Memorie-2021

 

 

Foto non disponibileLuca Baccelli

Università di Camerino

 

 

LE VIRTU’ DELLA DEMOCRAZIA LIBERALE

E DELL’ELITISMO DEMOCRATICO

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1. –

Non riesco a separare il ricordo di Virgilio Mura da quello di Danilo Zolo. Ho conosciuto Lio come grande amico di Danilo, lui mi ha conosciuto come suo “allievo”, e credo che nella simpatia che ha sempre dimostrato nei miei confronti fosse riflesso qualcosa del loro rapporto. Dunque inizio dal contributo di Mura nella sessione di apertura del convegno sul pensiero di Zolo che si è tenuto a Firenze nel dicembre 2019 [1]. Si era dimostrato molto contento di partecipare ed è stata l’occasione di rivederlo dopo parecchi anni. L’ultima. La relazione è diventata poi un saggio pubblicato sul numero speciale di Jura gentium dedicato a Zolo; una delle ultime cose che Lio ha scritto, e mi resta il rimpianto di non avere pubblicato il numero in tempo perché lo potesse vedere.

L’intervento consiste in una difesa delle teorie neoclassiche della democrazia dalla critica espressa in Il principato democratico e nei testi che lo hanno preparato[2]. Mura coglieva acutamente il nesso fra la riflessione epistemologica di Zolo, che trova la sua espressione più compiuta nel libro su Neurath, e la sua teoria della democrazia. Riproponeva la teoria della verità come corrispondenza, a cui è sempre rimasto fedele, contro quella della verità come coerenza cui a suo avviso Zolo e Neurath volentes nolentes aderivano, che vedeva come una forma di idealismo, tale da precludere la possibilità della conoscenza empirica e di inibire «l’unico criterio per distinguere la scienza dalla fantascienza, l’astronomia dall’astrologia, la fisica dalla metafisica, la previsione scientifica dall’oroscopo di una cartomante»[3]. Mura è stato fra i pochi a cogliere l’importanza della distinzione, stabilita da Zolo sulle orme di Neurath, fra valutazione e prescrizione[4], ma prendeva le distanze dalla critica zoliana del criterio dell’avalutatività, riproponendo la tesi che nella ricerca scientifica i giudizi di valore si possono e si devono neutralizzare: l’avalutatività è «il nucleo profondo del codice deontologico dello scienziato»[5].

Entrando nel merito della “teoria realistica della democrazia” di Zolo, Mura sosteneva che il riconoscimento della complessità sociale non giustifica il «giudizio liquidatorio dell’intera letteratura scientifica sulla democrazia che il Novecento ha prodotto»[6], nelle opere di Kelsen, Schumpeter, Dahl, Sartori, Bobbio. Le loro teorie rimangono indispensabili per comprendere la democrazia dei moderni, mentre «Tutti gli altri autori che si sono occupati di democrazia, quelli che non ho citato, e sono molti, li possiamo anche buttare giù dalla torre»[7]. Quello di Zolo è presentato come un congedo dalla democrazia rappresentativa che richiama un’eco rousseauiana e mostra una vicinanza alle analisi del giovane Marx ma paradossalmente finisce per evocare il modello liberale dello Stato minimo e la libertà negativa.

La metacritica di Mura si fonda sulla sua solida rielaborazione degli autori classici, moderni e contemporanei, della teoria democratica, che trova in Categorie della politica[8] l’espressione più sistematica. Com’è noto, è un trattato di filosofia politica intesa come analisi dei concetti, nel quale i riferimenti epistemologici sono ancorati alla tradizione neopositivista mainstream, da Carnap a Popper. La distinzione fra proposizioni sintetiche e proposizioni analitiche, la “legge di Hume”, la teoria della verità come corrispondenza, il criterio dell’avalutatività sono riproposte. Le critiche a questa visione, da Neurath al Wittgestein maturo, a Quine, ai post-empiristi – alla base dell’«epistemologia riflessiva» proposta da Zolo – sono discusse ma fermamente respinte. Filoni differenti della filosofia politica – da Plamenatz ad Arendt, Voegelin e Strauss, a Berlin, alle teorie normative di Rawls, Dworkin e Nozick, a Walzer e Habermas – sono ricondotti all’impostazione della filosofia pratica. Essa è caratterizzata dal «disegno di produrre guide per l’azione, ovvero dal tentativo di elaborare teorie normative della vita pubblica imperniate su valori il cui fondamento si ritiene che possa essere comprovato o in base ad una loro presunta irrefragabilità (cogenza assoluta) sul piano logico-razionale oppure, più semplicemente e modestamente, in base alla loro presunta derivazione da un non meglio definito sapere pratico, la cui lontana (e autorevole) matrice rinvenibile nel VI libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele fornisce l’unico apodittico appiglio per la sua giustificazione»[9]. Mura prende le distanze da questo insieme di teorie e fa sua una visione della filosofia politica come analisi concettuale, fornendone una prova magistrale in una serie di capitoli dedicati ad altrettante categorie. L’acutezza delle analisi e la chiarezza espositiva richiamano quello che Mura dichiara esplicitamente essere il suo modello: Norberto Bobbio, a cui il libro è dedicato.

