Tradizione-Romana-2021

 

 

SILVIA SCHIAVO

Università di Ferrara

 

Costantino e i liberti Latini: CTh. 2.22.1

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SOMMARIO: 1. I liberti Latini tra Gaio, Salviano di Marsiglia e Giustiniano. – 2. Costantino: CTh. 2.22.1 e il peculium. – 3. L’Interpretatio. – 4. CTh. 2.22.1, l’Interpretatio e il senatusconsultum Largianum. – Abstract.

 

 

 

 

 

 

1. – I liberti Latini tra Gaio, Salviano di Marsiglia e Giustiniano

 

Com’è noto, l’idea, diffusissima in dottrina, secondo cui al momento della morte dei Latini Iuniani il loro patrimonio andava all’ex proprietario a titolo di peculio e non di eredità poggia su una fondamentale testimonianza, ossia un passo di Gaio in materia di lex Iunia Norbana (Gaius, Inst. 3.56). A questo brano va inoltre affiancato un testo dello scrittore Salviano di Marsiglia (Salvianus, ad. Eccl. 3.7.34), ove è detto che i Latini Iuniani vivevano da liberi ma morivano come schiavi[1].

Non molto tempo fa tutto ciò è stato posto in discussione sulla base di una differente messa a fuoco della narrazione gaiana e di una diversa interpretazione delle parole di Salviano di Marsiglia: secondo questa rilettura, né in Gaio né in Salviano sarebbero presenti spunti tali da giustificare siffatte ricostruzioni, tra di loro connesse[2]. Più di recente, invece, con nuovi argomenti è stata proposta una interpretazione più vicina a quella tradizionale[3].

In queste pagine intendiamo inserirci nel dibattito ora brevemente descritto, fornendo ulteriori indizi provenienti dalle fonti nel senso che ciò che veniva lasciato dai Latini Iuniani ai patroni era peculium. In particolare, ci concentreremo su di una costituzione costantiniana accolta nel Codex Theodosianus, CTh. 2.22.1, la quale sembra offrire importanti spunti in tale direzione, oltre che interessanti informazioni sulle più generali conseguenze patrimoniali che si verificavano alla morte dei liberti Latini.

Prima di tutto, però, è necessario descrivere brevemente i due poli della discussione, partendo dalla testimonianza gaiana.

Trattando della lex Iunia Norbana[4], Gaio narra (Gaius, Inst. 1.22) che mentre in precedenza i servi manomessi in modo informale rimanevano schiavi, con tale legge venne invece loro riconosciuta la libertà (… per legem Iuniam libertatem acceperunt) e l’assimilazione ai Latini coloniarii (attraverso il ricorso ad una fictio)[5]. In Gaius, Inst. 1.23 è precisato inoltre che la legge in questione aveva negato a questi Latini la possibilità di disporre per testamento e di capere ex testamento, nonché di divenire tutori[6].

Gli aspetti più rilevanti ai fini della nostra discussione sono però descritti dal giurista nel libro terzo delle sue Istituzioni:

 

Gaius, Inst. 3.56. Quae pars iuris ut manifestior fiat, admonendi sumus, id quod alio loco diximus, eos, qui nunc Latini Iuniani dicuntur, olim ex iure Quiritium seruos fuisse, sed auxilio praetoris in libertatis forma seruari solitos; unde etiam res eorum peculii iure ad patronos pertinere solita est. postea uero per legem Iuniam eos omnes, quos praetor in libertate tuebatur, liberos esse coepisse et appellatos esse Latinos Iunianos: Latinos ideo, quia lex eos liberos proinde esse uoluit, atque si essent ciues Romani ingenui, qui ex urbe Roma in Latinas colonias deducti Latini coloniarii esse coeperunt; Iunianos ideo, quia per legem Iuniam liberi facti sunt, etiamsi non essent ciues Romani. legis itaque Iuniae lator cum intellegeret futurum, ut ea fictione res Latinorum defunctorum ad patronos pertinere desinerent, quia scilicet neque ut serui decederent, ut possent iure peculii res eorum ad patronos pertinere, neque liberti Latini hominis bona possent manumissionis iure ad patronos pertinere, necessarium existimauit, ne beneficium istis datum in iniuriam patronorum conuerteretur, cauere [uoluit], ut bona eorum proinde ad manumissores pertinerent, ac si lex lata non esset. itaque iure quodam modo peculii bona Latinorum ad manumissores ea lege pertinent.

 

Dal brano emerge anzitutto che in passato, olim, quelli che ora sono chiamati Latini Iuniani, e che sono appunti liberi e Latini, erano considerati schiavi ex iure Quiritium[7]. Alla morte dei liberti manomessi informalmente (cui il pretore garantiva la forma libertatis[8], proteggendoli dunque in una apparente situazione di libertà) tutto ciò che si trovava nella loro disponibilità spettava ai padroni iure peculii[9]. Dopo l’emanazione della legge Iunia, invece, i liberti quos praetor in libertate tuebatur[10], sarebbero stati considerati liberi[11]; venivano chiamati Latini perché la legge stessa aveva voluto che fossero liberi al pari dei cittadini romani divenuti Latini coloniarii, e Iuniani, perché era stato grazie a questa legge che erano stati resi liberi, seppure non cittadini romani[12].

Segue poi la trattazione relativa alla sorte che tocca al loro patrimonio al momento della morte: il legislatore[13] sarebbe intervenuto per evitare che questo mutamento nello status dei liberti danneggiasse i manomissori. Infatti, Gaio ricorda che essendo queste persone libere come se fossero cittadini trasferiti in una colonia latina, le loro cose, una volta morti, non potevano spettare ai patroni iure peculii[14], dato che non morivano come schiavi; nello stesso tempo, non potevano spettare ai patroni iure manumissionis, poiché si trattava di un liberto Latino e non di un liberto cittadino romano[15]. Di conseguenza, per andare incontro ai patroni, si stabilì che i beni di questi liberti dovessero spettare loro come se la legge non fosse stata emanata (ac si lex lata non esset)[16]; i bona dei liberti Latini andavano dunque ai manomissori quodammodo iure peculii.

Orbene, proprio questa ultima espressione, di recente, è stata sottoposta a nuovo vaglio, che ha portato ad una rilettura del suo significato: Gaio qui vorrebbe dire che i beni dei liberti Latini spettano ai patroni non per “diritto di peculio”, ma per altro titolo giustificativo, previsto da una specifica disposizione della lex Iunia Norbana. Il giurista non intende affatto affermare che il patrimonio del liberto viene acquistato in quanto peculium. Detto in altri termini, l’espressione quodammodo iure peculii avrebbe una valenza differente rispetto a iure peculii impiegata nello stesso brano con riferimento alla situazione precedente alla lex Iunia Norbana: l’utilizzo di quodammodo da parte di Gaio, in diversi punti delle Istituzioni, fa capire che il giurista usa questa parola per porre in essere un confronto fra situazioni giuridiche simili, ma tenendo decisamente distinte le diverse fattispecie[17].

Secondo questa differente impostazione, dunque, i liberti Latini non solo vivevano come liberi ma pure morivano da liberi; il loro patrimonio spettava al loro manomissore non a titolo di peculio, ma sulla base di un diverso titolo, introdotto dalla lex Iunia[18].

Come abbiamo già detto, i problemi interpretativi del passo di Gaio si intrecciano con quelli che nascono da un celebre brano di Salviano di Marsiglia, presbitero autore, nel V secolo, di un’opera Ad ecclesiam[19]. Si tratta, per chi sostiene questa impostazione innovativa, della fonte “per eccellenza”, quella più importante, da cui sarebbe stata ricavata la regola, quasi proverbiale, secondo cui i liberti Latini vivevano da liberi ma morivano da schiavi[20].

Nel libro terzo della sua opera, Salviano, dopo essersi scagliato con una forte invettiva contro i padri che, morendo, lasciavano ai figli appartenenti agli ordini religiosi solo l’usus dei propri beni, riservando agli altri figli la proprietà, sostiene che questi ascendenti tolgono ai primi la proprietà affinché non abbiano nulla da lasciare a Dio. Ottenendo solo l’usus essi vivono come se fossero ricchi, ma muoiono in povertà: in tal modo il testatore, infidelissimus, ha la completa sicurezza che nulla di suo arriverà a Dio[21]. Proseguendo nel discorso, Salviano procede con alcuni paragoni efficaci: i padri vengono confrontati prima con gli ex domini dei liberti cittadini romani e poi con gli ex domini dei liberti Latini. I primi si comportano sicuramente meglio dei padri che lasciano ai figli appartenenti agli ordini religiosi solo l’usus dei beni: gli ex schiavi, infatti, acquistano il peculio e ottengono lo ius testamentarium, potendo disporre del proprio patrimonio sia in vita che al momento della morte.

