esisterà per sempre. Ognuna di queste affermazioni sarebbe assurda in maniera tanto evidente da non richiedere ulteriore discussione. Ma proviamo a considerare la cosa da una diversa angolatura. Ci sono ragioni definitive (almeno in un certo orizzonte storico) per ritenere che il principio democratico contenga, come proprio elemento costitutivo, la propria preferibilità a ogni altro principio? O, detto altrimenti, in un sistema democratico definibile come sopra stipulato, una decisione che mantenga o rafforzi le caratteristiche del sistema e una decisione che, invece, introducendo limitazioni o discriminazioni, faccia venir meno le caratteristiche del sistema, sarebbero entrambe decisioni conformi al sistema, e quindi equivalenti? Cioè: è democratico abolire o limitare la democrazia? Non sembra che la questione lasci margini di dubbio. Ma ne discende allora che la democrazia assume se stessa come definitiva. Non per questo lo diventa, la sua crisi finale e il suo crollo restano possibilità perenni. Quel che conta, però, è che abbiamo a che fare con un’opzione di valore che non si aggiunge indebitamente dall’esterno alla democrazia, ma fa parte analiticamente del suo concetto. La democrazia si colloca in una dimensione diacronica in cui guarda al passato come una condizione deteriore che era da superare ed è stata superata (non c’era ancora democrazia, e questo era un male, o c’era una democrazia meno inclusiva, e questo era un bene insufficiente) e al proprio futuro nell’ottica del proprio autosuperamento verso nuove inclusività, più compiute attribuzioni di diritti, migliori realizzazioni di libertà. La democrazia assume se stessa come progressiva. Quindi perennemente autocritica e perennemente insoddisfatta di sé, perché il suo presente, quale che esso sia, non le può bastare.

Quindi la democrazia implica, sempre come contenuto analitico del suo concetto, una filosofia della storia. Una filosofia del progresso storico, e persino della fine della storia. Non certo in quanto dal dato storico oggettivo emerga la verità di fatto che la storia è ascesa verso uno stato finale superiore: nulla di ciò è affermabile senza cadere nella pura fantasticheria. Ma nel senso che la storia, in quanto ha portato a un risultato constatabile, e cioè alla costruzione di un determinato concetto normativo di democrazia (e la democrazia porta con sé la propria normatività), possa essere considerata una serie (non continua, non uniforme) di conquiste, di vittorie, culminanti in un risultato dal quale non si possa più discendere senza che ciò sia da interpretare come una caduta catastrofica nel disvalore[4].

Se assumiamo che la democrazia deve essere inclusiva per corrispondere al suo concetto, i livelli di minor inclusività presenti nel passato sono giustificabili ex post solo come tappe in un processo ascendente, e il ritorno eventuale da gradi maggiori a gradi minori di inclusività non sarebbe una decisione legittima, necessaria eventualmente per migliorare la stabilità e sostenibilità del sistema, ma sarebbe una decisione (anche se assunta dalla maggioranza) non democratica, e perciò una decisione contro la democrazia, e perciò una negazione del principio democratico, mentre non sarebbe tale una decisione che aumenti l’inclusività, cioè l’uguaglianza. Il processo pensa se stesso come a senso unico, se no il suo pensiero di sé diventa contraddittorio e insostenibile.

Ciò che stiamo dicendo, evidentemente, significa che la democrazia non è (soltanto) una forma di governo, ma è un principio di legittimazione. Potremmo obiettare che questa è una posizione non scientifica, ma ideologica e che democrazia è solo una categoria classificatoria mirante a descrivere situazioni di fatto del tutto equivalenti ad altre diverse situazioni (una delle forme di governo possibili, non migliore né peggiore delle altre). In questo modo però la nostra scienza rinuncerebbe a percepire un fenomeno: e cioè che qualunque sistema classificabile come democratico ha come proprio contenuto empiricamente constatabile (nelle leggi, nelle costituzioni, nei discorsi politici, nei dibattiti parlamentari, nei resoconti giornalistici, nei sondaggi elettorali ecc.) una costruzione legittimante del tipo sopra esposto.