Sarebbe interessante chiedersi se la dicotomia filosofia pratica (o teoria normativa) – analisi concettuale esaurisca il campo della filosofia politica, se non ci sia spazio per una filosofia politica come critica della politica (e se Mura, come certamente Bobbio, non finisse per muoversi anche in questo spazio). E se d’altra parte le “guide” per l’azione – o forse più modestamente le indicazioni per un mutamento della società e delle istituzioni – debbano necessariamente basarsi sui valori assoluti o sugli argomenti dell’etica aristotelica. La distinzione fra valutativo e normativo, che Mura riprende, offre un’indicazione decisiva a questo proposito[10]. Se ci rivolgiamo alla categoria cui è dedicato più spazio, quella di democrazia, a me sembra abbastanza chiaro che le opzioni teoriche dell’autore si affermino attraverso la disamina “scientifica” delle teorie e dei sistemi politici, che le sue valutazioni filtrino attraverso l’analisi concettuale. Ancor più evidente è che Mura ha come punto di riferimento un modello di democrazia: la democrazia dei moderni o democrazia liberale, che vede come l’esito del «processo di democratizzazione che investe lo Stato liberale», culminante nel «riconoscimento del principio della sovranità popolare come fonte della legittimità del potere politico»[11]; cioè come «lo svolgimento, lo sviluppo, il culmine, l’esito ‘obbligato’ dell’evoluzione storica dello Stato liberale»[12].

Per teorizzare la democrazia liberale rimangono secondo Mura imprescindibili le analisi di Kelsen, Schumpeter e Dahl. Il primo lega la scelta per la democrazia a un’opzione epistemologica: l’«attitudine autocratica» si connette «alla concezione del mondo metafisico-assolutistica», mentre quella «critico-relativistica» rimanda all’«attitudine democratica». Kelsen elabora una prima concezione procedurale della democrazia, secondo la quale per qualificare come democratico un sistema non rileva il contenuto delle decisioni che vengono prese ma il modo in cui sono state prese. La possibilità – storicamente verificatasi – che si possano prendere decisioni non democratiche secondo un metodo democratico conduce in un impasse. Dal quale permette di uscire Schumpeter, che introduce la libera scelta fra alternative reali come un’ulteriore condizione necessaria della democrazia. Il limite della teoria schumpeteriana, prosegue Mura, è nell’irrealistica pretesa che gli elettori si astengano dall’influenzare gli eletti durante il loro mandato. A questo risponde la teoria della poliarchia, nella quale Dahl riconosce il ruolo delle pressioni esercitate dai gruppi di interesse nelle fasi infra-elettorali. Dunque la democrazia dei moderni è un «sistema ibrido, caratterizzato da due sistemi di governance paralleli»: la concorrenza fra i partiti per la selezione, via elezioni, della classe politica e la pressione dei gruppi. Il primo sistema produce le decisioni vincolanti erga omnes, il secondo le «decisioni opportuniste, frammentate, situazionali»[13].

 

 

2. –

Mura ha riproposto coerentemente questa visione epistemologica e questa teoria della democrazia nel corso degli anni, fino agli ultimi scritti. Se si può raffigurare gran parte della riflessione novecentesca sulla democrazia come un piano inclinato che allontana sempre più dalle premesse normative e dai fondamenti della teorica classica, abbassando sempre più le aspettative, Mura si è fermato a un certo punto della discesa, rimanendo saldamente appoggiato sul modello che ha ricostruito integrando gli approcci di Kelsen, Schumpeter e Dahl. Le riflessioni di Bobbio sulle «promesse non mantenute» della democrazia non sembrano essere interpretate come un passaggio ulteriore rispetto all’elitismo democratico, come faceva invece Zolo. Quest’ultimo sosteneva che sono a rischio i due capisaldi in base ai quali le teorie elitiste-democratiche connotavano come democratici determinati regimi: l’esistenza, sul lato dell’offerta politica, di una pluralità di soggetti in competizione (tipicamente i partiti politici), e la possibilità, sul lato della domanda politica, di esercitare il consenso in elezioni libere e periodiche.

