N. 3 – Maggio 2004 – Memorie

 

 

Francesco Sini

Università di Sassari

 

 

 

Religione e Sistema giuridico

in Roma repubblicana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sommario: – 1. Premessa. – 2. Errate (ma alquanto comuni) rappresentazioni moderne della religione politeista romana. – 3. Tensioni universalistiche del sistema giuridico-religioso romano: ius divinum e interpretatio Romana. – 4. «Religione, id est cultu deorum, multo superiores»: religio, civitas e imperium del Popolo romano. – 5. Pax deorum. – 6. Riflessioni conclusive su tradizione documentaria sacerdotale, diritto e istituzioni.

 

 

1. Premessa

 

Il 29 settembre (o forse il 30) del 57 a.C., pochi giorni dopo il suo trionfale ritorno dall’esilio, Marco Tullio Cicerone introduceva l’orazione De domo sua, pronunciata com’è noto davanti al collegio dei pontefici, con queste parole: «Tra le molte istituzioni che gli dèi, o pontefici, hanno ispirato ai nostri antenati, non ce n’è una che sia più bella della loro volontà di affidare agli stessi uomini sia i culti degli dèi immortali (religiones deorum immortalium) sia i supremi interessi della repubblica, affinché i più autorevoli e illustri cittadini assicurassero col loro buon governo la conservazione dei culti e con una saggia interpretazione della religio la prosperità della repubblica»[1].

In questo scritto non posso certo ripercorrere le vicende della casa di Cicerone, la cui area, dopo la condanna all’esilio dell’oratore, era stata fatta consacrare dal tribuno della plebe P. Clodio Pulcro[2], con l’intenzione di innalzarvi un tempio alla Libertas[3]; tuttavia, vorrei rammentare il valore giuridico e religioso dell'orazione, che si presenta come una fonte attendibilissima, e certo ben documentata, in tema di ius publicum e di ius pontificium[4]. Il brano iniziale del celebre discorso ciceroniano esprime, quindi, in maniera davvero pregnante, una convinzione profonda della classe dirigente romana; la quale, ancora nel primo secolo a.C., reputava di grande utilità, politica e ideologica, riaffermare il valore dell’inscindibile rapporto che sempre, nel corso della storia di Roma, aveva legato la religione tradizionale alle istituzioni politiche e giuridiche della res publica e all’imperium populi Romani.

Questo mio contributo propone alcune riflessioni sul rapporto tra religione e sistema giuridico romano[5]. Tratterò, in primo luogo, di errate (ma alquanto comuni) rappresentazioni moderne della religione politeista romana; mi soffermerò poi sulle tensioni universalistiche del sistema, esaminando specifiche realtà dello ius divinum e il complesso meccanismo dell’interpretatio Romana; seguirà l’analisi del rapporto tra religio, civitas e imperium del Popolo romano; per discutere, infine, del concetto di pax deorum e della sua valenza (teologica e) giuridica; le conclusioni saranno dedicate alla tradizione documentaria dei sacerdoti e al suo interagire con il diritto e con le istituzioni.

 

 

2. – Errate (ma alquanto comuni) rappresentazioni moderne della religione politeista romana

 

Per lungo tempo gli studi sulla religione politeista romana hanno subito, il condizionamento profondo di fuorvianti impostazioni storiografiche, peraltro straordinariamente radicate nella dottrina contemporanea[6]. Mi riferisco, anzi tutto, alle posizioni degli studiosi che teorizzavano l’ostilità permanente fra i popoli e l’assenza di diritti per gli stranieri quali condizioni primordiali dei rapporti fra gli uomini[7]; da cui conseguiva la convinzione che, normalmente, gli antichi considerassero la guerra (e non la pace) stato naturale delle relazioni “internazionali”, sempre che non esistesse comunità di etnia, ovvero intervenisse di volta in volta la stipulazione di trattati[8].