Potremmo dire che tutti i sistemi politici si autolegittimano, ed è vero. Ma non lo fanno alla stessa maniera. Hanno alla base filosofie della storia differenti. Un sistema monarchico ha una filosofia della storia fondata sull’esemplarità del passato e sull’esigenza di continuarlo. Un sistema aristocratico ha una filosofia della storia fondata sul rifiuto del mutamento. Si costruiscono confini e si vietano orizzonti di innovazione. Si rinuncia, per principio, all’universalità. Il nostro re è il nostro, non deve essere di tutti, altri avranno il loro e non è necessario che tutti abbiano un re. I nostri ottimati, i nostri buoni e giusti, i nostri uomini superiori sono indice della nostra complessiva superiorità: gli altri non possono essere come noi, appunto in quanto è nostra prerogativa esprimere i migliori, sistemi diversi dal nostro non lo possono fare per definizione. Soltanto la democrazia assume che se noi siamo liberi e uguali tutti debbono esserlo e che qualunque rafforzamento della democrazia degli altri è un rafforzamento della democrazia in generale.

Ovviamente possiamo assumere che ciò non sia vero. Ma questa non sarebbe una posizione neutra di pura, avalutativa scientificità. Sarebbe una negazione che la democrazia esista, ma ancora di più una negazione che la democrazia debba esistere. Sarebbe quindi una posizione politicamente antagonistica alla democrazia. Diciamo pure che, nell’ottica della legittimazione democratica, sarebbe un pensiero reazionario. Se, all’interno di un sistema democratico, questo pensiero si sostanziasse in una decisione politica, si tratterebbe di un atto eversivo. Probabilmente una qualche norma della costituzione formale, e di sicuro la costituzione materiale, lo vieterebbe. E se ciò nonostante la limitazione o l’abolizione della democrazia venisse decisa, si tratterebbe di rivoluzione (rectius: di controrivoluzione). Non avremmo la prosecuzione modificata del sistema, ma il suo crollo, seguito dal sorgere di un sistema diverso, che non sarebbe in continuità col precedente. Può benissimo succedere, è ovvio. Ma se succede, non si può pretendere che sia rimasto in vigore lo stesso principio di legittimità del sistema precedente. La decisione che abolisce o limita la democrazia non è sostanzialmente una decisione democratica, sebbene possa benissimo esserlo formalmente, cioè sebbene possa essere assunta attraverso libere votazioni da una maggioranza (parlamentare o elettorale). Il che significa che un sistema democratico si assume come definitivo, se no non potrebbe assumersi come legittimo. E qui risiede l’unica possibilità di discriminazione di minoranze accettabile in un sistema democratico. Da tutto si può dissentire in una democrazia, tranne che dal principio democratico stesso. Non può essere riconosciuto a una minoranza un diritto che neppure la maggioranza potrebbe riconoscere a se stessa. E qui direi che si è costretti a constatare un nucleo sostanziale irriducibile che resiste ad ogni concezione formale della democrazia. Che potrebbe essere espresso così: la democrazia è universale, perché deve esserlo.

 

 

3. –

Qui mi vedo costretto a esprimere un sommesso, rispettoso, affettuoso dissenso verso la concezione della democrazia di Bobbio (e di Michelangelo Bovero, e di Lio)[5]. La democrazia non è solo un sistema per decidere[6], cioè un insieme di regole formali applicabili a qualsiasi atto decisorio e compatibili con qualsiasi contenuto della decisione, se assunta nel rispetto delle regole. Sì, è principalmente e normalmente questo. Anche la concezione di democrazia che qui sto cercando di proporre è formale, compatibile con contenuti politici completamente diversi, e non mi sto chiedendo se sia meglio o peggio una democrazia diretta o rappresentativa, una democrazia liberale o una democrazia socialista ecc., e neppure sto pretendendo che una decisione democratica sia di per sé una decisione razionale o una decisione giusta, né che la maggioranza debba decidere perché conosce la verità e vuole il bene. No, sto dicendo semplicemente che, prima che essere un sistema per decidere, la democrazia è un sistema deciso.