Per lo scrittore, questi padri sono, piuttosto, paragonabili a quei domini che, non ritenendo i propri schiavi meritevoli di ottenere la cittadinanza romana, concedono loro la libertas Latina, tenendoli ancora sottoposti ad un iugum, dato che consentono loro di vivere da liberti, ma non vogliono che abbiano qualcosa per il momento della morte. Questi liberti infatti non hanno capacità di fare testamento, venendo loro negato tale arbitrium[22]. Dopodiché Salviano afferma:

 

Ad. eccl. 3.7.34. Ita ergo et tu religiosos filios tuos quasi Latinos iubes esse libertos; ut vivant scilicet quasi ingenui, et moriantur ut servi, et iuri fratrum suorum quasi per vinculum Latinae libertatis adstricti, etiam si videntur arbitrii sui esse dum vivunt, quasi sub illorum tamen positi potestate moriantur…

 

Proprio questo punto dell’opera, in cui lo scrittore confronta i figli appartenenti agli ordini religiosi con i liberti Latini, contiene la frase ut vivant scilicet quasi ingenui, et moriantur ut servi: tali parole, come abbiamo già detto, secondo molti studiosi sarebbero una prova chiarissima del fatto che i Latini Iuniani, cui vengono riferite, morirebbero come schiavi; questa idea avrebbe una forte connessione con quella, veicolata dal brano gaiano, per cui i manomissori di questi liberti succedevano iure peculii.

Secondo la diversa impostazione di cui stiamo dando conto, invece, le parole di Salviano di Marsiglia andrebbero interpretate in altro modo: si riferirebbero infatti non ai liberti Latini, ma ai religiosi filii. Sono loro che vivrebbero da ingenui e morirebbero da schiavi[23]; come Salviano aveva già detto precedentemente, vanno considerati servituti addicti, trovandosi in una posizione di subalternità rispetto agli altri fratelli[24].

In definitiva, sarebbe priva di fondamento l’idea diffusissima (e tralatizia) secondo la quale i liberti Latini, pur vivendo da liberi morivano come schiavi, idea fortemente connessa a quella secondo cui gli ex padroni acquisivano il loro patrimonio iure peculii.

Si diceva che una posizione più vicina a quella ‘tradizionale’ è stata invece sostenuta in un recentissimo studio[25].

Qui, anzitutto, si ripercorre nuovamente la narrazione di Gaius, Inst. 3.56. Secondo questa ricerca, pure ammettendo che il quodammodo iure peculii indichi un titolo diverso da quello definito iure peculii, si tratterebbe comunque di una precisazione meramente formale: sul piano sostanziale, «proprio il meccanismo analogico fa sì che nulla di meno il manomissore otterrà dopo la lex Iunia rispetto a quanto conseguiva prima di quella innovazione»[26]. Ancora, pur avendo precisato Gaio che i Latini Iuniani neque ut servi decederent, con le novità introdotte dalla legge al titolo formale di liberti non corrisponderebbe alcuna capacità successoria attiva, dato che il loro patrimonio andava comunque interamente ai manomissori[27]. Nonostante lo sforzo di Gaio di procedere con una narrazione sfumata, puntando il giurista l’attenzione sul tentativo di bilanciamento fra opposti interessi che la legge avrebbe perseguito, il quadro che ne risulta sarebbe comunque chiaramente sbilanciato a favore dei manomissori.

Sarebbe quindi del tutto plausibile pensare che la parola quadammodo non fosse presente nel testo della legge, ma venisse impiegata dal giurista nel tentativo di dipingere una situazione più rosea di quella che era in effetti, in sintonia con una linea narrativa già presente e circolante nella giurisprudenza[28].

Anche sul passo di Salviano di Marsiglia si avanzano considerazioni diverse. Se si accettasse l’interpretazione nuova del brano, poco sopra richiamata, l’ita ergo iniziale rappresenterebbe solo il raccordo con quanto affermato precedentemente dallo scrittore: rimarrebbe così priva di riferimento principale la frase introdotta dall’ut, quella che a noi interessa. Al contrario, tale frase riguarderebbe comunque i Latini Iuniani, il riferimento ai quali serve a Salviano per spiegare la situazione dei figli religiosi, come è confermato anche dal prosieguo del testo, dove si dice che rispetto alla posizione dei loro fratelli sono adstricti …quasi per vinculum Latinae libertatis[29].

Vi è, inoltre, un ulteriore, importante spunto nelle Istituzioni giustinianee, che mostrerebbero il recepimento di fondo dell’idea che i liberti Latini vivono da liberi ma muoiono da schiavi. Tale impostazione, che si intreccia a quella gaiana (ove si parla di iure quadammodo peculii), sarebbe  segno di un certo radicamento, nella tradizione giuridica, dell’idea che i Latini Iuniani al momento della morte perdevano la libertà, idea che è estremamente rilevante in relazione alla loro condizione patrimoniale[30].

Infatti, in I. 3.7.4, a proposito di questi liberti Giustiniano afferma: qui licet ut liberi vitam suam peragebant, attamen ipso ultimo spiritu simul animam atque libertatem amittebant et quasi servorum ita bona eorum iure quodammodo peculii ex lege Iunia manumissores detinebant. I liberti Latini, pur vivendo come liberi, morendo perdevano l’anima ma anche la libertà. È vero che proseguendo il discorso, a proposito dell’acquisto da parte dei manomissori, l’imperatore riprende le parole gaiane, che paiono spingere verso l’idea di un titolo non sovrapponibile esattamente a quello iure peculii[31], ma risulta comunque significativo il riferimento all’amittere libertatem[32].

Le parole di Giustiniano metterebbero in luce una tradizione differente rispetto a quella gaiana: la tradizione secondo cui i liberti Latini muoiono da schiavi, dunque presente pure nelle fonti giuridiche. Sarebbe anzi molto probabile che l’idea si fosse sviluppata proprio all’interno della tradizione giuridica, che avrebbe poi influenzato la cultura di Salviano di Marsiglia[33]. E anche fonti più tarde, medievali, sembrano conservare questa idea, sulla scia della riscoperta delle fonti giustinianee[34].

 

 

 

2. – Costantino: CTh. 2.22.1 e il peculium

 

Noi vorremmo inserirci nel dibattito ora ricostruito chiamando in causa una ulteriore fonte, cronologicamente intermedia tra Gaio e Giustiniano, certo non sconosciuta, ma che merita maggiore attenzione proprio in relazione al problema affrontato. Essa infatti svela dettagli utili sulla questione degli aspetti patrimoniali collegati alla morte dei Latini Iuniani, fornendo indizi nella direzione dell’idea ‘tradizionale’, quella secondo cui i loro patroni acquistavano i beni iure peculii[35]. Non solo: questa fonte permette di precisare meglio l’ordine di chi subentrava nei beni dei liberti Latini, dato che contiene riferimenti ad una disciplina ricollegabile al senatusconsultum Largianum, intervenuto sul tema dopo la lex Iunia Norbana[36].

Si tratta di una costituzione costantiniana, probabilmente del 320 [37], inserita come unico testo di CTh. 2.22 De hereditatis petitione[38]:

 

CTh. 2.22.1. Imp. Constantinus A. et C. ad Maximum p.u. Si is, qui dignitate Romanae civitatis amissa Latinus fuerit effectus, in eodem statu munere lucis excesserit, omne peculium eius a patrono vel a patroni filiis sive nepotibus, qui nequaquam ius agnationis amiserint, vindicetur. Nec ad disceptationem veluti hereditariae controversiae filiis liceat accedere, cum eius potissimum status ratio tractanda sit, non quem beneficio libertatis indultae sortitus acceperit, sed is, in quo munere lucis excesserit. Dat. III Kal. Feb. Serdic(ae) ipso A. VII et C. Conss.

Interpretatio. Si quis civis Romanus libertus intercedente culpa Latinus libertus fuit effectus, si in eadem Latinitate sine reparatione prioris status, ab hac luce discesserit, facultatem illius patronus, vel patroni filii, vel nepotes, qui tamen per virilem lineam descendunt et emancipati non fuerint, sibimet vindicabunt. Nec si filios, quos civis Romanus generavit, fortasse dimiserit, aliquid de eius hereditate praesumant, quia non quaerendum est in qua libertate nati fuerint, sed in qua pater eorum positus condicione defecerit.