Altri autori hanno successivamente analizzato gli effetti perversi dei sistemi di democrazia reale, denunciando la loro lentezza decisionale, la scarsa efficienza e la limitata accountability. Crouch è arrivato a ipotizzare lo smarrimento di ogni residua responsiveness delle istituzioni, fino a parlare di una “sindrome postdemocratica” che si sta diffondendo fra i sistemi rappresentativi[14]. In tale sindrome il tradizionale modello dei partiti di massa viene superato. Si stabilisce un legame diretto fra i dirigenti centrali e gli elettori e il cerchio ristretto dei dirigenti si trasforma in un’ellisse che include le élite dei lobbysti e dei consulenti. Urbinati ha sostenuto che la concentrazione del potere, la privatizzazione dell’opinione pubblica, l’affermazione di forme demagogiche di consenso comportano uno “sfiguramento” della democrazia nelle forme della democrazia epistemica o impolitica, del populismo e del plebiscitarismo[15].

Mura, come abbiamo visto, prende le distanza da una visione esclusivamente procedurale della democrazia e considera l’autodeterminazione o self-government come un ideale, certamente difficile da realizzare, ma necessario per «conferire senso alla dinamica delle democrazie reali». Sostiene che «se si prescinde dall’autonomia si scinde il nesso che lega le preferenze liberamente espresse dai cittadini all’operato dei governanti e si spezza anche il filo logico che collega la libertà-potere di selezionare la leadership al diritto-potere di prendere decisioni su e per gli altri». In questa ottica «la categoria che può tradurre, con la maggiore approssimazione, l’idea di autonomia è quella di ‘rispondenza’, cioè la capacità dei governanti di corrispondere alle attese dei governati»[16]. Il modello elitista-democratico sembra soddisfare questo requisito. E di fronte alle critiche alla democrazia rappresentativa in nome di istanze partecipazionistiche più o meno radicali, e viceversa all’auspicio di correttivi tecnocratici, magari in nome del “principio responsabilità”, Mura ripropone le virtù della democrazia liberale.

Per tornare al testo su Zolo, colpisce che un tema centrale, forse il tema fondamentale, di Il principato democratico, e cioè l’analisi degli effetti di lungo periodo della diffusione onnipervasiva dei media, non vengano considerati da Mura nella sua metacritica. Zolo non si preoccupava tanto del diretto condizionamento delle opinioni, nello stile del Grande Fratello di Orwell. Trattava piuttosto dell’effetto di agenda setting: la televisione seleziona le notizie, stabilisce ciò che è rilevante e ciò che non lo è, al limite definisce ciò che è “reale”. E questo avviene enfatizzando ciò che «buca il video» e mantiene l'attenzione dello spettatore favorendo la raccolta pubblicitaria. Gli effetti sulla politica sono tali da mutarne la natura: spettacolarizzazione, personalizzazione, riduzione dei contenuti a pochi e semplici messaggi telegenici. Zolo parlava di tendenze sistemiche generalizzate, che ovviamente vengono esaltate dai processi di concentrazione nella proprietà delle reti televisive e delle catene editoriali. E, si potrebbe aggiungere, il caso italiano insegna che il condizionamento diretto attraverso i media è comunque una possibilità molto concreta. Già nel 1994 i politologi che consideravano esagerate le diagnosi di Zolo sull’influenza politica della televisione avrebbero dovuto fare ammenda.

Trenta anni dopo Il principato democratico la predominanza della televisione generalista è messa in questione dall’estensione globale di Internet e dalla capillare diffusione di PC, tablet e, soprattutto, smartphone connessi in tempo reale. Gran parte dell’informazione viaggia sui social media e si potrebbe ipotizzare che l’effetto agenda sia dissolto o fortemente ridimensionato grazie all’accesso “diretto” alle fonti. È noto tuttavia che proprio il sovraccarico di informazioni diffuse senza apparente controllo genera a sua volta una pletora di problemi, mentre gli individui incontrano gravi difficoltà a orientarsi consapevolmente nel soverchiante flusso di informazioni cui sono esposti. La continua connessione di milioni di persone, fin da tenera età, attraverso i dispositivi portatili sembra produrre una profonda trasformazione nella stessa percezione della “realtà”, se non una liquefazione della realtà stessa. Zolo parlava della “disfunzione narcotizzante” derivante dall’«abitudine al contatto mediato con l’universo politico»; ciò genera un «effetto di dipendenza» che finisce per investire anche le «esperienze che sarebbero a portata di mano»[17]. A questo si aggiungono i problemi derivanti, da un lato, dalla situazione di oligopolio globale detenuto dalle grandi corporations telematiche (a loro volta interessate a diffondere testi e immagini che veicolano raccolta pubblicitaria), dall’altro lato dall’uso strategico della rete per influenzare le scelte politiche e sociali dei cittadini, fino al diretto condizionamento delle elezioni. Gli esempi sono noti, dalla Russia di Putin alla galassia dei sostenitori di Trump, all’Italia di Salvini e Renzi. In questo scenario i grandi gruppi editoriali legati ai grandi gruppi economico-finanziari, apparentemente impegnati per l’informazione responsabile e il contrasto alle fake news, non sembrano senza peccato.

