Tradizione-Romana-2021

 

 

MARTINA BEGGIATO

Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

 

Sulla condizione giuridica del concepito,

con speciale riguardo al procurato aborto

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SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive circa la concezione del feto: l’evanescente confine tra sua autonoma rilevanza e portio mulieris vel viscerum. – 2. Il procurato aborto nell’età antica: la repressione del fenomeno in Plutarchus, Rom. 22.3 e in Dionysius Halicarnassensis, Ant. Rom. 2.25.6. – 3. Repressione pubblica dell’evento: il nesso fra il rescriptum degli imperatori Severo e Caracalla e la produzione giurisprudenziale tardoclassica. – 4. Elementi repressivi nelle codificazioni teodosiana e giustinianea. – 5. Riflessioni conclusive. – Abstract.

 

 

 

1. – Considerazioni introduttive circa la concezione del feto: l’evanescente confine tra sua autonoma rilevanza e portio mulieris vel viscerum[1]

 

Il tema dell’aborto nell’antichità, in particolar modo in epoca romana, ha suscitato da sempre notevole interesse, avendo la riflessione sull’annientamento della vita di un figlio (in potenza o già venuto al mondo) assunto in tale contesto sociale diverse connotazioni. Pur senza entrare nel merito specifico di ciascuna di esse, si può evidenziare come i metodi fossero principalmente quattro, ovverosia la contraccezione, l’aborto, l’abbandono e l’infanticidio[2]. Intendo qui occuparmi, quindi, di un aspetto particolare, ossia investigare come il corpo dell’uomo possa essere annientato da una forza distruttrice atta ad «impedire il normale concepimento del processo formativo del feto»[3].

Pare opportuno prendere le mosse dalla considerazione identitaria del concepito, giacché diverse testimonianze – di fonte sia letteraria sia giuridica convergono nel ravvisare una tendenziale propensione alla concretezza terminologica[4], che sfocia in una elaborazione che non può considerarsi scevra da collegamenti con assetti extragiuridici, in particolare attinenti alla scienza medica. Proprio questo avrebbe reso possibile la proliferazione di numerosi termini variamente impiegati dai giuristi per identificare il concepito[5], tra i quali spiccano conceptus, qui in ventre est, qui in utero est, infans in utero. Del resto, la circolazione di un lessico così variegato avrebbe consentito il diffondersi di due antitetiche correnti di pensiero, in base alle quali secondo taluni al concepito si sarebbe dovuta riconoscere un’autonomia rispetto alla figura materna[6] mentre, secondo altra parte della dottrina, la pretesa autonomia identitaria del concepito sarebbe stata effimera, di talché concepito e madre sarebbero stati considerati un tutt’uno[7].

Ma partiamo con ordine. Vediamo innanzitutto che il termine conceptus appare in:

 

D. 38.16.7 (Celsus libro quinquagensimo nono digestorum): vel si vivo eo conceptus est, quia conceptus quodammodo in rerum natura esse existimatur.

 

Dal frammento si evince che il bambino concepito è già in un certo senso esistente. Celso, infatti, riconnette il conceptus alla locuzione in rerum natura esse parificandolo, nella realtà naturale e fisiologica dei fatti, al nato[8]. Circa il contenuto specifico di questo accostamento, si può rilevare come il riferimento al concepito quale essere in rerum natura trovi fondamento anche in altri frammenti[9], dai quali traspare una «nozione giuridica» che abbisogna di una preesistente «nozione fisiologica»[10].

Infatti, sebbene la locuzione in rerum natura sottenda – alla pari dell’espressione in rebus humanis una chiara allusione al concepito nella sua dimensione fisica e corporale, quale essere dotato di una propria autonomia, nondimeno non si può non rilevare che si tratterebbe di due espressioni antitetiche sotto il profilo della sostanza, laddove mentre il lemma in rerum natura sottende una visione del concepito, la locuzione in rebus humanis sembra adottabile nei soli casi in cui il concepito non sia più in potenza, ma sia venuto al mondo[11].

Con riguardo al frammento in esame va aggiunto, inoltre, come la forma verbale existimatur sottenda una (seppur dubbia) dimensione meramente fisiologica e naturalistica del concepito che consente di assimilarlo al nato: alla pari di quanto in seguito si vedrà per il similare intelleguntur, cui rimando per una più attenta analisi.

Da ultimo, l’avverbio quodammodo pare fungere da collante tra la dimensione meramente naturalistica del concepito e la sua tutela giuridica[12]. Questo avrebbe consentito di enucleare una «condizione fisiologica del concepito» che si sarebbe accostata alla «condizione giuridica» senza, però, opporvisi[13].

Tuttavia, non tutte le fonti[14] sembrano considerare il concepito quale essere in rerum natura o in rebus humanis. Si ammette, infatti, l’esistenza di alcune testimonianze che propendono a vantaggio di una commistione tra il concepito e le viscere materne e che impediscono, in tal senso, di considerare il conceptus quale entità dotato di una propria autonomia[15].

Lo scenario resosi evidente in D. 38.16.7 (Celsus libro vincensimo octavo digestorum) sembra condivisibile anche con riguardo a:

 

D. 1.5.26 (Iulianus libro sexagensimo nono digestorum): Qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur in rerum natura esse ...

 

Dal frammento giulianeo si evince come chi si trovi in utero sia da considerarsi in rerum natura.

Nella produzione letteraria e in quella giuridica si possono ritrovare molteplici indicazioni terminologiche che sembrano alludere al nuovo nato e che si trovano in linea con questa testimonianza, in cui l’allusione è ai concepiti – qui in utero sunt quali soggetti dotati di rilevanza autonoma in quanto esistenti fisiologicamente in rerum natura[16].  

In un simile contesto è il verbo intelleguntur che necessita di essere spiegato e messo in connessione con il verbo existimatur ritrovato nella disamina della precedente fonte giacché, malgrado i consistenti dubbi circa l’autenticità delle testimonianze, queste forme verbali farebbero propendere, ancora una volta, per un’assimilazione tra il conceptus e il nato. Pare, dunque, esistente una crasi in dottrina tra quanti sostengono che queste forme verbali consentano di apprezzare il conceptus quale entità già formatasi ed esistente in rerum natura e quanti, per converso, li considerino una mera fictio, alla luce della riflessione maturata in seno alla giurisprudenza di età classica[17].

Se si volesse, infatti, accedere alla prima tesi esposta, sarebbe possibile assicurare al concepito un autonomo rilievo in quanto essere esistente in rerum natura ma, si badi, non in rebus humanis[18]. Questo accostamento avrebbe permesso di eguagliare il concepito al soggetto già nato come mera conseguenza di un apprezzamento risultante rebus sic stantibus dalla realtà dei fatti[19].

Se si volesse, invece, accedere alla seconda ipotesi formulata, allora si dovrebbe propendere a vantaggio di una finzione, in quanto il concepito non potrebbe effettivamente considerarsi esistente, se non in forza della fictio medesima che assimila il conceptus al soggetto già nato e che ne accorda, per l’appunto, l’esistenza nella realtà materiale dei fatti[20]

Una conclusione di eguale tenore può essere tratta pure con riguardo a:

 

D. 1.5.7 (Paulus libro singulari de portionibus, quae liberis damnatorum conceduntur): Qui in utero est, perinde ac si in rebus humanis esset custoditur, quotiens de commodis ipsius partus quaeritur: quamquam alii antequam nascatur nequaquam prosit.

 

Anche in questo caso il giureconsulto accede all’idea secondo la quale il concepito è da considerarsi alla stregua di un soggetto nato, sebbene reputi lo stesso res humana anziché un essere in rerum natura. In particolare, il riferimento estraibile dal passo al perinde ac si in rebus humanis esset, consente di avvalorare l’idea a tenore della quale il conceptus sia «titolare di aspettative giuridiche degne di tutela»[21], sebbene la testimonianza sovente venga ricompresa nell’alveo dei frammenti che negano rilievo autonomo al concepito a fronte di una sua commistione con le viscere materne[22].

Il giurista dà conto del fatto che la protezione relativa alla sfera degli interessi giuridicamente apprezzabili si rende possibile in quanto res humana, giacché nel frammento parifica, per quanto attiene ai suoi vantaggi, la protezione accordata al concepito al soggetto già nato.

Chiaro è, quindi, che qui in utero est viene considerato come se in rebus humanis esset nel sol caso in cui si tratti di percepire dei commoda a suo favore allorquando, al contrario, agli altri non reca alcun profitto nel momento antecedente a quello della nascita[23].

Dobbiamo dunque chiederci se qui in utero est sia da considerarsi, con riguardo alla testimonianza paolina, dotato oltre che della tutela giuridica laddove nel brano si allude esplicitamente alla stessa a fronte del conseguimento di un commodum a suo vantaggio – anche di una propria autonomia naturalistica o ne sia privo.

In altri termini, dal tenore del passo si evince come la «dimensione fisiologica» – se si volesse accogliere la terminologia adottata dall’Albertario – non può prescindere da quella giuridica, anzi con questa si completa. Assimilare, infatti, qui in utero est con chi è già nato significa attribuirgli un’autonoma fisicità che ci consente di propendere per una sua autonomia rispetto alle viscere materne[24].

Pare, a tal proposito, non condivisibile il ragionamento condotto dall’Albertario[25], il quale negava autonomia identitaria al concepito asserendo, al contrario, che «per quanto sotto l’aspetto fisiologico il concepito non è in rerum natura o in rebus humanis, nell’ordinamento giuridico ciononostante è considerato come se esistesse, come se fosse in rerum natura o in rebus humanis».

Passando alle fonti che non accedono all’idea a tenore della quale il concepito sia un’entità in rerum natura o in rebus humanis, non può non essere fatto cenno a:

 

Gaius, Inst. 2.203 [26]: ea quoque res, quae in rerum natura non est ...

 

Dall’espressione in rerum natura non est contenuta nelle Institutiones gaiane si possono cogliere tre rilievi degni di nota: l’esistenza su un piano naturalistico del conceptus, la (dubbiosa) autonomia del concepito rispetto alle viscere materne e, infine, una sua rilevanza non limitata al solo piano «fisiologico», ma estesa anche a quello giuridico.

In primo luogo, se si volesse investigare la locuzione richiamata, allora si finirebbe con ammettere l’esistenza, sul piano naturalistico e fisiologico, del concepito, sebbene una sua estrinsecazione in natura si possa realizzare solo a seguito dell’evento nascita[27]. Ecco che, accedendo a questa idea, il conceptus non può essere considerato quale entità indipendente rispetto alle viscere materne giacché, dal tenore letterale della locuzione, si evince l’assenza di autonomia e fisicità in rerum natura sino al momento del parto[28].

Infine, parrebbe in questa sede opportuno chiedersi se il riferimento al conceptus quale soggetto che in rerum natura non est rilevi solo dal punto di vista naturalistico o se, al contrario, si estrinsechi anche sul piano giuridico. A tal proposito, l’Albertario[29] ammetteva il solo rilievo sul piano «fisiologico» sebbene non sia possibile condividere questo ragionamento, alla luce delle ricadute sul piano giuridico che ne conseguono giacché, anche se è inesistente «da un punto di vista meramente fisiologico, anche il feto è qualche cosa che esiste, se pure non indipendentemente»[30]. Valutato ciò, utili considerazioni circa la visione del conceptus quale mera portio mulieris – che sorreggono il ragionamento sin qui condotto con riguardo al passo gaiano – si possono rinvenire in D. 25.4.1.1 (Ulpianus libro vincesimo quarto ad edictum), ove il giureconsulto esclude recisamente l’autonomia del soggetto in fieri rispetto alle viscere materne[31].

Si legge infatti nella testimonianza che

 

… partus enim antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum.

 

Un’ulteriore riprova di quanto sinora esposto andrebbe desunta dalla lettura di una serie di frammenti escerpiti dal Digesto giustinianeo, ove l’allusione è ancora una volta al conceptus quale entità che in rerum natura non est/in rebus humanis non est[32]. Se ne trarrebbe l’impressione di una interdipendenza intercorrente tra il concepito e le viscere materne, nel senso che questi frammenti avrebbero accreditato una esistenza in potenza del conceptus che ne avrebbe escluso una sua autonoma rilevanza sui piani naturalistico e fisiologico.

Ecco, dunque, che il confine tra i frammenti dai quali si evince che il conceptus in rerum natura est/in rebus humanis est e i passi che lo considerano quale entità che in rerum natura non est/in rebus humanis non est pare estremamente labile in quanto, anche laddove si volesse escludere l’autonomia identitaria del concepito rispetto alle viscere materne, nondimeno si dovrebbe comunque garantirne una esistenza sul piano fisiologico e, proprio in questo elemento, può essere scorto il trait d’union tra i due gruppi – apparentemente antitetici – di testimonianze.

 

 

2. – Il procurato aborto nell’età antica: la repressione del fenomeno in Plutarchus, Rom. 22.3 e in Dionysius Halicarnassensis, Ant. Rom. 2.25.6

 

Il punto di partenza va scorto necessariamente in una testimonianza plutarchea tratta dalla Vita di Romolo, ove si incontra la prima allusione all’aborto nel contesto romano[33]. Sino alla lex regia[34], infatti, il ricorso a questa pratica appariva un’eventualità lontana, ma da questo momento è sorta la necessità di regolamentare e perseguire il procurato aborto quale reato riconducibile alla sfera dei delitti contro la persona umana[35].

 

Plutarchus, Rom. 22.3: θπχε δ κα υμους τινς ( ‘Ρωμλος), ν σφοδρς μν στιν γυναιχ μ διδος πολεπειν νδρα, γυναχα δ διδος χβλλειν π φαρμακεα τκνων κλειδν ποβολ κα μοικευθεσαν· ε δ ’ λλως τις πομψαιτο, τς οσας ατο τ μν τς γυναικς εναι, τ δ τς Δμητρος ερν κελεων[36] ...

 

Nel testo plutarcheo, che delinea diacronicamente le cause di ripudio della moglie[37], si evidenzia come particolare rilievo debba essere attribuito all’assunzione di vino e all’utilizzo di medicamenti, componenti farmacologiche o veleni[38] quali sostanze atte ad annientare la corporalità del conceptus.

Il riferimento all’uso di sostanze alcoliche e farmacologiche è stato letto sotto diverse prospettive, tutte accomunate dalla concezione dell’uxor quale soggetto debole da preservare al fine di tutelare le aspettative dell’uomo attinenti alla procreazione e alla legittimità della prole[39].

Precisamente, tre elementi di valutazione si desumono dai versi in parola: l’inclusione tra le iustae causae repudii dell’π φαρμακεα con le conseguenti ricadute per quanto attiene al fenomeno abortivo, i punti di intersezione e di stacco tra il φαρμακεα (τκνων) e il veneficium e, infine, l’allusione al φαρμακεα (τκνων) quale sinonimo di veneficium.

In primo luogo, occorre ricordare che tra le iustae causae repudii si annovera quella π φαρμακεα, termine con il quale si alluderebbe all’‘arte del farmacista’[40] di predisporre sostanze medicinali e farmacologiche. Pare necessario, però, soffermarsi sul vocabolo τκνων, termine che talvolta viene accostato a φαρμακεα, mentre in altre occasioni viene collegato a ποβολ, prospettando delle conseguenze tutt’altro che marginali nell’individuazione del fenomeno abortivo. Proprio in ordine a siffatta prospettazione, è posto in luce che si concretizzerebbe l’aborto soltanto nella prima ipotesi[41], laddove il τκνων ποβολ sfocerebbe in una mera supposizione di parto[42].

Vero è, infatti, che soltanto a seguito di assunzione di sostanze farmacologiche da parte della donna, scientemente si concretizzerebbe un procurato aborto[43]. In concreto, come anticipato, consentirebbero di inquadrare correttamente siffatto illecito femminile, le sole condotte ascrivibili al φαρμακεα τκνων, laddove la donna causerebbe un’interruzione di gravidanza a seguito di assunzione di medicamenti[44].

Come in precedenza rilevato, il dubbio interpretativo non sarebbe scevro da rilievi pratici, dato che dallo stesso sgorgherebbero due formulazioni antitetiche. Prendendo le mosse dalla prima – π φαρμακεα τκνων si legge nella testimonianza –, le iustae causae repudii individuabili nella lex regia sarebbero soltanto tre, ovverosia l’adulterium (μοικευθεσαν), il furtum delle chiavi della cella vinaria (κλειδν ποβολ) e l’aborto perpetrato mediante l’uso di medicamenti (φαρμακεα τκνων)[45]. Volendo dar seguito a questa ipotesi ricostruttiva, il tenore letterale della testimonianza sarebbe il seguente: π φαρμακεα τκνων κλειδν ποβολ.

Qualora, per converso, il termine τκνων venisse accostato al ποβολ, le iustae causae repudii diverrebbero quattro, da scorgersi nell’adulterium (μοικευθεσαν), nel veneficium (φαρμακεα), nella contraffazione delle chiavi (κλειδν ποβολ) e nella supposizione di parto (τκνων ποβολ)[46]. La formulazione che ne scaturirebbe sarebbe, dunque, la seguente: φαρμακεα <κα> τκνων κλειδν ποβολ.

In ragione di ciò, è possibile intravedere un riferimento esplicito – alludo, in particolare, all’espressione ονον πνειν – all’interruzione volontaria di gravidanza solo nella prima ipotesi. Nella seconda ipotesi, infatti, l’inserzione della congiunzione <κα> o, in alternativa, della virgola tra il φαρμακεα e il τκνων consente di ampliare i margini delle ipotesi criminose previste, rendendoli maggiormente sfuggenti e rescindendo qualsivoglia accenno al fenomeno abortivo, laddove  prescindendo dal riferimento all’adulterium che permane in entrambe le ricostruzioni prospettate – l’allusione al veneficium, alla contraffazione di chiavi e alla supposizione di parto consentirebbe di propendere a favore di «una prospettiva assolutamente nuova sul panorama della primitiva criminalità femminile»[47].

Particolare interesse suscita la ricostruzione che avrebbe fatto coincidere il φαρμακεα τκνων con il κλειδν ποβολ che, invero, avrebbe deposto a vantaggio di una commistione tra l’aborto perpetrato con l’ingestione di medicamenti – il φαρμακεα τκνων – e la sottrazione delle chiavi della cella vinaria – il κλειδν ποβολ – che sarebbe sfociata in una generica allusione al consumo di vino quale sostanza atta a procurare l’interruzione di gravidanza e che, insieme al μοικευθεσαν, avrebbe integrato le due iustae causae repudii[48].

Valutato ciò e tenuto nella dovuta considerazione il fatto che il procurato aborto poteva essere immediata conseguenza dell’ingerimento di sostanze farmacologiche, ulteriori elementi di rilievo possono essere tratti dal termine attualmente in disamina.

A tal riguardo, è questione assai dibattuta in dottrina quella relativa alla possibile riconducibilità del φαρμακεα (τκνων) al veneficium del solo nascituro[49]. Siffatta giustapposizione fa venire alla luce due interrogativi in merito alla mera ricomprensione all’interno del φαρμακεα dell’avvelenamento realizzato nei riguardi del solo τκνων e non, per converso, del veneficium realizzato a discapito di chiunque sia legato alla donna da un vincolo affettivo o parentale. Se si volesse propendere per una lettura più ampia del brano, la condotta venefica – φαρμακεα – si dovrebbe considerare svincolata dal τκνων e, così facendo, a rilevare non è più soltanto l’avvelenamento realizzato propter veneficium circa prolem, bensì il veneficio nella sua dimensione generalizzata[50]. Seguendo questa ricostruzione si sarebbe indotti a pensare che il brano non attenga al fenomeno abortivo giacché, svincolando la condotta venefica dall’annientamento della nuova vita, si finirebbe per ammettere che a rilevare sia l’assunzione da parte della donna di sostanza vinosa in sé. Ma, in realtà, si tratterebbe di un’ingestione interdetta dal generalizzato divieto di assunzione di vino in assenza di finalità abortiva; impedimento connesso alla mancata disponibilità delle chiavi della cella vinaria[51]. Muovendo da queste premesse, dunque, il consumo di sostanze venefiche da parte della donna avrebbe assunto rilievo soltanto sul versante sanzionatorio, giacché la lex regia avrebbe consentito al maritus di ripudiare la moglie in quanto la sua condotta sarebbe rientrata nel novero delle iustae causae repudii.

Pare più corretto, alla luce dell’omogeneità delle iustae causae repudii individuate dalla lex regia e, senza voler stravolgere il testo plutarcheo, all’esegesi letterale del brano che sembra alludere al φαρμακεα τκνων, propendere per l’aborto – tramite avvelenamento – di figli non ancora nati, giacché l’omicidio di figli già venuti al mondo sfocerebbe in un’interpretazione difficilmente sostenibile – anche riguardo alla luce del tenore letterale del testo – alla luce della primigenia legislazione sull’omicidio che considerava tale reato come il «più grave tra quelli estranei alla sfera militare» e che, proprio per questo motivo, mal si conciliava con l’ammissione dello stesso quale mera causa repudii per la donna tra le diverse annoverate dalla stessa lex regia[52].

