Memorie-2021

 

 

Descrizione: Sau foto - CopiaRaffaella Sau

Università di Sassari

 

 

VIRGILIO MURA, LA DEMOCRAZIA

E L’ELOGIO DEL RELATIVISMO

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1. –

I saggi (e il video) qui presentati costituiscono l’ideale prosecuzione di un dialogo sulla politica e sulla democrazia che Virgilio Mura ha intrattenuto, negli anni, con tanti colleghi e studiosi. Non c’è forse modo migliore per ricordare Mura, a un anno dalla morte, che fornire qualche spunto per la riflessione sui temi a lui più cari ma anche per ripensare criticamente il suo lavoro. Con questa stessa convinzione, la rivista Diritto @ Storia, e in particolare il prof. Francesco Sini, hanno voluto promuovere questo dialogo. A loro va il nostro più sincero ringraziamento.

 

 

2. –

L’attività di ricerca di Virgilio Mura è sempre stata incentrata sull’analisi dei concetti politici, con particolare riguardo alle aree tematiche relative alla tolleranza, al pluralismo, al pensiero dei classici, al confronto fra culture e ideologie, ai valori, alla democrazia. Su questi temi si è concentrata la maggior parte della sua produzione scientifica, che si è sempre caratterizzata per il rigore metodologico e il costante aggiornamento dei contenuti anche in ragione dei mutamenti della realtà politico-sociale e del dibattito filosofico-politico nazionale e internazionale[1].

Volendo rappresentare schematicamente e sinteticamente la produzione scientifica di Mura, si possono distinguere quattro grandi aree tematiche.

La prima riguarda il contributo alla definizione dello statuto epistemologico della Filosofia politica come disciplina autonoma sia rispetto alla Scienza politica sia rispetto alla Teoria politica. La filosofia politica è per Mura una disciplina prevalentemente teoretica, imperniata sul metodo dell’analisi concettuale e sul postulato fondamentale del non-cognitivismo etico. In questo senso si distingue nettamente anche dalla filosofia politica pratica, intesa come disciplina essenzialmente normativa. Riassuntivo e rappresentativo di questa posizione è il volume Categorie della politica. Elementi per una teoria generale. Il volume affronta questioni metodologiche ed epistemologiche essenziali per la filosofia politica prima di addentrarsi nell’analisi e nella ridefinizione delle principali categorie del lessico politico occidentale, a cominciare dal concetto di “politica” per poi proseguire con quelli legati alla dimensione del potere, alla sfera del consenso, ai “fini” dell’autorità (ordine, nazione, libertà e giustizia), alla globalizzazione, al multiculturalismo e alle concezioni della democrazia.

La seconda linea di ricerca riguarda l’approfondimento dello studio dei classici del pensiero politico. Particolarmente rilevante, a questo proposito, la pubblicazione, sia in articoli scientifici che in monografie, degli studi sulla teoria della democrazia in Rousseau, di cui Mura propone un’interpretazione, appunto in chiave analitica, originale e innovativa: dall’iniziale volume La teoria democratica del potere. Saggio su Rousseau al saggio J.-J. Rousseau. La teoria dell’obbligo politico e al più recente Il Contratto sociale: i frutti (avvelenati) dell’eredità di Rousseau.

La terza linea di ricerca riguarda lo studio delle ideologie e, più in generale, il confronto fra culture diverse. In questo ambito rientrano innanzitutto gli studi sulla ricostruzione e l'analisi del concetto di tolleranza. Mura ricostruisce, colmando una lacuna storiografica, il dibattito sulla tolleranza fra cattolici e liberali che ha caratterizzato il primo Novecento italiano, analizzando quattro distinte concezioni della tolleranza: quella cattolica, l’unica elaborata ex parte principis, quella laico-scientista, quella spiritualista e quella crociana. Di questo filone tematico sono particolarmente rappresentativi i volumi Il dibattito sulla tolleranza nell'età giolittiana (1909-1912), e Cattolici e liberali nell’età giolittiana. Il dibattito sulla tolleranza.