 

Il provvedimento costantiniano è stato accolto anche nel Breviarium Alaricianum; pure dalla sua Interpretatio si ricavano elementi importanti, di cui terremo conto. Nella compilazione giustinianea esso non trova invece spazio, molto probabilmente in conseguenza della eliminazione della Latinitas Iuniana da parte di Giustiniano.

Secondo una lettura già presente in Gotofredo[39] Costantino si occuperebbe qui dei liberti cittadini romani che, macchiatisi di ingratitudine, subivano come sanzione la perdita della cittadinanza romana, divenendo Latini, e preciserebbe le conseguenze patrimoniali collegate alla loro morte. Si tratterebbe insomma di un caso in cui la Latinitas Iuniana è impiegata come sanzione[40].

Attorno alla costituzione costantiniana si annidano numerosi problemi.

Anzitutto, formali: sarebbe infatti un frammento di un più ampio intervento dedicato ai liberti, di cui conosciamo diverse parti[41].

In secondo luogo, sostanziali. Come si è già detto, il frammento della costituzione costantiniana avrebbe riguardato una sanzione prevista per i liberti ingrati. Questo sarebbe il senso delle parole si is, qui dignitate Romanae civitatis amissa Latinus fuerit effectus. Nella Interpretatio è presente una spiegazione più precisa: Si quis civis Romanus libertus, intercedente culpa, Latinus libertus fuit effectus. Viene infatti evidenziato che il passaggio dalla situazione di cittadino romano a quella di latino è conseguente a ‘culpa’, ad un comportamento del liberto che, come abbiamo detto, secondo un’idea diffusa integrerebbe un caso di ingratitudine. Questa sanzione sarebbe meno grave rispetto alla revoca della libertà, richiamata invece in CTh. 4.10.1, sempre di Costantino[42].

CTh. 2.22.1 rappresenta, a nostra conoscenza, l’unica fonte nella quale appare questo tipo di sanzione per l’ingratitudine dei liberti. Difficile quindi dire se sia stata prevista per la prima volta proprio da Costantino o se abbia radici più lontane, delle quali non è rimasta poi traccia nella compilazione giustinianea[43]. Come meglio si vedrà, il tono della costituzione farebbe pensare alla puntualizzazione di una disciplina pregressa, le cui origini sono però difficilmente ricostruibili.

Trattando l’imperatore di quanto accade alla morte del liberto divenuto Latino (vero focus dell’intervento normativo), vengono precisate alcune conseguenze scaturenti dall’acquisto di tale status. Orbene, le suddette conseguenze si applicano se il liberto muore in questa medesima situazione, in eodem statu munere lucis excesserit; è affermato nell’Interpretatio: si in eadem Latinitate, sine reparatione prioris status, ab hac luce discesserit, non essendo cioè il liberto riuscito a recuperare il precedente stato[44].

Orbene, nella costituzione, in maniera molto netta, si dice che se il liberto, prima cittadino, poi divenuto Latino, muore nella medesima condizione, il patrono o i suoi discendenti (ci dobbiamo soffermare meglio su questo secondo punto[45]) avranno omne peculium eius.

È usata proprio la parola peculium: l’acquisto da parte del patronus avviene dunque iure peculii[46].

Il termine fa pensare, appunto, agli schiavi - anche se poi si parla non di dominus ma di patronus[47]- e quindi al fatto che alla morte dei liberti Latini si riconnettevano regole analoghe a quelle previste per i servi. E ciò, inevitabilmente, riporta alla mente quanto dirà Salviano di Marsiglia nel suo Ad ecclesiam un centinaio di anni dopo, anche se Costantino (a differenza di quanto farà più avanti Giustiniano)[48] non parla di perdita della libertà con la morte.

In questa luce, un ulteriore aspetto significativo è ricavabile dalla frase finale della costituzione, che riportiamo di nuovo: … Nec ad disceptationem veluti hereditariae controversiae filiis liceat accedere, cum eius potissimum status ratio tractanda sit, non quem beneficio libertatis indultae sortitus acceperit, sed is, in quo munere lucis excesserit.

Qui l’imperatore si sofferma ulteriormente sugli aspetti successori ricollegabili a questi latini, in una prospettiva però differente. Tratta infatti dei loro figli, nei confronti dei quali vi è un preciso ammonimento: non è possibile per loro accedere a qualsivoglia disceptatio veluti hereditariae controversiae.

I figli non possono dunque far partire azioni (contro i patroni?) come se si trattasse di una controversia ereditaria, poiché non deve essere preso in considerazione lo status del padre al momento in cui ricevette il beneficium libertatis (con l’acquisto della cittadinanza romana), ma lo status in cui si trovava alla morte (quindi quello di liberto latino), status che implica che non vi sia eredità in senso tecnico. Tutto ciò può essere letto ad ulteriore conferma di quanto detto precedentemente: i liberti Latini non possono avere eredi, a differenza dei liberti cittadini romani, poiché i loro beni spetteranno ai patroni iure peculii[49].

Pure il verbo vindico presente nella costituzione potrebbe rafforzare l’idea che il liberto Latinus, morendo, è considerato alla stregua di uno schiavo; di conseguenza, i beni possono essere rivendicati dal manomissore che ne è proprietario[50].

Ancora. Come è stato correttamente osservato, le parole costantiniane sembrano rivestire la funzione di mettere fine a una discussione in materia. Paiono cioè orientate a fissare l’idea che i figli del liberto non possono avanzare pretese alla morte del loro padre, forse contro l’idea opposta in circolazione, presumibilmente quella per cui, essendo stato precedentemente il liberto cittadino romano, si dovevano applicare le relative regole[51].

In effetti la costituzione, per come è strutturata, non dà l’idea di un intervento volto ad introdurre diritto nuovo; piuttosto, di un provvedimento teso a chiarire i dubbi relativi a una disciplina già in vigore[52].

Se ciò è vero, si può sostenere che tale sanzione per l’ingratitudine dei liberti era già stata introdotta, anche se non è possibile formulare alcuna ipotesi circa la sua origine; forse non da molto tempo, forse dallo stesso Costantino, dato che numerosi dubbi persistono sulla sua applicazione.

Probabilmente le incertezze sugli aspetti patrimoniali collegati con la morte di questi liberti e la circolazione dell’idea che i loro figli potessero divenire eredi (come accadeva nel caso di liberti cittadini romani) dipendevano dal fatto che questa Latinitas aveva delle peculiarità.

La Latinitas di CTh. 2.22.1 è, come si è visto, la conseguenza per l’ingratitudine di liberti cittadini romani. Il passaggio da uno stato all’altro (passaggio non irreversibile, dato che, almeno dalla interpretatio, si comprende che vi era la possibilità di “redenzione”) doveva rendere ambigua la situazione patrimoniale collegata alla morte dei liberti colpiti da tale sanzione, tanto da causare incertezze e opinioni diverse, con la necessità dell’intervento chiarificatore dell’imperatore. Come è stato suggerito, forse dubbi di tal genere possono essere spiegati se si considera che in un altro testo costantiniano, C. 6.7.2 (che probabilmente faceva parte dello stesso provvedimento da cui è stata ricavata anche CTh. 2.22.1), dedicato alla revoca della libertà per ingratitudine, è precisato che quando un liberto torna schiavo per ingratitudine i suoi figli non perdono la libertà, non dovendo subire conseguenze negative a causa della punizione del loro padre: forse i sostenitori dell’orientamento cassato in CTh. 2.22.1 partivano da un presupposto del genere[53].

 

 

 

 

3. – L’Interpretatio

 

Se le nostre osservazioni sono plausibili la costituzione di Costantino proverebbe che alla morte dei liberti divenuti Latini i loro beni andavano ai patroni a titolo di peculio. Da questo punto di vista, Costantino mostra di accogliere sulla questione una visione molto simile a quella che avrà più tardi Salviano, e che si intravede pure nella compilazione giustinianea e in alcuni testi medievali[54].

Volgiamo ora lo sguardo alla Interpretatio che accompagna la costituzione nel Breviarium Alaricianum. Rileggiamola:

 

Interpretatio. Si quis civis Romanus libertus intercedente culpa Latinus libertus fuit effectus, si in eadem Latinitate, sine reparatione prioris status ab hac luce discesserit, facultatem illius patronus, vel patroni filii vel nepotes, qui tamen per virilem lineam descendunt et emancipati non fuerint, sibimet vindicabunt. Nec si filios, quos civis Romanus generavit, fortasse dimiserit, aliquid de eius hereditate praesumant, quia non quaerendum est in qua libertate nati fuerint, sed in qua pater eorum positus conditione defecerit.