Dobbiamo tuttavia chiederci se sia opportuno considerare sic et simpliciter l’allusione al veneficium quale sinonimo di ingestione di medicamenti o sostanze venefiche oppure se sia più corretto propendere per una lettura più ampia del termine φαρμακεα, tale da ricomprendere qualunque atteggiamento idoneo a provocare l’annientamento della nuova vita[53]. Alla luce del dato testuale e dell’interpretazione che dallo stesso ne scaturisce si è indotti a pensare che il φαρμακεα τκνων si riferisca al solo avvelenamento, giacché tale conclusione ben sembra rapportarsi con il fenomeno abortivo dei soli figli non ancora venuti in essere da un lato e con l’omogeneità delle iustae causae repudii individuate dalla lex regia dall’altro lato[54].

Alla luce di queste considerazioni, il φαρμακεα si potrebbe configurare quale reato rivolto verso i soli τκνo – alla luce del collegamento che si evince dalla testimonianza plutarchea tra l’avvelenamento e la contraffazione delle chiavi della cella vinaria – e, così facendo, si finirebbe per legittimare la ricostruzione avanzata da quella parte della dottrina che ammetteva l’allusione al fenomeno abortivo[55].

A ben vedere il corrispondente termine latino pare essere venenum[56], e tale accostamento riposerebbe in D. 50.16.236 pr. (Gaius libro quarto ad legem duodecim tabularum). In questo frammento, il giureconsulto accostava l’utilizzo dei medicamenti all’avvelenamento dei figli non ancora venuti al mondo sebbene si debba trattare, giova rammentarlo, di concepiti in costanza di vincolo matrimonio dovendosi garantire la legittimità della prole –, come espressione di procurato aborto[57].

In un simile contesto, è l’inciso κλειδν ποβολ a dover essere spiegato in quanto potrebbero scorgersi rilevanti elementi di valutazione e di intersezione con l’analizzato φαρμακεα τκνων. A tal proposito, i termini dapprima richiamati sembrerebbero alludere alla «manomissione di chiavi», laddove sarebbe stato interdetto alla donna di accedere alla cella vinaria[58]. Muovendo da siffatte premesse, dunque, si perviene alla conclusione in forza della quale alla donna sarebbe fatto divieto non soltanto di ingerire vino, ma altresì di accedere al luogo ove lo stesso viene conservato per potervi fare uso. Si vorrebbe in tal modo assicurare il rispetto dell’esigenza attinente alla preservazione dell’egemonia maschile propria di una società patriarcale quale quella romana[59], ma anche, nel caso di specie, si rifugge da un possibile procurato aborto come conseguenza discendente dall’assunzione di sostanze alcoliche[60].

Quest’ultima osservazione consente di indagare, in concreto, il rapporto tra la lex regia e un passo attribuibile a Dionigi d’Alicarnasso, il cui richiamo pare necessario in forza della ripugnanza manifestata, anche in questa sede, dell’assunzione di vino:

 

Dionysius Halicarnassensis, Ant. Rom. 2.25.6: ... τατα δ ο συγγενες μετ το νδρς δκαζον. ν ος ν φθορ σματος κα ... ε τις ονον εμρεθεη πιοσα γυν, μρτερα γπ τατα θαντω ζημιον συνεκπησεν Ρωμλος[61] ...

 

Passando alla fonte grecofona diacronicamente più contigua a Plutarco, è senz’altro rilevante la versione offerta da Dionigi d’Alicarnasso in ordine alla scelta di reprimere con la pena capitale la donna rea di adulterium (φθορ σματος) e la donna che ingerisse sostanze vinose τις ονον εμρεθεη πιοσα)[62]. Dunque, il mancato riferimento all’π φαρμακεα fa propendere per una repressione limitata, al contrario di quanto in precedenza analizzato con riguardo alla testimonianza plutarchea, a queste due sole condotte, rendendo la testimonianza in oggetto fonte di minori dubbi interpretativi rispetto alla precedente.

In questo contesto sembra non ci sia più spazio per il veneficium e, anzi, bisogna ricordare come in un frammento di Aulo Gellio[63] non manca di precisarsi come l’adulterium sia da considerarsi intimamente connesso con l’assunzione di vino – si vinum in se, quam si probrum et adulterium admisissent –, quasi a divenirne espressione di un unico reato[64]. Siffatta ricostruzione viene ulteriormente avvalorata dal fatto che tanto l’ingestione di sostanza vinosa da parte della donna quanto l’adulterium muliebre vengono condannati e legittimano il maritus a divorziare dalla rea – cum divortium fecit si legge nella testimonianza[65] –.

In particolare, nella lex regia attribuibile a Romolo[66] e rinvenibile nel secondo libro tratto dalla ‘Ρωμαιχ ’Αρκαιολογα di Dionigi d’Alicarnasso, vi è chi ha giustificato l’accostamento tra questa testimonianza e quella plutarchea fondandolo sul «nesso di causalità» rinvenibile nell’ονον πνειν e nel φθορ σματος. Chi, poi, ha letto i due passi in connessione, tende ad accreditare il ruolo svolto da predetta connessione, muovendo da un possibile collegamento tra l’ονον πνειν contenuto nella testimonianza in valutazione e il κλειδν ποβολ traibile dal testo plutarcheo. Dando seguito a questo ragionamento, si potrebbe essere indotti a pensare che il vino dovesse essere interdetto alle donne dato che si tratterebbe di una sostanza intrisa di «proprietà anticoncettive e abortive»[67]. Tale ultima osservazione, in astratto, consente di considerare siffatto rapporto in sé fondato, benché doveva considerarsi in concreto rara – sebbene teoricamente possibile – la situazione in cui una donna sposata avesse fatto uso di vino al fine di procurarsi un aborto. Viene infatti osservato come la testimonianza non alluda sic et simpliciter all’assunzione di vino con finalità anticoncezionale o abortiva, bensì attenga in modo generalizzato al divieto di ingestione di vino da parte della donna; circostanza che ben si raccorderebbe con la generica falsificazione delle chiavi – si presume della cella vinaria – interdetta nella testimonianza plutarchea[68]. In entrambe le testimonianze rientra nel novero delle iustae causae repudii la sola assunzione di vino puro, non mescolato con altre sostanze, ovverosia il temetum[69].

Tuttavia, un punto di raccordo tra la testimonianza plutarchea e il brano dell’Alicarnassense appare difficilmente raggiungibile non soltanto sotto il profilo contenutistico e precettivo, ma anche sotto quello punitivo, giacché mentre in Ant. Rom. 2.25.6 si allude alla pena capitale quale sanzione da applicare nei riguardi della donna adultera o dedita al consumo di sostanze vinose, in Rom. 22.3 non vi è alcun riferimento alla poena capitis, bensì si accenna più benevolmente al solo repudium della donna quale strumento in capo al maritus per arginare le condotte vietate dalla lex regia. Siffatto scostamento potrebbe essere giustificato dall’avanzamento del tempo che ha reso possibile la sostituzione della ben più radicale pena di morte per la donna con il più mite repudium[70]. Ma i vari tentativi dottrinali volti a individuare un trait d’union tra le due testimonianze non si sono limitati a quello poc’anzi descritto, ma ne hanno identificati ulteriori scorgendo rispettivamente nella discrezionalità punitiva del maritus alla luce dell’entità della colpa addebitabile all’uxor la ragione giustificativa e nella possibile variazione del tenore terminologico – con inevitabili conseguenti ricadute in ambito punitivo – delle possibili alternative.

Soffermandosi sul primo profilo, ne sarebbero risultate una diversificazione e una modulazione della pena a piacimento del maritus – o, più correttamente, del consilium domesticum –, giacché la lex regia riportataci dall’Alicarnassense non imporrebbe la poena capitis, bensì la renderebbe possibile. A ben riflettere, dunque, si prospetterebbero due possibili scenari, tra loro alternativi, cui la donna andrebbe incontro: la poena capitis – nei casi più gravi – e il mero repudium – in presenza di violazioni di minor rilievo[71] –. Tali osservazioni consentirebbero di superare la crasi esistente tra le due testimonianze, laddove la discrezionalità punitiva del maritus consentirebbe di applicare – sebbene nei casi meno gravi – il mero repudium; sanzione che, nella lex regia trasmessa da Plutarco appare essere l’unica applicabile[72].

Segue poi la seconda ipotesi, a tenore della quale sarebbe possibile avanzare una serie di dubbi relativamente al vocabolo θαντω. Secondo la Giunti, dunque, si sarebbero ripianati gli eventuali contrasti punitivi tra il brano plutarcheo e la lex regia tradita dalla testimonianza dell’Alicarnassense in quanto, la studiosa avrebbe paventato una formulazione dissimile, dalla quale si sarebbe eclissato ogni riferimento all’θαντω, facendola coincidere con la seguente formazione: μρτερα γπ τατα ζημιον[73]. In un simile contesto, infatti, non sarebbe più stato necessario raccordare la poena capitis estraibile dalla testimonianza dell’Alicarnassense con il repudium indicatoci da Plutarco, giacché la sanzione che sarebbe residuata dall’elisione terminologica avrebbe consentito il permanere del mero repudium[74].

Quanto alla testimonianza di Dionigi, vi è da rilevare come, per effetto di una triplice valenza, nulla impedisce che, in concreto, gli esiti da essa desumibili – con riguardo alle due condotte ivi represse – possano essere accomunati non soltanto dall’attribuzione della competenza punitiva al medesimo organo giurisdizionale, ovverosia al iudicium domesticum τατα δ ο συγγενες μετ το νδρς si legge nel testo[75] –, ma possano altresì fondarsi sull’identico trattamento repressivo, ovverosia la pena capitale – μρτερα γπ τατα θαντω ζημιον –, oltre che sul medesimo presupposto normativo individuato nella lex regia, συνεκπησεν Ρωμλος[76].

Ritornando alla testimonianza plutarchea, pare utile approfondire un aspetto di cui si era fatto cenno in precedenza, ovverosia la finalità procreativa e la necessità di garantire la legittimità alla prole nata in costanza di vincolo matrimoniale. Si tratterebbe, a dire il vero, di intenti direttamente estraibili dalla testimonianza in disamina – laddove si legge che γυναιχ μ διδος πολεπειν νδρα, γυναχα δ διδος χβλλειν ... –, in quanto riconducibili alla facoltà riservata in via esclusiva al maritus di ripudiare la moglie, alla quale non è permesso di divorziare neppure per iusta causa.

Così interpretata, la lex regia consentirebbe di profilare un aspetto strictu sensu connesso all’ambito generativo, che muove da un assunto prettamente maschile – che ben si attaglia ad una società come quella romana, in particolar modo delle origini[77] – per delineare un potere arroccato nelle sole mani del pater o del maritus quali unici detentori delle prerogative di vita nei confronti del nuovo nato[78].

Ad un attento esame, però, la questione si presenta come elemento di raccordo tra la testimonianza plutarchea e il brano di Dionigi, giacché in entrambi i casi è fatto divieto alla donna di ripudiare il maritus – anche in presenza di giustificato motivo – in continuità con la radicata tradizione romanistica sul punto[79].

 

 

3. – Repressione pubblica dell’evento: il nesso fra il rescriptum degli imperatori Severo e Caracalla e la produzione giurisprudenziale tardoclassica

 

La riflessione giurisprudenziale di età classica in materia di aborto abbraccia tre passi che alludono a un rescritto degli imperatori Settimio Severo e Antonino Caracalla – uno di Trifonino, uno ulpianeo e l’ultimo marcianeo – in cui compare la sanzione dell’exilium quale pena da applicare alla mulier che avesse deciso di porre fine alla vita del conceptus[80].

Cominciamo dal rescritto di Severo e Caracalla riportatoci da Trifonino:

 

D. 48.19.39 (Tryphoninus libro decimo disputationum): Cicero in oratione pro Cluentio Habito scripsit Milesiam quandam mulierem, cum esset in Asia, quod ab heredibus secundis accepta pecunia partum sibi medicamentis ipsa abegisset, rei capitalis esse damnatam. sed et si qua visceribus suis post divortium, quod praegnas fuit, vim intulerit, ne iam inimico marito filium procrearet, ut temporali exilio coerceatur, ab optimis imperatoribus nostris rescriptum est.

 

In questo frammento del 211 d.C. il giureconsulto alludeva al rescritto di Severo e Caracalla quando i due imperatori erano ancora in vita e questa precisazione è confermata, oltre che dalla scansione temporale del loro regno, dato che hanno governato insieme dal 198 d.C. al 211 d.C., dalla parte finale del frammento ove Trifonino utilizzava le seguenti parole: ab optimis imperatoribus nostris rescriptum est.

Ma partiamo con ordine. Il testo si apre con un riferimento esplicito all’orazione Pro Cluentio di Cicerone; circostanza dalla quale si può desumere come l’aborto fosse stato un crimen che già in precedenza era stato oggetto di repressione, sebbene il trattamento punitivo che ne scaturiva fosse più acerbo rispetto a quello riportato dal rescriptum. Non a caso, a tal riguardo, il giureconsulto descriveva un episodio di procurato aborto avvenuto mediante l’utilizzo di medicamenti[81] e riportatoci nell’arringa Pro Cluentio ove l’oratore alludeva alla poena capitis quale sanzione da addebitare alla donna di Mileto che avesse deciso di abortire dopo aver ricevuto una somma di denaro dai secondi eredi per procurarsi l’aborto. In questo frammento colpisce la precisazione per cui la mulier che avesse procurato un aborto rei capitalis esse damnatam. Si sarebbe trattato di una sanzione che si porrebbe in netto contrasto con il ben più tenue exilium riportato nel rescriptum. Nel seguito, infatti, si afferma che se post divortium una donna incinta avesse procurato un aborto finalizzato a rendere pregiudizio al maritus divenuto oramai inimico a causa dell’avvenuto divorzio utilizzando violenza contro le sue viscere, sarebbe stata punita con un exilium temporaneo[82]. Viene allora da chiedersi perché Trifonino abbia deciso di riportare un episodio così lontano nel tempo e diversamente perseguito rispetto al rescriptum di Severo e Caracalla[83]. Il vero problema è, dunque, stabilire se l’origine della repressione pubblica dell’aborto possa scorgersi nel rescriptum ovvero se si possano individuare antecedenti – in questo caso nell’orazione Pro Cluentio – in altre testimonianze dell’antichità. Rispondendo affermativamente a tale ultimo interrogativo, il rescriptum sarebbe la primigenia testimonianza pervenutaci avente a oggetto una repressione pubblica del procurato aborto[84].

Alla luce della riflessione sinora abbozzata, pare comunque necessario prendere le mosse da Cicero, pro Cluent. 11.32:

 

Memoria teneo Milesiam quandam quandam mulierem, cum essem in Asia, quod ab heredibus secundis accepta pecunia partum sibi ipsa medicamentis abegisset, rei capitalis esse damnatam; neque iniuria quae spem parentis, memoriam nominis, subsidium generis, heredem familiae, designatum rei publicae civem sustulisset.

 

L’orazione ciceroniana parzialmente ripresa, sotto il profilo sanzionatorio, dal giurista Trifonino nel frammento sopra descritto, delinea un fatto vissuto dall’oratore quando si trovava in Asia tra il 79 a.C. e il 77 a.C. La specialità delle circostanze[85], poste alla base dell’orazione ciceroniana, deve essere identificata nell’influsso dello stoicismo che ha consentito il diffondersi anche nel contesto romano della repressione dell’aborto, già da tempo conosciuta nell’ambiente orientale, in particolar modo, greco. Si è sostenuto, peraltro, che le cause alle quali ancorare la repressione mediante pena capitale del procurato aborto della donna sembrano doversi scorgere non soltanto in motivazioni «che ricadono nella sfera privata del cittadino» – nella testimonianza si allude alla soppressione della speranza del padre (spem parentis), della memoria del nome (memoriam nominis) e della qualifica di erede di famiglia (heredem familiae) –, ma anche che attengono alla vita pubblica – a tal proposito non può non essere ricordata l’allusione alla morte procurata ad un futuro cittadino della Res Publica, anche alla soppressione del sostegno di una razza (subsidium generis)[86] –.

Se confrontata con il frammento tratto dal Digesto, l’orazione ciceroniana si potrebbe considerare un valido precedente rispetto al rescriptum di Severo e Caracalla, sebbene la dottrina non sia tutta concorde sul punto[87]. Melius re perpensa, infatti, l’allusione ciceroniana alla donna di Milesia fa pensare che nel contesto romano fosse carente un sistema repressivo del fenomeno abortivo, giacché l’oratore si sarebbe valso della poena capitis con finalità retorica, ovverosia per «argomentare una maggiore responsabilità in sede d’omicidio». Non si può quindi che convenire sull’opinione che si sarebbe dinanzi a un diritto non autoctono dell’antichità romana trattandosi, per converso, di un diritto estraneo e valevole soltanto «su un piano di analogia comparatistica»[88]. Nondimeno, se si accettasse di considerare l’orazione ciceroniana quale precedente spendibile nel contesto romano con riguardo al fenomeno del procurato aborto, si potrebbe propendere per una lettura del passo che «riflettesse diritto romano»[89], sotto un duplice profilo: da un lato il giureconsulto si sarebbe servito di un differente regime punitivo allo scopo di evidenziare la diversa ratio che stava alla base del procurato aborto della donna e, dall’altro lato, la possibile modulazione del trattamento punitivo alla luce dell’«età gestazionale» del feto avrebbe giustificato la bipartizione repressiva. Infatti, nell’ipotesi in cui ab heredibus secundis accepta pecunia partum sibi medicamentis ipsa abegisset la pena applicabile alla donna sarebbe stata quella capitale, mentre in caso di procurato aborto mediante violenza alle proprie viscere dopo l’avvenuto divorzio al fine di procurare pregiudizio all’inimico marito, sarebbe stata inflitta la pena del temporaneo exilium[90]. Ma ancora, se si volesse dar seguito all’«età gestazionale» del feto la diversità del trattamento punitivo sarebbe dipesa dallo stato di avanzamento relativo alla formazione della nuova vita di cui il concepito sarebbe stato privato a seguito del procurato aborto[91].

Sebbene sia esistente in dottrina un’oscillazione con riferimento all’individuazione del diritto di Mileto quale precedente in materia di procurato aborto nel contesto romano, vale la pena comunque precisare che chi, poi, ha letto l’orazione ciceroniana in connessione al rescriptum severiano, tende ad accreditare il ruolo paideutico svolto dal diritto orientale, giacché si tratta di arginare il dilagare, ormai esasperato, della pratica abortiva nel contesto romano[92]. A tal riguardo, infatti, si può rilevare come gli anni che si pongono a cavallo tra la fine della Res Publica e l’inizio del principato sono caratterizzati dall’inesorabile ricorso allo strumento abortivo e questa prassi sembra essere favorita da molteplici cause rinvenibili, da un lato, nell’influsso del pensiero stoico e, dall’altro lato, nel mutamento del contesto sociale e politico.

In primis, si può ipotizzare che l’influsso dello stoicismo abbia consentito di concepire il feto quale mera parte dell’utero materno e non, invece, quale entità autonoma, frutto di una propria fisionomia e organicità[93]. In secondo luogo, dal punto di vista sociale si verifica uno sfaldamento dell’antica familia romana, giacché il ruolo primariamente rivestito dal pater familias viene a incrinarsi. Sempre con riguardo al medesimo profilo, sebbene in ambito extra-familiare, si assiste ad una spasmodica diffusione del fenomeno corruttivo, in particolar modo presso i ceti più elevati della società, che ha reso possibile il ricorso incontrollato al procurato aborto[94]. Sul versante politico, invece, si scorge un «non diretto intervento delle leggi romane» con riguardo alla repressione del procurato aborto e questa tendenza pare essere giustificata dalla concezione stessa che del feto sembra affermarsi con l’avvento dell’impero[95].

Ritornando al frammento di Trifonino, pare essere fuori discussione l’individuazione del bene giuridico tutelato – in continuità con la tradizione romanistica già del lontano periodo arcaico – nella necessità di garantire l’aspettativa successoria del pater familias e, conseguentemente, la tutela della legittimità della prole. Non a caso, infatti, a essere garantita non è tanto la preservazione della vita del feto quanto, piuttosto, il diritto del maritus a una legittima discendenza[96].

Anche nel frammento ulpianeo viene ripreso il rescriptum in parola e si ripete che la sanzione applicabile alla donna, la quale abbia fatto violenza alle sue viscere per procurarsi un aborto, consiste nell’esilio:

 

D. 48.8.8 (Ulpianus libro trigensimo tertio ad edictum): Si mulierem visceribus suis vim intulisse, quo partum abigeret, constiterit, eam in exilium praeses provinciae exiget.

 

Giova sin d’ora precisare che, nonostante non vi sia alcun riferimento esplicito al rescriptum di Severo e Caracalla, vi è un’ulteriore conferma della previsione in esso contenuta, giacché il giureconsulto si avvale della medesima terminologia adoperata, in precedenza, da Trifonino. A tal proposito alludo, infatti, all’utilizzo dell’espressione visceribus suis vim intulisse, quasi completamente speculare a quella di cui si è avvalso Trifonino, il quale parlava di procurato aborto visceribus suis ... vim intulerit[97].

In verità, si può osservare come la scelta di Ulpiano di riferirsi esplicitamente alla competenza del praeses provinciae in merito alla repressione del procurato aborto crei un nesso non soltanto sotto il profilo punitivo, ma anche sul piano logico e contenutistico con il frammento precedente, tale da far supporre che il riferimento al divortium, similmente a quanto accade in D. 48.19.39, sia da intendersi come il presupposto essenziale dal quale far discendere l’intervento punitivo[98].