C’è una decisione a monte. Fondativa. Di solito un atto rivoluzionario, o una serie di atti rivoluzionari che, pur svolgendosi in luoghi ed epoche diverse e non necessariamente avendo tra loro precisi nessi causali, determinano in qualche modo una sinergia storica. Rivoluzione inglese, rivoluzione americana, rivoluzione francese. Lotte di liberazione nazionale, tra cui il Risorgimento. Ma persino la rivoluzione russa, senza trascurare le lotte di liberazione anticoloniale: anche se non sfociano in una democrazia davvero riconoscibile come tale, contribuiscono a creare, come dire, un campo democratico, un ribollire di energie storiche che consolidano principi (per esempio, l’uguaglianza). Nel nostro caso, fondamentalissima è ovviamente la Resistenza, nella sua realtà storica e molto di più ancora nel suo mito (i principi di legittimazione, da sempre, sono miti, in un senso forte e nobile del termine)[7].

Ma che significa decidere la democrazia? Certo, significa decidere una serie di regole per continuare a decidere. Ma a partire da una decisione già presa, una volta per tutte, irrevocabilmente: una decisione che è la democrazia stessa. La decisione che la democrazia sia. La decisione che la democrazia debba essere. La decisione che la democrazia debba, perciò, restare. Che non si possa accettare un suo indebolimento o arretramento. Che si possa solo, da quel momento in poi, continuare, sviluppare, migliorare, accrescere.

Il voto democratico ha un duplice senso. Votare la democrazia, votare secondo democrazia, significa anche votarsi alla democrazia. Non spaventiamoci: c’è anche un senso religioso. In politica non è così strano. Dipende dalle nostre radici. Discende dall’eredità degli antenati. La democrazia non è avulsa dalla storia, la porta con sé. Non potrebbe, neppure se lo volesse, non essere puritana, e giacobina, e mazziniana, e garibaldina, e gobettiana, e gramsciana, e partigiana (ed equivalenti, nelle diverse realtà nazionali). E prima di qualunque altra cosa, cristiana. E naturalmente, certo, certissimo, anche bobbiana, precisamente nel senso di un insegnamento non solo e non tanto scientifico quanto morale, nel senso, diciamolo senza paura, di un sacerdozio, svolto in maniera schiva e antiretorica, ma, oserei pensare, non certo inconsapevole.

In quest’ottica, forse, si può comprendere meglio anche perché le regole, le forme, le norme, le procedure, siano così importanti. È vero, sono enormemente importanti. Perché sono riti. Sono atti di culto. Sacramenti, persino. Attraverso di loro, vive, finché vive, una religione civile.

Che, come ogni religione, può decadere nella dissacrazione, nel sacrilegio, nella blasfemia, nell’idolatria. Che, come ogni religione, non è eterna, essendo realtà storica. Che, come ogni religione, morirà. Senza per questo mai smettere, finché è in vita, di credere di potersi fare portatrice di un soffio di eternità, destinato comunque a sopravvivere, a reincarnarsi, in un orizzonte futuro che non conosce limiti.

In questo senso, spero e credo di poter dire che la democrazia è universale. E se non è universale, non è.

 

 

4. –

A questo punto, sembrerebbe che la risposta alla prima domanda contenga già in sé la risposta alla seconda. Se la democrazia è universale, deve essere di tutti. Una democrazia non può riconoscere come propri pari ed equivalenti sistemi politici non democratici. Li può accettare, per realismo politico, come poteri di fatto, ma non certo come poteri legittimi (anche se magari lo sono, in un’ottica giuridica puramente formale). Dovunque nel mondo si instauri una democrazia, tutte le democrazie del mondo sono dalla sua parte (non necessariamente lo sono i governi, ma i governi non sono mai né l’unica né la principale espressione dello “spirito” democratico). Dovunque nel mondo si instauri una dittatura, le democrazie potranno magari farci affari, anche col più ributtante cinismo, ma non la percepiranno mai come un proprio equivalente, come un sistema dotato di pari valore. Non si potrebbe essere democratici senza pensare che la democrazia, presto o tardi, debba affermarsi dovunque nel mondo, essendo l’unica forma politica adeguata al nostro orizzonte storico. Se un popolo lotta per la democrazia, tutti gli altri popoli democratici non possono non sentirsi dalla sua parte. Magari non muoveranno un dito: essere democratici non significa necessariamente essere pieni di spirito di giustizia e di abnegazione eroica. Ma, quanto meno, “faranno il tifo”, per così dire. E se uno Stato democratico aiutasse una dittatura a reprimere le lotte per la democrazia, questo aprirebbe al suo interno una contraddizione e un conflitto di carattere particolarmente intenso e lacerante[8].