Particolarmente significativa, a questo proposito, è anche la curatela del volume I dilemmi del liberalsocialismo. Il volume persegue due obiettivi principali: da un lato si propone di ricostruire il contesto storico nel quale è emerso l’ideale del socialismo liberale e hanno operato i suoi protagonisti (da Gaetano Salvemini a Carlo Rosselli a Piero Gobetti fino alle vicende del Partito d’Azione); dall’altro lato l’analisi delle possibilità teoriche e pratiche del connubio fra ideologie tradizionalmente contrapposte come socialismo e liberalismo. Al filone dello studio delle ideologie e del confronto fra culture diverse appartengono anche alcune recenti pubblicazioni, fra le quali Sul contrasto fra cultura laica e religiosa, Paternalismo e democrazia liberale: un equivoco da chiarire e Potere ascendente e cives negli Statuti sassaresi.

La quarta linea di ricerca riguarda, infine, la teoria della democrazia e gli studi sul tema della relatività dei valori.

 

 

3. –

Gli scritti sulla democrazia occupano senz’altro un posto centrale nella riflessione filosofico-politica di Virgilio Mura. Pur percependo il progressivo allontanamento del funzionamento dei sistemi democratici reali dalla teoria democratica elaborata nel Novecento soprattutto da autori quali Kelsen, Schumpeter, Dahl e Bobbio, Mura non ha mai smesso di considerare la democrazia possibile se non come democrazia liberale, denunciando peraltro come irrealistiche – se non utopistiche - le teorie partecipazioniste e deliberative della democrazia, e in generale tutti i modelli cosiddetti di post democrazia, costruiti proprio in funzione del superamento della democrazia rappresentativa.

Per Mura, la democrazia liberale è, infatti, teoricamente e storicamente, l’unica forma di governo in grado di consentire, assieme alla tutela delle libertà individuali, una qualche realizzazione del principio democratico per eccellenza - il self-government o, à la Rousseau, l’autodeterminazione/autonomia. Ciò non significa aderire a una concezione sostanzialistica della democrazia. Tutt’altro. Per Mura la democrazia è innanzitutto un insieme di regole procedurali volte a selezionare i decisori politici e a regolamentare i processi decisionali.

Tuttavia, non si può cogliere il senso pieno della democrazia se si prescinde dalla considerazione dei fini che con le regole procedurali si intendono perseguire. Scrive infatti Mura: «la democrazia moderna può essere definita come un metodo o un insieme di procedure attraverso cui la maggioranza dei cittadini, attraverso elezioni libere e ricorrenti, seleziona una minoranza e la autorizza a prendere su e per conto di tutti decisioni collettive ad indirizzo vincolato, tali cioè da corrispondere alla proposta di interesse generale premiata, fra quelle concorrenti, dal risultato elettorale»[2]. Ne deriva che la democrazia è sì definita dalle procedure ma le procedure, a loro volta, devono essere orientate a produrre corrispondenza (o responsiveness come la definisce Dahl) fra la decisione politica e l’interesse generale. È su questo terreno che si gioca la possibilità del self-government nei regimi di democrazia rappresentativa: nella connessione (nella migliore approssimazione possibile) fra le decisioni del governo e le aspettative espresse dai governati.

 

 

4. –

Ma la democrazia procedurale è soprattutto la forma di governo che meglio di qualunque altra è in grado di controllare, limitare e regolare il conflitto fra differenti sistemi di valori.

L’adesione alla teoria procedurale della democrazia è, nell’elaborazione di Mura, profondamente debitrice dell’impostazione di Kelsen e, più in particolare, dell’opzione epistemologica dalla quale Kelsen deriva la teoria della democrazia come metodo. Com’è noto, Kelsen elabora una teoria procedurale della democrazia facendola derivare dalla distinzione concettuale fra il Sein e il Sollen, fra i fatti e i valori. Con ciò Kelsen aderisce ad una posizione meta‑etica di tipo non‑cognitivistico e alla constatazione che il pluralismo etico e il relativismo dei valori siano dati imprescindibili della realtà. Poiché non esistono valori oggettivi, non si può connettere l’esercizio del governo democratico al perseguimento di fini prestabiliti aprioristicamente. Di conseguenza, per Kelsen, la democrazia deve essere definita in modo “indipendente” rispetto ai contenuti del processo deliberativo e in modo autonomo rispetto a dottrine filosofiche costruite intorno alla credenza nell’esistenza di verità assolute. Per Kelsen, infatti, «la democrazia può essere definita solo come un metodo, un insieme di procedure per giungere a decisioni collettive, per la semplice ragione che il determinare in anticipo il contenuto di tali decisioni presuppone la conoscenza a priori di ciò che è bene, vero e giusto in senso assoluto»[3]. Ne consegue che il nesso fra democrazia e relatività dei valori è, in Kelsen, necessario tanto è vero che egli ricollega la concezione del mondo metafisico-assolutistica al governo autocratico e la democrazia a una concezione critico-relativistica.