Si può ricordare, peraltro, come nel frammento precedentemente analizzato il giureconsulto richiedesse, per la pena dell’exilium, che il procurato aborto venisse realizzato in spregio al maritus divenuto inimicus a seguito del divortium laddove, per converso, Ulpiano ammette la punibilità della donna per il sol fatto di aver abortito per il mezzo della vis, senza alcuna allusione al pregiudizio maritale[99].  

Proprio in siffatto contesto pare necessario porre in rilievo la disputa dottrinale con riguardo all’individuazione del soggetto attivo del reato; disputa che ben si inserisce in un contesto più ampio caratterizzato dalla discussione in merito alla genuinità o meno del passo in disamina.

A tal proposito si è osservato, infatti, come l’indicazione della mulier – in luogo dell’accenno alla donna che, nella testimonianza di Trifonino, avrebbe procurato l’aborto post divortium – avrebbe accreditato una duplice lettura per espressa disposizione desumibile dal testo citato.

In argomento, va richiamato il pensiero del Nardi laddove questi individuava nella donna coniugata il soggetto attivo del procurato aborto. A parere dello studioso, infatti, è necessario interrogarsi sull’estrema genericità della terminologia utilizzata da Ulpiano il quale, a differenza di Trifonino che parlava di una oramai ex moglie (e, come si vedrà di Marciano, il quale accennava alla frode esercitata contro il maritus; circostanza che ci farebbe propendere per un procurato aborto realizzato dall’uxor) alludeva vagamente alla donna qualificandola come mulier. Ecco, quindi, che il bene giuridico tutelato non sarebbe altro se non la lesione dell’aspettativa successoria e di legittimità della prole, in quanto il rigido rispetto della gerarchia familiare avrebbe consentito la preterizione di qualsiasi voluntas riconducibile alla donna[100]. In merito a tale scelta, è stato osservato che l’allusione alla mulier quale soggetto attivo del reato era da ricollegarsi – sebbene mancasse ogni riferimento testuale – al rescriptum di Severo e Caracalla[101].

Vale la pena ricordare, però, anche la posizione avanzata da quella parte della dottrina che rinveniva nella donna (non necessariamente uxor) l’autrice del procurato aborto[102]. É notorio che il richiamo alla donna (anche non sposata) come soggetto attivo del reato creerebbe delle conseguenze non di scarso rilievo con riguardo al bene giuridico tutelato dovendosi, seguitando la ricostruzione di questa parte della dottrina, ravvisare nella tutela e nella preservazione della vita del feto e non più, per converso, nella garanzia della fecondità e della conseguente legittimità della prole[103].

Così delineata, la tendenza ricostruttiva indurrebbe, con buona probabilità, a suggerire due possibili scenari: il primo, come già accennato sopra, era di natura difensiva e avrebbe costituito una sorta di novità nella tradizione romanistica, giacché avrebbe consentito una modifica – nel senso appena descritto del bene giuridico tutelato. Il secondo profilo, invece, pare fondarsi sulla critica interpolazionistica del testo, giacché l’inserimento, da parte dei compilatori, del frammento ulpianeo nella parte del Digesto relativo alla lex Cornelia de sicariis et veneficis avrebbe consentito di propendere a favore della tutela del feto quale entità dotata di una propria autonoma fisicità[104].          

A ben riflettere, pare più corretto propendere per la lesione dell’interesse alla procreazione facente capo al maritus e alla conseguente legittimità della prole: conclusione suffragata dall’elemento testuale, ove il giureconsulto allude alla violenza esercitata dalla donna visceribus suis. La decisione del praeses provinciae di applicare la pena dell’exilium presuppone il procurato aborto realizzato non contro il feto dotato di propria autonomia, altrimenti il riferimento sarebbe stato rivolto non alle viscere materne ma al conceptus stesso[105].

Se si volesse passare al profilo sanzionatorio, tuttavia, sorgerebbero degli interrogativi in merito alla poena applicabile alla mulier. In un simile contesto, infatti, il giureconsulto parla dell’applicazione della pena dell’exilium da parte del praeses provinciae senza specificare però, a differenza di quanto indicatoci da Trifonino, se si fosse trattato o meno di un esilio temporaneo[106]. A tal proposito, però, pare necessario muovere dalla disputa in merito alla genuinità del frammento, dacché è possibile formulare soluzioni antitetiche.

Se si volesse accogliere la posizione espressa da quella parte della dottrina che propendeva per la genuinità del passo ulpianeo, allora si dovrebbe deporre – in continuità con quanto espressamente indicato da Trifonino – a favore della temporaneità dell’exilium[107]. Al contrario, se si volesse propendere a favore della ricostruzione antitetica, a vantaggio dell’interpolazione compilatoria del passo, allora si dovrebbe concludere nel senso di un esilio non più temporaneo, bensì perpetuo[108].

Di particolare interesse è anche un frammento di Marciano posteriore al 217 d.C. ove viene ripreso, in maniera esplicita, il rescriptum in tema di procurato aborto:

 

D. 47.11.4 (Marcianus libro primo regularum): Divus Severus et Antoninus rescripserunt eam, quae data opera abegit, a praeside in temporale exilium dandam: indignum enim videri potest impune eam maritum liberis fraudasse.

 

In questo caso il giureconsulto avrebbe alluso agli ormai deceduti imperatori Severo e Caracalla – circostanza avvalorata dall’utilizzo del termine divus in apertura del passo –, i quali avrebbero previsto la pena del temporaneo esilio per il procurato aborto della donna.

Si tratta di un testo molto interessante perché contiene un riferimento preciso al temporale exilium che verrà irrogato dal praeses quale diretta conseguenza del procurato aborto; sicché il giurista ci illustra un trattamento repressivo che si pone in continuità con quanto riportatoci da Trifonino in D. 48.19.39. Non soltanto: il giureconsulto avrebbe considerato soggetto attivo del reato la donna quae data opera abegit in quanto deve ritenersi indegno che la stessa possa andare esente da pena a causa del danno arrecato al maritus dal procurato aborto. Sotto questo profilo, il passo illustra un altro aspetto degno di rilievo, al punto che il soggetto attivo del reato andrebbe senza alcun dubbio identificato nella donna sposata – alla luce degli indizi testuali, laddove il giureconsulto allude al pregiudizio arrecato al maritus con l’ausilio della frode –. É prioritario domandarsi non quale significato il giurista attribuisca all’espressione liberis fraudasse quanto, piuttosto, la ragione per cui nel frammento sarebbe assente ogni riferimento al divortium[109]. Nonostante tale lacuna, il passo marcianeo accredita nondimeno un riferimento, seppur implicito, al divortium, giacché il procurato aborto realizzato contro la volontà del maritus avrebbe ammesso il ricorso a tale strumento con colpa attribuita alla donna a vantaggio del maritus[110].

Non pare, dunque, che il testo presenti alcuna contrapposizione con quelli di Trifonino e di Ulpiano versati in D. 48.9.39 e in D. 48.8.8, ma anzi ne costituisca il completamento, persino sotto il profilo del bene giuridico tutelato. Se si accedesse all’idea appena esposta, si potrebbe ipotizzare come la finalità perseguita da Marciano fosse rinvenibile nella necessità di preservare la stabilità e l’integrità della famiglia, in un contesto ove la disposizione dei figli era soggetta alla sola voluntas paterna. A tal proposito, mediante la pena del temporale exilium sarebbe stato predisposto uno strumento idoneo a evitare l’impunità della donna che avesse voluto defraudare il maritus con il procurato aborto[111]. Da ciò conseguiva, dunque, il rinvenimento del bene giuridico tutelato non nella «tutela giuridica del nascituro» o, in alternativa, nella «tutela all’integrità corporea della donna» quanto, piuttosto, nella preservazione «della spes prolis» e siffatta ricostruzione del frammento sembra desumibile dall’espressione «liberis fraudasse» contenuta nel passo medesimo[112].

La peculiarità è anche in questo caso motivata dall’interesse che permea una società prettamente agnatizia come quella romana, alla stessa stregua con cui – come si è in precedenza potuto constatare con riguardo ai passi di Trifonino e di Ulpiano – giustificano la tutela volta a garantire l’interesse esclusivo del maritus ad ottenere una (legittima) discendenza[113].

Ponendosi in continuità con quanto sinora esposto, si può accedere all’idea secondo cui il conceptus altro non è se non portio mulieris vel viscerum, allora si sarebbe indotti a pensare che l’attentato alla vita del futuro nato è da intendersi quale pregiudizio materno. Questa sembra essere l’interpretazione da doversi impiegare con riguardo a:

 

D. 48.19.38.5 (Paulus libro quinto sententiarum): Qui abortionis aut amatorium poculum dant, etsi id dolo non faciant, tamen quia mali exempli res est, humiliores in metallum, honestiores in insulam amissa parte bonorum relegantur: quod si ex hoc mulier aut homo perierit, summo supplicio adficiuntur[114].

 

Nel testo paolino, il giureconsulto allude alla somministrazione di una sostanza abortiva o amatoria che, sebbene sia avvenuta senza dolo, ammetterebbe nondimeno l’applicazione, seppur diversamente modulata, del trattamento punitivo, in quanto mali exempli res est. Per questa ragione, si ricorre alla poena del metallum per gli humiliores e alla relegatio in insulam con contestuale perdita di parte dei beni per gli honestiores. Nel prosieguo Paolo riporta il caso in cui l’assuntore della sostanza – mulier aut homo – sia perito in conseguenza dell’ingestione della stessa: in questa ipotesi viene meno la distinzione sopra richiamata e l’autore del reato risponde con il summo supplicio.

Si intravede, allora, la preoccupazione del giurista di sanzionare la somministrazione di pocula abortionis o di pocula amatoria valendosi di una tendenza repressiva – articolata diversamente a seconda che si tratti di un soggetto appartenente alla categoria degli honestiores o degli humuliores – atta a ergersi a regola destinata a lasciare spazio alla situazione eccezionale che emerge in caso di morte quale diretta conseguenza dell’ingestione della sostanza abortiva o amatoria[115]. Viene, dunque, riconosciuta la «complicazione» – volendo riprendere la terminologia adottata dal Nardi – nel caso in cui sopraggiunga la morte: in questa ipotesi il reo sarà tenuto a soggiacere al summo supplicio avendo con la sua condotta integrato omicidio colposo, dovendosi ritenere escluso l’elemento intenzionale in forza dell’espressione contenuta nella testimonianza paolina[116].

Che si avesse riguardo ad una logica finalizzata alla preservazione dell’ordine pubblico costituito[117] nulla quaestio: si tratterebbe di una osservazione desumibile dal tenore letterale del passo, laddove il giureconsulto alludeva esplicitamente al cattivo esempio – mali exempli res est si legge nella testimonianza – con riferimento alla somministrazione di pocula amatoris e di pocula abortionis. In verità, si può osservare come la scelta di reprimere più aspramente il procurato aborto dal quale sarebbe scaturita la morte dell’assuntore della sostanza risponde all’esigenza di preservare la salute dai possibili rischi derivanti dall’ingestione della stessa[118].

Sebbene il passo appena riportato non alluda esplicitamente al procurato aborto, non si può comunque esimersi dal rilevarne le ricadute sotto un duplice aspetto: in primo luogo, la somministrazione dei pocula sarebbe stata un valido strumento per favorire la pratica abortiva[119] e, in secondo luogo, il bene giuridico tutelato non si discosta da quelli sovente oggetto di difesa nei casi di repressione di siffatto reato.

Con riguardo a questo profilo, il giureconsulto avrebbe invocato il procurato aborto realizzato da terzi come indizio favorevole al riconoscimento della pratica abortiva con specifico riferimento alla testimonianza paolina, avvalendosi anche del dato testuale risultante dal qui. Ma ecco che siffatta lettura del passo pone in collegamento l’allusione alla mulier con il vocabolo homo che si rinviene nella testimonianza paolina con riguardo al soggetto passivo del reato. In questa prospettiva, secondo taluni, è probabile che il giurista alludesse al conceptus[120] la cui morte sarebbe stata provocata proprio dall’ingestione di pocula abortionis o di pocula amatoria[121]. Diversamente, secondo altri autori, la persona offesa dal reato andrebbe scorta nel supplizio arrecato alla madre anziché al futuro nato. Chi[122], infatti, ha letto la testimonianza in connessione con i brani che negano autonomia identitaria al conceptus – in particolar modo alludo a D. 25.4.1.1 , tende ad accreditare il ruolo svolto dalla donna, seppur dubbiosa – non essendo possibile rinvenire alcun accenno nel frammento in disamina – sia da considerarsi la sua completa estraneità al fatto. A ben riflettere, infatti, se emerge prima facie dalla lettura del frammento che l’espressione id dolo non faciant fosse riferibile a qui abortionis aut amatorium poculum dant, non altrettanto pacificamente si può riproporre siffatta esclusione con riguardo all’assuntore della sostanza. Si deve dunque concludere che, con riguardo a quest’ultima categoria di soggetti, l’esclusione tout court dell’elemento volitivo parrebbe non trovare alcun riscontro nel passo alla luce del lessico di cui si è avvalso il giureconsulto e che si limiterebbe sic et simpliciter ad escludere il dolo per il somministratore dei pocula amatoria e dei pocula abortionis[123].

 

 

4. – Elementi repressivi nelle codificazioni teodosiana e giustinianea

 

Vale ora la pena volgere l’attenzione alla legislazione codicistica e novellare, dalla quale possiamo trarre elementi utili ai fini della corretta comprensione dell’evoluzione della concezione del feto, da un lato, e della repressione del fenomeno abortivo, dall’altro lato.

Innanzitutto, è opportuno esaminare una costituzione di Costantino del 331, indirizzata al prefetto del pretorio:

 

CTh. 3.16.1: (Imp. Constantinus A. ad Proculum): Placet mulieri non licere propter suas pravas cupiditates marito repudium mittere exquisita causa..., nec vero maritis per quascumque occasiones uxores suas dimittere, sed in repudio mittendo a femina haec sola crimina inquiri... In masculis etiam, si repudium mittant, haec tria crimina inquiri convenient, si moecham vel medicamentariam vel conciliatricem repudiare voluerint ... (331).

 

La testimonianza individua le tres causae in presenza delle quali l’uomo avrebbe potuto legittimamente invocare il repudium contro la propria uxor, ovverosia: si moecham vel medicamentariam vel conciliatricem. Si tratta di ipotesi circoscritte e quantitativamente limitate, dato che l’imperatore avrebbe escluso un ricorso spasmodico e incontrollato a tale strumento circostanza, quest’ultima, che ben si può trarre dall’esegesi del testo, laddove si impedisce il ricorso al repudium propter suas pravas cupiditates con riguardo all’uxor, ovvero per quascumque occasiones con riferimento al maritus[124].

Se è certo chi sono la donna adultera e quella conciliatrix, altrettanto non si può dire con riguardo all’uxor che si avvale dei medicamenta. A tal proposito, due diversi rilievi possono essere mossi: in primis la costituzione costantinianea necessita di essere posta in relazione con Plutarchus, Rom. 22.3 per valutarne gli eventuali punti di connessione mentre, in secondo luogo, è necessario esaminare la possibile attinenza dell’utilizzo dei medicamenta con il fenomeno abortivo.

Per quanto attiene all’aspetto dapprima individuato, è opportuno riflettere sulla connessione tra CTh. 3.16.1 e Plutarchus, Rom. 22.3, in particolar modo con riguardo a quella parte del frammento ove Plutarco annovera tra le iustae causae repudii l’π φαρμακεα[125]. Tale pratica veniva assimilata alla predisposizione di sostanze medicinali e farmacologiche; circostanza che presenta un andamento lineare rispetto all’utilizzo dei medicamenta così come inteso in CTh. 3.16.1 [126]. D’altra parte, occorre ricordare che il bene giuridico tutelato cui va ricondotta la tutela apprestata da entrambe le testimonianze è il medesimo e pare doversi ricondurre alla preservazione delle aspettative dell’uomo attinenti alla procreazione e alla legittimità della prole. Dunque, è plausibile che il feto fosse ancora una volta considerato come soggetto sprovvisto di una propria autonomia identitaria e che la tutela non fosse da garantire nei suoi riguardi, bensì a vantaggio del pater. Sebbene questa considerazione, pare di poter considerare inerente all’aborto solo Plutarchus, Rom. 22.3, in quanto l’aspetto cruciale va scorto nell’avvelenamento dei figli (π φαρμακεα) che, oltre ad essere una pratica propria del genere femminile, segna il punto di svolta.  

Con riguardo al secondo profilo, invece, si tratta di stabilire se la donna facesse uso di medicamenta – con finalità abortiva – o se, per converso, il brano non alluda all’ingestione quanto, piuttosto, alla predisposizione di medicamenta. Si tratta, invero, di un profilo intimamente connesso con il punto precedentemente analizzato, che farebbe ritenere plausibile l’estraneità del passo rispetto all’ambito di attinenza proprio dell’aborto[127]. Si deve infatti osservare come soltanto in Plutarchus, Rom. 22.3 è possibile scorgere degli indizi testuali – tra i quali, ad esempio, il riferimento al τκνων – dai quali far conseguire la certa predisposizione di medicamenta con finalità abortiva laddove, per converso, in CTh. 3.16.1, Costantino avrebbe considerato tra le iustae causae repudii la moglie dedita alla produzione di medicamenta senza, però, riconnetterli alla voluntas di arrecare l’annientamento della vita del conceptus[128].

Si ricorda poi:

 

C. 5.17.11.2 (Imp. Iustinianus A. Hermogeni magistro officiorum): Inter culpas autem uxoris constitutionibus enumeratas et has addimus, si forte uxor sua ope vel ex industria abortum fecerit, vel ita luxuriosa est, ut commune lavacrum viris libidinis causa habere audeat, vel, dum est in matrimonio, alium maritum fieri sibi conata fuerit (a. 533).

 

La testimonianza lascerebbe intendere come, tra le svariate colpe addebitabili alla moglie nelle diverse costituzioni, sia necessario novellare anche il procurato aborto. Nel caso di specie, dunque, Giustiniano avrebbe consentito di criminalizzare l’aborto e di farlo rientrare tra le iustae causae repudii superando, in tal modo, quanto previsto da Costantino in CTh. 3.16.1 e assommandolo alle altre cause di legittimo ripudio individuate dalle costituzioni precedenti[129].

É prioritario domandarsi, anche in questo caso, quale fosse il bene giuridico tutelato. Il fatto che depone a favore, ancora una volta, di una preservazione di interessi tipicamente maschili sembra doversi riscontrare nel dato testuale, laddove si ricava come dato essenziale l’enucleazione dell’aborto quale iusta causa repudii. In sostanza, Giustiniano non avrebbe alterato il principio radicato nel tessuto romano che portava a considerare il conceptus quale parte delle viscere materne e, come tale, sprovvisto di autonomia identitaria[130].

Infine, suscita interessanti riflessioni e si riallaccia alle descritte problematiche:

 

Nov. 22.16.1: ... Ε γρ γυν τοσαύτ κατέχοιτο πονηρί, ς κα ξεπίτηδες μβλναι κα τν νδρα λυπσαι κα φελέσθαι τς π τος παισν λπίδος, κα τοσατα τ τς κολασίας στν ς κα νδράσι κατ τρυφς πρόφασιν συλλούεσθαι, κα ως συνέστηκε τ πρς τν νδρα συνοικέσιον πρς τέρους περ γάμων αυτς διαλέγοιτο· δεια δέδοται παρ' μν τος νδράσι πέμπειν ατας επούδια, κα κερδαίνειν τς προκας κα τς προγαμιαίας χειν δωρεάς[131] ...

 

Anche dal tenore della novella riportata, emerge come il procurato aborto della moglie avesse acquisito rilievo quale autonoma iusta causa di ripudio. A tal riguardo, infatti, si può notare come l’uxor che, mossa da tanta nequizia, abbia procurato un aborto arrecando, di conseguenza, afflizione al marito che sarebbe stato privato della speranza di avere figli, possa essere legittimamente ripudiata. A questa iusta causa di ripudio nella novella se ne accostano altre due: la prima riguarda la donna che tanta libido est ut etiam cum viris voluptatis occasione lavetur, mentre la seconda ipotesi attiene alla moglie che dum adhuc constet cum viro matrimonium, ad alios de nuptiis suis loquatur. Ecco che, in tutte queste ipotesi, al maritus è consentito non soltanto di ripudiare la propria uxor, ma anche di lucrare della sua dote e di riottenere le donazioni antenuziali[132].

La questione fondamentale che emerge dalla testimonianza è ancora una volta riscontrabile – alla pari di quanto si poteva rinvenire nei passi precedentemente analizzati nella lesione delle aspettative dell’uomo attinenti alla procreazione e alla legittimità della prole.

Chi, poi, ha letto la novella in connessione al sopra riportato Plutarchus, Rom. 22.3, tende ad accreditare il ruolo svolto dall’espressione φαρμακεα τκνων che, in maniera non dissimile da quanto ut supra rilevato con riguardo a CTh. 3.16.1, avrebbe costituito un valido trait d’union tra le due testimonianze testé citate[133]. Si può però ipotizzare che si tratti di un raccordo apparente e questa considerazione pare radicarsi nella terminologia adoperata da Giustiniano nella formulazione della novella, laddove l’imperatore allude ad un’aggiunta di tre iustae causae repudii rispetto a quelle previste da Teodosio – Ταύτας μν ον τς ατίας μν Θεοδόσιος φηγήσατο. μες δ κ τν παλαιν λαβόντες κα τέρας προσεθήκαμεν τρες si legge nella testimonianza[134] –. 