Ovviamente non si devono interpretare questi processi in modo unilaterale. C’è stato anche un uso emancipatorio, “dal basso” dei nuovi strumenti di comunicazione. Solo per fare qualche esempio: la fruizione dei canali televisivi occidentali ha influenzato le rivoluzioni del 1989 nell’Est europeo; senza Internet non sarebbero stati possibili né il movimento no-global da Seattle in poi né le grandi manifestazioni contro la guerra nel 2003; i social network si sono rivelati uno strumento importante nella primavera araba e negli altri movimenti del 2011. In questi anni si sono moltiplicati i progetti di utilizzazione di Internet per esaltare la partecipazione dei cittadini e introdurre forme di democrazia diretta. Ma da tempo ci si chiede se davvero “la rete” sia uno strumento egualitario, o se la comunicazione rimanga in massima parte asimmetrica, oltre che condizionata da interessi economici. In particolare: chi decide quali sono le questioni rilevanti e le opzioni possibili, e chi gestisce l’accesso? I teorici della instant referendum democracy ipotizzano addirittura la sostituzione delle procedure elettorali con forum di consultazione popolare permanente, ma è pensabile che i cittadini esercitino un’attenzione continuativa alle questioni politiche? Senza tener conto del digital divide che escluderebbe dall’ecclesia informatica i settori marginali della popolazione e gran parte degli anziani. E anche sul web «le immagini sono la sorgente di un tipo di giudizio che valuta gusti più che eventi politici, ed è quindi irrimediabilmente soggettivo»[18]. La democrazia del web non va confusa con la democrazia diretta né con quella partecipativa; fa rinascere il mito dell’autogoverno ma lo trasforma fino a riproporre la neutralizzazione impolitica e la deresponsabilizzazione del cittadino. Mentre i movimenti nati sul web sembrano assomigliare sempre più ai partiti tradizionali, le aspettative risposte nella democratizzazione telematica lasciano spazio ai timori per gli effetti letali di Internet[19]. Nonostante la difesa di Mura, a me sembra che questo insieme di questioni sfidi radicalmente la democrazia liberale e che il modello elitista-democratico non sia sufficiente a fronteggiarle.

Mura prende invece in considerazione i temi del multiculturalismo e della globalizzazione. Trattando della seconda, riconosce che la messa in questione del principio della sovranità territoriale «può indurre a ripensare il paradigma teorico sul quale si reggono (o al quale si riferiscono) le attuali organizzazioni statali», dato che «l’intero apparato categoriale che definisce lo Stato moderno si impernia su una serie di concetti-cardine» caratterizzati «dal necessario riferimento ad un determinato territorio»[20]. Tuttavia questi processi, sostiene Mura, non riguardano solo la democrazia, ma anche i sistemi autoritari ed è da dimostrare che ci sia un impatto peculiare, un “vuoto di legittimità” specifico per la democrazia. Mura coglie l’intreccio dei problemi posti dalla crisi fiscale dello Stato con quelli derivanti dallo sviluppo della cittadinanza multiculturale e i loro effetti sulla legittimazione della democrazia. La riduzione delle risorse per il welfare si traduce in un abbassamento del livello delle prestazioni del sistema e questo può rappresentare una minaccia ma non comporta «ipso facto […] un deficit di sovranità da cui discendono conseguenze negative, o addirittura disastrose, in relazione ai processi di legittimazione»[21]. Dunque «è innegabile l’incidenza della globalizzazione sulla democrazia […]. Di qui, però, a pronosticarne la fatale scomparsa, per erosione interna dell’omogeneità culturale che ne dovrebbe costituire il presupposto fondativo, il passo è lungo»[22].