Non posso procedere, in questa sede, ad un esame dettagliato della dottrina favorevole a tali tesi, le quali sono state accolte a lungo nel campo degli studi romanistici quasi unanimemente, soprattutto in ragione della decisiva influenza di Theodor Mommsen[9]. Perfino il semplice elenco degli studiosi che hanno aderito a questa impostazione storiografica sarebbe troppo lungo; anche se non tutti consentirono con le estremizzazioni di Eugen Täubler, il quale non si limitò a propugnare la tesi dell’ostilità naturale nei rapporti “internazionali” dell’antichità[10], ma spinse le sue teorizzazioni fino al punto di sostenere che la stessa origine dei trattati internazionali fosse da ricercare nel superamento della primitiva usanza di uccidere, in ogni caso, i nemici sconfitti[11]. Sarà sufficiente evidenziare come tuttora, pur tra precisazioni e distinguo, studiosi autorevolissimi[12] ritengono elementi caratteristici della più antica esperienza giuridica romana proprio l'ostilità naturale e la mancanza di protezione giuridica per lo straniero[13].

Spesso, questi motivi si intrecciano nella dottrina con la teorizzazione ottocentesca della "libertà degli antichi", che di fatto negava l'esistenza di libertà individuali nei sistemi giuridico-religiosi dell'antichità greca e romana. La formulazione più nota di tale tesi si legge nelle pagine del celebre discorso «De la liberté des anciens comparée à celle des modernes», pronunciato nel 1819 presso l'Università di Parigi da Benjamin Constant[14]:

 

«Così, presso gli antichi, l'individuo, quasi sempre sovrano negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino, decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato, represso in tutti i suoi movimenti; come membro del corpo collettivo, interroga, destituisce, giudica, spoglia, esilia, manda a morte i suoi magistrati e i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a sua volta essere privato del suo stato, spogliato delle sue dignità, messo al bando, condannato a morte, dalla stessa volontà discrezionale del corpo sociale cui appartiene»[15].

 

Sia l'ostilità naturale, sia la mancanza di libertà individuale[16] sono attribuite a inibizioni religiose, non solo dal grande teorico del pensiero liberale[17], ma perfino da N.D. Fustel de Coulanges[18], finissimo storico e comparatista, del quale è ben conosciuta peraltro la straordinaria intuizione sul ruolo fondamentale della religione nelle istituzioni antiche[19]. Nell’opera dell'eminente storico francese si coglie il rifiuto più categorico delle istituzioni antiche come modello politico, poiché il Fustel de Coulanges individuava in esse la matrice ideologica degli eccessi radical-democratici della Rivoluzione francese e delle rivoluzioni della prima metà del XIX Secolo[20]. Pertanto, con la sua “città antica” il Fustel de Coulanges riteneva di aver dimostrato non soltanto che l'esclusione dello straniero dalla sfera giuridica cittadina risultava determinata esclusivamente sulla base dalla diversità di religione («Lo straniero, invece, non partecipando alla religione, non aveva nessun diritto»)[21]; ma che proprio nel carattere essenzialmente religioso della organizzazione comunitaria antica si radicava la negazione della libertà individuale dei cittadini[22].

Discutendo della separazione tra diritto 'divino' e diritto 'umano' in Roma antica, Rudolph von Jhering, in una celebre pagina del suo Geist des römischen Rechts, sottolineava il carattere originario, e improntato su tale separazione, dell'antitesi fas/ius: quasi che con essa il popolo romano fin dalle sue origini avesse «voulu constater sa mission pour le monde juridique»; anche se poi il grande studioso tedesco, con lo spiccato senso storico che lo caratterizzava, non poteva esimersi dal rilevare quanto la separazione fosse piuttosto teorica[23].

Questa posizione esercitò notevole influenza sulla dottrina successiva, la quale in maniera pressoché unanime riteneva peculiarità tipicamente romana il fatto che fra i popoli dell'antichità «il romano fece più presto degli altri a distinguere la religione dal diritto, e fu questa una causa del suo progresso»[24].