Alla luce di questa osservazione, sebbene non si possa esimersi dal rilevare un collegamento tra le due testimonianze[135], non pare di poter, però, ammettere la ricomprensione dell’aborto nel novero delle iustae causae repudii come elemento connotante l’intera esperienza giuridica romana.

A tal proposito, infatti, la formulazione letterale della novella tende, per così come è enunciata, ad escludere che l’aborto – almeno quello procurato tramite l’utilizzo di sostanze venefiche o farmacologiche – fosse stato, senza soluzione di continuità, considerato rilevante nel contesto romano. Non a caso, Giustiniano parla di un’aggiunta di questa ipotesi nel novero delle iustae causae repudii circostanza dalla quale discende l’elemento di novità dapprima contenuto in CTh. 3.16.1 e poi riversato in Nov. 22.16.1.

A sostegno di questa ricostruzione, vale la pena ricordare come la produzione giustinianea successiva al 542 abbia nuovamente eliso il raccordo intercorrente tra il procurato aborto e le iustae causae repudii, giacché non sarebbe più stato ricompreso nel novero. Ne sarebbe risultato un riassestamento rispetto alla situazione esistente prima del 533 [136].

In un simile contesto, appare coerente che la Nov. 117.8 abbia delineato una disciplina generale relativa alle iustae causae repudii ove non è più da ritenersi ricompreso il procurato aborto dell’uxor[137].

 

 

5. – – Riflessioni conclusive

 

Vi sono fondate ragioni per ritenere che le concezioni del conceptus e del procurato aborto nel corso dell’esperienza storica romana siano in gran parte tributarie dell’elaborazione concettuale fornita dai giuristi delle diverse epoche. 

A tal proposito, l’analisi delle testimonianze del periodo arcaico (Plutarchus, Rom. 22.3 e Dionysius Halicarnassensis, Ant. Rom. 2.25.6) prima, della giurisprudenza (D. 48.19.39 [Tryphoninus libro decimo disputationum]; D. 48.8.8 [Ulpianus libro trigensimo tertio ad edictum]; D. 47.11.4 [Marcianus libro primo regularum]; D. 48.19.38.5 [Paulus libro quinto sententiarum]) poi e della produzione codicistica e novellare (CTh. 3.16.1 [Imp. Constantinus A. ad Proculum, a. 331]; C. 5.17.11.2 [Imp. Iustinianus A. Hermogeni magistro officiorum, a. 533]; Nov. 22.16.1) infine, consente di scorgere nella natura quasi simbiotica tra il conceptus e la madre il trait d’union dal quale far discendere la protezione dell’interesse agnatizio alla procreazione[138].

Nel periodo arcaico le informazioni traibili da Plutarchus, Rom. 22.3 e Dionysius Halicarnassensis, Ant. Rom. 2.25.6 convergono verso l’enucleazione del procurato aborto realizzato tramite l’uso di sostanze farmacologiche e vinose nell’alveo delle iustae causae repudii, laddove ad essere compromesso era il desiderio paterno della filiazione. Il quadro delineato nella produzione plutarchea e dell’Alicarnassense[139] pare immutato nelle testimonianze giurisprudenziali poi versate nel Digesto ove, ancora una volta, il conceptus sembrava essere sprovvisto di tutela a favore della difesa degli interessi paterni, sebbene la repressione non fosse più limitata alla sfera privata ma avesse assunto un rilievo pubblicistico[140].

Si badi che, proprio in questo contesto, si assisteva a un avvicendarsi della giustizia pubblica in luogo del iudicium domesticum e, di pari passo, si scorgeva un allentamento degli strumenti repressivi, laddove l’unica giustificazione che consentiva il ricorso al divortium in caso di procurato aborto sarebbe stata la culpa mulieris[141]. A siffatta lacuna sopperì soltanto il sopraggiungere della cognitio extra ordinem, che avrebbe garantito la repressione sistematica dei casi di procurato aborto: in un simile contesto ben si è inserita la prima testimonianza di sanzione esplicita del medesimo nel contesto romano, rinvenibile nel rescriptum degli imperatori Severo e Caracalla, per effetto della quale il procurato aborto viene accluso nel novero dei crimina extraordinaria[142].

Sotteso, infine, alla produzione codicistica e novellare, vi era sempre il medesimo interesse, indice di una precisa inclinazione che rende il procurato aborto della donna uno «fra gli atti più gravi imputabili ad una sposa»[143]. In questa prospettiva sarebbe stato possibile rilevare come tale fatto di reato dovesse essere ricompreso nel catalogo delle iustae causae repudii ponendosi, dunque, in stretta connessione con quanto già previsto nelle leges regiae di antica memoria. Si badi, però, che si sarebbe trattato di «una meteora che dura soltanto dal 533 al 542»[144] in quanto, già con la Nov. 117.8, Giustiniano avrebbe svincolato il procurato aborto dalle iustae causae repudii consentendo di ripristinare lo status quo ante.

Pur trattandosi di fenomeno sfaccettato, sussistono comunque elementi sufficienti per delineare un quadro d’insieme che legittima una tendenziale propensione verso la repressione di un fenomeno ingenerato dalla «decadenza dei costumi» e inteso quale «attentato all’ordine familiare e sociale», segno di «una inaccettabile autonomia femminile»[145].

 

 

Abstract

 

 

La tematica relativa all’aborto è sempre stata centrale nell’antichità e, in particolar modo, nel contesto romano, ove l’assetto giuridico viveva in perfetta sintonia con quello sociale e con la scienza medica. È proprio all’interno di siffatto contesto che sono emerse, sia nella produzione letteraria sia in quella giuridica, diverse accezioni per indicare il concepito, alle quali avrebbe fatto da contrappeso – sin da epoca assai remota – un regime sanzionatorio particolarmente duro verso la donna, considerata la sola e unica artefice cui addebitare la compromissione del desiderio paterno di filiazione; né deve stupire che già Plutarco e Dionigi di Alicarnasso avessero fatto rientrare il procurato aborto nel novero delle iustae causae repudii. Esso avrebbe assunto, in progresso di tempo, rilievo pubblicistico, per poi essere stabilmente inserito tra i crimina extraordinaria, pur continuando a persistere la medesima finalità, vale a dire la repressione di una delle colpe reputate più odiose, insieme all’adulterio, di cui la donna potesse macchiarsi.

 

The issue concerning abortion has always been very important in antiquity and, in particular, in the Roman context, where the legal framework lived in perfect harmony with the social framework and with medical science. It is exactly within this context that different meanings appeared, in both literary and legal production, to define the unborn, which would have been offset by a particularly harsh treatment, from the earliest times, towards the woman, who would have been considered the one and only author to whom the undermining of the paternal desire for filiation would have been charged. In fact, it is not surprising that Plutarch and Dionysius of Halicarnassus had already included procured abortion among the iustae causae repudii. Over time, it would take on public importance, and then be permanently included among the crimina extraordinaria, although the same purpose would continue to persist, i.e. the repression of one of the most odious offences, together with adultery, that women could be guilty of.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind. Continuano ad essere valutati i fuori ruolo delle Università italiane; mentre per gli studiosi stranieri valutazione solo se richiesta.]

 

[1] Si tratta di una terminologia riconducibile a D. 25.4.1.1 (Ulpianus libro vincesimo quarto ad edictum), ove il giureconsulto si avvale proprio di questa espressione per identificare il conceptus: orientamento abbracciato da L. PERLA, voce Aborto (dir. rom.), in Enciclopedia Italiana, I, Roma 1929, 111, affermando che «nel diritto romano non era stabilita alcuna sanzione diretta espressamente alla repressione del procurato aborto, giacché il feto era considerato parte integrante delle viscere materne».

[2] Rimonta a G. GATTA, Aborto una storia dimenticata. L’aborto nelle credenze popolari nelle religioni nella filosofia nelle legislazioni dal 500 a.C. ai giorni nostri, Bologna 1997, 99 la classificazione messa in luce: ad avviso dello studioso, si tratterebbe di metodi da utilizzare «nello stesso ordine in cui li abbiamo posti nell’elenco».

[3] L. PERLA, voce Aborto, cit., 111. 

[4] Alla concretezza concettuale alludono, tra i molti, M.P. BACCARI VARI, Concepito: l’antico diritto per il nuovo millennio, Torino 2004, 1; EAD., Sette note per la vita, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 70, 2004, 507 s., ora in Diritto alla vita: tra ius e biotecnologie, I. La difesa del concepito, Torino 2006, 1 s.; EAD., Successioni e persone concepite (da Gaio a Giorgio La Pira), in Studi in onore di R. Martini, I, Milano 2008, 127; EAD., Curator ventris. Il concepito, la donna e la res publica tra storia e attualità, Torino 2012, 6 ss. e 40 s.; EAD., Homines in ventre, in Individui e Res Publica. Dall’esperienza giuridica romana alle concezioni contemporanee. Il problema della persona, in Atti del Seminario Internazionale ‘Diritto romano e attualità’ [Santa Maria Capua Vetere - Napoli, 26-29 ottobre 2010], VI, Napoli 2017, 515 ss.

[5] Illuminante pare essere la definizione che di concepito è stata fornita da Giorgio La Pira, riportataci da M.P. BACCARI, Successioni, cit., 128, a tenore della quale «il concepito (conceptus) è ‘già un essere umano: una persona umana; con il concepimento, è già venuta all’esistenza; un essere umano nuovo’».

[6] Sulla rilevanza dell’autonomia del concepito dalla madre, cfr. C. TERRENI, Me puero venter erat solarium. Studi sul concepito nell’esperienza giuridica romana, Pisa 2008, 81; P. FERRETTI, In rerum natura esse in rebus humanis nondum esse. L’identità del concepito nel pensiero giurisprudenziale classico, Milano 2008, 65 (sebbene gli autori si riferissero esplicitamente a quanto contenuto in D. 1.5.26 [Iulianus libro sexagensimo nono digestorum]) e, per una dimensione più generalizzata, F. LAMBERTI, Concepimento e nascita nell’esperienza giuridica romana. Visuali antiche e distorsioni moderne, in Serta Iuridica. Scritti dedicati dalla facoltà di Giurisprudenza a F. Grelle, I, Napoli 2011, 311.

[7] Sull’inquadramento del conceptus quale soggetto sprovvisto di una propria autonomia identitaria, cfr. Y. THOMAS, Le «ventre». Corps maternel, droit paternel, in Le genre humain 14, 1986, 211 ss.; B. ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 11 s., a parere del quale, sebbene il concepito non fosse mai stato considerato «persona, bensì parte della madre», non fu mai trattato alla stregua di «un nulla giuridico», reputando lo stesso «in qualche modo in rerum natura» anche se «non è in rebus humanis», ammettendone una sua «personalità giuridica potenziale». Non dissimili paiono essere le conclusioni formulate da M. BALESTRI Fumagalli, Spes vitae, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 70, 1983, 341 s., a parere della quale «il concepito non può considerarsi esistente in rebus humanis prima del distacco dalla madre» e, in tempi più recenti, da E. Bianchi, A proposito del concepito e delle locuzioni «in rerum natura esse» e «in humanis rebus non esse». Riflessioni e considerazioni su una recente monografia, in Rivista di diritto romano 9, 2009, 1 ss.

[8] Si pensi agli spunti proposti in argomento da E. Albertario, Conceptus pro iam nato habetur, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 13, 1923, 1 e 4 ss., ora in Studi di Diritto Romano. Persone e famiglia, I, Milano 1933, 48 ss.; ID., Conceptus pro iam nato habetur (Postilla), in Archivio Giuridico 99, 1928, 151 ss.; P. Catalano, Osservazioni sulla persona dei nascituri alla luce del diritto romano (da Giuliano a Teixeira de Freitas), già in Rassegna di Diritto Civile 9, 1988, 45 ss., ora in Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, I, Torino 1990, 195 ss., a parere del quale sarebbe necessario realizzare una parificazione «ontologica tra nascituro e nato». Analoghe paiono essere le conclusioni formulate sul punto, in tempi recenziori, da E. Bianchi, Astrazioni e finzioni in tema di «personae». Il concepito. Attualità e concretezza del pensiero lapiriano, in Index 34, 2006, 117, il quale ricorda come, nonostante si tratta di un’interpretazione foriera di rilievi in tema di interpolazione, nondimeno viene condivisa dalla miglior dottrina e da F. Lamberti, Concepimento, cit., 305. L’assimilazione tra il concepito e il nato è traibile anche con riguardo ad altre testimonianze tra le quali sono da ricordarsi, ex plurimis, Gaius, Inst. 1.147 (ove l’equiparazione è tra i postumi e i nati); D. 37.9.7 pr. (Ulpianus libro quadragensimo septimo ad edictum) e D. 50.16.231 (Paulus libro singulari ad senatus consultum Tertullianum).

[9] Cfr. D. 1.5.26 (Iulianus libro sexagensimo nono digestorum) e D. 1.5.7 (Paulus libro singulari de portionibus, quae liberis damnatorum conceduntur). Nel primo frammento il cenno è, ancora una volta, al conceptus quale essere in rerum natura mentre, nel secondo brano, il riferimento è al conceptus quale res humana. Si sofferma sulle due diverse allusioni, E. Bianchi, A proposito, cit., 9, a parere del quale, partendo dal ragionamento condotto dal Catalano (P. Catalano, Osservazioni, cit., 196 ss.) arriva ad affermare che «il conceptus è sempre riconosciuto in rerum natura e, in molti ambiti del diritto, riceve trattamento giuridico al pari di coloro che sono in rebus humanis».

[10] Così E. Albertario, Conceptus, cit., 4 s. Cauta pare invece essere la posizione di F. Lamberti, Concepimento, cit., 312 s. e 323 s. con riguardo ai due piani – resi espliciti anche nella riflessione dell’Albertario – relativi agli aspetti fisiologico-naturalistici e giuridici del concepito. A parere della studiosa, infatti, si intravedeva nel pensiero dei giuristi romani una necessità di giungere a un contemperamento di esigenze diverse, ammettendo che il loro agire discrezionale e casistico avesse consentito, talvolta, di considerare il concepito quale soggetto dotato di una propria autonomia rispetto al ventre materno, mentre, in altre occasioni, di «riconnettere al dato del concepimento una serie di effetti giuridici destinati a svilupparsi ulteriormente in un momento successivo al parto».

[11] A tale conclusione giungono E. Nardi, Aborto e omicidio nella civiltà classica, in Atti dell’Accademia delle Scienze dell’istituto di Bologna 75, 1978-79, 16 s., anche in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, herausgegeben von H. Temporini, XIII.2, Berlin - New York 1980, 376 s., anche in a parere del quale «prima della nascita, si batte e ribatte, il feto non è ‘in rebus humanis’, cioè uomo fra gli uomini». Non a caso, non gli si può garantire la medesima tutela riconosciutagli a seguito del suo venire al mondo, sebbene sia necessario «salvaguardarlo» al fine di «riservargli infatti tutti i diritti per il tempo della nascita», giacché dello stesso «si può tener conto soltanto se questo giovi a lui». Non dissimili paiono essere le conclusioni formulate, in tempi recenziori, da P. Ferretti, In rerum natura esse, cit., 65 e F. Lamberti, Concepimento, cit., 311 s. Lo studioso precisa che, sebbene le due espressioni riconoscano un’autonomia al concepito rispetto alla madre, tra loro si registra una discrasia con riguardo alla fonte che legittimava predetta autonomia. Infatti, a suo avviso, bisognava contrapporre la locuzione in rerum natura fondata sull’«essere naturale delle cose» all’espressione in rebus humanis che abbisognava del commodum per garantire l’autonomia del concepito. Quanto alla riflessione sui commoda con riguardo a D. 1.5.26 e D. 1.5.7, cfr. O.M. Péter, Si rixati fuerint viri et percusserit quis mulierem praegnantem. Il valore della vita del nascituro e l’aborto nei diritti dell’antichità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 58, 1992, 225; F. Zuccotti, Vivagni. VIII, in Rivista di Diritto Romano 8, 2008, 7 s. Circa il rilievo del commodum nel contesto romano, cfr. il contributo di C. Castello, Sulla condizione del figlio concepito legittimamente e illegittimamente nel diritto romano, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 4, 1950, 290, a parere del quale «con l’introduzione del commodum nel diritto romano ... il concepimento non poteva essere invocato da alcuno se non a vantaggio esclusivo del nascituro». In particolare, con riguardo al commodum quale «discriminante tra le ipotesi in cui il feto è considerato esistente agli effetti del diritto e quelle in cui invece non lo è», cfr. F. Zuccotti, Vivagni, cit., 110. In relazione, invece, alle espressioni in rerum natura e in rebus humanis, v. P. Cerami, D. 39,5,21,1 (Cels. 28 DIG.) (Una controversa testimonianza celsina in tema di delegatio promittendi donationis causa), in Studia et Documenta Historiae et Iuris 44, 1978, 180 s. e nt. 96; M. Balestri Fumagalli, Note minime sulla speranza, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995, 868 s.; Y. Thomas, L’enfant à naître et l’«héritier sien». Sujet de pouvoir et sujet de vie en droit romain, in École des Hautes Études en Sciences Sociales 1, 2007, 31, il quale asserisce che la prima locuzione alludesse al «monde naturel», mentre l’espressione in rebus humanis attenesse alla «société des humains».

[12] Per questa condivisibile interpretazione dell’avverbio ‘quodammodo’, cfr. C. Terreni, Me puero, cit., 118, la quale ammette l’esistenza di «un accenno discreto al carattere convenzionale della sincronia tra concepimento e presenza in rerum natura affermata nell’ambito del diritto».

[13] In argomento, va richiamata la riflessione condotta da E. Albertario, Conceptus, cit., 3 ss., a tenore della quale sebbene sia possibile propendere, con riguardo a un gruppo di testi, per una «condizione fisiologica del concepito» e per una «condizione giuridica» con riguardo all’altro insieme di frammenti, nondimeno si deve dare accoglimento alla visione secondo la quale si tratterebbe di testimonianze che non si escludono reciprocamente, bensì «si illuminano a vicenda» in quanto la «nozione  giuridica» è possibile solo laddove sostenuta dall’«aspetto fisiologico».

[14] Alludo, a tal proposito, a Gaius, Inst. 2.203; D. 7.7.1 (Paulus libro secundo ad edictum); D. 25.4.1.1 (Ulpianus libro vincesimo quarto ad edictum); D. 30.24 pr. (Pomponius libro quinto ad Sabinum); D. 35.2.9.1(Papinianus libro nono decimo quaestionum); D. 37.9.1 pr. (Ulpianus libro quadragensimo primo ad edictum); D. 38.16.1.8 (Ulpianus libro duodecimo ad Sabinum); D. 44.2.7.3 (Ulpianus libro septuagensimo quinto ad edictum).

[15] All’idea del conceptus quale «portio mulieris» che «impedirebbe di conferirgli un’identità separabile da quella materna» sembra accedere, C. Terreni, Me puero, cit., 30 e 119 ss.

[16] Sul punto, rilevava C. Terreni, Me puero, cit., 88 s. e 94 ss., come non fosse opportuno considerare esistenti «nell’ambito del reale» coloro che qui in utero sunt quanto, piuttosto, fosse più corretto pensare al conceptus quale entità dotata di «una specifica identità». Il concepito avrebbe assunto rilievo, dunque, non soltanto sotto il profilo naturalistico e reale, ma anche sotto il profilo giuridico, laddove si scorgeva una «idoneità di colui che ‘qui in utero est’ a costituire il centro di riferimento di situazioni giuridiche soggettive». Per una disamina del frammento, cfr. altresì, seppur brevemente, M. Balestri Fumagalli, Spes vitae, cit., 337 ss., in particolare, 340 e 349 s.; J. García-Granero Fernández, “Sallio el fijo, visto et oydo”, in Anuario de Historia del Derecho Español 55, 1985, 404; P. Ferretti, In rerum natura esse, cit., 38; Lefebvre-Teillard, ‘Infans conceptus’. Existence physique et existence juridique, in Revue Historique de Droit Français et Étranger 4, 1994, 500; W. Waldstein, Römische Rechtswissenschaft und wahre Philosophie, in Index 22, 1994, 38 e 44; J. Gaudemet, Membrum, persona, status, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995, 3; M.V. Sanna, La rilevanza del concepito nel diritto romano classico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 75, 2009, 202 ss.

[17] Alludevano alla fictio anche P. Catalano, Osservazioni, cit., 199 s.; E. Bianchi, Per un’indagine sul principio conceptus pro iam nato habetur. (Fondamenti arcaici e classici), Milano 2009, 248 ss.; ID., Astrazioni, cit., 113 ss. e, in particolare, 118, laddove lo studioso, riesaminando il ragionamento condotto da La Pira (il quale propendeva per l’identificazione del conceptus quale entità «da considerare» – e non da fingere – in rerum natura), evidenzia come vi fossero due orientamenti antitetici in dottrina. Secondo un primo indirizzo, il concepito andava considerato quale entità già esistente in rerum natura mentre, volendo dar seguito al secondo orientamento, veniva ammessa l’esistenza di una fictio a tenore della quale il conceptus era da intendersi quale soggetto già nato. In maniera non diversa si esprime M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 147 ss. e, in particolare, 155 ss., la quale, dopo aver brevemente ripercorso entrambi gli orientamenti dottrinali, osservava sia «in rerum natura tutto ciò che può essere considerato esistente oggettivamente sotto un profilo naturalistico»; circostanza peraltro avvalorata da alcune testimonianze ove «non si afferma mai, infatti, che il concepito è in rebus humanis, ma che non lo è, non lo è ancora, o che è come se lo fosse». Per quanto attiene alla considerazione del concepito quale essere in rerum natura, cfr., oltre, nt. 18.