Riguardo al multiculturalismo Mura sembra confessare un’inadeguatezza dell’approccio analitico. L’appartenenza è «un concetto a forte connotazione emotiva. Questo nucleo irrazionale, originario e insopprimibile, rende refrattario il discorso sulle identità collettive ad un’impostazione di tipo razionale, almeno oltre un certo limite. La ragione infatti si arresta, impotente, di fronte al sentimento di appartenenza»[23]. Mura critica l’“ideologia” del multiculturalismo nelle sue differenti versioni, prende le distanze dall’epistemologia costruttivista soggiacente come dall’estremizzazione del relativismo. E vede destinati al fallimento i tentativi di conciliazione fra istanze liberali e istanze multiculturali: «la conciliazione degli opposti è sempre un’impresa difficile da realizzare sul piano pratico, impossibile su quello logico. In un contesto dominato dal valore dell’uguaglianza, la differenza è un’eresia, e viceversa»[24]. Ciò che sembra giudicare valido nell’ideologia multiculturalista – l’affermazione del pluralismo e l’istanza relativistica – viene riassorbito, per così dire, in quella liberaldemocratica. «Riguardo alla relatività dei valori, il multiculturalismo coglie, dunque, nel segno, ma sfonda una porta aperta. È forse umanamente possibile giudicare una cultura assumendo un punto di vista che non sia interno ad un’altra cultura?»[25]. D’altra parte «il relativismo dei valori, che il multiculturalismo fa proprio, non costituisce una minaccia per la democrazia, anzi ne rappresenta, in un certo senso, un presupposto essenziale»[26].

Anche la globalizzazione e le differenze culturali mi sembrano rappresentare una sfida più radicale di quanto Mura sembri ammettere. Abbiamo assistito a un generale ridislocamento dei poteri dal pubblico al privato, dalla politica all’economia e alla finanza. Con la “deterritorializzazione” dell’economia gli Stati sono divenuti funzionali ai mercati, e le corporations si sono affermate come soggetti autoctoni dello spazio transnazionale. Le istituzioni economiche internazionali sono state colonizzate da soggetti privati e hanno agito obbedendo ai dogmi dell’economia neoliberale: basta pensare all’imposizione di programmi di aggiustamento strutturale – di smantellamento dei servizi pubblici e di privatizzazione – ai paesi indebitati. Ma di fronte alla competizione internazionale deregolamentata anche i paesi più ricchi hanno ridimensionato i sistemi di welfare e le tutele del lavoro. La crisi del rapporto fra Ortnung e Ordnung si è tradotta nell’incapacità degli Stati (della maggior parte degli Stati) di governare le forze economiche, tecnologiche e culturali che trascendono i luoghi e si muovono nello spazio globale; è emersa un’impotenza degli Stati e della politica nel dettare le regole e questa funzione è stata lasciata a forze e poteri non-politici[27].

Tutto questo è l’effetto di scelte politiche, ispirate al pensiero unico neoliberale che stenta ad essere superato nonostante le devastanti conseguenze in termini di disuguaglianza, concentrazione della ricchezza, precarizzazione delle esistenze, escalation dello sfruttamento. Il deperimento del Welfare State – a sua volta bersaglio delle politiche neoliberali – si è tradotto in un aumento dell’insicurezza sociale, cui si è risposto con le politiche sicuritarie, con la «trasformazione degli Stati in commissariati di polizia». L’ascesa dei “populismi” e quella che appare un’inarrestabile escalation della disaffezione verso le procedure democratiche nei paesi a democrazia matura, sotto i nostri occhi in questo inizio di millennio, sembrano indurre un pessimismo maggiore di quello di Mura sulle capacità dei sistemi di democrazia reale a fare fronte a questi processi.

D’altra parte il tema della differenza culturale non si esaurisce nel pluralismo e nel relativismo liberaldemocratico. Nello scenario globale, ma anche all’interno delle nostre società a democrazia matura, si confrontano tradizioni e impostazioni culturali tendenzialmente refrattarie, se non apertamente ostili, alla democrazia liberale. Nel terzo millennio il postulato da cui Mura sviluppava la sua analisi concettuale della democrazia, l’idea che «il termine ‘democrazia’ è universalmente adoperato in un’accezione positivo-apprezzativa (viene inteso, se si può laicizzare l’aggettivo, come un termine in senso lato ‘eulogico’)», insomma «il fatto che la democrazia nel mondo contemporaneo, almeno apparentemente, non abbia più nemici dichiarati»[28], è radicalmente messo in questione.

La “fine della storia” profetizzata da Fukuyama è rimandata e la “solitudine normativa” della democrazia, di cui si parlava all’indomani del 1989 (posto che ci sia mai stata) è finita. Nel 1992 Zolo parlava del “modello Singapore” come di una distopia che potrebbe prefigurare l’evoluzione dei sistemi liberaldemocratici. Oggi i leader di grandi potenze rivendicano la «democrazia non liberale», monarchie assolute e repubbliche islamiche sono attori decisivi nello scenario geopolitico e geoeconomico, tentativi di realizzazione del califfato attraggono masse di diseredati e la Cina – certamente non governata secondo principi liberaldemocratici – continua nei suoi successi, dal superamento della povertà all’egemonia economica, alla gestione della pandemia, e si mostra fra le poche potenze ancora autenticamente “sovrane”, capaci di gestire le dinamiche economiche a livello interno e globale. Tutto questo, ripeto, sembra difficilmente tematizzabile all’interno del paradigma elitista-democratico. Quali alternative teoriche sono disponibili?