Dobbiamo a Fritz Schulz, negli anni Trenta del Novecento, la più netta teorizzazione del processo di separazione tra religione e diritto nell'esperienza giuridica romana, con la formulazione della celebre teoria dell'«Isolierung», che si legge nell’omonimo capitolo dei Prinzipien des römischen Rechts[25]. Lo studioso tedesco riteneva, infatti, che la maggiore gloria della giurisprudenza romana consistesse nella sua capacità «di distinguere il diritto dal non diritto, di delimitare il campo del diritto e di ridurre l'ordinamento giuridico ad un sistema autonomo»[26].

La teoria dello Schulz ha avuto vasto seguito nella dottrina: basterà ricordare, senza alcuna pretesa di completezza, le posizioni di Max Kaser (a giudizio del quale in Roma arcaica «l’uomo primitivo fu a presupposti di carattere religioso molto più legato dei suoi evoluti posteri, e la progressiva ‘laicizzazione’ delle sue concezioni si inquadra nello sviluppo storico generale della civiltà»)[27]; di Carlo Gioffredi (nell'esperienza romana non vi sarebbe mai stata commistione tra religione e diritto, ma soltanto una sovrapposizione di piani differenti)[28]; di Giovanni Pugliese (questo studioso, più cauto, si avvicina solo in parte alle tesi dello Schulz, quando scrive: «Nessuno dubita che nel periodo romano primitivo religione e diritto siano stati intrinsecamente connessi, sebbene incertezze possano regnare fra gli studiosi circa l'intensità e i modi di tale connessione»)[29]; fino a quelle più recenti di F. Wieacker, per il quale non c'è affatto bisogno di postulare un’identità originaria tra la sfera della vita religiosa e la sfera della vita giuridica[30], mentre insiste sulla «Isolierung» dello ius come «Teilsystem», che ha origine nelle rappresentazioni giuridiche dell'età arcaica e nella sapienza specialistica del collegio pontificale[31].

Mi pare di poter concludere questa parte dell’esposizione rilevando l'insufficienza di concetti moderni quali «ostilità naturale», «libertà individuali»[32], «isolamento» e «laicizzazione»[33] per comprendere un fenomeno complesso come quello della religione politeista romana; la quale fu sempre in grado di far coesistere nel suo ambito le esigenze cultuali particolaristiche del popolo romano e la tensione universalistica della sua teologia e del suo diritto.

 

 

3. – Tensioni universalistiche del sistema giuridico-religioso romano: ius divinum e interpretatio Romana

 

Nel trattare le tensioni universalistiche del sistema giuridico-religioso romano, non voglio affrontare la questione della libertà individuale in Roma antica: problema tuttavia non irrilevante, soprattutto per chi assume le categorie di "tolleranza" o "intolleranza" quali parametri d'indagine sulla religione politeista romana[34].

A ben vedere, del resto, quello della tolleranza è un motivo accettato quasi concordemente nella dottrina[35]; tanto che su questo punto mi pare di poter convenire con la riflessione di Marta Sordi, secondo la quale sarebbe stata la concezione teologica e giuridica di pax deorum – che pure fu «al centro della polemica contro il Cristianesimo e fu alla radice di molte (e certamente delle più importanti) iniziative persecutorie» – a costituire «motivo di tolleranza e principio di libertà religiosa» per gli altri gruppi religiosi estranei alla tradizione romana; assicurando nei fatti «il riconoscimento alla coscienza dei singoli, da parte dell'autorità romana, di una sorta di libertà religiosa»[36].

Per quanto attiene alla religione romana, dalle fonti antiche emergono testimonianze non equivoche di una religione affatto esclusivista fin dalla sua fase primordiale[37]; basterà ricordare come la stessa memoria storica dei pontefici romani presentasse la coesistenza di culti patrii e peregrini – regolamentata naturalmente dalla scienza sacerdotale –, quale dato originario, e fra i più caratteristici, della riforma religiosa di Numa Pompilio[38]:

 

Tito Livio 1.20.5-6: Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium, ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset, quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur[39].