 

Rispetto al testo della costituzione costantiniana, essa presenta alcune differenze: il provvedimento costantiniano viene infatti spiegato dall’interprete occidentale[55] senza ricorso al termine peculium. È detto infatti che se un liberto cittadino romano, intercedente culpa, diviene latino, e muore in questa condizione, sine reparatione prioris status, il patrono e i suoi discendenti (su tale aspetto ci soffermeremo più avanti[56]) potranno rivendicare la sua facultas. Termine, questo, più neutro, e che si avvicina forse ai bona di cui parlava Gaio nelle Istituzioni[57]. Dunque, un approccio diverso rispetto a quello di Costantino, non essendoci un richiamo esplicito al peculium[58]. Nello stesso tempo, però, bisogna notare che torna pure qui il verbo vindico, che rimanda all’idea del diritto di proprietà dei beni in capo al patrono, e che potrebbe quindi far tornare all’ipotesi che, in forza della fictio della lex Iunia Norbana, i liberti Latini morendo tornavano schiavi[59].

 

 

 

4. – CTh. 2.22.1, l’Interpretatio e il senatusconsultum Largianum

 

La costituzione costantiniana riveste interesse pure per un altro motivo che vorremmo mettere in luce in chiusura di questo lavoro. Come si è visto, essa contiene un riferimento ai discendenti del patrono: Costantino dice che alla morte del liberto nello stato di Latino, il peculium andrà al patrono o ai figli o nipoti del patrono, qui nequaquam ius agnationis amiserint.

Prima di procedere, è utile ricostruire in maniera più ampia il quadro patrimoniale connesso alla morte dei Latini Iuniani nel diritto classico, tornando per un momento alla trattazione delle Istituzioni gaiane.

Dopo avere ricordato che in forza della lex Iunia Norbana tutti i beni del liberto andavano al patrono iure quodammodo peculii, Gaio ricava una serie di ulteriori conseguenze; fra queste, quella per cui i beni del liberto Latino spettano pure agli eredi estranei del manomissore e non vengono attribuiti ai figli diseredati (Gaius, Inst. 3.45-48).

Successivamente Gaio narra che alla disciplina della lex Iunia si aggiunge quella del senatusconsultum  Largianum[60]. Sulla base di questa deliberazione senatoria l’ordine di chi subentrava era dato anzitutto dal manomissore e, in secondo grado, dai liberi di questo a partire dal più vicino, purché non diseredati nominatim[61], infine, dagli eredi estranei del manomissore. Gaio, inoltre, contrapponendosi a quanto sosteneva Pegaso, segnala che in forza del senatoconsulto era particolarmente evidente la differenza fra la successione dei liberti cittadini romani e quella dei liberti Latini. Nel primo caso, in presenza di liberi del manomissore i beni dei liberti non poteva andare assolutamente agli eredi estranei, nel caso dei liberti Latini invece sì: sono infatti preferiti agli estranei solo i liberi del patrono che non siano stati diseredati nominatim[62]. Di conseguenza, afferma ancora Gaio, sono ammessi pure il figlio emancipato preterito dal patrono (filius), la figlia o altri sui diseredati inter ceteros, i figli che si astenevano dalla eredità paterna[63].

Anche le Istituzioni imperiali conservano il ricordo del senatoconsulto dopo la sua abolizione, avvenuta ad opera di Giustiniano nel 531, e pongono l’accento proprio sulla regola per cui i figli del manomissore non nominativamente diseredati vengono prima degli eredi estranei[64].

Torniamo adesso alla costituzione costantiniana. L’imperatore, affermando che alla morte del liberto divenuto Latino il suo peculio andrà al patrono o ai suoi figli o nipoti, dice: omne peculium eius a patrono vel a patroni filiis sive nepotibus, qui nequaquam ius agnationis amiserint, vindicetur. Troviamo l’espressione qui nequaquam ius agnationis amiserint

Che cosa vuol dire Costantino qui? L’imperatore sembra proprio ripercorrere quanto previsto secoli prima dal senatusconsultum Largianum, che indicava, come si è visto, dopo il patrono, i liberi non diseredati nominativamente, secondo la prossimità del grado[65].  Costantino richiama infatti il patrono, i figli e i nipoti.

Nella descrizione gaiana, a proposito dei figli del manomissore, si diceva che i figli non dovevano essere diseredati nominativamente (ci si riferiva qui quindi ai figli in potestà, rispetto ai quali c’era rapporto agnatizio) ma, nello stesso tempo, Gaio afferma che la ratio della deliberazione senatoria, tra l’altro, è quella di ammettere alla successione del liberto il figlio emancipato preterito nel testamento paterno[66]. Così si legge in Gaius, Inst. 3.65: Itaque emancipatus filius patroni praeteritus quamvis contra tabulas testamenti parentis suis bonorum possessionem non petierit, tamen extraneis heredibus in bonis Latinorum potior habetur.

In CTh. 2.22.1 sembra invece rilevante il rapporto agnatizio (ius agnationis).

Questo ha condotto a sostenere che nella costituzione costantiniana vi sarebbe traccia di una disciplina diversa rispetto a quella prevista originariamente dal Largiano[67]: l’assenza di legame agnatizio precluderebbe la successione nei beni del liberto Latino, dunque anche in caso di figlio emancipato[68].

Secondo una differente impostazione, invece, l’insistenza con cui si richiama il rapporto agnatizio sarebbe legata ad un altro problema. Dopo l’emanazione del Largiano, infatti, la giurisprudenza si era posta alcune questioni particolari, in relazione alle quali non c’era una disciplina espressa nel senatoconsulto. Fra l’altro, ci si chiedeva se i principi previsti per i liberi patronorum andassero applicati anche ai discendenti liberi ex filia nepteve; secondo Gaio, il giurista Cassio sarebbe stato proprio di questa opinione, volta ad una maggiore tutela della parentela naturale, tuttavia tale interpretazione non ebbe seguito e si consolidò l’opinione per cui erano interessati dall’acquisto solo i discendenti per linea maschile, non diseredati nominativamente[69]. Orbene, nella costituzione costantiniana il riferimento al rapporto agnatizio avrebbe proprio lo scopo di confermare questa regola[70].

Secondo noi, questa impostazione è più accettabile. Risulta necessaria però una migliore messa a fuoco del testo costantiniano, considerato anche il fatto che qui si parla di ius agnationis che viene perduto. In CTh. 2.22.1, a chi si riferisce la frase qui nequaquam ius agnationis amiserint? Ai figli e ai nipoti o ai soli nipoti?

Qualche spunto in più sembra provenire dall’Interpretatio, dove si legge: … vel patroni filii, vel nepotes, qui tamen per virilem lineam descendunt et emancipati non fuerint, sibimet vindicabunt. Pure qui vi è il riferimento ai figli e ai nipoti, con la precisazione qui tamen per virilem lineam descendunt et emancipati non fuerint: solo coloro i quali discendono per ‘linea virile’ e che non sono stati emancipati avranno i beni del liberto.

Ora, il riferimento alla virilis linea, dunque alla discendenza attraverso maschi, fa pensare ai nipoti: di conseguenza, mentre rientrerebbero nella previsione anche i figli che erano stati emancipati e avevano dunque perso lo ius agnationis, le limitazioni riguarderebbero solo i primi, che possono rivendicare i beni dei liberti se discendono da figli maschi del manomissore e non sono stati emancipati.

La Interpretatio può dunque essere utile per comprendere meglio il dettato della costituzione costantiniana. Essa chiarisce, rispetto al testo della costituzione, che per i nipoti è necessario il legame agnatizio con il patrono, alla nascita ma anche successivamente.

Alla luce delle parole dell’interprete, Costantino non si sarebbe distaccato dal regime di età classica, ma l’avrebbe anzi mantenuto: i figli emancipati del patrono possono ancora, nel IV secolo, ottenere i beni del liberto; i nipoti solo se discendono dal patronus per virilem lineam e se sono ancora legati a lui dal rapporto agnatizio. La costituzione dunque mostra come l’esclusione dalla successione dei nipoti ex filia del patrono continuava a trovare applicazione nel IV secolo, in linea con l’antica deliberazione senatoria[71].

 

 

 

Abstract

 

Recently, a debate arose on some sources dealing with the inheritance situation of liberti Latini: Gaius, Inst. 3.56 and Salvianus, ad Eccl. 3.7.34. In the article also CTh. 2.22.1, a constitution issued by Constantine in 320, and its Interpretatio are taken into consideration. The author aims to demonstrate that what liberti Latini left was peculium and that the constitution is strictly connected with the ancient discipline of senatusconsultum Largianum.