Sulla falsariga dell’impostazione kenseniana, Mura ha dedicato i suoi lavori più recenti all’approfondimento delle ragioni giustificative del relativismo etico ribadendo coerentemente la convinzione che la democrazia liberale ne sia il principale strumento di garanzia.

Mura, come Kelsen, aderisce a una concezione soggettivistica e non-cognitivistica dei valori dalla quale non può che discendere una meta-etica relativista. La linea argomentativa che emerge dai diversi contributi di Mura su questi temi è articolata in modo da connettere pluralismo etico, relativismo, laicismo, democrazia.

Il primo nodo da sciogliere riguarda, in questa prospettiva, la considerazione dell’origine e della natura dei valori. Contrariamente a quanto sostengono le teorie metafisiche e meta-storiche che, per quanto suggestive e ben elaborate, sono teorie incapaci di spiegare l’esistenza oggettiva dei valori che pure dichiarano, i valori hanno origine, secondo Mura, nei bisogni e nei desideri (interessi morali o materiali) individuali. Secondo questa prospettiva, che è di tipo soggettivistico, i valori sono storicamente condizionati e si possono definire come esemplificazioni di qualità che gli esseri umani attribuiscono a ciò che credono sia capace di soddisfare i loro bisogni e i loro desideri. E poiché si configurano come “entità ideali”, giusta l’indicazione di John Mackie, i valori non si scoprono, ma si inventano[4]. Ma proprio perché emergono dalla necessità di soddisfare bisogni soggettivi, legati al mutamento delle situazioni storiche, i valori non sono oggettivi ma (più o meno) comuni, diffusi, generali (o generalizzabili); non sono eterni o assoluti ma (più o meno) ricorrenti, costanti e permanenti sul piano storico. È vero che abbiamo esperienza di valori che durano nel tempo e che si ripropongono continuamente ma questo non autorizza a qualificarli come valori oggettivi ed eterni. Del resto, se i valori fossero indipendenti dall’esperienza umana, la dimensione assiologica dell’esistenza sarebbe di tipo monistico. Al contrario, sostiene Mura, l’unica spiegazione del fenomeno del pluralismo etico (che costituisce un fatto facilmente accertabile e accertato) è la considerazione che connette l’origine dei valori alla soddisfazione di bisogni umani.

In Promemoria sul relativismo dei valori, per esplicitare il suo punto di vista, Mura riprende un passo del Leviatano nel quale Thomas Hobbes illustra limpidamente la questione: «qualunque esso sia, l’oggetto dell’appetito o desiderio di un uomo, è ciò che egli, per parte sua, chiama buono; l’oggetto del suo odio e della sua avversione, cattivo e quello del suo dispregio, vile e trascurabile. Infatti, queste parole, buono, cattivo e spregevole, sono sempre usate in relazione alla persona che le usa, dato che non c’è nulla che sia tale semplicemente e assolutamente, e non c’è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia derivata dalla natura degli oggetti stessi; essa deriva invece dalla persona (dove non c’è lo stato) o (in uno stato) dalla persona che lo rappresenta, oppure da un arbitro o giudice, che le persone in disaccordo istituiranno per comune consenso e della cui sentenza faranno la regola»[5].

La prospettiva soggettivistica è anche non-cognitivistica. Per i soggettivisti, infatti, i valori sono non conoscibili o, meglio, le proposizioni valutative non sono sottoponibili al criterio della verità/falsità come si farebbe con le proposizioni descrittive. Ne deriva che la razionalità del discorso sui valori appartiene alla logica della giustificazione, non a quella della dimostrazione. Ma non tutti i valori sono giustificabili. Lo sono i valori derivati («Uccidere è un male» può derivare dal principio più generale «nuocere agli altri è male» oppure «la vita è un bene»: in questo caso il valore, o il disvalore, derivato è giustificato perché è valida, sul piano logico, la derivazione da altri valori – i valori primi – considerati superiori nella scala assiologica) e i valori strumentali (quelli che si comportano come mezzi rispetto a dei fini e che quindi richiedono un giudizio di razionalità sull’adeguatezza del mezzo rispetto al fine). I valori intrinseci, ossia i valori primi e ultimi di una ipotetica scala assiologica, invece, non si possono giustificare benché servano a giustificare i valori derivati e quelli strumentali. Infatti, questo tipo di valori ha un “fondamento” non razionale, puramente emotivo, che non si presta ad alcun tipo di controllo della ragione. In questa prospettiva, chiedersi perché la felicità è un valore (nel caso la si consideri tale), è una domanda alla quale non si riesce a dare una risposta; ha cioè un fondamento non razionale.