Non sembrano quindi esserci ostacoli teorici alla conclusione che, se un sistema democratico avesse la concreta possibilità, con l’esempio, la persuasione e ogni tipo possibile di pressione, non esclusa la forza militare, di favorire o provocare, in altre nazioni, la caduta di un regime autoritario e l’instaurazione di una democrazia o anche solo l’approssimazione a una democrazia, dovrebbe farlo, mentre non facendolo si assumerebbe una responsabilità etico-politica e ne subirebbe comunque un arretramento, una lesione[9]. Potendo abbattere un regime tirannico, dunque, bisogna farlo, e se un’invasione militare può essere risolutiva nel determinare la fine di una dittatura, essa sarebbe legittima per definizione e non sarebbe un’aggressione ma un aiuto fraterno a un popolo oppresso.

Di fatto, la politica internazionale sì è orientata vistosamente in questo senso: è uno dei cambiamenti politici più rilevanti degli scorsi decenni e sarebbe superfluo entrare nei dettagli dei numerosi esempi. C’è stato un mutamento ben percepibile anche se non del tutto formalizzato nello stesso diritto internazionale: non tutti gli Stati sono uguali, non tutti gli Stati possono rivendicare a pieno titolo la propria sovranità interna. Alcuni Stati possono giudicare sulla legittimità degli altrui governi e non soltanto possono rifiutare di riconoscerli, ma hanno il diritto di provocarne direttamente o indirettamente la caduta[10].

Non dobbiamo nasconderci che si tratta di un comportamento conseguente. Se la democrazia è universale, quindi inclusiva, è anche espansiva. Se si vuole la democrazia per sé, e si ritiene che da questa volontà non si possa recedere, non si può non volerla anche per gli altri. Qualunque processo democratico, dovunque e comunque accada, è una conquista e un avanzamento per la democrazia in generale, e qualunque sconfitta di una democrazia è una sconfitta della democrazia. Pensarla diversamente significherebbe assumere un punto di vista differenzialista: gli uomini, i popoli, non sono tutti uguali. Alcuni sono capaci di democrazia, altri no. Alcuni ne sono degni, altri no. Il principio democratico sarebbe dunque un principio gerarchico. La democrazia contrassegna i popoli superiori distinguendoli da quelli inferiori. Dunque la democrazia, proiettata su scala mondiale, è una forma di aristocrazia. Ovvia la contraddizione e l’insostenibilità logica. Se il principio democratico non vale per tutti non vale per nessuno: il lungo, tragico e semidimenticato periodo delle lotte anticoloniali dovrebbe avercelo insegnato. Nessuno può essere libero se nega l’altrui libertà. Ne consegue perciò che un governo democratico e un governo autoritario, per quanto formalmente possano essere entrambi legittimi, non sono equivalenti e che una lotta per la democrazia in uno Stato straniero non è questione interna di quello Stato ma è questione universalmente umana. Le vecchie categorie giuridico-politiche qui mostrano la corda. Dobbiamo prendere atto che ormai la democrazia rientra a pieno titolo tra i diritti umani, anzi addirittura li riassume in sé. E di fronte ai diritti umani, come di fronte ai problemi ambientali, alla globalizzazione economica e a tutto ciò che oggi costringe l’umanità a pensarsi come un tutto, lo Stato-nazione si manifesta chiaramente come una struttura logora e invecchiata, il cui superamento rappresenta una delle linee più marcate e meglio percepibili del mutamento storico in atto.