 

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind. Continuano ad essere valutati i fuori ruolo delle Università italiane; mentre per gli studiosi stranieri valutazione solo se richiesta.]

 

[1] La letteratura sulla questione è molto ampia. Per la sua ricostruzione rinviamo a E. Nicosia, “Moriuntur ut servi”? Un aspetto rilevante della condizione giuridica dei Latini Iuniani, in φιλία. Scritti per G. Franciosi, III, Napoli 2007, 1829, note 1 e 2. Ci limitiamo qui a ricordare alcuni lavori recenti nei quali sono accolti questi punti di vista. Per quanto riguarda Gaius, Inst. 3.56 cfr. A.J.B. Sirks, Informal Manumission and the lex Iunia, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 28, 1981, 247 ss.; Id., The lex Iunia and the Effects of Informal Manumission and Iteration, in Revue internationale des Droits de l’Antiquité 30, 1983, 251 ss.; M. Balestri Fumagalli, Lex Iunia de manumissionibus, Milano 1985, 72 e 86; H.L.W. Nelson, U. Manthe, Gai Institutiones III 1-87. Text und Kommentar, Berlin 1992, 158; E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, 391; G. Mancini, Cives Romani Municipes Latini, Milano 1997, 20 ss.; P. Starace, Lo statuliber e l’adempimento fittizio della condizione. Uno studio sul favor libertatis tra tarda repubblica e età antonina, Bari 2006, 74 e nt. 88; sul brano di Salviano di Marsiglia, oltre agli autori già citati, si vedano G. Luchetti, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1996, 25, nt. 24; P. López Barja de Quiroga, Junian Latins: Status and Number, in Athenaeum 86, 1998, 132 ss.

[2] Ci riferiamo al saggio di E. Nicosia, “Moriuntur ut servi”?, cit., 1829 ss.

[3] Si veda C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana. Aspetti patrimoniali, in Gerión. Revista de Historia Antigua 36(2), 2018, 555 ss.

[4] A lungo considerata risalente al 19 d.C., è in realtà probabilmente di età augustea (del 25 a.C. o del 17 a.C., anni in cui vi fu un console Iunius). Sulla questione della datazione della legge rinviamo a C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 557, nt. 12, con indicazione di altra letteratura.

[5] Cfr. Gaius, Inst. 1.22. Su questo aspetto si vedano, fra molti, M. Balestri Fumagalli, Lex Iunia de manumissionibus, cit., 84 ss.; L. Pellecchi, Loi Iunia Norbana sur l’affranchissement, in J.-L. Ferrary, Ph. Moreau, Lepor. Leges Populi Romani, Paris 2007 (on line http://telma.irht.cnrs.fr/outils/lepor/notice490/); C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 557 ss.

[6] Si veda Gaius, Inst. 1.23; inoltre, pure la testimonianza di Tit. Ulp. 22.3.

[7] Sulla contrapposizione olim/nunc nel discorso gaiano si vedano G. Fabre, Libertus. Patrons et affranchis à Rome, Roma 1981, 55 ss., e ora C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 559. Di recente anche M.A. Ligios, Note sul regime successorio dei dediticii Aeliani in Gai 3.74-76, in Jus 2018, 289 ss.

[8] Per questa notizia si veda pure il Frg. Pseudo-Dosith. 5. Su questo aspetto relativo all’intervento del pretore cfr. G. Fabre, Libertus, cit., 59; C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 559.

[9] Vi è qui da notare che Gaio impiega il termine patronus per indicare chi è a tutti gli effetti ancora dominus, e che invece ai suoi tempi diventerebbe patrono. Si veda sul punto E. Nicosia, “Moriuntur ut servi”, cit., 1833, con nt. 14. Parla di “cortocircuito” nella narrazione gaiana C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 559 ss., che nota l’uso di una terminologia non precisa, che scivola dal piano dei rapporti fra dominus e servus a quello della relazione fra patronus e libertus.

[10] Sulla frase cfr. già M. Wlassak, Die prätorischen Freilassungen, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 28, 1905, 376; A.J.B. Sirks, Informal Manumission, cit., 249, nota che la frase potrebbe indicare non solo la tutela processuale (per esempio, secondo lo studioso, attraverso l’eccezione) ma anche la possibilità per il liberto di avere dei beni, o di partecipare ai processi. G.L. Falchi, Sui ‘Fragmenta Berolinensia’ incerti auctoris ‘De iudiciis’, in Studia et Documenta Historiae et Iuris LI, 1985, 205, afferma che «In questo passo…si spiega chiaramente come l’origine della categoria dei Latini Iuniani è legata alla posizione di coloro i quali vedevano tutelata la loro situazione di libertà di fatto per via pretoria».

[11] E. Nicosia, “Moriuntur ut servi”, cit., 1833, parla di riconoscimento della libertà intervenuto dopo la legge: «… ora a queste persone veniva giuridicamente riconosciuta la libertà». La precisazione quos praetor in libertate tuebatur fa pensare all’idea che venissero considerati ‘liberi’ liberti manomessi informalmente che avrebbero avuto comunque tutela pretoria. Pare che qui rimanga comunque coinvolto un intervento del pretore; si potrebbe forse sostenere, ma ciò richiede un approfondimento, che non tutti i manomessi in modo informale fossero considerati liberi e Latini, anche dopo l’emanazione della legge, ma solo quelli in qualche modo già tutelati dal pretore. Interessante da questo punto di vista potrebbe essere il Frag. Dosith. 8: Item ut possit habere servus libertatem, talis esse debet, ut praetor vel proconsul libertatem tueatur: nam et hoc lege Iunia cautum est. sunt enim plures causae, in quibus non tuetur proconsul libertatem, de quibus procedentes ostendemus. Da qui parrebbe che la legge avesse riconosciuto la libertà solo ai servi che erano tutelati dal pretore o (evidentemente nelle province) dal proconsul; numerose cause, invero, non giustificavano la tutela magistratuale. Su Frag. Dosith. 8 cfr. M. Balestri Fumagalli, Lex Iunia de manumissionibus, cit., 143 ss. Su questo testo si veda inoltre da ultimo G. Falcone, Sul cd. Fragmentum Dositheanum, in Specula iuris 1, 2021, 213 e nt. 52: lo studioso, nell’ambito di un lavoro più ampio dedicato al Fragmentum Dositheanum, accenna a Fr. Dosith. 7 e 8 come punti dell’opera ove si trovano trattate questioni di cui nel manuale gaiano non vi è traccia. In effetti, dalla loro lettura si potrebbe sostenere che la protezione dello schiavo manomesso informalmente non avveniva sempre e in qualsiasi situazione ma che la lex Iunia Norbana richiamasse delle specifiche situazioni nelle quali il magistrato non tutelava la libertà. Sempre M. Balestri Fumagalli, op. cit., 144, ricorda che la formulazione molto vaga «non consente di identificare quelle ipotesi di mancata tutela da parte del magistrato che si dovrebbe tradurre in altrettanti casi di mancato conferimento dello status libertatis ai sensi della lex Iunia».

[12] Cfr. ancora E. Nicosia, “Moriuntur ut servi”, cit., 1833. Ricostruzione del contenuto del passo di Gaio già in A.J.B. Sirks, Informal Manumission, cit., 251 ss.: la legge ha probabilmente introdotto alcune finzioni, come si è già detto.

[13] Sul riferimento al legis lator, “non scontato”, si vedano le osservazioni di C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 560.

[14] Sulla difficoltà di conciliare il riferimento ai patroni e contestualmente al peculium si veda C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 560.

[15] Cfr. ancora E. Nicosia, “Moriuntur ut servi”, cit., 1834. Cfr. Gaius, Inst. 3.39 ss. ove si ricorda che la legge delle XII Tavole chiamava i patroni alla successione dei liberti cittadini romani.

[16] Qui parrebbe esserci il riferimento ad una finzione da punto di vista testuale, cosa però non vera sul piano sostanziale: sul punto C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 561, che evidenzia come si tratti dell’approccio di Gaio. Su questa fictio prevista dalla lex si vedano già le considerazioni di A.J.B. Sirks, Informal Manumission, cit., 255, il quale ritiene che da qui si possa assumere che le manomissioni informali avevano come finalità il conservare i patrimoni al patrono, altrimenti non si comprenderebbe perché la legge avrebbe creato loro iniuria.

[17] Si veda E. Nicosia, “Moriuntur ut servi”, cit., 1838, dopo l’analisi di alcuni punti delle Institutiones gaiane ove appunto è usato quodammodo. Sui problemi scaturenti dalle espressioni gaiane si veda già S. Solazzi, ‘Quodam modo’ nelle istituzioni gaiane, in Studia et Documenta Historiae et Iuris XIX, 1953, 119.