[18] Così si è espresso B. Albanese, Le persone, cit., 12, la cui posizione è stata condivisa, in tempi più recenti, da M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 165 s., la quale correttamente constata come nelle fonti in nostro possesso non vi fosse alcun caso nel quale «il concepito è in rebus humanis» quanto, piuttosto, emergeva «che non lo è ancora, o che è come se lo fosse». Non a caso, «si può essere considerati in rebus humanis solo quando si è venuti alla luce» sebbene, anche prima di questo momento, «il concepito è già considerato in rerum natura perché esistente in quanto tale durante la gravidanza, non come portio mulieris, ma come entità autonoma» e da F. Lamberti, Concepimento, cit., 329 s. In argomento la Terreni (C. Terreni, Me puero, cit., 149) avrebbe ammesso l’esistenza di una corrispondenza «fuori discussione» tra «la formula perinde ac si in rebus humanis esset» e la locuzione «pro iam nato». Sulla «necessità di salvaguardare il frutto del concepimento nell’attesa che giunga a maturazione», cfr. M. Balestri Fumagalli, Note minime, cit., 869.

[19] Si tratta di un’osservazione posta in luce da P. Catalano, Osservazioni, cit., 199 ss.; F. Zuccotti, Vivagni, cit., 8 s. e, in particolare, da C. Terreni, Me puero, cit., 88 ss. e 149, la quale accede all’idea secondo la quale la forma verbale intelleguntur avrebbe consentito di propendere a vantaggio di «una valutazione della creatura in grembo filtrata nell’ottica del diritto per riconoscerle la qualità contemplata, ossia, appunto, l’in rerum natura esse». Si tratterebbe, però, di ricostruzioni osteggiate da E. Bianchi, Per un’indagine, cit., 248 e, in particolare, 298 ss., per il quale il verbo in disamina non può essere inteso sic et simpliciter quale «segno di una mera constatazione», utilizzato quale sinonimo di «riconoscere la realtà», ma necessiterebbe di essere posto in relazione con la fictio. Sulla fictio, cfr. quanto ut supra brevemente esposto alla nt. 17.

[20] La più antica allusione, come ben si evince da M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 155 ss., alla «teoria della finzione» è da addebitarsi a Savigny, il quale per primo ne faceva cenno, sebbene si tratti di un’impostazione fermamente osteggiata da La Pira il quale osservava, al contrario, come il conceptus fosse considerato nel contesto romano come «persona», malgrado «il termine finzione» non abbia mai avuto un riscontro diretto nelle fonti.

[21] B. Albanese, Le persone, cit., 12. Così pure F. Zuccotti, Vivagni, cit., 8 s. Sul punto, va anche richiamato il punto di vista espresso da C. Terreni, Me puero, cit., 149, la quale alludeva, ancora una volta, all’«equiparazione instaurata tra nascituro e nato sotto il profilo della protezione giuridica». Fa cenno, invece, alla tutela del concepito tramite «il meccanismo della riserva di alcuni diritti, considerati quiescenti» dato che gli stessi prenderanno vita solo con l’evento nascita, M. Balestri Fumagalli, Spes vitae, cit., 340 e, in tempi meno recenti, I. Nuñez Paz, Algunas consideraciones en torno al repudium y al divortium, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 30, 1988, 720 nt. 25.

[22] Alludo, in particolare, alla riflessione sul punto condotta da E. Albertario, Conceptus, cit., 4 ss.

[23] Così P. Catalano, Osservazioni, cit., 204; O.M. Péter, Si rixati fuerint, 225; A. Lefebvre-Teillard, Infans conceptus, 499 s.; P. Ferretti, In rerum natura esse, cit., 38 s.; M.P. Baccari, Successioni, cit., 130; EAD., Curator ventris, cit., 51 s.; E. Bianchi, Per un’indagine, cit., 312 s.; M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 166 e nt. 80; EAD., Spes nascendi - spes patris, in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo 55, 2012, 528 ss. Sulle possibili interpolazioni del passo in oggetto, cfr., E. Albertario, ‘Conceptus’, cit., 20 s.

[24] Questa è la posizione di E. Bianchi, A proposito, cit., 313.

[25] Così E. Albertario, Conceptus, cit., 4 ss.; L.R. Alvarez, La tentativa de homicidio en la jurisprudencia romana, in Anuario de Historia del Derecho Español 49, 1979, 33.

[26] Il medesimo brano si può ritrovare, con una formulazione perfettamente sovrapponibile con riguardo alla parte di nostro interesse, nelle Institutiones giustinianee e, precisamente, in I. 2.20.7.

[27] A questa idea accede C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937, 67, il quale osserva come il conceptus ancorché non sia «una cosa esistente ma piuttosto una cosa futura», non poteva considerarsi privo di una propria esistenza. In modo non dissimile E. Bianchi, Per un’indagine, cit., 282 ss., nota come «il sintagma ‘in rerum natura’ viene in considerazione per significare ciò che oggi è esistente in opposizione a ciò che lo sarà in futuro» (284). Accedendo a quest’idea, dunque, Gaio non ammette che «colui che è già stato concepito non esiste», quanto piuttosto sostiene che il conceptus, sebbene inesistente in natura (in quanto non ancora nato), nondimeno godrebbe di un suo essere, sebbene in potenza.

[28] Così C.A. Maschi, La concezione, cit., 68; M. Balestri Fumagalli, Note minime, cit., 869; E. Bianchi, Per un’indagine, cit., 282 ss. Alla netta divergenza intercorrente tra il conceptus e il feto già venuto al mondo alludono F. Lamberti, Studi sui postumi nell’esperienza giuridica romana, I, Napoli 1996, 45 ss. e, in tempi più recenti, M.P. Baccari Vari, Curator ventris, cit., 63 nt. 58. All’apparente contraddizione tra i passi che ammettono l’autonomia del conceptus e quelli che lo considerano quale mera pars delle viscere materne accennava P. Ferretti, In rerum natura esse, cit., 13, il quale ammetteva che il conceptus che «in rerum natura non est» altro non potesse considerarsi se non una «mera parte di un corpo altrui, sprovvisto di una propria individualità».

[29] Cfr., E. Albertario, ‘Conceptus’, cit., 3 ss. Condivide gli approdi raggiunti dall’Albertario, M. Balestri Fumagalli, Spes vitae, cit., 342, a parere della quale «la mancata ricomprensione del concepito nella categoria delle res humanae» sia sintomo del «suo stato fisiologico» avendo, per converso, il Maschi soltanto «svalutato il secondo gruppo di testimonianze».

[30] Così C.A. Maschi, La concezione, cit., 67 s., la cui impostazione è stata condivisa e sviluppata da E. BIANCHI, Per un’indagine, cit., 283 s.

[31] Cfr., sul punto, le indagini condotte da M. Balestri Fumagalli, Spes vitae, cit., 341; EAD., Note minime, cit., 869; J. García-Granero Fernández, “Sallio el fijo, visto et oydo”, cit., 404; A. Lefebvre-Teillard, Infans conceptus, 501; J. Gaudemet, Membrum, persona, status, cit., 3 e nt. 4; P. FERRETTI, In rerum natura esse, cit., 155 ss. e C. Terreni, Me puero, cit., 25 ss.

[32] Mi riferisco, a tal riguardo, alle fonti elencate alla nt. 14.

[33] Cfr., sul punto, G. Galeotti, Storia dell’aborto, Bologna 2003, 23, la quale scorge nella legge delle XII Tavole la prima testimonianza di repudium dell’uxor da parte del maritus «per sottrazione di prole». Il passo sarebbe stato a lungo oggetto di disquisizioni in dottrina in merito ai profili di «attendibilità» e «risalenza del contenuto del testo» all’epoca regia. Cfr., a tal riguardo, E. Nardi, Procurato aborto nel mondo greco romano, Milano 1971, 23. La lex Romuli si inserisce in un contesto dai contorni alquanto frastagliati giacché, come ben ci ricorda P. Giunti, Adulterio e leggi regie. Un reato fra storia e propaganda, Milano 1990, 175 e nt. 219, sebbene la politica matrimoniale ascrivibile al primo re di Roma fosse stata sufficientemente meditata non può non essere intravisto uno spiraglio costituente «l’eco di una tradizione che aveva impersonato in Numa Pompilio il centro propulsore di una primitiva, embrionale legislazione familiare e matrimoniale». Il medesimo interrogativo veniva avanzato anche da G. Gatta, Aborto, cit., 157, a parere del quale non potrebbe considerarsi certo ascrivere a Romolo la lex regia.

[34] Va a tal riguardo condivisa la conclusione di G. Gatta, Aborto, cit., 157, a tenore della quale – sebbene abbia una «portata storica» – la lex regia non può considerarsi quale lex «in senso tecnico», bensì deve intendersi come giustapposizione di molteplici «consuetudini accumulatesi col tempo che testimoniano semplicemente, a grandi linee, la sistemazione del diritto e lo sviluppo della società nelle epoche più primitive della storia romana».

[35] Cfr., sul punto, B. Biondi, Il diritto romano cristiano. La famiglia - rapporti patrimoniali - diritto pubblico, III, Milano 1954, 487. Considera il procurato aborto dell’uxor quale uno «fra gli atti più gravi imputabili ad una sposa» e, proprio come conseguenza della sua pericolosità e ripugnanza, dava «origine ad un’istanza di ripudio esperibile dal merito» F. Cavaggioni, Mulier rea. Dinamiche politico-sociali nei processi a donne nella Roma Repubblicana, Venezia 2004, 60 s. e nt. 40.

[36] Trad. lat. S. Riccobono, in FIRA, 2a ed., I, 9: Constituit quoque leges quasdam, inter quas illa dura est, quae uxori non permittit diuertere a marito, at marito permittit uxorem repudiare propter veneficium circa prolem vel subiectionem clavium vel adulterium commissum; si vero aliter quis a se dimitteret uxorem, bonorum eius partem uxoris fieri, partem Cereri sacram esse iussit ... Sul punto, cfr. anche la versione curata, in tempi più recenti, da G. Franciosi, Leges regiae, Napoli 2003, 48 s.: ’Έϑμκε δ κα νμουϛ τινϛ, ν σφοσδϛ μν στιν γυνακ μ διδοϛ πολείπειν νδϱα, γυνακα δ διδοϛ κβάλλειν π φαϱμακεία τέκνων κλειδν ποβολ κα μοιχευϑεσαν· ε δ’λλως τις ποπέμψαιτο, τς οσίας στο τ μν γυναικς εναι, τ δ τς Δήμητϱος εϱν κελεων …

[37] In particolare, la necessità di soffermarsi sulla commixtio sanguinis e sull’esigenza di garantire la legittimità della prole, è resa esplicita nella lex regia – e in maniera non dissimile, come si vedrà, anche nella testimonianza di fonte grecofona attribuibile a Dionigi di Alicarnasso – dalla necessità di garantire una centralità al «principio di vita estraneo» che viene assunto come punto fermo e dal quale discenderebbe un trait d’union tra l’assunzione di vino e l’adulterium quali fonte di repudium unilaterale dell’uxor. Cfr., a tal proposito, E. Cantarella, I supplizi capitali: origini e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, Milano 1992, 154 s.; G. Rizzelli, Le donne nell’esperienza giuridica di Roma antica. Il controllo dei comportamenti sessuali, Lecce 2000, 39 ss.; F. Cavaggioni, Mulier rea, cit., 220. Una «commixtio sanguinis irreversibile» viene scorta da P. Giunti, Adulterio, cit., 168 ss., laddove l’assunzione di vino da parte della donna sposata si rifletterebbe sulla certezza e sulla purezza della prole, giacché «come l’adulterio, dunque, l’ingestione della bevanda alcolica distrugge l’integrità biologica – e giuridico-religiosa al contempo – di quel nucleo familiare». Alla medesima conclusione sembra giungere anche A. López Güeto, El derecho romano en feminino singular. Historias de mujeres, Madrid 2018, 32, laddove sosteneva come «hay autores que relacionam la bebida con el adulterio, porque el vino tenía un principio de vida, de forma que beberlo se equiparaba a mantener relaciones sexuales». Diversamente ritiene però C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Parte prima, Roma 1994, 158, la quale, si fa portavoce di una interpretazione che, per quanto suggestiva, non sembra condivisibile. A parere della studiosa, infatti, sebbene nel contesto romano si rinvengano «tracce dell’uso del sangue mescolato al vino in riti di alleanza o in occasione di congiure», non si sarebbe comunque potuta sostenere l’esistenza della «equiparazione simbolica del vino al sangue» per due ordini di ragioni. In primo luogo, infatti, si sarebbe trattato di soli «riti riservati agli uomini», ma soprattutto, se si ammettesse la sua sussistenza, allora si dovrebbe concludere a favore di un divieto generalizzato nei confronti della donna dall’assunzione non soltanto del temetum, ma di «ogni altra specie di vino», giacché qualsiasi sostanza vinosa immessa nel corpo femminile sarebbe stata una sostanza terza rispetto al suo corpo e, come tale, sarebbe stata interdetta in quanto «principio di vita estraneo». Alla commixtio sanguinis quale circostanza comune tanto all’adulterium muliebre, quanto all’aborto realizzato mediante l’ingestione di sostanza venefiche, alludeva altresì L. Minieri, «Vini usus feminis ignotus», in Labeo 28, 1982, 154, il quale osservava come anche a Roma si trovasse traccia dell’«equazione sangue-vino» e, in particolar modo, il sangue veniva inteso come «sede e veicolo di vita». Quanto al repudium nella testimonianza plutarchea, cfr. T. Trincheri, A Plutarco: «Romolo, C. 22», in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 2, 1889, 248 ss. e I. Piro, Unioni confarreate e «diffarreatio», in Index 25, 1997, 267 ss. Per quanto attiene, invece, alle sanzioni applicabili in caso di repudium ingiustificato cfr., ex multis, B. Albanese, Sacer esto, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 30, 1988, 147 ss.; R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, 191 ss.; E. Cantarella, Ripudio, sacertà, condizione femminile: a partire da una recente interpretazione di Plut., ‘Rom.’ 22, in Mélanges en l’honneur de C.A. Cannata, Bâle - Genève - München 1999, 15 ss., ora in Diritto e società in Grecia e a Roma. Scritti scelti, a cura di A. Maffi - L. Gagliardi, Milano 2011, 621 ss. e, infine, C. Fayer, La familia romana. Concubinato, Divorzio, Adulterio. Parte terza, Roma 2005, 76 e nt. 84.

[38] Si può pensare, alla stregua di quanto osservava E. Nardi, Procurato aborto, cit., 20, che, sebbene si trattasse di sostanze mediche o, come meglio rilevava lo studioso, di droghe o veleni, nella società romana delle origini, a differenza delle «società evolute e razionalistiche», si sarebbe fatto uso di filtri magici.

[39] Così R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, Verona 2000, 112 e 125 s.; ID., Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, Napoli 2018, 154 e 172; G. Galeotti, Storia, cit., 19, a parere della quale la finalità cui ambiva la produzione legislativa in tema di aborto sarebbe stata quella di preservare l’«aspettativa dell’uomo (padre, marito o padrone) interessato al figlio» di vedersi garantita la procreazione e riconosciuta la legittimità dei figli generati da tale unione; C. Fayer, La familia romana, III, cit., 76 nt. 83 e, infine, U. Agnati, Profili giuridici del repudium nei secoli IV e V, Napoli 2017, 41. Circa il rapporto intercorrente tra la garanzia di legittimità e di certezza della prole da un lato e la pena capitale quale sanzione applicabile in caso di procurato aborto in Ant. Rom. 2.25.6, cfr. M.J. Bravo Bosch, Mujeres y símbolos en la Roma Republicana. Análisis jurídico-histórico de Lucrecia y Cornelia, Madrid 2017, 93.

[40] Così, E. Nardi, Procurato aborto, cit., 20, a parere del quale «l’arte del farmacista di preparare, manipolare, impiegare farmachi o droghe» è una dote tipicamente femminile e L. Monaco, «Veneficia matronarum». Magia, medicina e repressione, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, IV, 1984, 2019 ss., la quale alludeva alla nascita di una «medicina delle donne». In tempi più recenti, C. Fayer, La familia romana, III, cit., 76 nt. 83, considerava l’«arte di preparare e usare farmaci, droghe, veleni» retaggio tipicamente femminile. Esplicita sul punto era anche M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 168; Ead., Spes, cit., 532. Al solo «uso di erbe e pozioni per abortire» – e non, dunque, alla loro produzione e manipolazione – allude R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, cit., 124 s.; ID., Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 171 s.

[41] L’ipotesi proposta coincide con le ricostruzioni di E. Nardi, Procurato aborto, cit., 20; M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 168; EAD., Spes, cit., 532 s. Non dissimili paiono essere le conclusioni – pur non evocando la suddetta bipartizione – formulate da R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, cit., 112; ID., Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 154.

[42] La fattispecie che si potrebbe celare dietro il termine τκνων connesso a ποβολ si concretizzerebbe in una supposizione di parto per E. Nardi, Procurato aborto, cit., 20; C. Fayer, La familia romana, 3, cit., 76 nt. 83.

[43] A tal riguardo rimarchevole è la posizione assunta da R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, cit., 112; ID., Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 154, a parere del quale il procurato aborto dovrebbe considerarsi interdetto anche laddove perpetrato con l’ausilio di contraccettivi. Sul punto, rilevava C. Terreni, Me puero, cit., 276, come, essendo il φαρμακεα τκνων condotta alquanto sfuggente e sprovvista di «contorni ben definiti», al suo interno si potevano far confluire tutti quei comportamenti finalizzati all’annientamento della nuova vita, inteso alla stregua di «attentato della donna alla propria naturale fertilità». Si sarebbe trattato di una finalità volta a garantire, in primo luogo, la «funzione riproduttiva che la mentalità dell’epoca considerava corrispondente ad uno dei suoi obblighi fondamentali nell’ambito della familia» e, in secondo luogo, faceva sì che al maritus fosse garantita la legittimità della prole. Dei contraccettivi come rimedi autonomi rispetto alle sostanze abortive, benché non di rado indistinti alla luce della scarsezza di testimonianze pervenuteci, cfr. G. Gatta, Aborto, cit., 99.

[44] Così, M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 169.

[45] Rimonta a E. Nardi, Procurato aborto, cit., 22, l’idea in base alla quale «legandosi un genitivo al dativo che precede e l’altro a quello che segue», si concretizzerebbero soltanto tre iustae causae repudii, laddove il procurato aborto andrebbe a scorgersi nel «primo collegamento». Non dissimili paiono essere, in tempo recenziore, le conclusioni formulate da R. Fiori, Homo sacer, cit., 233 s. e nt. 249, il quale propendeva a favore dell’individuazione di tre iustae causae repudii, laddove la ricostruzione fondata sulla persistenza di quattro iustae causae repudii sarebbe parsa «evidentemente troppo macchinosa e da non preferire» e da U. Agnati, Profili giuridici, cit., 42 s., il quale metteva in luce due elementi: in primo luogo, accostava all’adulterium, l’avvelenamento (inteso, forse, come avvelenamento della prole o, ancora, come aborto) e la falsificazione delle chiavi «di casa o della cella vinaria o cattiva custodia della domus». In secondo luogo, l’Agnati considerava predette cause quali ipotesi di «ripudio-sanzione». Interessante è la posizione sostenuta da P. Sardi, L’aborto ieri e oggi, Brescia 1975, 13, il quale avanzava dei dubbi sulla corretta esegesi da condurre con riguardo all’espressione ‘φαρμακεα τκνων’ nella produzione plutarchea che, a parere dello studioso, potrebbe essere intesa sia come sinonimo di «‘farmaci abortivi’», ma anche, dando seguito alla parte maggioritaria della dottrina che la interpreta in senso più ampio, quale sinonimo di generica assunzione di «‘farmaci velenosi’, senza specificarne le vittime». Accennano alle tre iustae causae repudii anche E. Cantarella, Ripudio, cit., 621; R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, cit., 108 ss.; ID., Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 23 e 151 ss.; G. Gatta, Aborto, cit., 157; C. Fayer, La familia romana, III, cit., 74 s.; C. Terreni, Me puero, cit., 71 s. nt. 72; M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 169 nt. 88.

[46] Non vi è ragione di dissentire da E. Nardi, Procurato aborto, cit., 21 s., laddove questi osserva come le quattro iustae causae repudii sarebbero germogliate dall’utilizzo dei «genitivi fatti discendere dall’unico dativo finale», laddove «l’aborto (con farmachi) scomparirebbe in seno al generico φαρμακεα». A tale evenienza accenna altresì Giunti, Adulterio, cit., 280 nt. 1, secondo cui l’origine della configurabilità di quattro ipotesi delittuose dovrebbe scorgersi nella netta cesura della «subordinazione logica di τκνων da φαρμακεα» e nella conseguente «inserzione testuale di un κα o di una virgola». Cfr., sul punto, altresì C. Fayer, La familia romana, I, cit., 150 ss.; EAD., La familia romana, III, cit., 76 nt. 83; R. Fiori, Homo sacer, cit., 234 nt. 249; M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 169 nt. 88.