 

 

3. –

Negli ultimi decenni hanno avuto fortuna le differenti versioni di “democrazia deliberativa”, che criticano l’approccio economicistico della scienza politica novecentesca e la conseguente riduzione della politica a mero scontro di interessi. La democrazia viene vista piuttosto come un processo comunicativo dove si confrontano principi e valori e si dibattono argomenti morali. La critica di Mura, ispirata ai teorici neoclassici della politica, mi sembra assai efficace. Le “suggestive” tesi della democrazia deliberativa sono avvicinate all’utopia, vista «l’enorme distanza che le separa dalla realtà effettuale. Presuppongono, infatti, l’esistenza di cittadini non solo dotati di raffinate tecniche argomentative e di qualità dialogiche, ma anche disposte ad utilizzarle sine ira ac studio, cittadini non solo capaci di assumere informazioni a trecentosessanta gradi, ma soprattutto interessati a farlo. Una figura di cittadino esemplata su una proiezione idealizzata delle attitudini che il frequentatore dei campus universitari dovrebbe possedere e che, perciò, trova riscontro non nel mondo reale, ma forse solo – e qui risiede l’aspetto paradossale – nella ristretta cerchia della élite accademica»[29]. A questa critica si dovrebbe aggiungere almeno che la democrazia deliberativa tende a rimuovere la dimensione del conflitto, che costituisce viceversa – come rileva Mura – un elemento costitutivo della politica[30].

Più precisamente, alcuni teorici della democrazia deliberativa alludono a un nesso fra processi sociali e procedure istituzionalizzate come condizione della democrazia. Alla fine degli anni ottanta Habermas aveva proposto un “modello dell’assedio”: nelle moderne società differenziate e complesse la sovranità popolare non può più essere intesa in senso troppo concreto; se ne può però parlare in modo “astrattificato”, a condizione che nella società si sviluppi un “potere comunicativo” tale da tenere sotto assedio le istituzioni, che a loro volta devono rimanere permeabili. In questo modo è possibile tradurre politicamente e giuridicamente le istanze sociali e garantire un «mantenimento contro-direttivo della complessità»[31]. Questa impostazione può trovare un’eco nella immagine agonistica della democrazia, basata «più sul conflitto e la contestazione che sul consenso»[32], elaborata da Philip Pettit. Tuttavia Habermas finisce per assimilare i processi politici della società civile e i procedimenti giudiziari al modello dell’agire comunicativo, per quanto disturbato e distorto dalle intromissioni del potere amministrativo ed economico. L’immagine dei parlamenti, dei consigli municipali e regionali, delle corti giudiziarie come arene della comunicazione finalizzata all’intesa reciproca è assai sfocata e rimanda al cielo delle astrazioni normative. Anche Pettit fa riferimento alla nozione “deliberativa” della democrazia, alla prospettiva dell’accordo, all’ideale di una “repubblica delle ragioni’, al principio audi alteram partem e attribuisce valore e legittimità solo a quelle che definisce le contestazioni “dialogiche”. L’idea della contestabilità sembra scolorarsi in una sorta di autodisciplina di chi contesta, mentre emerge in primo piano una ricettività delle istituzioni che rischia di mostrare tratti paternalistici. Tuttavia rimane un’indicazione preziosa: «la vita democratica deve avere un carattere agonistico o, forse meglio, un carattere antagonistico»[33]; la democrazia rimanda a «un contesto dove i vari gruppi e movimenti facciano sentire le proprie voci in modo energico, caotico e chiassoso» «che rimanga all’esterno, ma ancora abbastanza vicino, all’arena oligopolistica dei partiti esistenti»[34]. Un tema che come è noto è al centro delle teorie di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Del resto, già Machiavelli sosteneva che l’inclusione della plebe nella cittadinanza avviene attraverso il conflitto politico (che produce «leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà», aprendo la via al «governo del popolo»)[35].