La ragione incontra dunque un limite nella giustificazione dei valori intrinseci, ai quali si aderisce per mera e immotivabile preferenza. Ciò implica un limite della ragione anche nella possibilità di attivare procedure razionali per risolvere il disaccordo sui valori e determina in generale la fragilità di tutti i costrutti etici. Infatti, scrive Mura: «è il carattere arbitrario dei valori intrinseci a rendere deboli le ragioni addotte per giustificare i valori strumentali e derivati. Ed è la mancanza di un fondamentum inconcussum delle nostre opzioni ultime o dei nostri principi primi, che costituisce, se si vuole, una conferma indiretta dell’ineluttabilità del fenomeno del pluralismo etico-politico, a rendere velleitarie le pretese di risolvere il conflitto dei valori mediante la ragione comunicativa o analoghe tecniche retorico-discorsive basate sulla logica argomentativa, vale a dire mediante metaetiche di tipo cognitivistico. Alla fine, la ragione, che costruisce la catena delle giustificazioni in funzione persuasiva, si arresta, impotente, di fronte ad assunzioni non giustificabili»[6].

Dall’impossibilità logica del fondamento assoluto dei valori e dalla constatazione del fatto del pluralismo etico discende il relativismo. Infatti, alla soggettività e alla pluralità Mura aggiunge un terzo carattere imprescindibile dei valori: la loro relatività. Mentre la soggettività attiene alla natura e all’origine dei valori e la pluralità definisce la loro varietà e diversità, la relatività riguarda invece il contesto di riconoscimento di questa diversità. I valori sono relativi perché «dipendono da un preciso contesto di riferimento, che costituisce allo stesso tempo l’ambito della loro validazione (giustificazione). In altre parole, non ci sono valori che non siano riferibili a un qualche soggetto (individuale o collettivo) che li propugni e li difenda. In questo senso non ci sono i valori, intesi come entità oggettive e ab-solutae, ma ci sono i miei e i tuoi, i suoi e i loro, i nostri e i vostri»[7].

È bene precisare e che il relativismo resta, per Mura, un’opzione epistemologica, una meta-teoria, che non sfocia nell’adesione alla teoria normativa del relativismo: quest’ultima si configura come una dottrina morale che, pur partendo da una tesi di carattere descrittivo finisce per assumere un carattere intrinsecamente prescrittivo, stabilendo regole di condotta e guide per il comportamento.

Il relativismo metaetico a cui Mura aderisce si caratterizza piuttosto per tre tesi di carattere epistemico che non hanno niente a che fare con leggi morali o con principi da cui derivare codici etici. La prima tesi è di tipo empirico-descrittivo (quando si afferma la relatività dei valori non si fa altro che constatare un fatto); la seconda – che Mura denomina tesi sull’infecondità del confronto - riguarda l’impossibilità di stabilire una rigida gerarchia in caso di conflitto fra valori intrinseci (posto che i sistemi di valori sono diversi, a parità di correttezza logica e di tecnica argomentativa, non si può stabilire la «superiorità» di un sistema rispetto agli altri; la terza, infine, è la tesi della parzialità del giudizio secondo cui, scrive Mura, non esiste un punto di vista imparziale - o impersonale – poiché è impossibile giudicare al di fuori dal proprio sistema di valori.

Così inteso, come teoria metaetica, il relativismo non prescrive alcun comportamento né lo proibisce perché, dal punto di vista della ragion pratica, è inerte. Ma neppure, come invece da più parti si sostiene, prescrive l’indifferenza o conduce ineluttabilmente al nichilismo; né è vero che impedisce la discussione in campo morale. Sono, queste, questione assai rilevanti che trovano nell’interpretazione di Mura ampia discussione[8].