[47] Così P. Giunti, Consors vitae. Matrimonio e ripudio in Roma Antica, Milano 2004, 21. Che la lex regia alludesse alla falsificazione quale termine da accostare «sia alle chiavi che ai bambini», è opinione propugnata anche da G. Gatta, Aborto, cit., 158, il quale, considera ammissibile il ripudio della donna «anche solo per la preparazione o il semplice uso di farmaci» in quanto «al presupposto della falsificazione delle chiavi si aggiungerebbe quello della falsificazione (= sostituzione) dei figli».

[48] É questo l’orientamento riconducibile all’analisi formulata da P. Giunti, Adulterio, cit., 279 ss.; EAD., Consors vitae, cit., 14 ss., ove la studiosa osserva che, attraverso una serie di interventi testuali, si sarebbe rescissa ogni allusione al furtum delle chiavi della cella vinaria e ne sarebbe risultato un quadro ricostruttivo completamente nuovo, all’interno del quale, accanto al μοικευθεσαν, sarebbe comparsa la «suppositio partuum quale obiettivo autonomo della condanna regia». Per R. Fiori, Homo sacer, cit., 234 nt. 249, con riferimento alla ricostruzione della Giunti fondata sull’individuazione di due iustae causae repudii – la manomissione delle chiavi della cella vinaria doveva intendersi quale «premessa del vinum bibere», laddove, accanto al μοικευθεσαν, acquisiva rilievo il «consumo di vino, riguardato sotto i diversi profili dei suoi effetti abortivi e della (strumentale) sottrazione di chiavi della cantina».

[48] Così osserva P. Giunti, Adulterio, cit., 155 e 279 ss.; EAD., Consors vitae, cit., 20 ss.

[49] L’argomento, che consente di apprezzare la solidità del legame finalistico esistente tra il procurato aborto e l’assunzione di vino da parte della donna, sembra accreditare una finalità anticoncezionale – da sempre interdetta alla stessa –. Sul punto, v. anche P. Giunti, Adulterio, cit., 167, che allude a una «funzione terapeutica, progestativa ed antiabortiva» propria del vino e, in tempi più recenti, A. López Güeto, El derecho romano, cit., 32, a parere della quale «la ingesta de alcohol se asociaba a prácticas abortivas». Sull’avvelenamento della prole non ancora venuta al mondo cfr., P. Giunti, Consors vitae, cit., 20.

[50] Si tratta della ricostruzione propugnata da E. Nardi, Procurato aborto, cit., 23 ss. e 28 s., il quale, dopo aver avanzato una serie di dubbi circa la riconducibilità della testimonianza all’epoca regia, ravvisava nella φαρμακεα «la prima causa (e quindi, presumibilmente, la più grave)» che legittima un giusto ripudio. Dal ragionamento dello studioso si evince che a rilevare, nel passo plutarcheo, non sia il mero φαρμακεα τκνων, bensì il φαρμακεα realizzato in modo generalizzato. Alla medesima conclusione fa cenno anche G. Gatta, Aborto, cit., 158.

[51] Cfr. quanto ut supra precisato con riguardo all’interdizione per la donna di accedere alla cella vinaria alle ntt. 45 e 47.

[52] Così C. Terreni, Me puero, cit., 273 ss., laddove la studiosa osservava come fosse «inevitabile pensare che il ripudio avrebbe costituito null’altro che la premessa all’irrogazione di più gravi sanzioni, rimesse ai magistrati cittadini». All’avvelenamento dei soli τκνo non ancora venuti al mondo sembrava riferirsi anche P. Ferretti, In rerum natura esse, cit., 107 s.

[53] A tale interrogativo accennano, in progressione di tempo, E. Nardi, Procurato aborto, cit., 25 s.; P. Giunti, Consors vitae, cit., 24 e M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 169 s. In particolare, la Giunti sosteneva che l’interrogativo apprestato fosse di facile risoluzione, laddove ravvisava nel solo consumo di sostanze alcoliche il fulcro del fenomeno abortivo, facendo leva sulla giustapposizione tra l’interdizione muliebre dall’ingestione di vino e la recisione della nuova vita.

[54] Sembra accreditare tale lettura del passo plutarcheo C. Terreni, Me puero, cit., 273.

[55] Ai due quesiti alludeva P. Giunti, Consors vitae, cit., 25, la quale riteneva necessario fornire una soluzione «lucida e risolutiva».

[56] Sulla definizione di venenum e sulla conseguente differenziazione dal medicamentum, cfr. C. Pennacchio, Farmaco, un Giano bifronte. Dei veleni e medicamenti, ovvero breve storia di un ossimoro, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 80, 2014, 139 ss. e M. PADOVAN, Medicina e corpo tra privato e pubblico, in Il corpo in Roma antica. Ricerche giuridiche, I, a cura di L. Garofalo, Pisa 2015, 129 ss.

[57] Cfr., a tal proposito, D. 50.16.236 pr. (Gaius libro quarto ad legem duodecim tabularum): ... cum id quod nos venenum appellamus, Graeci φρμακον dicunt ... Alle valutazioni sinora espresse hanno sostanzialmente aderito, in progresso di tempo, P. Giunti, Adulterio, cit., 280 nt. 1 e R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, cit., 125 s.; ID., Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 172, a parere del quale sussisterebbe un intimo collegamento tra l’avvelenamento dei figli non ancora venuti al mondo e «il fine naturale» discendente dal vincolo matrimoniale, ovverosia la procreazione e la legittimità della prole. Non dissimili paiono essere le conclusioni formulate da Fayer, La familia romana, 3, cit., 76 nt. 83, a parere della quale l’allusione al vocabolo latino ‘venenum profilava non soltanto un’ipotesi di aborto procurato mediante avvelenamento del conceptus in costanza di vincolo matrimoniale, ma veniva inteso anche come «uccisione o incantesimo dei fanciulli o arte magica esercitata sui fanciulli, oppure come procurato aborto per mezzo di filtri o di farmaci». Del pari, in tempi più recenti, M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 169 s., a parere della quale la lex regia avrebbe «preso in considerazione solo l’aborto indotto da farmaci e non da altri mezzi» e, proprio per questo motivo, «l’ipotesi di avvelenamento sarebbe riferita solo ai nascituri e non agli altri soggetti legati alla donna da vincoli di parentela». Attesterebbe l’accostamento del φρμακον greco al venenum latino anche L. Pepe, Processo a un’avvelenatrice: la prima orazione di Antifonte, in Index 40, 2012, 131 e 131 nt. 1, a parere della quale i due termini assumerebbero due diverse accezioni, in quanto possono essere intesi sia come sinonimo di «medicamenti curativi», quanto quali «veleni letali». La stessa distinzione veniva posta in evidenza da G. Rizzelli, Note sul veneficium, in Mulier. Algunas Historias e Instituciones de Derecho Romano, Madrid 2013, 310 ss., il quale, dopo aver accostato il φρμακον al venenum, osservava che sia presso i romani che presso i greci il pharmakon avrebbe assunto una duplice accezione in quanto si sarebbero intese sia le sostanze velenose che i medicamenti. Certamente il pharmakon con finalità abortiva veniva fatto rientrare nel «venenum malum», giacché provocava l’annientamento della nuova vita.

[58] Così, E. Nardi, Procurato aborto, cit., 17 s. e P. Giunti, Adulterio, cit., 280 nt. 1, la quale ravvisava un intimo collegamento tra la «manomissione», la «sottrazione» delle chiavi della cella vinaria e il proposito relativo all’«illecita ingestione di vino». In supporto a quanto sinora prospettato, elementi di rilievo sono traibili dalla ricostruzione di C. Fayer, La familia romana, I, 151 s.; EAD., La familia romana, III, cit., 75 nt. 82, che spiegava la falsificazione delle chiavi della cella vinaria da parte della donna – o, in alternativa, la «loro sostituzione o trafugamento» – quale operazione che lascia intravedere un chiaro raggiro al rigido ordine precostituito dal maritus in sede di attribuzione dei poteri discendenti dalla sua «autorità domestica». In argomento, cfr. altresì, P. Giunti, Consors vitae, cit., 19, la quale faceva cenno all’«effrazione della cantina» finalizzata all’assunzione di vino da parte della donna, «evocando quell’attività femminile oltremodo riprovevole connessa con il consumo etilico». Alla manomissione delle chiavi della cella vinaria alludevano anche E. Cantarella, Ripudio, cit., 621 e G. Gatta, Aborto, cit., 157 s. Riferimento esplicito alla manomissione delle chiavi della cella vinaria è altresì rinvenibile in Plinius, nat. hist. 14.14(13).89: ... non licebet id (vinum) feminis Romae bibere ... Sul brano da ultimo richiamato v. anche, da ultimo, M. Falcon, L’omicidio nelle leggi di Numa, Napoli 2022, 70 s.

[59] Cfr., sul punto, E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Roma 1981, 140 s., la quale si sarebbe occupata delle donne etrusche laddove, ponendo in risalto gli aspetti di maggiore licenziosità rispetto alle matrone romane, disponeva la loro solerzia nel «partecipare ai banchetti insieme agli uomini, di bere vino, e soprattutto, di allevare i figli senza preoccuparsi di sapere chi ne fosse il padre». Sull’argomento, cfr. altresì P. GIUNTI, Adulterio, cit., 167 s., laddove la studiosa faceva cenno all’assunzione di vino da parte della donna quale condotta che «avrebbe risolto in sé la propria offensività», dato che veniva a stimarsi quale «comportamento indecente» e come tale «avversato sia dalla patriarcale etica familiare sia dal modello societario antropocentrico». Dunque, la sobrietà muliebre necessitava di essere conservata per evitare di provocare «nella donna latenti capacità mantiche e vaticinatorie». Al divieto di assunzione di sostanze vinose da parte della donna quale prodotto di un determinato contesto storico allude L. Minieri, «Vini usus feminis», cit., 155, laddove ammetteva che la lex regia fosse il frutto di un periodo storico contrassegnato dall’individuazione della familia quale «organismo portante della società romana» che, come tale, necessitava di essere preservata e protetta da qualsiasi forma di aggressione che potesse costituire intralcio all’egemonia patriarcale, alla procreazione e alla legittimazione della prole.

[60] In questi termini si esprimeva E. Nardi, Procurato aborto, cit., 18, il quale alludeva al vino come sostanza dotata di «proprietà anticoncettive e abortive». In prosieguo di tempo, cfr. M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 170. Con riguardo, invece, alla preservazione dell’egemonia maschile, cfr. C. Fayer, La familia romana, III, cit., 75 nt. 82, a parere della quale il divieto ascritto alla donna di accedere alla cella vinaria avrebbe consentito di escludere qualunque «occasione di bere vino» potendosi, conseguentemente, considerare sfumata ogni possibilità di procurare un aborto a seguito di assunzione di sostanze alcoliche.

[61] Trad. lat. S. Riccobono, in FIRA, 2a ed., I, cit., 9: ... De his cognoscebant cognati cum marito: de adulteriis et si qua vinum bibisse argueretur, hoc utrumque enim morte punire Romulus concessit... Sul punto, cfr. inoltre la più recente edizione delle leges regiae curata da G. Franciosi, Leges regiae’, cit., 41 s.: ... τατα δ ο συγγενες μετ το νδρς δίκαζον· ν ος ν φθορ σώματος καί, πάντων λάχιστον μαρτημάτων λλησι δόξειεν ν πάρχειν, ε τις ονον ερεθείη πιοσα γυνή. μφότερα γρ τατα θανάτ ζημιον συνεχώρησεν ωμύλος ...

[62] Cfr., sul punto, E. Cantarella, L’ambiguo malanno, cit., 161 s. e L. Minieri, «Vini usus feminis», cit., 152 s. Sulla condizione dell’uxor in manu, cfr. R. Fiori, Materfamilias, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 35-36, 1993-94, 477 s. Sul confronto tra la testimonianza plutarchea e il brano dell’Alicarnassense, cfr. L. Peppe, Recensione a P. Giunti, Consors vitae. Matrimonio e ripudio in Roma Antica, Milano 2004, in Iura 55, 2004-2005, 238.

[63] Cfr. Gellius, noct. Att. 10.23.3: ... sed et multatas quoque a iudice mulieres refert non minus, si vinum in se, quam si probrum et adulterium admisissent.

[64] Rimarchevole, a tal riguardo, pare essere la posizione assunta da P. Giunti, Adulterio, cit., 173; EAD., Consors vitae, cit., 95, la quale considerava il rapporto tra l’adulterium muliebre e il consumo di temetum espressione di «un medesimo binomio criminale».

[65] Cfr., a tal proposito, Gellius, noct. Att. 10.23.4: ... Vir - inquit - cum divortium fecit... si vinum bibit, si cum alieno viro probri quid fecit, condemnatur. Come ben si può notare dal frammento citato, il trattamento punitivo riservato alla donna assuntrice di temetum non è dissimile da quanto le è destinato in Plutarchus, Rom. 22.3.

[66] Sebbene la maggior parte della dottrina attribuisca questa lex regia al primo re di Roma non è mancato chi, in senso opposto, ne evidenziava una sua estrazione non romulea. Sul punto, cfr. P. Giunti, Adulterio, cit., 57 ss. e 155 ss., la quale rilevava come fosse possibile ascrivere la lex a Numa e che, in realtà, il fatto che Dionigi d’Alicarnasso l’avesse attribuita a Romolo sarebbe rispondente all’«ideologia di Augusto inteso come novello Romolo della respublica Romanorum». Cfr., in argomento, T. Spagnuolo Vigorita, Recensione a P. Giunti, Adulterio e leggi regie. Un reato fra storia e propaganda, Milano 1990, in Iura 61, 1990, 156 ss., il quale considera il dubbio attributivo privo di rilievo, giacché «la veridicità e la risalenza dei nomi non dimostra la storicità dei primi re», sebbene «il concentrarsi nel nome del re sabino di tutte o quasi le riforme religiose ed etico - familiari di età monarchica» consentirebbe di collocare nei «primi secoli della storia romana» il provvedimento in disamina. In tal modo si veniva a privare di rilievo «la storicità dei personaggi», a vantaggio del «cristallizzarsi di una tradizione» e A. Guarino, «Ineptiae iuris romani»: X, in Labeo 38, 1992, 320. Così anche in ID., Lui, lei e l’altro nel diritto romano, in Index 21, 1993, 414 ss., a parere del quale «le prime origini di Roma sono personificate dalla tradizione nella figura di Romolo», dato che «la feroce repressione dell’adulterio femminile» è diretta conseguenza della sua voluntas. Lo studioso, ancora in «Ineptiae iuris», cit., 319 ss., riticando ferocemente il ragionamento condotto dalla Giunti ritenendolo non condivisibile, farebbe leva su due rilievi. In primo luogo, il Guarino osserva come sarebbe stato impensabile per Dionigi d’Alicarnasso «falsificare a favore di Romolo quella che sarebbe invece stata, ai suoi tempi, una tradizione largamente diffusa relativa a Numa», sebbene lo storico fosse solito «agli arbitrii interpretativi». In secondo luogo, necessita di essere messa in risalto la figura di Romolo, da sempre considerato «l’anticipatore di Augusto» nella politica atta alla preservazione dei boni mores. In conclusione, Guarino ritiene comprovata l’estrazione romulea del passo plutarcheo, sicché, a suo dire, il ragionamento necessitava di delinearsi lungo tre diversi percorsi valutativi dando conto, in un primo momento, dell’origine della patria potestas nell’antichità romana passando poi, in un secondo momento, all’individuazione dell’apparato sanzionatorio e all’ascrivibilità della condotta fedifraga alla donna. Si tratterebbe, dunque, di indizi che militano a favore della natura di una lex Romuli anziché di una lex Numae, giacché non può sfuggire all’interprete come la provenienza della testimonianza ben si appresti ad essere ricondotta all’epoca regia. Cfr., in argomento, altresì M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 167 nt. 82. In generale, sull’esistenza di alcune leges regiae che possono essere ascritte a diversi re a causa delle «poche statuizioni che vanno sotto il loro nome», v. U. Coli, Regnum, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 17, 1951, 112.

[67] Così E. Nardi, Procurato aborto, cit., 18.

[68] In tal senso, E. Nardi, Procurato aborto, cit., 19, avrebbe posto in luce come fosse da ritenersi generalizzata «l’interdizione del vino», laddove la testimonianza «non limita alle donne in età e condizione da temerne il pericolo presupposto».

[69] Si considerino, in proposito, alcune testimonianze che sembrano avvalorare ulteriormente quanto appena osservato, ovverosia Cicero, de re publ. 4.6.6: Ita magnam habet vim disciplina verecundiae ‘carent temeto omnes mulires’; Gellius, noct. Att. 10.23.1: ... mulieres Romae atque in Latio aetatem abstemias egisse, hoc est vino semper, quod ‘temetum’ prisca lingua appallabatur, abstinuisse dicunt ... A tale conclusione giunge, in particolare, R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, cit., 110 s. e 120; ID., Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 153 s. e 167, a parere del quale – dopo aver asserito che l’unico vino che alla donna è fatto divieto di assumere è il vino puro, ovverosia il temetum riscontra nella lussuria (per le donne non sposate) e nell’adulterium (in caso di uxor) le possibili conseguenze dello stato d’ebbrezza. Parlava di un vino «puro, genuino, ottenuto dalla semplice fermentazione dell’uva spremuta, un vinum grave, pesante, che scuoteva e faceva vacillare la ragione, ossia porta facilmente all’ubriachezza, detta temulentia proprio da temetum» C. Fayer, La familia romana, I, cit., 156 ss. e nt. 106; EAD., La familia romana, III, cit., 196 nt. 24; R. Fiori, Homo sacer, cit., 240.

[70] Cfr., a tal riguardo, quanto argomenta C. Fayer, La familia romana, I, cit., 153; EAD. La familia romana, III, cit., 77 nt. 85 e 200. Per quanto attiene alla discrasia sia sotto il versante contenutistico-precettivo che su quello repressivo tra la testimonianza plutarchea e il brano dell’Alicarnassense cfr. P. Giunti, Adulterio, cit., 280 s. e R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, cit., 96 ss.; ID., Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 140 ss.

[71] É questo l’orientamento riconducibile all’analisi formulata da I. PIRO, Unioni confarreate, cit., 263 ss., la quale rinviene nell’«assoluta genericità» terminologica utilizzata dall’Alicarnassense con riguardo «alle possibili colpe di cui la moglie poteva macchiarsi» e nella discrezionalità del maritus in sede di determinazione dell’ammontare della pena muliebre, avuto riguardo al parametro «della gravità dell’offesa subìta», il fondamento al quale ancorare la competenza del iudicium domesticum. In questa prospettiva si possono ricordare le osservazioni avanzate da C. FAYER, La familia romana, III, cit., 200, la quale tenta di raccordare le due testimonianze dando rilievo alla crasi temporale esistente tra le stesse e alla conseguente evoluzione di regime che ha comportato la sostituzione della poena capitis con il più mite repudium.

[72] In effetti I. PIRO, Unioni confarreate, cit., 266 ss., ravvisa nel profilo punitivo contenuto nelle testimonianze in disamina «il senso della loro complementarietà».

[73] Sul punto, P. Giunti, Consors vitae, cit., 72, avrebbe riesaminato la soluzione prospettata, in precedenza, da Robert Estienne, sostenendo, in maniera non dissimile, che nella testimonianza dell’Alicarnassense sarebbe stato possibile scorgere una «variante ufficializzata» da considerarsi «del tutto coerente con l’impianto globale della pagina dionisiaca» che ben si sarebbe rapportato con il «destino totalmente “intradomestico” della donna romana».

[74] Per una completa ricostruzione della posizione riportata, cfr. P. Giunti, Consors vitae, cit., 51 ss., la quale farebbe discendere dalla variante proposta una difforme lettura del testo, paventando una risoluzione del «dilemma bel modo più indolore, per il venir meno dei suoi estremi», giacché avrebbe sostenuto che la poena capitis non sarebbe stata altro che un’inventio dei moderni studiosi «alla quale forse Dionigi mai aveva inteso alludere».

[75] Per una ricognizione sul iudicium domesticum e sul ruolo svolto dai cognati συγγενες si legge nella testimonianza – che coadiuvavano il maritus nella repressione di taluni crimini femminili, cfr. E. Volterra, Il preteso tribunale domestico in diritto romano, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche, 1948, 103 ss., ora in Scritti giuridici, II, Napoli 1991, 127 ss.; E. Cantarella, Adulterio. Omicidio legittimo e causa d’onore in diritto romano, in Studi in onore di G. Scherillo, I, 1972, 253 ss.; A. Balducci, Intorno al iudicium domesticum, in Archivio Giuridico 191, 1976, 69 ss.; A. Ruggiero, Nuove riflessioni in tema di tribunale domestico, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, IV, 1984, 1594 s.; C. Fayer, La familia romana, I, cit., 130 ss. e nt. 22; EAD., La familia romana, III, cit., 197 ss.; C. RUSSO RUGGERI, Ancora in tema di iudicium domesticum, in Iuris Antiqui Historia 2, 2010, 51 ss.; N. Donadio, «Iudicium domesticum», riprovazione sociale e persecuzione pubblica di atti commessi da sottoposti alla «patria potestas», in Index 40, 2012, 186 ss.

[76] Sul punto, v. P. Giunti, Adulterio, cit., 5 s. e 171 s.; U. Agnati, Profili giuridici, cit., 42.