 

A riprova di questa originaria "apertura" cultuale, mette conto ricordare anche il carattere assai risalente sia dell'influenza greca[40], sia di quegli «italische Einflüsse», magistralmente evidenziati da Kurt Latte nel suo manuale sulla religione romana[41].

La necessità di una costante apertura religiosa all'esterno è fortemente connaturata con la concezione romana della pax deorum. Si giustificano, in tal modo, sia la rigorosa propensione del collegio pontificale a determinare esattamente i nomina deorum[42]; sia la cautela rituale delle formule di preghiera elaborate dai sacerdoti romani, i quali, quasi ad esorcizzare l'umana impossibilità di conoscere il numero degli dèi, prescrivevano al fedele di rivolgersi sempre ad generalitatem, ne quod numen praetereat, una volta pronunciata l'invocazione alle divinità particolari onorate nella cerimonia:

 

Servio Dan., in Verg. Georg. 1.21: dique deaeque omnes post specialem invocationem transit ad generalitatem, ne quod numen praetereat, more pontificum, (per) quos ritu veteri in omnibus sacris post speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod fiebat, necesse erat invocari, generaliter omnia numina invocabantur[43].

 

Non senza ragione, dunque, nel mos pontificum delle invocazioni è stata ravvisata «una ‘apertura’ illimitata», che costituisce al tempo stesso «linea implicita alla tolleranza religiosa» verso tutti gli dèi[44]. Tuttavia, la potenzialità universalistica della «‘tolleranza’ latina» non sempre appare ben compresa dagli storici della religione: emblematico è il caso di Jean Bayet, il quale la raffigura operante non tanto sul piano «della benevolenza, ma della precauzione e dell'utilità»[45].

In un breve saggio, pubblicato nel 1980, J.-L. Girard studia il significato teologico e culturale, nonché la procedura operativa dell'interpretatio Romana[46]. Attraverso un'attenta analisi dei termini interpres e interpretatio, lo studioso francese dimostra in maniera convincente che fu proprio tale interpretatio a permettere ai sacerdoti romani di conciliare l'assoluta fedeltà verso la religione tradizionale con un'apertura pressoché illimitata ai culti stranieri[47].

Qualche anno prima, al complesso fenomeno dell'interpretatio aveva dedicato un approfondito studio anche R. Bloch[48], esaminandone alcuni esempi concreti[49]. Pur senza soffermarsi specificamente sugli aspetti generali della complessa problematica, lo studioso francese non trascurava comunque di evidenziare due questioni: da un lato, che proprio «le jeu de l'interpretatio a permis aux Romains de rapprocher de leurs propres divinités et de leur unir des dieux lointains par les lieux de culte et même, parfois, par leur nature»; dall'altro, che un così «large développement d'interpretationes» costituiva il fondamento e la giustificazione teologica della «tolérance religieuse, presque constamment attestée, des Romains»[50].

Peraltro, i culti stranieri erano integrati solitamente nel rituale romano[51], come sottolineava Sesto Pompeo Festo nel suo De verborum significatu, con riferimento alla definizione di peregrina sacra:

 

Festo, v. Peregrina sacra, 268 L.: Peregrina sacra appellantur, quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt † conata † [conlata Gothofr.; coacta Augustin.], aut quae ob quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex Graecia Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta[52].

 

Proprio sulla base della glossa festina peregrina sacra, M. van Doren ha propugnato la discutibile tesi dell’esistenza di un indispensabile legame tra questa categoria di sacra e il rito dell'evocatio: a suo avviso, infatti, solo attraverso tale rito si sarebbe realizzata l'assimilazione dei sacra peregrina nel culto ufficiale dei sacra publica[53].