La confutazione del nesso causale fra relativismo meta-etico e indifferentismo morale è affrontata da Mura, ancora una volta, attraverso la lettura di Kelsen. Secondo Kelsen infatti, la prospettiva relativistica, lungi dall’impedire l’adesione responsabile a una scala di valori è, al contrario, l’unica attraverso la quale esercitare pienamente l’autonomia della scelta morale. Ne I fondamenti della democrazia (1955-56), Kelsen scrive: «una teoria dei valori relativistica non nega l’esistenza di un ordine morale e perciò non è – come talvolta si sostiene – incompatibile con la responsabilità morale o giuridica. Essa nega l’esistenza di un unico ordine che possa pretendere di essere riconosciuto valido e, quindi, universalmente applicabile. Essa asserisce che vi sono parecchi ordini morali diversi l’uno dall’altro e che, di conseguenza, deve essere fatta una scelta fra loro. In tal modo il relativismo impone all’individuo il difficile compito di decidere da sé ciò che è giusto e ciò che è errato, il che implica certamente una responsabilità molto seria, la responsabilità più seria che un uomo possa assumere»[9].

Più o meno negli stessi termini si esprime, al riguardo, Mura quando sottolinea che la “virtù” della prospettiva relativistica risiede proprio nell’atteggiamento prudenziale che orienta la scelta, ribaltando la critica antirelativistica e traducendo, positivamente, il relativismo come consapevolezza dei limiti della ragione nell’atto della scelta. L’orientamento meta-etico non impedisce la scelta fra differenti valori («si possono certamente difendere i propri valori non in quanto «assoluti», «veri» o «oggettivamente superiori», ma semplicemente e onestamente, in quanto «propri», in quanto espressione della propria identità»[10]), ma è in grado di condizionarla, perché muove dalla rinuncia alla pretesa della superiorità di alcuni valori rispetto agli altri e perché considera arbitraria la pretesa di imporre i propri valori agli altri, a maggior ragione quando ciò avviene attraverso l’uso della violenza.

In quanto resistente al concetto di assoluto, il relativismo meta-etico è particolarmente affine al laicismo. Si tratta, a ben vedere, di due atteggiamenti non coincidenti (poiché il primo è una teoria mentre il secondo definisce un habitus mentale) che tuttavia sono sempre convergenti. Infatti, scrive Mura: «se il laico è colui che sottopone costantemente al vaglio critico anche le proprie certezze, che considera niente affatto immuni dal tarlo del dubbio, allora è innegabile che fra relativismo e laicismo vi sia un rapporto di stretta complementarietà». Secondo il significato che si afferma con l’Illuminismo, il termine laico definisce una modalità di accostarsi al problema della conoscenza della “verità” contrapposto a quello tipico del “chierico”. Mentre infatti «il chierico è il depositario e il custode di certezze assolute, stabilite ex auctoritate, per definizione inconcusse e incontestabili, e, dunque, è il portatore di una visione esclusivista e dogmatica della verità, matrice potenziale del fondamentalismo monistico e dell’integralismo religioso, il laico, al contrario, è guidato dallo spirito critico e dal dubbio sistematico, ricusa il principio d’autorità (l’ipse dixit) nella sfera delle attività intellettuali, cerca la “verità” attraverso il confronto ed è disposto a modificare le proprie certezze se si dimostrano infondate»[11]. Il laicismo è, dunque, un habitus mentale, che affida al solo uso della ragione (senza tuttavia divinizzarla) la soluzione dei conflitti.

Questo dimostra, ad abundantiam, il nesso fra l’orientamento critico-relativista, il laicismo e la democratica liberale, l’unica forma di governo che tutela l’uguale libertà degli individui, anche riguardo alle scelte etiche, dotandoli di strumenti attivi (i diritti) che consentono di risolvere pacificamente i disaccordi.

La prospettiva relativistica, (ossia la consapevolezza del senso del limite delle opzioni assiologiche), si pone dunque come presupposto di ogni possibile “interazione” fra diversi ed è tutt’altro che irrilevante ai fini della pacifica convivenza. In questo senso, per Mura, la democrazia può essere (anche) definita come il governo – laico e mite – del conflitto fra sistemi differenti di valori.

 

 

5. –

Ho fatto cenno alla consapevolezza di Mura circa il progressivo sfasamento del modello normativo che propone dal reale funzionamento dei sistemi democratici. Le “virtù” della democrazia liberale non hanno mai oscurato il suo sguardo critico e tuttavia la critica è sempre rimasta all’interno del paradigma, senza mai revocarne in dubbio i presupposti fondanti.