[77] Quanto asserito veniva ulteriormente sostenuto da R. Fiori, Homo sacer, cit., 244, il quale ravvisava un’indebita interferenza della donna in un ambito di spettanza prettamente maschile in caso di procurato aborto. A parere dello studioso, infatti, l’uxor che decidesse di abortire porrebbe «in discussione il potere maschile», aspirando ad avvicendarsi «alla sposo nella posizione di preminenza rivestita».

[78] Sotto il profilo ricostruttivo, va condiviso l’orientamento esternato da R. Fiori, Homo sacer, cit., 244, laddove lo studioso osserva come non fosse possibile sostenere che la «volontà di punire la soppressione di una vita umana» potesse essere conseguenza dell’aborto (doloso) muliebre. La decisione di porre fine a una nuova vita spetta all’uomo, infatti, qualora così non fosse, si profilerebbero due possibili scenari: in caso di procurato aborto «all’insaputa del marito, o addirittura contro la sua volontà» vi sarebbe un caso di «ribellione alla maiestas viri e, più in generale, all’ordine familiare», mentre nell’ipotesi di aborto realizzato scientemente dalla donna senza il consenso dell’uomo, si configurerebbe «una lesione del diritto del marito alla discendenza».

[79] Cfr. Gellius, noct. Att. 10.23.5: illa te, si adulterares sive tu adulterarere, digito non auderet contingere, neque ius est.

[80] Si tratta, in effetti, di un rescriptum di cui non abbiamo contezza, se non tramite i riferimenti riportati nei frammenti dai tre giuristi. Cfr., sul punto, E. Nardi, Aborto, cit., 376 s.; L. DI PINTO, Il procurato aborto nel pensiero dei giuristi severiani, in Koinonia 37, 2013, 413 ss. e U. Agnati, Profili giuridici, cit., 163 nt. 238.

[81] Depongono per il carattere abortivo e anticoncezionale dei medicamenti A. Wacke, Die Anerkennung der Medizin als ars liberalis und der Honoraranspruch des Arztes, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 113, 1996, 419; U. Agnati, Profili giuridici, cit., 163 nt. 238, il quale osservava come non soltanto l’ingestione, ma anche la «preparazione di filtri abortivi, prodromica alla sussunzione» avrebbe concorso nel «porre a rischio» la «tutela accordata dall’ordinamento alla spes patris, che fa capo al vir». Si potrebbe allora supporre che il procurato aborto mediante il confezionamento e l’assunzione di medicamenti avrebbe minato l’aspettativa procreativa da un lato e la certezza della prole dall’altro lato. Per quanto attiene a questi aspetti, va notato che, come correttamente asserisce il Biondi (B. Biondi, Il diritto romano, III, cit., 487 e nt. 5), nell’ultima fase del periodo repubblicano si inizia a perseguire il procurato aborto della donna finendo con l’ammettere una punibilità rilevante «sotto il profilo della offesa al merito, considerando l’uso dei pocula abortionis accanto a quelli amatoria o ad concipiendum, ai fini della sanzione relativa ai venena». All’utilizzo dei medicamenti quali strumenti abortivi alludeva altresì M.P. Baccari Vari, Curator ventris, cit., 127 e 196.

[82] All’exilium temporaneo quale sanzione atta a favorire l’espulsione, seppur limitata nel tempo, del «colpevole dal proprio territorio ritenendo che la sua presenza possa risultare pericolosa per la propria sicurezza interna» alludeva G. Gatta, Aborto, cit., 172. Ancora, sull’exilium in caso di procurato aborto con riguardo a D. 48.19.39, cfr. J. Plescia, The doctrine of boni mores in roman law, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 34, 1987, 291; C. Fayer, La familia romana, I, cit., 152 nt. 80 e P. Ferretti, In rerum natura esse, cit. 137. 

[83] Pare condivisibile, a tal riguardo, il ragionamento condotto da C. Terreni, Me puero, cit., 293, a parere della quale il leitmotiv dal quale partire per poter operare un distinguo tra la sanzione più aspra riportata nella prima parte del frammento e il trattamento sanzionatorio più mite contenuto nella seconda parte della testimonianza dovrebbe scorgersi nell’«operato di una e dell’altra donna», giacché la donna di Milesia aveva abortito per assecondare la voluntas dei secundi heredes, mentre la donna romana all’epoca del regno di Severo e Caracalla è sanzionabile con il mero exilium temporaneo in quanto avrebbe già divorziato dal maritus e si sarebbe procurata l’aborto – vim intulerit inimico marito filium procrearet, ovverosia con il solo fine di recare pregiudizio alla certezza e alla legittimità della prole.

[84] Rinvengono le prime tracce della concettualizzazione criminale dell’aborto nel corso dell’età classica E. Nardi, Procurato aborto, cit., 413; ID., Aborto, cit., 17, il quale osserva che il rescriptum «per la prima volta, a quanto ne sappiamo, colpiva penalmente un abortista» e G. Gatta, Aborto, cit., 172 s., sebbene, a parere dello studioso, non possano considerarsi superate le «vecchie posizioni stoicistiche», la repressione penalistica rappresenta, a ben vedere, «una vera e propria rivoluzione» o, ancora, «una soluzione ‘apri-pista’» per successivi interventi con riguardo al tema del procurato aborto. Considerano il rescriptum di Severo e Caracalla la più antica traccia di repressione pubblica del procurato aborto anche P. Sardi, L’aborto, cit., 47; G. Galeotti, Storia, cit., 23; P. Ferretti, In rerum natura esse, cit. 138; M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 171; EAD., Spes nascendi - spes patris, cit., 538 e nt. 58. Non dissimili paiono infine essere le conclusioni formulate, in tempi più recenti, da A. López Güeto, El derecho romano, cit., 31 e 50, a parere della quale anche se «normalmente, la pena consistía en trabajos forzados o en el destierro previa confiscación de los bienes», nel frammento di Trifonino al «fallecimiento de la mujer embarazada, se imponía la pena capital».

[85] Si tratta, melius re perpensa, di una commistione tra «profili di interesse privato e pubblico» dai quali riecheggia l’impronta retorica propria dell’orazione ciceroniana. Cfr., sul punto, E. Nardi, Procurato aborto, cit., 219. Preferisce, invece, alludere all’«impatto emotivo» esercitato dalle diverse circostanze, espressione dei «fondamenti della famiglia e della res publica» C. Terreni, Me puero, cit., 286.

[86] Per P. Sardi, L’aborto, cit., 48, anche se «l’aborto procurato in certe condizioni comincia ad essere considerato un crimen (extra ordinem) dallo stato, che lo punisce», il rescriptum non muta la sua essenza, dato che la giustificazione dell’aborto sembra sempre doversi rinvenire non nella «protezione della vita del feto», bensì soltanto nella «tutela dei diritti del padre». In questo senso pare schierarsi anche G. Gatta, Aborto, cit., 161 ss., il quale osserva come in questo clima anche la logica propria dello stoicismo sembra essersi incrinata, giacché si scorge nell’orazione ciceroniana una «uccisione di due persone in una volta» quando, «lo stoicismo, invece, considerava il nascituro una parte delle visceri della madre, niente più che un organo». Infatti, continuava lo studioso, «l’elencazione dei motivi di condanna morale della madre abortista» attiene a «elementi ‘esterni’ al nascituro, non facendo riferimento alcuno alla sua vita, alla sua intrinseca essenza». Il conceptus non assumerebbe alcun rilievo, se non quello che «gli viene dato dall’esterno». All’aborto quale «uccisione del feto» allude E. Nardi, Procurato aborto, cit., 219, mentre alla «punizione dell’aborto, inteso come grave lesione della spes prolis di cui il marito è portatore», faceva cenno M. Balestri Fumagalli, Spes vitae, cit., 343. In merito alla «separazione concettuale» tra il feto e la mater, da considerarsi quali entità distinte e autonome, cfr. C. Terreni, Me puero, cit., 285.

[87] Ammette la rilevanza dell’orazione ciceroniana precedente rispetto al rescriptum severiano M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 172; EAD., Spes nascendi - spes patris, cit., 538 s., a parere della quale «la circostanza che Trifonino riferisca il caso della Pro Cluentio farebbe pensare ad una repressione penale dell’aborto precedente al rescritto» ravvisando nel richiamo alla condanna della donna di Milesia un valido strumento di raccordo, sebbene la stessa «fosse stata condannata non secondo il diritto romano, ma secondo un diritto orientale». Ad avviso della studiosa, infatti, «la circostanza che Trifonino riporti il caso prima di parlare del rescritto di Settimio Severo e Antonino Caracalla (sed et) mostra che gli attribuiva rilevanza». Per converso, in tempi meno recenti, non considera il «lontano caso di ciceroniana memoria» quale plausibile precedente del rescriptum imperiale, sebbene «che le due fattispecie siano a buon diritto cronologicamente allineabili come affini, nessun dubbio», E. Nardi, Procurato aborto, cit., 218 nt. 36 e 426; ID., Aborto, cit., 16. Lo studioso, infatti, sostiene che soltanto volendosi valere di una riflessione sul «piano di analogia-comparatistica» il diritto di Milesia poteva considerarsi quale «lontano precedente esterno».

[88] Così E. NARDI, Procurato aborto, cit., 221 s. e 426, il quale osserva come «norme repressive dell’aborto all’epoca di Cicerone in diritto romano non c’erano», sebbene rilevante fosse il rapporto comparatistico tra il diritto di Mileto che prevedeva la poena capitis e il rescriptum di età severiana riportataci da Trifonino che sanzionava con l’exilium temporaneo il procurato aborto. La poena capitis applicabile alla donna di Milesia come conseguenza del procurato aborto sarebbe parsa quale «indubbio frutto di princìpi estranei, applicati localmente». Alla «maggiore responsabilità» quale circostanza aggravante alludeva C. TERRENI, Me puero, cit., 285, laddove osserva – in aperta antitesi alla posizione assunta dal Nardi – come il procurato aborto «trascenda il puro piano oratorio».

[89] P. Ferretti, In rerum natura esse, cit. 139 s., a parere del quale, riportando il pregresso ragionamento condotto da Cuiacio e Matthaeus, sarebbe parsa pienamente giustificata la bipartizione del trattamento punitivo, giacché si sarebbe trattato di un diritto intriso di romanità. Pare, tuttavia, che la modulazione della pena prospettata dal Ferretti non trovi alcun riscontro testuale o implicito nel frammento di Trifonino. In merito alla rifrazione del diritto romano anche con riguardo alla pena ricordataci dall’Arpinate, cfr. altresì G.F. Falchi, Diritto penale romano (dottrine generali), I, Treviso 1930, 157 s.

[90] Della dissoluzione della citata bipartizione da parte del Mattheaus ci informa il Ferretti, a parere del quale a rilevare sarebbe stato il solo «concepito già formato» (P. Ferretti, In rerum natura esse, cit. 140). A suo dire, infatti, l’applicazione del temporaneo esilio sarebbe stata ammissibile solo per la donna che avesse procurato un aborto inimico marito laddove, per converso, qualora la donna avesse deciso di porre fine alla vita del feto per una causa aliena, allora avrebbe trovato applicazione la poena capitis, secondo quanto previsto dalla lex Cornelia de sicariis et veneficis.

[91] Dando seguito a questo ragionamento condotto da P. Ferretti, In rerum natura esse, cit. 140, qualora il conceptus non fosse ancora stato formato – si parlerebbe, dunque, di «‘nondum animal’» – la pena sarebbe stata il temporaneo exilium mentre, in caso di concepito già ben formato l’autore parla, al riguardo, di un ‘iam animal’ –, la pena applicabile alla donna sarebbe stata quella capitale.

[92] Alla diffusione del fenomeno abortivo nel contesto romano nel periodo tra la fine della Res Publica e l’inizio dell’impero alludono E. Nardi, Procurato aborto, cit., 199 e P. Sardi, L’aborto, cit., 31 s., il quale ravvisa nell’«estendersi delle conquiste romane» un possibile fondamento. Nondimeno parla di un «problema di ordine morale e sociale» C. Terreni, Me puero, cit., 285, laddove asserisce che l’allusione ciceroniana al diritto applicato al procurato aborto della donna di Milesia «trascende, dunque, il senso del semplice ricordo» per divenire, per converso, una «presa di posizione su principi che egli sapeva, evidentemente, condivisi dai giudici e dal sentire comune».

[93] Sul punto pare necessario richiamare E. Nardi, Procurato aborto, cit., 201; P. Sardi, L’aborto, cit., 32 e nt. 89; e G. GATTA, Aborto, cit., 163, i quali alludono al conceptus quale «parte delle visceri» materne. Parimenti rilevante sul punto si prospetta la riflessione avanzata dal Luzzatto (G.I. Luzzatto, Il procurato aborto nel mondo greco-romano in un recente libro, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile 2, 1972, 792), a parere del quale «con lo stoicismo la filosofia greca opta per la concezione che vede nel feto solo una parte della sua matrice».

[94] Cfr., sul punto, le osservazioni avanzate da P. Sardi, L’aborto, cit., 32. Che «le ripulse religiose e profane» nei confronti del fenomeno abortivo fossero comunque presenti nel contesto romano e che, anzi, tendessero a incrementarsi con l’accrescere del radicamento e della diffusione della pratica medesima è uno scenario che viene prospettato da E. Nardi, Procurato aborto, cit., 202 e ntt. 6-7.

[95] Si tratta dell’opinione di E. Nardi, Procurato aborto, cit., 199 e, in particolare, 201, condivisa, in seguito, anche da P. Sardi, L’aborto, cit., 32, il quale rinviene un trait d’union tra il pensiero di matrice stoica con riguardo al conceptus da un lato e «il silenzio delle leggi romane» per quanto attiene alla repressione del fenomeno abortivo dall’altro lato.

[96] Così, E. Nardi, Aborto, cit., 376 s., laddove questi osserva che «la norma, inquadrabile anch’essa sempre nell’indirizzo stoico, aveva il chiaro scopo di gratificare gli ex mariti delusi nella speranza di paternità». Nella stessa prospettiva è da intendersi la riflessione di G. GATTA, Aborto, cit., 172 s., il quale nota come la protezione fosse da apprestare alla «tutela della spes hominis del padre», ovverosia all’aspettativa «nel proseguimento della stirpe familiare». Si tratta dell’opinione condivisa anche da U. BRASIELLO, Sulla ricostruzione dei crimini in diritto romano. Cenni sulla evoluzione dell’omicidio, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 42, 1976, 258 s., secondo cui a essere represso dal rescriptum non è tanto «l’aborto in quanto distruzione di un essere vivente» quanto, piuttosto, la «sottrazione al marito di un figlio». A parere dello studioso, infatti, è ancora vivo «il concetto della potestà del pater familias, per cui il rendere impossibile la nascita di un figlio è privare il padre di un diritto». Del pari, in tempi più recenti, v. B. GIROTTI, Sull’aborto e la sterilità di Eusebia e Costanzo: riflessioni a partire da Ammiano, 16.10.18-19, in La famiglia tardoantica. Società, diritto, religione, a cura di V. Neri - B. Girotti, Milano 2016, 173, la quale evidenzia la duplice finalità cui ambiva il provvedimento imperiale: da un lato, infatti, «il fondamento della sanzione … andrebbe ritrovato nell’offesa arrecata al marito, a cui si impediva di avere un discendente», ma, al contempo – sulla scia di R. Mentxaka, El aborto en el derecho romano clásico, in Estudios de Deusto 31, 1983, 307 – «l’aborto cominciò ad essere considerato un crimen, non con la motivazione di proteggere la vita del feto, ma unicamente per tutelare i diritti del padre».

[97] A questa somiglianza alludono, in progresso di tempo, E. NARDI, Procurato aborto, cit., 425 e, sebbene indirettamente, G. GATTA, Aborto, cit., 172 s.

[98] Tale è l’orientamento ascrivibile a E. NARDI, Procurato aborto, cit., 427.

[99] Così indirettamente rilevano E. NARDI, Procurato aborto, cit., 425 e J. Plescia, The doctrine of ‘boni mores’, cit., 294, a parere del quale «evidently, the poena was inflicted for the iniuria (i.e., loss of spes prolis) marito (or ex-marito), and not for the abortion per se (i.e., the destruction of the fetus, quasi homicidium)». Alla pena dell’exilium quale sanzione da applicare alla donna che si è procurata l’aborto si riferiscono anche G.I. Luzzatto, Il procurato aborto, cit., 794; E. NARDI, La donna antica nel dramma del voluto aborto, in Misoginia e maschilismo in Grecia e in Roma. Ottave giornate filologiche genovesi [Genova, 25-26 febbraio 1980], 21, anche in Atti dell’Accademia delle Scienze dell’istituto di Bologna 69, 1980-81, 21; J. Plescia, The doctrine of boni mores, cit., 289 e 291; O.M. Péter, Si rixati fuerint, 225; M. Torres Aguilar, La pena de exilio: sus orígenes en el Derecho romano, in Anuario de Historia del Derecho Español 63-64, 1993-94, 731 e 78; A. Lefebvre-Teillard, Infans conceptus, 503; P. Ferretti, In rerum natura esse, cit. 137.

[100] Così E. NARDI, Procurato aborto, cit., 421 nt. 285 e 610, il quale, muovendo dalla differente terminologia adoperata dai tre giureconsulti, rilevava come, nel caso di specie, Ulpiano avesse fatto uso di un’estrema genericità che non è indubbio fosse foriera di «una cercata novità» oppure, per converso, la genericità dovesse considerarsi «soltanto apparente».

[101] Cfr., a tal riguardo, E. NARDI, Procurato aborto, cit., 414 nt. 270 e 609 ss., il quale propende a vantaggio dell’allusione al rescriptum di Severo e Caracalla, sebbene il giureconsulto non si riferisse in maniera espressa alla fonte, argomentando a favore del fatto che «non sussiste argomento affidante che le Pandette giustinianee non abbiano lasciato le cose come stavano».

[102] É questo l’orientamento riconducibile all’analisi formulata da B. BIONDI, Il diritto romano, III, cit., 487 e C. TERRENI, Me puero, cit., 295 s.

[103] Sul punto precisa C. TERRENI, Me puero, cit., 296, come i due diversi scenari prospettati avrebbero comportato conseguenze di rilievo dacché, in un caso, a essere tutelata sarebbe stata la «spes prolis maritale» mentre, nell’altra ipotesi, «il disvalore resterebbe privo di questo ancoraggio concettuale e l’aborto» acquisirebbe una «rilevanza criminale autonoma». Al procurato aborto come reato perseguito «di per sé, come delitto contro il nascituro» in epoca giustinianea alludeva B. BIONDI, Il diritto romano, III, cit., 487.

[104] Depongono a favore dell’interpolazione testuale C. FERRINI, Diritto penale romano: teorie generali, Milano 1899, 386 ss.; B. BIONDI, Il diritto romano, III, cit., 487; P. FERRETTI, In rerum natura esse, cit., 138 ss. e nt. 419, laddove lo studioso rinviene nel passaggio del testo dal titolo dedicato alle questioni dotali al titolo dedicato alla lex Cornelia de sicariis et veneficis chiaro indice «del fatto che i giustinianei considerassero la soppressione del nascituro come una ipotesi particolare di omicidio». Cfr., sul punto, anche M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 172 nt. 98, la quale, riprendendo quanto sul punto già osservato dal Ferretti, rileva come l’interpolazione risultasse dalla recisione, da parte dei Compilatori, di ogni «riferimento a Severo e Antonino», ma anche da dalla mancata «menzione del divorzio e del mancato assenso del marito, nonché della temporaneità dell’esilio» e C. Terreni, Me puero, cit., 296, che prospetta come, all’epoca dei compilatori, una «evoluzione» frutto della «nuova concezione dell’illecito invalsa nel loro tempo ed armonica con la coeva valutazione del nascituro». É proprio da questa presa di posizione che pare possibile ravvisare nella «tutela dell’individuo in utero» il bene giuridico tutelato. Da ultimo pare opportuno richiamare l’osservazione spesa, in tempi meno recenti, da G.I. Luzzatto, Il procurato aborto, cit., 796, il quale parlando di «interpolazione» o, in alternativa, «del distacco del frammento è, eseguito meccanicamente, dal contesto originario» asseriva – seppur distanziandosi come «dall’inserzione del passo nel titolo ad legem Corneliam de sicariis et veneficiis» discendesse «un tentativo, seppur larvato, di ricondurre il procurato aborto sotto il profilo dell’omicidio». Con riguardo alla lex Cornelia si badi che, attraverso un senatusconsultum, sarebbero state estese le disposizioni al suo interno contenute anche ai casi di «vendita e somministrazione dei pocula abortionis e amatoria», sebbene la finalità non fosse quella di «assimilare l’aborto al veneficio per punire direttamente l’uccisione del feto», bensì semplicemente «allargare la sfera repressiva dei delitti di veneficio». Cfr., sul punto, L. PERLA, voce Aborto, cit., 111.

[105] Si vedano sul punto U. BRASIELLO, Sulla ricostruzione dei crimini in diritto romano, cit., 258 s., secondo cui a essere punito è «l’aborto in quanto sottrazione al marito di un figlio», più che «l’aborto in quanto distruzione di un essere vivente», dato che «si sente ancora il concetto della potestà del pater familias, per cui il rendere impossibile la nascita di un figlio è privare il padre di un diritto» e G. GATTA, Aborto, cit., 172 s., il quale affermava che una simile terminologia adoperata dal giureconsulto avrebbe consentito di propendere a favore di una «tutela della spes hominis del padre». Se, infatti, si volesse dar seguito al ragionamento sul punto delineato da C. TERRENI, Me puero, cit., 296, si dovrebbe pensare che nel contesto ulpianeo fosse invalsa siffatta ricostruzione, completamente stravolta con l’evolversi del tempo che ha consentito di propendere per una tutela non più incentrata sul maritus, ma sulla figura del conceptus.