Perché dunque negare che la democrazia sia “esportabile”? Tendenze e movimenti democratici esistono di fatto quasi ovunque nel mondo, anche dove non esistono governi democratici, e molto spesso si manifestano in lotte anche cruente e in atti eroici di resistenza. In base a quale principio si potrebbe rifiutare il proprio aiuto, anche se questo comportasse un atto di forza? Si capisce bene che possano esserci limiti pratici: non si è onnipotenti, non sempre e non dovunque gli aiuti possibili sarebbero efficaci, intervenire in certe situazioni potrebbe comportare rischi gravissimi o costi insostenibili. Ma un limite di principio non sembra invocabile. E quindi, se uno Stato o una coalizione di Stati possono anche coercitivamente imporre in altri Stati l’avvento di sistemi democratici, sarebbero autorizzati a farlo e non facendolo smentirebbero il proprio stesso principio fondativo. Sembra dunque che non vi sia un criterio etico che contrasti con l’“esportazione”, anche mediante invasione militare, della democrazia.

 

 

5. –

Sembra, appunto. Bisogna guardare un po’ meglio. Perché la stessa contraddizione interna al principio democratico cui volevamo sfuggire resta ancora in agguato. Non possiamo affermare che ci sono uomini o popoli o culture indegni o incapaci di democrazia, perché così spezziamo l’unità del genere umano mediante un principio differenzialista: se così è, ci sono uomini superiori e sottouomini, razze elette e razze impure e degradate, civiltà e barbarie. E se così è, noi esponenti di una parte indubbiamente privilegiata del genere umano non siamo più liberi e democratici, siamo signori e dominatori. Perché dovremmo chiamarci democratici? Saremmo un’aristocrazia. E il confine tra aristocrazia e oligarchia è difficile da tracciare e da mantenere, anzi probabilmente non esiste. E se siamo un’oligarchia, siamo una tirannide collettiva. E i tiranni, lo sapeva benissimo già Platone, non sono liberi[11]. L’atto che nega l’altrui libertà non è un atto libero. Nega, e rinnega, la libertà in generale.

Ci sono due modi, però, di negare l’altrui libertà, e anche se non sono affatto equivalenti sono però convergenti. Nego la libertà di un altro quando lo asservisco, e lo si capisce bene. Ma nego la sua libertà anche quando io lo libero. La libertà può essere una conquista ma non può essere un dono. Chi conquista la libertà è, appunto, un uomo libero. Chi riceve in dono la libertà è un liberto. La sua condizione può migliorare anche di molto, ma la ferita alla sua dignità non guarisce. Nessuno può essere esentato dalla propria storia. A nessuno possono essere risparmiate le lotte, e neppure le sconfitte, i fallimenti, le tragedie, che un cammino di liberazione comporta. La storia non è benevola e non fa sconti. E non può essere sostituita dalla storia di altri[12].

Qui ci collochiamo, ed è bene saperlo, su un crinale difficile, instabile, scomodo. Il principio che rispettare l’altrui libertà significhi lasciare che l’altro si liberi senza pretendere di abbreviargli il cammino o di guidarlo nel suo cammino è difficile da tradurre in pratica ed è pericoloso se lo assumiamo con eccessivo rigore. Rischia di sfumare in una comoda indifferenza. Non si può rifiutare la propria solidarietà. Non si deve negare la propria ammirazione: è importante, non è solo slancio emotivo o retorica. Ciò che è grande ed eroico, anche e soprattutto nella sconfitta, arricchisce l’esperienza esistenziale dell’umanità, e se non si pensa all’umanità con orgoglio non è davvero possibile pensare la libertà e l’uguaglianza. La democrazia, malgrado l’apparenza spesso sin troppo dimessa della sua quotidianità, ha bisogno di eroi. E negare il proprio aiuto, lo si potrebbe? Il difficile sta proprio qui. Nel trovare un punto d’equilibrio tra indifferenza e sopraffazione. Non aiutare l’oppresso, è innegabile, significa rendersi complici dell’oppressione, ma aiutarlo fino al punto di farne un mero comprimario, se non addirittura un semplice spettatore, della sua propria liberazione significa lasciarlo nell’umiliazione alleviandone solo le forme. Si possono aiutare gli altri nel loro cammino, non camminare al loro posto. Si possono aiutare gli altri nel costruire un futuro, non decidere il loro futuro. Il presupposto deve essere il riconoscimento del loro definitivo e permanente diritto a un’alterità. Non sono tenuti ad assomigliarci (di fatto, per mille ragioni storiche ed economiche, lo faranno, ma dev’essere una loro scelta). Soprattutto non sono tenuti a ubbidirci, perché se debbono avere un tiranno forse è meglio che sia uno di loro.