Mura attribuisce la causa della crisi della democrazia liberale a fattori esogeni al modello teorico. Questo vale, in particolare, per il ruolo che l’ideologia del pluralismo organizzativo avrebbe avuto nel deformare in senso poliarchico e corporativo l’ossatura del sistema liberaldemocratico, che risulterebbe così indebolito tanto rispetto al presupposto assiologico quanto riguardo ai postulati logico-funzionali che lo sorreggono. L’ideologia pluralistica, che si caratterizza per essere un orientamento spiccatamente antiindividualistico, si articola su quattro elementi basilari: il soggetto del rapporto politico è il gruppo; i processi deliberativi sono affidati alla contrattazione/negoziazione fra i gruppi di pressione; il governo è inteso come uno fra i gruppi che paritariamente concorrono per l’accaparramento di quote del mercato politico e quindi sarebbe debole per definizione; una concezione residuale dell’interesse generale poiché la dottrina pluralistica punta al perseguimento di interessi settoriali e corporativi. Si tratta di un modello diametralmente opposto a quello della democrazia liberale che invece è fondato sul ruolo primario dell’individuo-cittadino, su processi decisionali attivati e gestiti nelle sedi parlamentari e in generale nelle istituzioni elettive; un modello che si propone, infine, la realizzazione dell’ipotesi di interesse generale che emerge dalla partecipazione (più prosaicamente, dall’esercizio del voto che seleziona la classe politica) dei cittadini.

La dottrina pluralistica incide dunque sulla grammatica della democrazia liberale trasformandola in mero involucro formale: depotenzia i processi di legittimazione politica perché favorisce la concentrazione del potere nelle mani dei gruppi più forti; rende opachi i confini fra la sfera pubblica e la sfera privata; produce una cultura della deresponsabilizzazione dei soggetti formalmente investiti di funzioni politiche; produce microcorporativismo.

Non sembrano essere indicatori di degenerazione irreversibile, invece, questioni (che pure sono cruciali per la tenuta della democrazia liberale dal momento che incidono direttamente nella possibilità degli individui di esperire i propri diritti fondamentali) quali la crisi dell’identità e del ruolo dei partiti politici né la tendenza alle concentrazioni oligopolistiche dei mezzi di informazione e comunicazione. Esibendo un ottimismo non consueto, Mura sostiene a questo proposito che si tratta di anomalie superabili, almeno in teoria: l’autoreferenzialità dei partiti politici può essere corretta, il sistema delle comunicazioni riformato e ri-disciplinato[12]. Meno ottimismo induce invece la mancata affermazione di una cultura civica diffusa che invece sarebbe un antidoto contro la degenerazione della liberaldemocrazia. Come già aveva sostenuto Bobbio, individuando realisticamente una delle principali cause della crisi della democrazia nello scambio tra consenso politico e soddisfazione di interessi particolari, Mura assegna alla mancata educazione alla cittadinanza un ruolo decisivo per misurare la distanza fra la democrazia ideale e la democrazia reale. Ciò dipende, a ben vedere, dalla stretta identificazione che egli traccia fra il ruolo del cittadino e la democrazia. Infatti, «la democrazia è un sistema che si regge sostanzialmente sulla capacità dei cittadini di restare fedeli al proprio ruolo. Sotto questo profilo la democrazia è un privilegio delle popolazioni educate al consapevole esercizio dei diritti-poteri inerenti alla cittadinanza»[13].

In uno dei suoi ultimi lavori, discutendo le tesi sulla democrazia moderna espresse, negli anni, da Danilo Zolo, secondo cui il paradigma liberaldemocratico sarebbe diventato obsoleto fino a considerare svuotata di senso la stessa nozione di sovranità popolare, Mura ribadisce l’attualità, e addirittura l’indispensabilità, delle teorie procedurali nell’“inquadrare il fenomeno della democrazia dei moderni, per chiarirne i presupposti, per individuarne i caratteri salienti e per spiegarne il funzionamento”. Il giudizio di Zolo sembra a Mura eccessivo e troppo sbrigativamente liquidatorio di quella parte della teoria democratica del Novecento rappresentata dal Kelsen, Schumpeter, Dahl, Bobbio e Sartori[14].