Machiavelli distingueva il conflitto che si origina dalla ricerca del potere personale e si collega con la costituzione di clientele, fazioni, gruppi armati da quello che nasce dalla contrapposizione di gruppi sociali ben definiti ed esprime gli “umori” fondamentali della cittadinanza. Il primo è patologico e conduce alla tirannide, il secondo è virtuoso e produce libertà[36]. Nel Novecento si sono individuate chiaramente linee di frattura nella società – a partire da quella fra le classi definite dalle dinamiche economiche –, i movimenti sociali hanno trovato forme stabili di organizzazione e i partiti politici hanno costituito l’interfaccia fra tali movimenti e le istituzioni. Questo è stato il terreno su cui è cresciuta la democrazia, che non credo debba essere interpretata come il naturale sviluppo del liberalismo. La democrazia liberale rappresenta piuttosto una nuova forma politica della società che presenta l’articolazione fra la tradizione liberale che rimanda a rule of law, diritti umani e libertà individuale e «tradizione democratica le cui idee fondamentali sono quelle di uguaglianza, identità fra governanti e governati e sovranità popolare»[37].

All’inizio del XXI secolo il quadro sembra molto differente. L’evoluzione post-fordista della produzione industriale e la terziarizzazione hanno favorito la precarizzazione dei rapporti di lavoro e sfumato le linee di frattura fra le classi sociali. Le grandi concentrazioni di manodopera, che costituivano il terreno per l’organizzazione sindacale e lo sviluppo della coscienza di classe, hanno lasciato spazio a reti discontinue e smagliate che riconnettono esistenze precarie. Le opportunità di rivendicare reddito, tutele e garanzie sono messe a repentaglio dalle possibilità di delocalizzazione, dalla tendenza dei capitali ad abbandonare la produzione per la finanza, dalla globalizzazione di quello che Marx chiamava «esercito industriale di riserva».

Nello scenario globale non mancano i conflitti. Al passaggio del millennio, proprio la resistenza alle politiche neoliberali ha rappresentato il terreno comune di una nuova fase di mobilitazioni, che hanno cercato di riconnettersi nella rete del “movimento dei movimenti”. La crisi globale ha a sua volta provocato una fase di lotte. Tuttavia le connessioni fra mobilitazione sociale e sistema politico non sembrano riproporsi nella modalità vista nel Novecento. I sindacati tradizionali incontrano gravi difficoltà ad organizzare precari e disoccupati, e si dimostrano inadeguati nella dimensione transnazionale. Lo scollamento fra movimenti e politica istituzionale rimane molto ampio e il sistema giuridico sembra impermeabile alle rivendicazioni, o comunque più sensibile alle ragioni dell’establishment. Molte vittime della crisi – in modo impressionante i giovani – sembrano incapaci di mobilitarsi, mentre lo scontento si indirizza verso capri espiatori, etnie minoritarie, religioni “estranee”, immigrati. Lo scenario della pandemia restituisce più una proliferazione di conflitti anomici che mobilitazioni strutturate, produttive di nuovo ordine, capaci di vitalizzare la democrazia.

Insisto: tutto questo è difficilmente riconducibile entro i confini del paradigma elitista- democratico, e la democrazia liberale dovrebbe rinnovarsi, magari accogliendo indicazioni da esperienze sviluppate in contesti culturali differenti da quello in cui si è affermata. Tuttavia, la lezione dei grandi teorici del Novecento, magistralmente ricostruita e interpretata da Mura, rimane fondamentale. Concludo citando l’ultima pagina di Categorie della politica. Mura si mostra felicemente infedele alla sua professione di avalutatività e va oltre l’analisi dei concetti con parole assai affini al pensiero di Zolo. È citato Kelsen: «L’unica conseguenza di una teoria relativistica dei valori è che non si può imporre la democrazia a coloro che preferiscono un’altra forma di governo […] e tantomeno, si può aggiungere, la si può imporre con le bombe». Mura prosegue con «una mesta considerazione: è incerto se il relativismo dei valori, il laicismo e la mitezza siano elementi di per sé sufficienti per scongiurare il pericolo delle guerre neocoloniali o per evitare, almeno, la strage degli innocenti, quel che però è certo è che l’imporre la propria visione come assoluta, ergersi arbitrariamente a paladini del Bene contro il Male, cedere allo spirito di crociata e sviluppare corsi politici all’insegna dell’arroganza e della protervia sono gli ingredienti basilari per comporre quella miscela micidiale che può portare all’esplosione del bellum omnium contra omnes, e, quindi, a regredire verso quello stato ferino dei rapporti internazionali che l’evoluta civiltà occidentale sembrava si fosse lasciata alle spalle»[38].

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori, dal curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] In mare aperto. Pensare il diritto e la politica con Danilo Zolo, Firenze, 5-6 dicembre 2019, organizzato da Jura gentium. Centro per la filosofia del diritto internazionale e della politica globale, con il patrocinio del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Firenze.