[18] E. Nicosia, “Moriuntur ut servi”, cit., 1838, nt. 29, sottolinea pure che in Gaius, Inst. 3.57, il giurista tiene distinti i bona dei liberti Latini dal peculio servile, dicendo che i beni del Latino spettavano tamquam peculia servorum, qualcosa di diverso rispetto al peculio stesso.

[19] Su Salviano e la sua opera si veda la letteratura richiamata in E. Nicosia, ‘Moriuntur ut servi’?, cit., 1839, note 30, 31 e 32. La studiosa ricorda che grazie ai fatti storici narrati nelle opere di Salviano si può affermare che egli sia nato tra la fine del IV secolo e l’inizio del V. La morte viene invece collocata tra il 464 e il 480.

[20] Cenni alle parole di Salviano di Marsiglia e alla tesi di E. Nicosia anche in I. Ruggiero, Una breve nota sulla condizione dei liberti Latini e dei loro discendenti in età tardoantica, in Koinonia 41, 2017, 471 e nt. 43 sul problema del quommodo iure peculii in Gaio. La testimonianza di Salviano circa i Latini Iuniani fa comprendere, secondo Ruggiero, il fatto che numerosi dovevano essere gli appartenenti a questa categoria nelle Gallie del V secolo, fenomeno corroborato dalla presenza del brano delle Pauli Sententiae che la studiosa analizza: contiene l’espressione “latina ingenua”, che secondo Ruggiero indicherebbe una donna libera nata da un Latinus Iunianus.

[21] Si veda, in particolare, Ad. eccl. 3.6.28-30.

[22] Il discorso che stiamo sommariamente riportando è in Ad. eccl. 3.7.31-33. Commento al passo di Salviano di Marsiglia in E. Nicosia, “Moriuntur ut servi”, cit., 1840 ss., con osservazioni anche sulla conoscenza degli istituti giuridici da parte del presbitero, che secondo la studiosa sarebbero impiegati con grande abilità retorica.

[23] Si veda la spiegazione del passo offerta da E. Nicosia, ‘Moriuntur ut servi’, cit., 1844 ss.

[24] Cfr. E. Nicosia, ‘Moriuntur ut servi’, cit., 1844 ss.

[25] C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., passim.

[26] Così C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 564.

[27] Si vedano ancora le osservazioni di C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 564.

[28] Cfr. C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 564, che afferma: «Non mi pare improbabile proporre che nel testo della legge risultasse seccamente la stringa tramandata da Gaio bona latinorum ad manumissores pertinent».

[29] Cfr. C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 566. La studiosa inoltre (568) sottolinea un aspetto molto interessante emergente dalla terminologia impiegata da Salviano, ponendola a confronto con quanto emergerà nelle fonti giustinianee. Salviano dice infatti che i liberti Latini sarebbero vissuti quasi ingenui (non quasi liberi). Ciò implicherebbe, paradossalmente, che la situazione di questi liberti, rispetto a quella dei liberti cittadini romani, sarebbe stata migliore: non sarebbero dovute, per esempio, le operae; il loro status si rovescerebbe, invece, al momento della morte, quando tutto il compendio patrimoniale sarebbe andato ai manomissori.

[30] Ancora C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 566.

[31] Sulla influenza gaiana in questo brano delle Istituzioni giustinianee C. Ferrini, Sulle fonti delle Istituzioni di Giustiniano, in BIDR, 13, 1901, e ora in C. Ferrini, Opere, II, Milano, 1929, 382.

[32] C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 567. D’altra parte, è interessante notare che una impostazione simile era già presente in una costituzione di Giustiniano, C. 7.6.1.1b: Quis enim patiatur talem esse libertatem, ex qua in ipso tempore mortis in eandem personam simul et libertas et servitium concurrunt et, qui quasi liber moratus est, eripitur non tantum in mortem, sed etiam in servitutem? Parlando di chi era manomesso informalmente, Giustiniano ne sottolinea la sorte particolarissima, che mescola libertas e servitium; chi aveva vissuto quasi liber, infatti, subisce non solo la morte ma anche la schiavitù. Sulla costituzione di Giustiniano cenni in A.J.B. Sirks, The lex Iunia and the Effects of Informal Manumission, cit., 253; M. Balestri Fumagalli, Lex Iunia de manumissionibus, cit., 210, che nota qui una impostazione analoga a quella emergente dal brano di Salviano in Ad. eccl. 3.7. Sull’intervento giustinianeo si veda pure G.L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano: a proposito di CTh. 2,22,1, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, VIII, Napoli 1990, 569.

[33] In questo senso C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 567, la quale esclude il contrario, ossia che sia stato Salviano di Marsiglia a influenzare la tradizione giuridica.

[34] Si veda, per esempio, Epitome exactis regibus 2.13; Add. 1.22 [ex Tit. qui in Epitomes editionibus post VIII § 25 inveniuntur], ove si dice che i liberti Latini diventavano schiavi con la morte. Cfr. le considerazioni di C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 567 ss. Fra le varie osservazioni avanzate su questi testi, la studiosa nota una certa differenza fra Salviano di Marsiglia, che paragona i liberti Latini agli ingenui, e le fonti medievali dove tali liberti sono invece accostati ai liberi (cfr. supra, nt. 30).

[35] Cfr. G.L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano, cit., 570 ss. Più di recente si vedano D. Annunziata, Sedula servitus. Sulla ‘revocatio in servitutem’ in Costantino, Napoli 2020, 15 ss., e C. Masi Doria, Di nuovo schiavi?, in Index 49, 2021, 145 s.

[36] Sul senatusconsultum Largianum rinviamo alle osservazioni dell’ultimo paragrafo.

[37] Per questa datazione: O. Seek, Die Zeitfolge der Gesetze Constantins, Milano 1983 (rist. an. a cura di M. Sargenti), 22, nonché M. Sargenti, Costantino e la condizione del liberto ingrato nelle costituzioni tardo imperiali, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, VIII, Napoli 1990, ora in Scritti di Manlio Sargenti (1947-2006), Napoli 2011, 1086, anche sui problemi della subscriptio.

[38] Come meglio si vedrà, la costituzione in realtà, più che regole positive relative alla hereditatis petitio sembra incentrata su un caso di esclusione di questa azione. Cfr. M. Sargenti, Costantino e la condizione del liberto ingrato, cit., 1086.

[39] Si veda J. Gothofredus, Codex Theodosianus cum perpetuis commentariis, I, Lipsiae 1736, 216 ss.

[40] Si veda per esempio B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 192, e nt. 83; A.J.B. Sirks, Informal Manumission, cit., 272, nt. 73; S. Corcoran, Softly and suddenly vanished away. The Junian Latins form Caracalla to Carolingians, in K. Muscheler (ed.), Römische Jurisprudenz. Dogmatik, Überlieferung, Rezeption. FS. für D. Liebs 75. Geburtstag, Berlin 2011, 136 e nt. 73 (lo studioso afferma che Costantino utilizza la Latinitas come punizione, ma rimane dubbioso sui motivi che conducono a tale sanzione); I. Ruggiero, Una breve nota sulla condizione dei liberti latini e dei loro discendenti, cit., 465 e nt. 18, in cui la studiosa ricorda che nel testo la Latinitas Iuniana è appunto prevista come conseguenza per l’ingratitudine. Per altri richiami alla Latinitas Iuniana nel Codex Theodosianus si veda G.L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano, cit., 571.

[41] Cfr. G.L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano, cit., 572 ss.; M. Sargenti, Costantino e la condizione del liberto ingrato, cit., 1087. Gli altri frammenti sarebbero riportati in C. 7.1.4 e C. 6.7.2. Sargenti, in queste pagine, discute pure del rapporto fra CTh. 4.10.1 e C. 6.7.2, ove si tratta appunto della revoca della libertà.