Tuttavia, è dubbio che se la democrazia reale non è altro che il feticcio della liberaldemocrazia, il modello ideale possa estendersi fino a spiegarli entrambi. C’è da chiedersi se l’attualità delle teorie procedurali nello spiegare i caratteri e il funzionamento della democrazia reale non sia già di per sé l’indicazione di uno strabismo prospettico. Infatti delle due l’una: se il modello ideale spiega la democrazia reale, o quello non è così particolarmente “ideale” o si deve ammettere che i fattori della sua degenerazione sono interamente, o almeno in parte, endogeni. Il sospetto è che la liberaldemocrazia contenesse, sin dall’origine, alcuni “frutti avvelenati” che in molte interpretazioni, compresa quella di Mura, restano intesi “semplicemente” come deviazioni, o storture connesse al suo funzionamento o, nel migliore dei casi, come promesse non mantenute. In questa prospettiva, ci si può accontentare di prendere sul serio la più realistica fra le lezioni di Mura, ossia la considerazione della democrazia liberale come un fatto storico, contingente e quindi anche superabile, con le conseguenze – positive o negative - che ciò può produrre.

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori, dal curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] Non è possibile, in questa sede, rendere conto della bibliografia completa di Virgilio Mura. A titolo esemplificativo ricordo, fra le monografie, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, 2a ed. Giappichelli, Torino 2004; Temi e problemi di filosofia politica, Chiarella, Sassari 1991; La teoria democratica del potere. Saggio su Rousseau, Ets, Pisa 1979; Statualismo e diritto sociale. Il saggio di Capograssi sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici: esercizio sulle varianti delle due edizioni (1936/1939), Ets, Pisa 1979; La critica democratica della democrazia. Sulla filosofia politica di Pigliaru e su alcune tendenze della scienza politica contemporanea, Ets, Pisa 1979; Cattolici e liberali nell’età giolittiana. Il dibattito sulla tolleranza, De Donato, Bari 1976; Il dibattito sulla tolleranza nell'età giolittiana (1909-1912), Pacini Editore, Pisa 1972. La curatela di due volumi: Il cittadino e lo Stato, FrancoAngeli, Milano 2002; I dilemmi del liberalsocialismo (con M. BOVERO e F. SBARBERI), La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994 e alcuni fra i tanti saggi e articoli, che riporto secondo un ordine meramente cronologico: Danilo Zolo e la critica della democrazia reale, in In mare aperto. Pensare il diritto e la politica con Danilo Zolo, Jura Gentium, XVIII, 2021, 1; Sull’intolleranza e l’intransigenza, in Ciò che è reale è irrazionale? Discutendo con Michelangelo Bovero, a cura di V. PAZÈ e M. CUONO, Accademia University Press, Torino 2021; Dialogo sui valori e sulla verità, (con S. Caputo) in La politica. Categorie in questione, a cura di R. SAU, FrancoAngeli, Milano 2015; Paternalismo e democrazia liberale: un equivoco da chiarire in Paternalismo, (a cura di R. SAU e M. CUONO), ns di «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», 79/2014; Il Contratto sociale: i frutti (avvelenati) dell'eredità di Rousseau, in La filosofia politica di Rousseau, a cura di G.M. CHIODI e R. GATTI, FrancoAngeli, Milano 2012; Promemoria sul relativismo dei valori, in Revival religioso relativismo populismo. Opportunità o sfide per la democrazia?, a cura di R. SAU, FrancoAngeli, Milano 2011; Sul contrasto fra cultura laica e religiosa in «Teoria Politica», 2011; I tre cardini della filosofia di Giuseppe Capograssi, in Studi in memoria di Enzo Sciacca, a cura di F. SCIACCA, Giuffrè, Milano 2008; Democrazia: la governabilità del conflitto entro il quadro del relativismo, in «Teoria Politica», vol. XXIII, 2007; Il relativismo dei valori e gli squilibri del terrore, in Gli squilibri del terrore. Pace, democrazia e diritti alla prova del XXI secolo, a cura di M. BOVERO e E. VITALE, Rosenberg & Sellier, Torino 2006; Democrazia e qualità dei cittadini, in «Diritto @ Storia», vol. 6, 2006; Bobbio interprete di Locke e del giusnaturalismo moderno, in La filosofia politica di Locke, a cura di G.M. CHIODI e R. GATTI, FrancoAngeli, Milano 2005; Diritti dell'uomo e diritti del cittadino, in Filosofia politica dei diritti umani nel terzo millennio, a cura di A. TARANTINO, Giuffrè, Milano 2003; Prefazione, in Antonio Pigliaru. "Promemoria" sull'obiezione di coscienza, Il Maestrale 2009; Sulle concezioni procedurali della democrazia, in «Teoria Politica», 3, 2001; Sulla nozione di cittadinanza, in Il cittadino e lo Stato, a cura di V. MURA, FrancoAngeli, Milano 2002; Sulle concezioni procedurali della democrazia, in Giustizia e procedure. Dinamiche di legittimazione tra Stato e società internazionale, a cura di M. BASCIU, Milano, Giuffrè 2002; Democrazia e potere della maggioranza, in AA.VV., Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari. vol. 10, Giappichelli, Torino 2000; Quale democrazia?, in «Teoria Politica», 2-3; 1999; La lezione di Pigliaru, in «Società sarda», n. 10, 1999; Brevi note sulla nozione di federalismo, in Il federalismo tra filosofia e politica, a cura di U. COLLU, Studiostampa, Nuoro 1998; Brevi note su trasparenza e democrazia, in «Archivio storico e giuridico sardo di Sassari», Nuova serie, n. 5, 1998; A che servono le virtù civiche?, in «Nuvole», VII, n. 3, 1997; Liberal-democrazia e poliarchia: due modelli a confronto, in Filosofia e democrazia, a cura di D. FIOROT, Giappichelli, Torino 1992; Democrazia ideale e democrazia reale, in «Teoria Politica», 1-1990; J.-J. Rousseau. La teoria dell'obbligo politico, in Studi in onore di Luigi Firpo. vol. 2, a cura di S. ROTA GHIBAUDI, F. BARCIA, FrancoAngeli, Milano 1990; La teoria del pluralismo giuridico in Giuseppe Capograssi, in Due convegni su Giuseppe Capograssi, a cura di F. MERCADANTE, Giuffrè, Milano 1990; L'idea di politica nei Quaderni del carcere, in Teoria politica e società industriale. Ripensare Gramsci, a cura di F. SBARBERI, Bollati Boringhieri, Torino 1988; Le lezioni sulla democrazia: lo Stato, la società, l'uomo, in «Ichnusa», 1989, n. 18-19; Sul contenuto problematico dell'idea di nazione e sul problema del contenuto dell'idea di "nazione sarda", in AA.VV., Le autonomie etniche e speciali in Italia e nell'Europa mediterranea, STEF, Cagliari 1988; Il Trasformismo: fenomeno specifico o costante storica del sistema politico italiano?, in «Teoria Politica», 1, 1987; Per una ricerca sull'anatomia della classe politica sarda, (in coll. con G. 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[2] Quale democrazia?, in «Teoria Politica», vol. 2-3, 1999.