Poi, certo, se per impedire un genocidio ci vuole un bombardamento, non è facile dire che bisogna astenersi. Se non è un espediente propagandistico (ed è probabile che lo sia), se non è uno stravolgimento dei fatti per legittimare interessi di potenza, se è proprio vero che un genocidio è in atto o è un rischio imminente e solo un atto di forza può fermarlo o impedirlo, allora il criterio del male minore è stringente. Qui il criterio di scelta non sarebbe dettato da un principio etico-politico ma da una verità di fatto. Se è fattualmente vero che ci si trova di fronte al male estremo, tutto ciò che può impedirlo è accettabile. Purché per il minor tempo che sia possibile, con la minor applicazione di forza che sia possibile e la minor possibile invasività riguardo alla storia, all’identità, al destino di coloro in cui difesa si è intervenuti. Che tutto ciò, nei fatti, presenti gravissime probabilità di errore e di abuso è del tutto evidente, ma non possiamo renderci facili le cose difficili.

In linea di principio, e al solo scopo di una modestissima proposta di chiarificazione del pensiero che non si illude di contare più di tanto, si può comunque proporre, in conclusione, che alla domanda se la democrazia è universale si risponda di sì, e che alla domanda se la democrazia è esportabile si risponda invece di no, ed esattamente per gli stessi motivi.

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori, dal curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] Beninteso, nelle definizioni classiche il dato numerico non è mai ritenuto sufficiente, da solo, per caratterizzare la democrazia. È sempre accompagnato da precisazioni qualitative. Esemplare in proposito Aristotele, Politica, lib. III, 8, 1279b-1280a.

[2] Qui si sta parlando beninteso di uguaglianza formale. L’uguaglianza sostanziale è un problema ulteriore, che non attiene alla democrazia come nozione, ma al suo funzionamento pratico, alla sua stabilità e alla possibilità di riconoscervi sufficienti contenuti di giustizia sociale.

[3] Una definizione più completa e più bella della mia la trovo in un recentissimo scritto di Giuseppe Limone, ancora inedito, destinato a un volume che sostiene una visione dichiaratamente e orgogliosamente utopica della democrazia, da cui non mi sento lontano. Limone propone la seguente definizione di democrazia: «in primo luogo, l’estensione di un potere – diritti e doveri – a tutti; in secondo luogo, la messa in opera di un criterio di maggioranza; in terzo luogo, l’affermazione di un principio di rispetto delle minoranze; in quarto luogo, la strutturale predisposizione della possibilità di un dissenso pubblicamente organizzabile; in quinto luogo, ai livelli più civilmente avanzati, il rispetto di un bene comune di cui ogni singolo sia elemento essenzialmente costitutivo. In questo senso, nessuna maggioranza, comunque qualificata, potrà disporre della dignità di uno solo». Qui c’è proprio tutto, almeno tutto l’essenziale. La mia definizione è concettualmente più povera, ma mi sembra sostanzialmente coincidente. Cfr. G. Limone, Un’ingenuità rivoluzionaria: l’uovo di Colombo servito con altri mezzi, destinato al vol. di AA.VV. Parlamento mondiale: perché l’umanità sopravviva, Santelli, Cinisello Balsamo (di imminente pubblicazione). Ringrazio Limone per avermi comunicato il testo e consentito la citazione.

[4] Una bella pagina, molto interessante, sul rapporto tra teorie politiche e filosofie della storia si trova nell’ultimo corso di lezioni di Norberto Bobbio recentissimamente pubblicato. Cfr. N. Bobbio, Mutamento politico e rivoluzione, a cura di L. Coragliotto, L. Merlo Pich, E. Bellando, Pref. di M. Bovero, Donzelli, Roma 2021, lezione 3, 13-19.