[42] Comprendere il rapporto fra le due sanzioni è difficile. In quali casi il liberto ingrato subiva la revoca della libertà? E in quali, invece, la retrocessione alla Latinitas Iuniana? Per J. Gothofredus, Codex Theodosianus, I, cit., 418) la revoca della libertà sarebbe stata applicata ai liberti Latini Iuniani, mentre i liberti cittadini romani (cioè manomessi attraverso le manomissioni iustae ac legitimae) avrebbero subito il passaggio allo status di Latini. L’ipotesi avanzata da Gotofredo, facciamo notare, implica che anche i liberti Latini avessero obblighi nei confronti dei patroni e che potessero quindi soggiacere ad una accusa di ingratitudine. Si tratta di un punto oscuro, dato che nelle fonti non vi sono cenni alla questione, conseguenza, questa, della eliminazione delle differenze fra i liberti operata da Giustiniano. Diverse le interpretazioni in circolazione oggi. Secondo una prima impostazione, saremmo in presenza di casi di ingratitudine di diversa gravità: cfr. M. Sargenti, Costantino e la condizione del liberto ingrato, cit., 1089, e Id. Gratitudine e diritto, in Interpretazione e gratitudine: XIII Colloquio sulla Interpretazione, Macerata, 30-31 marzo 1992, Macerata 1994, ora in Scritti di Manlio Sargenti (1947-2006), Napoli 2011, 1319 s. (L’ipotesi ricostruttiva di Sargenti sembra accolta, per esempio, da K. Harper, Slavery in the Late Roman World, Cambridge 2011, 487, ove tra l’altro appare accettata l’idea che sia stato Costantino a introdurre in via generale la revoca della libertà dei liberti ingrati). Per altri, mentre la revoca della libertà di CTh. 4.10.1 sarebbe stata impiegata nel caso di comportamenti offensivi nei confronti del patrono o dei suoi eredi, il declassamento come Latini sarebbe scaturito invece in conseguenza di offese nei confronti della res publica, che a scopo punitivo avrebbe privato il liberto della cittadinanza romana. Questa è l’idea prospettata da G.L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano, cit., 574 s. Anche Falchi sostiene, tra l’altro, l’idea che la revoca della libertà del liberto ingrato sia stata introdotta in via generale solo a partire da Costantino. La tradizione occidentale non avrebbe invece conosciuto questo tipo di pena (la lex Aelia Sentia, avrebbe infatti previsto la condanna all’opus publicum e la relegazione oltre il centesimum lapidem, che non avrebbero privato della libertà gli ingrati); poiché il liberto Latino poteva, in generale, divenire cittadino romano anche per pubblica concessione, a seguito di servizi resi allo Stato, forse la colpa di cui si parla (secondo la lettura che emerge dalla Interpretatio) potrebbe essere ravvisata nella sfera pubblicistica (G.L. Falchi, op. ult. cit., 576).

Problema ulteriore è quello di comprendere se all’interno del Codice Teodosiano CTh. 2.22.1 abbia un valore differente, avendo perduto, con la collocazione nel titolo de hereditatis petitione, il suo significato originario, con la conseguenza che i compilatori avrebbero optato in tutti i casi di ingratitudine per la revoca della libertà come sanzione per l’ingratitudine dei liberti. Sulla questione v. ancora M. Sargenti, Costantino e la condizione del liberto ingrato, cit., 1095. In effetti, nella costituzione il discorso sembra incentrato più che altro sugli effetti patrimoniali della Latinitas Iuniana; il fatto che tale retrocessione avvenga a seguito di un comportamento ingrato non è particolarmente valorizzato nel testo (e risulta maggiormente comprensibile in effetti solo dalla lettura della Interpretatio).

[43] Secondo W.W. Buckland, The Roman Law of Slavery. The Condition of the Slave in Private Law from Augustus to Justinian, Cambridge 1908, 423 e nt. 11, ci sono tracce di questo tipo di sanzione in Suetonius, Ner. 32: «Suetonius, writing of the time of Nero, and speaking of ingratitude as involving loss of right of testation, seems to have the same rule in mind». Qui in realtà più che la sanzione della Latinitas sembrano esserci degli interventi ‘una tantum’ di Nerone nei confronti di liberti che tengono comportamenti ‘ingrati’; in particolare, si tratta di liberti che nel loro testamento sono poco generosi nei confronti del principe o che usurpano i gentilizi Iulius, Claudius, Domitius. Cfr. sul passo di Svetonio J. Gaudemet, Testamenta ingrata et pietas Augusti. Contribution à l’étude du sentiment impérial, in Studi in onore di Vincenzo Arangio Ruiz nel 45. anno del suo insegnamento, III, Napoli 1953, 121 ss.; C. Masi Doria, Bona libertorum. Regimi giuridici e realtà sociali, Napoli 1996, 133 s. e nt. 5, la quale osserva che Nerone si pone quasi come patrono putativo dei liberti. Ancora, W.W. Buckland (op. cit., 423, nt. 11) sembra considerare accettabile l’idea espressa da Gotofredo secondo cui la sanzione della retrocessione allo stato di Latino sarebbe stata applicata ai liberti cittadini, mentre quella della revoca della libertà solo ai liberti Latini.

[44] A questo proposito va sottolineato che informazioni simili paiono provenire da C. 6.7.2, ossia la versione accolta nel codice giustinianeo dell’originario provvedimento di Costantino relativo alla revoca della libertà (cfr. ancora M. Sargenti, Costantino e la condizione del liberto ingrato, cit., 1087 ss.). Anche se non possiamo soffermarci sull’esegesi approfondita di tale testo, è opportuno ricordare che pure da qui sembra possibile che il liberto macchiatosi di ingratitudine e punito con la perdita della libertà possa ravvedersi e tornare nello stato precedente. Questo il punto interessante di C. 6.7.2: … Sane si is, qui in nostro consilio vindicta liberatus est post coercitionem ex poenitentia dignum se praestiterit, ut ei civitas Romana reddatur, non prius fruetur beneficio libertatis, quam si hoc patronus oblatis praecibus impetraverit.

[45] Cfr. la trattazione dell’ultimo paragrafo.

[46] Parla di ius peculii M. Siegenbeeck, J. Pan, Dissertatio juridica inauguralis de grati animi officiis atque ingratorum poena, jure attico et romano, Lugduni Batavorum 1809, 111 s. Qui si sottolinea come già a partire da Gotofredo tale aspetto sia stato valorizzato, e si afferma che i liberti Latini vivevano da liberi e morivano come schiavi. Si vedano inoltre pure le osservazioni sul punto di I. Alibrandi, Sopra alcuni frammenti di scritti di antichi giureconsulti romani, in Opere giuridiche e storiche, I, Roma 1896, 385 ss.; e G.L. Falchi, Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 201.

[47] Forse allo stesso modo in cui accade (spesso) nel passo delle Istituzioni gaiane, ove nella trattazione relativa ai liberti Latini, da un punto di vista del lessico impiegato dal giurista antoniniano, sembrano confondersi i piani del rapporto servus/dominus e della relazione libertus/patronus. Si vedano a proposito le osservazioni avanzate da C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 561 ss.

[48] Si vedano le osservazioni riportate supra, nel precedente paragrafo, a proposito dei testi giustinianei.

[49] Si vedano sulla questione già le considerazioni di G.L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano, cit., 576 ss. e Id., Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 209 ss.

[50] Nota la presenza del verbo vindico nella costituzione costantiniana G.L. Falchi, Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 209, nt. 51. Già I. Albrandi, Sopra alcuni frammenti, cit., 385 ss., analizzando i Fragmenta e proponendone la ricostruzione nel punto presumibilmente riferito alla lex Iunia Norbana, suggerisce l’inserimento di un riferimento alla rei vindicatio dei beni del liberto. Pure questa fonte confermerebbe dunque tale stato delle cose.

Da questo punto di vista, bisogna registrare un certo dibattito sulla questione in relazione all’età classica. Discutendo dell’espressione gaiana quodammodo iure peculii da parte di alcuni si è detto che difficilmente si può pensare alla rei vindicatio a favore del patrono; sarebbe piuttosto ipotizzabile la concessione della bonorum possessio da parte del pretore (con l’esclusione completa dei discendenti del liberto): cfr. A.J.B. Sirks, The lex Iunia and the Effects of Informal Manumission, cit., 253 ss. Cenni a questa discussione in L. Pellecchi, La loi Iunia Norbana, cit.

[51] Si veda G.L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano, cit., 577.

[52] Cfr. in tal senso G. L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano, cit., 576. Lo studioso, secondo noi a ragione, individua dietro l’intervento normativo di Costantino l’urgenza di porre fine ad un dibattito in corso.

[53] Questa è l’opinione espressa da G.L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano, cit., 577. Ci sembra che lo studioso faccia un discorso un po’ differente in Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 211, ove propone l’idea che la questione risolta da Costantino riguardi la condizione dei liberti dediticii Latini, di cui tratta pure il frammento de iudiciis dei Fragmenta Berolinensia. In M. Siegenbeeck, J. Pan, Dissertatio juridica inauguralis de grati animi officiis, cit., 113 ss., si sostiene una ipotesi diversa: la soluzione offerta in C. 6.7.2, quella per cui i figli nati prima non subiscono le conseguenze della sanzione applicata i loro padri sarebbe frutto di un intervento dei commissari giustinianei, che vorrebbero mitigare la durezza delle precedenti disposizioni costantiniane.