[2] Cfr. D. Zolo, Complessità e democrazia, Torino, Giappichelli, 1987; La democrazia difficile, Roma, Editori Riuniti, 1989; Il Principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1992.

[3] V. Mura, Danilo Zolo e la critica della democrazia reale, in Jura Gentium, XVIII (2021), 1, 127 (https://www.juragentium.org/Centro_Jura_Gentium/la_Rivista_files/JG_2021_1/JG_2021_1_in%20mare%20aperto_08mura.pdf).

[4] D. Zolo, Scienza e politica in Otto Neurath. Una prospettiva post-empiristica, Milano, Feltrinelli, 1986, 150-51; Il principato democratico, cit., 51-52.

[5] V. Mura, Danilo Zolo e la critica della democrazia reale, cit., 129.

[6] Ivi, 130.

[7] Ivi, 131.

[8] V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Seconda edizione riveduta e ampliata, Torino, Giappichelli, 2004.

[9] Ivi, 76.

[10] Cfr. D. Zolo, Scienza e politica in Otto Neurath, cit., 150-51; Il principato democratico, cit., 51-52.

[11] V. Mura, Categorie della politica, cit., 365.

[12] Ivi, 393.

[13] Ivi, 389.

[14] «il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve» (C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003, 6).

[15] Cfr. N. Urbinati, Democrazia in diretta, Milano, Feltrinelli, 2013; Democracy Disfigured. Opinion, Truth, and the People, Cambridge MA-London, Harvard University Press, 2014 (trad. it. Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, Milano, Università Bocconi Editore, 2014).

[16] V. Mura, Categorie della politica, cit., 416-17.

[17] D. Zolo, Il principato democratico, cit., 197.

[18] N. Urbinati, Democrazia in diretta, cit., 171.

[19] Cfr. M. Barberis, Come Internet sta uccidendo la democrazia, Milano, Chiarelettere, 2020.

[20] V. Mura, Categorie della politica, cit., 445.

[21] Ivi, 448.

[22] Ivi, 452.

[23] Ivi, 451.

[24] Ivi, 462. Ricordo tuttavia che il fondamentale saggio di Charles Taylor si apre rilevando una sorta di dialettica dell’uguaglianza moderna che si esprime nella richiesta «di accordare un uguale rispetto a tutte le culture che si sono formate» (C. Taylor, Multiculturalism and “The Politics of Recognition”, Princeton, Princeton University Press, 1992 [trad. it. Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Milano, Anabasi, 1993, 63]). Una diversa impostazione, che considera l’uguaglianza (contrapposta alla disuguaglianza) come tutela delle differenze, è proposta da Luigi Ferrajoli, fra l’altro in Manifesto per l’uguaglianza, Roma-Bari, Laterza, 2018. Sul tema mi permetto di rimandare al mio Disuguaglianza e differenza: avventure moderne e contemporanee, in Filosofia politica, XXIV (2020), 1, 43-60.

[25] V. Mura, Categorie della politica, cit., 465.

[26] Ivi, 466. Sul tema cfr. anche V. Mura, Il relativismo dei valori e gli squilibri del terrore, in M. Bovero - E. Vitale (a cura di), Gli squilibri del terrore. Pace, democrazia e diritti alla prova del XXI secolo, Torino Rosenberg & Sellier, 2006, 193-210; Sull’intolleranza e l’intransigenza, in M. Cuono-V. Pazè (a cura di), Tutto ciò che è reale è irrazionale? Discutendo con Michelangelo Bovero, Torino, Accademia University Press, 2021, 118-30.

[27] Cfr. Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences, New York, Columbia University Press, 1998 (trad. it. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari, Laterza, 2001); In Search of Politics, Cambridge, Polity Press, 1999 (trad. it. La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000).

[28] V. Mura, Categorie della politica, cit., 313.

[29] Ivi, 404.

[30] Cfr. la definizione di politica, ivi, 115.

[31] J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1992 (trad. it. Fatti e norme, Milano, Guerrini e Associati, 1996, 389).

[32] P. Pettit, Republicanism. A Theory of Liberty and Government, New York, Oxford University Press, 1997 (trad. it. Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Milano, Feltrinelli, 2000, 223).

[33] P. Pettit, On the People’s Terms. A Republican Theory and Model of Democracy, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, 226.

[34] C. Crouch, Postdemocrazia, cit., 135.

[35] Cfr., ovviamente, N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I.4.

[36] Cfr. ivi, I.37, I.40. III.1.

[37] C. Mouffe, The Democratic Paradox, London-New York, Verso, 2009, 3.

[38] V. Mura, Categorie della politica, cit., 468-69.