[3] Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Giappichelli, Torino 2004, 367.

[4] Promemoria sul relativismo dei valori, in R. SAU (a cura di), Revival religioso relativismo populismo. Opportunità o sfide per la democrazia?, FrancoAngeli, Milano 2011, 28.

[5] Ivi, 32.

[6] Il relativismo dei valori e gli squilibri del terrore, in M. BOVERO e E. VITALE (a cura di), Gli squilibri del terrore. Pace, democrazia e diritti alla prova del XXI secolo, Rosenberg & Sellier, Torino 2006, 199.

[7] Promemoria sul relativismo dei valori, cit., 40.

[8] Si veda, in particolare, Dialogo sui valori e sulla verità, (con S. CAPUTO), in R. SAU, La politica. Categorie in questione, FrancoAngeli, Milano 2015.

[9] H. KELSEN, I fondamenti della democrazia (1955-56), in I fondamenti della democrazia e altri saggi, Il Mulino, Bologna 1966, 194.

[10] Il relativismo dei valori e gli squilibri del terrore, cit., 205.

[11] Cfr. Sul contrasto fra cultura laica e religiosa, in «Teoria Politica», 2011.

[12] Cfr. Quale democrazia?, cit.

[13] Categorie della politica, cit., 433.

[14] Danilo Zolo e la critica della democrazia reale, in In mare aperto. Pensare il diritto e la politica con Danilo Zolo, Jura Gentium, XVIII, 2021.