[54] Cfr. ancora C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 566 ss.

[55] Com’è noto, l’opinione oggi maggioritaria circa le interpretazioni del Breviarium è quella secondo cui esse avrebbero una origine pre-visigotica e proverrebbero da commentari occidentali del V secolo, presumibilmente risalenti alla prima metà del secolo. Su questi aspetti ci limitiamo a richiamare C.A. Cannata, I rinvii al ius nella Interpretatio al Codice Teodosiano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 28, 1962, 294 s.; J. Gaudemet, Le Bréviaire d’Alaric et les Epitome, in Ius Romanum Medii Aevi, 2baab, Milano 1965, 38 s. Sulle interpretationes delle Pauli Sententiae si veda particolarmente H. Schellenberg, Die Interpretationen zu den Paulussentenzen, Göttingen 1965, 131 ss., nonché la recensione di G. Franciosi, Orientamenti in tema di interpretatio alle Pauli Sententiae, in Labeo 16, 1970, 392 ss. Più di recente, P. Biavaschi, Osservazioni sulla tradizione del libro IX del Codice Teodosiano nel Breviarium Alaricianum, in Ravenna Capitale, Giudizi, giudici e norme processuali in Occidente nei secoli IV-VIII, II, Studi sulle fonti, a cura di G. Bassanelli Sommariva, Santarcangelo di Romagna 2015, 113 s.; S. Pietrini, Il diritto delle Interpretationes alle costituzioni 1,2 e 7 del titolo De legitimis hereditatibus del libro V del Teodosiano, in Ravenna Capitale. Codice Teodosiano e tradizioni giuridiche in Occidente. La terra, strumento di arricchimento e sopravvivenza, a cura di G. Bassanelli, S. Tarozzi, P. Biavaschi, Santarcangelo di Romagna 2016, 97 ss.

[56] Si vedano le osservazioni svolte nell’ultimo paragrafo.

[57] Pure qui però il discorso non è esente da una certa ambiguità. Si usa infatti il verbo vindico che rimanderebbe alla rivendica, come se il patrono fosse già proprietario dei beni, ma nello stesso tempo si utilizza l’espressione facultatem illius.

[58] Discorso diverso, invece, per le epitomi del Breviarium Alaricianum, ove torna l’impiego della parola peculium. Cfr., per esempio, Ep. Guelph.: Liberti per culpam latini effecti peculium ad patroni filius venit ad nepotes ex filia non venit. Sulle epitomi del Breviarium Alaricianum, in generale, si rinvia a J.M. Coma Fort, Codex Theodosianus: historia de un texto, Madrid 2014, 299, con indicazione di altra letteratura sul tema.

[59] Nota E. Levy, West Roman Vulgar Law. The Law of Property, Philadelphia 1951, 212 ss. che nelle fonti tarde occidentali vindicare spesso non ha per forza di cose a che fare con un procedimento giudiziale; la nostra interpretatio non è però richiamata fra i testi che potrebbero presentare il verbo con questo significato.

[60] Risalente al 42 d.C. Sui problemi di datazione del senatoconsulto si veda particolarmente P. Buongiorno, Senatus consulta Claudianis temporibus facta: una palingenesi delle deliberazioni senatorie dell’età di Claudio (41-54 d.C.), Napoli 2010, 134 ss. Cfr. inoltre P. Lambrini, L’efficacia dei senatoconsulti nel pensiero della prima giurisprudenza classica, Napoli 2020, 30 ss.

[61] Nota P. Voci, Diritto ereditario romano, I, 2a ed., Milano 1967, 34, che coloro i quali erano esclusi dalla eredità paterna con una diseredazione non nominativa, non erano esclusi dai beni del liberto, se non per effetto di diseredazione nominativa.

[62] Gaius, Inst. 3.63. Su questo aspetto, per esempio, M. Balestri Fumagalli, Lex Iunia de manumissionibus, cit., 73 ss.; G.L. Falchi, Osservazioni sulla situazione giuridica dei liberti ‘latini’ nel Codice Teodosiano, cit., 570. Si veda di recente pure P. Lambrini, L’efficacia dei senatoconsulti, cit., 33 s. La studiosa si chiede se, piuttosto, Pegaso e i giuristi che la pensavano come lui, non intendessero dire che attraverso il Largianum si era tornati a una successione mortis causa legittima e non a un acquisto iure peculii. Lambrini ritiene infatti che sulla base del Largiano il regime applicato ai figli fosse quello della successione legittima (cfr. anche 35, sulla questione della divisione dei beni fra i figli del patrono).

[63] Gaius, Inst. 3.64-65. Quo senatus consulto quidam id actum esse putant, ut in bonis Latinorum eodem iure utamur, quo utimur in hereditate ciuium Romanorum libertinorum. idque maxime Pegaso placuit; quae sententia aperte falsa est. nam ciuis Romani liberti hereditas numquam ad extraneos patroni heredes pertinet; bona autem Latinorum etiam ex hoc ipso senatus consulto non obstantibus liberis manumissoris etiam ad extraneos heredes pertinent. item in hereditate ciuis Romani liberti liberis manumissoris nulla exheredatio nocet, in bonis Latinorum nocere nominatim factam exheredationem ipso senatus consulto significatur. uerius est ergo hoc solum eo senatus consulto actum esse, ut manumissoris liberi, qui nominatim exheredati non sint, praeferantur extraneis heredibus. 65. Itaque emancipatus filius patroni praeteritus, quamuis contra tabulas testamenti parentis sui bonorum possessionem non petierit, tamen extraneis heredibus in bonis Latinorum potior habetur. Cfr. A.J.B. Sirks, Informal Manumission, cit., 256, nt. 18; Id., The lex Iunia and the Effects of Informal Manumission, cit., 255; M. Balestri Fumagalli, Lex Iunia de manumissionibus, cit., 74 s.; P. Buongiorno, Senatus consulta, cit., 135; C. Masi Doria, La Latinitas Iuniana, cit., 561 ss.; sul Largiano e l’evoluzione rispetto alla legge Giunia Norbana si veda anche G.L. Falchi, Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 202.

A proposito del figlio emancipato preterito nel testamento paterno, molto probabilmente esso veniva messo sullo stesso piano dei figli non diseredati nominatim perché trovava tutela secondo il diritto pretorio.

[64] I. 3.7.4.

[65] Sul legame fra la disciplina senatoria del Largiano e il contenuto della costituzione costantiniana, si veda già K.A. von Vangerow, Ueber die Latini Iuniani. Eine rechtsgeschichtliche Abhandlung, Marburg 1833, 208 ss. Più di recente, osservazioni in G.L. Falchi, Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 201 ss.

[66] Si veda sulla questione K.A. von Vangerow, Ueber die Latini Iuniani, cit., 208 ss., il quale precisa che a proposito del Largianum i giuristi avevano dibattuto sulla necessità della permanenza del rapporto agnatizio: Costantino, secondo lo studioso, accoglierebbe una visione ben precisa, che è quella di limitare ai discendenti che non vedono spezzato il legame agnatizio.

[67] In questo senso si veda K.A. von Vangerow, Ueber die Latini Iuniani, cit., 208 ss. G. Falchi, Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 209, sottolinea che l’insistenza con cui si richiama il ius agnationis ribadisce che l’opinione di Cassio circa i parenti in linea femminile sarebbe rimasta minoritaria.

[68] K.A. Von Vangerow, Ueber die Latini Iuniani, cit., 208 ss.

[69] Cfr. Gaius, Inst. 3.71, su cui si vedano le considerazioni di G.L. Falchi, Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 207 ss. Per il dibattito giurisprudenziale su questo punto v. P. Lambrini, L’efficacia dei senatoconsulti, cit., 36; la studiosa nota che la tesi della maggioranza, contraria all’opinione di Cassio, si basava su di una interpretazione quasi formalistica del senatoconsulto, che assegna i beni del liberto ad liberos non nominatim exheredatos: siccome per il nonno materno non è necessario diseredare il nipote o la nipote, se non li istituiscono eredi, dunque questi discendenti non sarebbero stati presi in considerazione dal senatoconsulto e a loro non spetterebbero i beni dei liberti Latini.

[70] In questo senso G. L. Falchi, Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 209.

[71] Cfr. ancora G. L. Falchi, Sui ‘Fragmenta Berolinensia’, cit., 209.