[5] Per alcuni pochi testi efficacemente esemplificativi, cfr. N. Bobbio, s. v. Democrazia, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Editori Associati, Milano 1990 (rist.), 287-297, e sp. 296-297; N. Bobbio, Il futuro della democrazia, 2ª ed., Einaudi, Torino 1991, sp. 4; M. Bovero, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2000, sp. 33-35; V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, 2ª ed., Giappichelli, Torino 2004, sp. 373-376. Di fatto, è sotto gli occhi di tutti il forte, risentito, radicale afflato etico-politico che ha sempre animato la scuola di Bobbio, rispetto a cui mi sento fortemente simpatetico, e poco importa se sussiste una qualche contraddizione con taluni presupposti teorici. Mi limito a citare un breve passo di Lio Mura, che afferma in sintesi e con perfetta chiarezza gran parte di ciò che sto cercando di dire qui: «Se […] la considerazione dei fini è indispensabile per qualificare un sistema come democratico, il riferimento assiologico risulta interno ad ogni definizione della democrazia, è l’elemento costitutivo necessario, in quanto immanente, di qualsiasi teoria o modello della democrazia» (V. Mura, op. cit., 412).

[6] Cfr. M. Bovero, op. cit., 34.

[7] Sul tema, rinvio a L. Alfieri, Il mito della storia, in “Hermeneutica”, nuova serie, 2011, 171-189.

[8] Non è questa la sede per parlarne, ma il fatto che spessissimo nella storia recente gli USA abbiano favorito nella loro politica estera regimi autoritari contro movimenti democratici, specie se sospettabili di tendenze socialiste, rappresenta assai vistosamente una delle più gravi contraddizioni politiche interne del sistema americano e uno dei principali fattori del suo declino. Forse la migliore espressione della democrazia americana è il dubbio ricorrente sull’essere veramente una democrazia. Ma questo richiederebbe un lungo discorso e più specifiche competenze.

[9] Anche questo è un tema troppo grande per questo scritto e per me, ma non debbo tacere che ritengo un vieto e ammuffito pregiudizio la tesi “scientifica” che politica ed etica siano realtà separate e che questa separazione sia da riconoscere come una caratteristica fondante della “modernità”. Hegel dovrebbe averci insegnato una volta per tutte che l’etica è istituzione e che ogni struttura politico-sociale è l’incarnazione di un’etica. Ma anche l’antropologia culturale ce lo insegna molto bene: per usare un fondamentale concetto di Marcel Mauss, l’etica è un «fatto sociale totale». La separazione tra etica e politica è avvenuta soltanto in quell’universo parallelo che è la letteratura manualistica, ma non ha né potrebbe avere alcun riscontro nella realtà in cui viviamo. Non sussiste nessuna separazione tra etica e politica nell’affermarsi, all’inizio della modernità, della “ragion di Stato”, che è precisamente un’etica, e molto stringente.

[10] Si pensi all’inedita categoria di rough States, o “Stati canaglia”, che ha ispirato e, meno esplicitamente, continua tuttora a ispirare la politica estera degli Usa, e di riflesso della NATO e dell’Unione Europea. Ci si autorizza a giudicare se gli altri Stati hanno o no un governo legittimo, sulla base del proprio principio di legittimità e non di quello altrui. E anche, all’occorrenza, a decidere da chi questi Stati debbono essere governati, negandone dunque la sovranità in nome della libertà dei popoli. Lasciamo stare se questo sia un bene o un male (verosimilmente è entrambe le cose). Si tratta di prendere atto di una svolta storica.

[11] Cfr. Repubblica, VIII, 579c-d.

[12] È il dramma, purtroppo irredimibile, che grava sulla maggior parte dei popoli che sono stati vittime del colonialismo e sulla totalità delle popolazioni native. I fili della propria storia sono stati spezzati e non possono essere riannodati, bisogna faticosamente costruirsi una storia nuova partendo da residui archeologici del proprio passato e da frammenti sconnessi di storia altrui. Perché da questo nasca una nuova storia occorre tantissimo tempo. Intanto, per generazioni intere non si sa più chi si è, e la sofferenza è lancinante. Fanno eccezione le grandi e antiche civiltà su cui il colonialismo non ha lasciato tracce eccessivamente profonde, ma anche in questo caso le difficoltà non sono piccole e la sofferenza non è lieve.