[106] Cfr., sul punto, C. TERRENI, Me puero, cit., 296.

[107] Si tratterebbe della ricostruzione prospettata da E. NARDI, Procurato aborto, cit., 419 nt. 279 e 422 nt. 286; ID., Aborto, cit., 17 e da G.I. Luzzatto, Il procurato aborto, cit., 794.

[108] Questa sembra essere la conclusione a cui perviene C. TERRENI, Me puero, cit., 296, la quale allude a «un exilium non a tempo ma, stando alla nostra fonte, perpetuo». Ancora sull’exilium, con riguardo al passo marcianeo, cfr. J. Plescia, The doctrine of boni mores, cit., 289, 291 e 293 s.; M. Torres Aguilar, La pena, cit., 736 e 784.

[109] A siffatta mancanza alludevano esplicitamente C. TERRENI, Me puero, cit., 295 e, seppur indirettamente, in tempi meno recenti, E. NARDI, Procurato aborto, cit., 423 ss.

[110] Va quindi condivisa la conclusione di E. NARDI, Procurato aborto, cit., 365 ss. e 423 s., a tenore della quale «l’aborto non consentito esponeva la donna al divorzio per colpa con ritenzione di un sesto della dote propter liberos» ammettendo, dunque, «che tutti i passi riguardavano, e quindi il rescritto concerneva, una fattispecie di divorzio».

[111] É questo l’orientamento riconducibile all’analisi formulata da P. FERRETTI, In rerum natura esse, cit., 137 s. Alla centralità dell’espressione «liberis fraudasse» alludeva B. BIONDI, Il diritto romano, III, cit., 487, il quale, facendo leva sull’offesa arrecata al maritus, ammetteva una repressione penale del procurato aborto solo a partire dalla fine dell’epoca repubblicana.

[112] Tuttora insuperata sull’argomento è l’indagine compiuta da F. LAMBERTI, Concepimento, cit., 362 s., laddove la studiosa spiega che «il leitmotiv è, dunque, quello dell’interesse specifico, nella regolamentazione di determinate fattispecie, del pater familias e, in senso più ampio, della famiglia tradizionale», ove il procurato aborto realizzato dalla donna «priva della spes prolis» in primo luogo il maritus e, in una visione più globale, l’intera famiglia. Alla medesima conclusione giungeva, in precedenza, E. NARDI, Procurato aborto, cit., 427, considerando il temporale exilium previsto dal giureconsulto per far fronte al procurato aborto della donna doveva considerarsi quale arma volta a garantire una «pubblica tutela al marito non consenziente». In argomento, v. anche C. Terreni, Me puero, cit., 294 s. e A. López Güeto, El derecho romano, cit., 30 s. Radicali sono state le critiche mosse a questa lettura del frammento da M.P. Baccari Vari, Curator ventris, cit., 126 s., che osservava come «inspiegabilmente questo passo viene frainteso da taluni che ne danno una lettura ‘maschilista’ o comunque individualista (con operazioni di generalizzazione e spostamento di concetti moderni sul passato) ma estranea al pensiero dei giuristi romani, quand’anche vi possa essere ‘una lesione dell’interesse maschile’». Sul punto, cfr. altresì G. GALEOTTI, Storia, cit., 19 ss.

[113] Rileva M.V. Sanna, La rilevanza, cit., 173 s., come «anche dopo il rescritto di Severo e Caracalla l’interesse tutelato con la repressione dell’aborto non fosse l’interesse del nascituro, ma esclusivamente quello del marito a non essere privato dei figli».

[114] Il testo è riprodotto in modo analogo in Paul. Sent. 5.23.14.

[115] Parrebbe d’altra parte a E. NARDI, Procurato aborto, cit., 439 s., che «il reato si risolve in un ‘malum exemplum’» ammettendo come «adeguate, salvo complicazioni» le pene previste per il somministratore di pocula abortionis o di pocula amatores. Alludeva alla repressione del procurato aborto realizzato «da incauta somministrazione di filtri d’amore (pocula amatoria), di sostanze abortive (pocula abortionis) o di pozioni intese a favorire il concepimento (ad conceptionemB. SANTALUCIA, voce Omicidio (dir. rom.), in Enciclopedia del Diritto, XXIX, Varese 1979, 895. Negli stessi termini si esprime B. Girotti, Sull’aborto e la sterilità di Eusebia, cit., 174 s., la quale osserva come «la tutela della norma diventa una questione di ordine pubblico e una preoccupazione di carattere collettivo», senza che l’interesse del feto venga preso in considerazione. Più in generale, sul differente trattamento riservato a honestiores e humiliores e sull’ingestione di sostanze abortive, v. U. Brasiello, Sulla ricostruzione dei crimini in diritto romano, cit., 259 s. e J. Plescia, The doctrine of boni mores, cit., 289 e, in particolare, 293 s.

[116] Allude esplicitamente all’omicidio colposo E. NARDI, Procurato aborto, cit., 440, il quale asseriva come il reo non potesse «andar esente da pena». Sul punto si condividono le considerazioni di C. TERRENI, Me puero, cit., 291, secondo cui l’elemento intenzionale deve essere escluso con riferimento al frammento in disamina in quanto assente il «sussistere di ‘cattiva intenzione’, per contemplare il caso della somministrazione operata con violenza o sotterfugio e, in generale, contro la volontà della donna» essendoci, per converso, «inconsapevolezza degli effetti letali» discendenti dalla somministrazione di pocula abortionis o di pocula amatoria. Difatti, a parere di B. Girotti, Sull’aborto e la sterilità di Eusebia, cit., 174 s. «questa norma e la durezza delle sanzioni dimostrano quanto il fenomeno dell’avvelenamento attraverso abortivi e afrodisiaci avesse raggiunto vette talmente critiche da giustificare addirittura la persecuzione della semplice somministrazione senza volontà omicida». Di attività «di per sé illecita a prescindere dall’evento» parla invece M.P. Baccari Vari, Curator ventris, cit., 128.

[117] Si tratta di un’osservazione per alcuni versi riconducibile agli spunti proposti da G. Gatta, Aborto, cit., 174 e ripresentati da C. TERRENI, Me puero, cit., 291, a parere della quale, andando oltre rispetto alle riflessioni condotte dallo studioso dapprima citato che considerava la somministrazione dei pocula amatoria e dei pocula abortionis quale fenomeno da arginare per evitare il dilagare di «una preoccupazione di carattere collettivo, che è difendibile al meglio solo isolando il reo», combinava il procurato aborto con la tutela dell’ordine pubblico, ammettendo che la finalità perseguita dal legislatore fosse quella di fronteggiare «non tanto l’aborto in sé quanto un costume sociale», quanto piuttosto di osteggiarlo «quanto costume sociale, considerato da reprimere per le caratteristiche di reato di pericolo che esso recava insite».

[118] Parla, a tal riguardo, di una circostanza «aggravante» atta ad arginare la «preoccupazione del legislatore» volta a garantire «la tutela della salute dei destinatari delle troppe pericolose bevande» E. NARDI, Aborto, cit., 377.

[119] All’assunzione di medicamenta e di pocula e alle ricadute in tema di procurato aborto alludono A. Lefebvre-Teillard, Infans conceptus, 502 e U. AGNATI, Profili giuridici, cit., 162 s. nt. 238. Con riguardo a questo particolare aspetto, precisava C. TERRENI, Me puero, cit., 289, come «l’illecito contemplato non si identifica nell’aborto ma, indifferentemente, nella somministrazione di pocula abortionis e di pocula amatoria». Per un approfondimento sul punto, cfr. supra nt. 81.

[120] Sul passo, cfr. E. NARDI, Procurato aborto, cit., 436 s. nt. 327, il quale osserva come il summo supplicio trovasse applicazione in caso di morte del solo feto «che l’intervenuta animazione avesse ormai reso vivo» mettendo in luce, ancora una volta, la distinzione intercorrente tra «feto animato/feto (non ancora) animato». A parere dello studioso (ID., Aborto, cit., 18), non sarebbe corretto «parlare di reazione contro l’aborto in sé», giacché nessuna tutela si sarebbe potuta garantire a vantaggio del conceptus sino all’evento nascita e siffatta ricostruzione, che ben si allinea alla riflessione stoica in argomento, è figlia della carenza dell’autonomia identitaria del conceptus stesso rispetto alle viscere materne. Non a caso, il Nardi asserisce che «prima nascesse e nascesse vivo, e poi sarebbe stato protetto». Sul punto si vedano anche C. TERRENI, Me puero, cit., 290 s. ed E. BIANCHI, Per un’indagine, cit., 330 s. nt. 161, il quale considera «forzato» assimilare l’homo al conceptus.

[121] Cfr., a tal riguardo, C. TERRENI, Me puero, cit., 290 e nt. 113.

[122] Accedono a questa idea B. ALBANESE, Le persone, cit., 11 s. nt. 19 ed E. NARDI, Procurato aborto, cit., 437 nt. 327, il quale segnala che «chiunque legga il testo senza partito preso non può che riferire il suo finale ‘mulier aut homo’ ai soggetti cui sia stato propinato il rischioso ‘poculum’, e quindi il ‘perierit’ alla loro morte». Per alcuni versi riconducibile agli spunti proposti dal Nardi pare essere l’analisi condotta da M.V. SANNA, Spes nascendi - spes patris, cit., 540 nt. 66, a parere della quale il vocabolo «homo» atteneva alla persona che avesse ingerito il poculum amatorium o il poculum abortionis e non, certamente, al conceptus.

[123] Come segnala C. TERRENI, Me puero, cit., 291, l’esclusione dell’elemento volitivo con riguardo al soggetto assuntore della sostanza pare doversi considerare quale ricostruzione «decisamente meno armonica con la lettera del testo».

[124] Sull’individuazione dei tria crimina quali iustae causae repudii, cfr. B. BIONDI, Il diritto romano, III, cit., 171; C. CASTELLO, Assenza d’ispirazione cristiana in C.Th. 3.16.1, in Religion, société et politique. Mélanges en hommage à Jacques Ellul, Paris 1983, 204 ss.; A. DI MAURO TODINI, Medicamentarius, una denominazione insolita. Brevi considerazioni a proposito di CTh. 3.16.1, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, VII, Napoli 1988, 354 ss.; C. VENTURINI, La ripudianda (in margine a CTh. 3.16.1), in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 30, 1988, 253 ss. e, in particolare, 264 s., il quale, dopo aver condotto un’attenta esegesi del frammento in disamina, asseriva che «riesce impossibile ritenere esaustiva nell’ambito della legislazione costantinianea» l’«affidabilità casistica prospettata» in CTh. 3.16.1 giacché, a parere dello studioso, vi sarebbero una serie di indizi – rintracciabili in altre fonti – che farebbero supporre come «Costantino, nell’arco del suo lungo regno, abbia introdotto in questo campo una normativa assai più articolata di quella a noi giunta attraverso il malsicuro testo in esame». In maniera analoga, v. C. FAYER, La familia romana, III, cit., 135 ss.; C. TERRENI, Me puero, cit., 297 e nt. 139 e P. FERRETTI, Duo... Unum: Costantino e il Ripudio, in Annali dell’Università di Ferrara 23, 2009, 85. Circa la ricomprensione del fenomeno abortivo in CTh. 3.16.1, cfr., C. TERRENI, Me puero, cit., 298, la quale esclude dai tria crimina «l’aborto realizzato dalla donna in contrasto con la volontà del marito». Sul punto osserva correttamente, tempo addietro, il Nardi (E. NARDI, Procurato aborto, cit., 613) come nella costituzione in disamina l’imperatore avesse voluto circoscrivere «la possibilità di ripudio legale» escludendo deliberatamente dall’alveo il procurato aborto.

[125] Si tratta di un accostamento che ben viene messo in luce da A. Di Mauro Todini, Medicamentarius, cit., 361 ss., il quale osserva come un collegamento si dovesse ravvisare anche con il vocabolo latino venenum, circostanza dalla quale si poteva conseguire che «i vocaboli da essi derivati acquistano nel tempo il significato di ‘avvelenare’ che viene ad avvicinarsi all’originaria valenza magica, determinando non una variazione, ma un arricchimento semantico». Un possibile raccordo tra la testimonianza attualmente in disamina e Plutarchus, Rom. 22.3 sembra rintracciabile, in tempi meno recenti, anche nel pensiero di E. NARDI, Procurato aborto, cit., 29, a parere del quale la politica costantinianea era finalizzata a favorire «contenimento e freno» a comportamenti che sempre più stavano dilagando nella società romana. Cfr., per quanto attiene all’analisi di Plutarchus, Rom. 22.3, § 2.

[126] Ad avviso di C. TERRENI, Me puero, cit., 299 s., la costituzione alluderebbe in termini generali all’utilizzo dei medicamenta, senza evocare espressamente il loro utilizzo con finalità abortiva. La studiosa conclude nel senso che soltanto in Plutarchus, Rom. 22.3 si poteva ravvisare l’intenzione volta alla «soppressione, da parte della gestante, della creatura in grembo».

[127] Si è correttamente notato, da parte di C. TERRENI, Me puero, cit., 298 s., come l’allusione ai medicamenta in CTh. 3.16.1 attenga alla «fabbricazione di sostanze venefiche e tossiche» anziché alla loro «assunzione». In maniera non dissimile si era espresso, in tempi meno recenti, C. CASTELLO, Assenza, cit., 204, mentre per una corretta analisi del termine medicamentarius, cfr. A. Di Mauro Todini, Medicamentarius, cit., 356 ss. e 376 s., a parere della quale il medicamentarius altro non è se non «‘colui che prepara i medicamenti’, il ‘farmacista/erborista’» e ben si inserisce in un progetto volto all’annientamento della «preoccupazione politica e sociale» consistente nella turbativa all’«ordine pubblico» oltre che come valido strumento «d’intimidazione - sia pur indiretta - contro le arti magiche». In questo senso si veda altresì D. Annunziata, Il repudium in Costantino. Brevi note su C.Th. 3.16.1, in Lo spazio della donna nel mondo antico, a cura di M. del Tufo - F. Lucrezi, Napoli 2019, 105 s., il quale osservava come la politica costantinianea costituisse «il tassello di un più ampio progetto di riforma dei costumi e delle intime credenze dei cives» che, oltre a costituire il punto di partenza della riflessione cristiana sul punto, avrebbe permesso di reprimere penalmente condotte tipicamente femminili – si moecham vel medicamentariam vel conciliatricem si legge nel testo della costituzione dovendosi, dunque, ritenere secondaria la determinazione dei «problemi di carattere privato quali i rapporti personali e patrimoniali tra coniugi». Sull’influsso cristiano con riguardo a CTh. 3.16.1 cfr., ex multis, C. VENTURINI, La ripudianda, cit., 255 ss.; ID., Innovazioni postclassiche in materia di accusatio adulterii, in Crimina e delicta nel Tardo Antico, Atti del Seminario di Studi [Teramo, 19-20 gennaio 2001], a cura di F. Lucrezi - G. Mancini, XVI, Milano 2003, 33; P. FERRETTI, Duo... Unum, cit., 83 ss.

[128] A sostegno di questa posizione sembrano militare le osservazioni avanzate da C. TERRENI, Me puero, cit., 299. Con riguardo all’analisi di Plutarchus, Rom. 22.3, cfr., supra, § 2.

[129] Tale è l’orientamento di C. TERRENI, Me puero, cit., 300, la cui impostazione pare di potersi condividere, giacché pare insuperabile l’affermazione a tenore della quale necessitava di essere attribuita all’aborto una «formale veste di illecito idoneo... a giustificare la rottura unilaterale del vincolo da parte del coniuge offeso». La ricostruzione è conforme a quanto proposto, in precedenza, da E. NARDI, Procurato aborto, cit., 613 ss. Pare invece parlare, con riguardo all’inserimento del procurato aborto tra il novero delle iustae causae repudii, di «una meteora che dura soltanto dal 533 al 542» G.I. Luzzatto, Il procurato aborto, cit., 798. Lo studioso, infatti, sostiene che sebbene con Giustiniano si sia indubbiamente assistito alla ricomprensione di siffatto fenomeno nell’egida delle iustae causae repudii, nondimeno si deve rilevare come la sua politica abbia in realtà lasciato «immodificati i termini della repressione penale fissatisi all’inizio del III sec.». La stessa conclusione era stata già in precedenza formulata da E. NARDI, Procurato aborto, cit., 617, laddove osserva come il procurato aborto avrebbe goduto di una «reviviscenza ad opera di Giustiniano» che «non era durata che nove anni» circostanza, questa, che veniva altresì avvalorata dalla mancata allusione di siffatto fenomeno nell’alveo delle iustae causae repudii individuate nella Nov. 117.8 del 542. Sul punto, cfr. C. TERRENI, Me puero, cit., 301, la quale – riprendendo il ragionamento formulato in precedenza dal Nardi – asserisce come l’aborto non figurasse «come fattispecie autonoma nel contesto delle cause giustificative del ripudio» con riguardo alla Nov. 117.8.

[130] Depone a vantaggio di questa ricostruzione E. NARDI, Procurato aborto, cit., 605 ss.; ID., Aborto, cit., 18, il quale considera «sempre valido il concetto di feto ‘spes hominis’». Lo studioso, però, osservava come, sebbene il principio in analisi non venga soppiantato, nondimeno si assiste ad un abbandono dell’«impronta stoica e particolare della fattispecie d’origine».

[131] Trad. Auth.: ... Si enim mulier tanta detineatur nequitia, ut etiam ex studio abortum faciat virumque contristet et privet spe filiorum, vel tanta libido est ut etiam cum viris voluptatis occasione lavetur, aut etiam dum adhuc constet cum viro matrimonium, ad alios de nuptiis suis loquatur, licentia datur a nobis viris mittere eis repudia, et lucrari dotes et antenuptiales habere donationes ...

[132] Cfr., in argomento, B. BIONDI, Il diritto romano, III, cit., 487; E. NARDI, Procurato aborto, cit., 615 ss.; C. FAYER, La familia romana, III, cit., 164 e nt. 392; C. TERRENI, Me puero, cit., 301; M.P. BACCARI VARI, Curator ventris, cit., 128 s.

[133] Cfr., sul punto, E. NARDI, Procurato aborto, cit., 27 ss. e la bibliografia ivi citata.

[134] Trad. Auth.: Has itaque causas nobis Theodosius explanavit. Nos autem ex veteribus sumentes et alias adiecimus tres.

[135] Alludeva a tale collegamento E. NARDI, Procurato aborto, cit., 27 s.

[136] Cfr., supra nt. 129.

[137] Sul punto, infatti, si condividono le considerazioni di E. NARDI, Procurato aborto, cit., 617, secondo cui la finalità cui mirava Giustiniano con la Nov. 117.8 era di osteggiare e ostacolare la pratica invalsa al suo tempo per cui «i matrimoni si possono sciogliere con eccessiva facilità». In questa prospettiva sembra porsi anche F. GORIA, Studi sul matrimonio dell’adultera nel diritto giustinianeo e bizantino, Torino 1975, 156 s., il quale accosta alla necessità di favorire «una drastica riduzione delle ragioni di divorzio» non soltanto una finalità di politica sociale ma paventava altresì come «la posizione della donna» venisse «nel complesso, leggermente migliorata».

[138] Correttamente rileva G. GALEOTTI, Storia, cit., 24, nell’affermare che nei casi di procurato aborto era esistente una «discrezionalità maschile ... per cui in nome dei superiori diritti del vir si poteva liberamente disporre del feto».

[139] A tale evenienza accenna E. Cantarella, I supplizi capitali, cit., 153 ss., laddove ricorda come tra i poteri riconosciuti al maritus da «una delle più antiche leges regiae», vi era quello di uccidere la propria uxor «in caso avesse bevuto vino» che più facilmente induceva la donna verso il procurato aborto. Il quadro così ricostruito veniva ulteriormente rafforzato dalla considerazione a tenore della quale le donne «incapaci di controllarsi» si trovavano a vivere «situazioni imbarazzanti e deprecabili».

[140] Vale la pena rimarcare come, a seguito dell’influsso dello stoicismo nel contesto romano, il procurato aborto viene sanzionato quale lesione della spes hominis paterna. Cfr., in argomento, G. GATTA, Aborto, cit., 161 ss. e G. Galeotti, Storia, cit., 19 s. (per il contesto greco) e 23 (per il contesto romano).

[141] Così rileva C. TERRENI, Me puero, cit., 312, la quale asseriva come, sebbene si trattasse di un fenomeno alquanto esteso e frequente, fosse «da prendere atto dell’assenza, nel corso della Repubblica e della prima età imperiale, di efficaci strumenti repressivi applicabili all’aborto realizzato dalla donna».

[142] Cfr., in argomento, C. TERRENI, Me puero, cit., 312 s. e G. Galeotti, Storia, cit., 25 s.

[143] F. Cavaggioni, Mulier rea, cit., 60.

[144] Si tratta di un’osservazione ascrivibile, in tempi meno recenti, a E. NARDI, Procurato aborto, cit., 617 e in seguito ripresa da G.I. Luzzatto, Il procurato aborto, cit., 798.

[145] Si esprime in questi termini G. GALEOTTI, Storia, cit., 26.