La propensione ad allargare la sfera degli dèi, e quindi dei rapporti umani, all'infinito fu una caratteristica congenita della religione politeista romana; ciò determinava, necessariamente, un rapporto inscindibile tra «polithéisme et pluralisme cultuel», come ha scritto in un suo recente saggio Robert Turcan: «Le polithéisme est foncièrement étranger à l’esprit d’une ‘religion d’Etat’, puisqu’il implique la possibilité d’un élargissement du panthéon à l’infini»[54]. Così, la religione politeista romana, nell'intero arco del suo sviluppo storico, appare fortemente caratterizzata dalla costante preoccupazione di integrare l’“alieno" (umano o divino): dalle divinità dei vicini alle divinità dei nemici[55], in cerchi concentrici sempre più larghi, che potenzialmente abbracciavano l'intero spazio terrestre[56] e, quindi, tutto il genere umano. Si spiegano in tal modo sia le frequenti adozioni di culti stranieri, come il Graecus ritus dei libri Sibyllini[57], sia le usuali evocationes degli dèi del nemico[58], di cui le fonti conservano memoria a proposito delle divinità che proteggevano due storici nemici di Roma, quali le città di Veio e di Cartagine:

 

Tito Livio 5.21.3: Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor ut nos victores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum accipiat[59].

 

Macrobio, Sat. 3.9.6-9: Nam repperi in libro quinto rerum reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in cuiusdam Furii vetustissimo libro repperisse professus est. Est autem carmen huius modi quo di evocantur cum oppugnatione civitas cingitur: “Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque, veniamque a vobis peto ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis eique populo civitatique metum formidinem oblivionem iniciatis, propitiique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populoque Romano militibusque meis propitii sitis. Si <haec> ita faceritis ut sciamus intellegamusque, voveo vobis templa ludosque facturum”. In eadem verba hostias fieri oportet, auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura[60].

 

Questo processo di integrazione è andato di pari passo col propagarsi dell'impero universale e del concetto di humanitas[61], che proprio nella religione politeista romana ha trovato, secondo P. Veyne, uno dei più importanti veicoli: «Nemmeno la religione era una barriera; a differenza della Cristianità e dell'Islam, l'Impero pagano non si distingueva dai barbari per le sue credenze. Gli dei di tutti gli uomini, civilizzati o barbari, erano veri, oppure erano gli stessi dei sotto nomi differenti, come una quercia è dappertutto una quercia; Iupiter si traduce in greco con Zeus e in celtico con Taranis»[62].

 

 

4. – «Religione, id est cultu deorum, multo superiores»: religio, civitas e imperium del Popolo romano

 

I sacerdoti romani, fin dalle prime elaborazioni teologiche e giuridiche, rilevabili peraltro anche nelle versioni annalistiche delle più antiche vicende storiche di Roma, teorizzarono sempre un rapporto di imprescindibile causalità con la religio[63] per tutte le manifestazioni significative della vita e della storia del Popolo romano. Teologia e ius divinum spiegavano che la volontà degli dèi aveva concorso alla fondazione dell’Urbs Roma[64]; ne aveva sostenuto la prodigiosa e costante “crescita” del numero dei cittadini (civitas augescens, per usare la felice espressione del giurista Pomponio, conservata dai compilatori dei Digesta Iustiniani[65]); infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani[66] e garantiva la sua estensione sine fine[67].

L'analisi di alcune definizioni di religio date da Cicerone[68], nelle quali il termine è utilizzato sempre nel senso di "culto degli dèi"[69], lascia intravedere, con grande chiarezza, la giustificazione teologica (e giuridica) dell'egemonia romana; che gli antichi attribuivano naturalmente al favore degli dèi, ma non senza merito da parte dei Romani, poiché essi, per sensibilità e cautela verso la religio, superavano di gran lunga tutti gli altri popoli[70]. Particolarmente significativi, a questo proposito, si presentano due passi del de natura deorum. Vediamone il primo:

 

De nat. deor. 2.8: C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores[71].

 

Nel testo appena citato si afferma che il neglegere la religio ha sempre determinato intollerabili vulnera al Popolo romano, come appunto la sconfitta del Trasimeno; mentre l’osservanza della religio non può che determinare, nella dinamica della storia, la costante amplificatio della res publica, almeno finché i Romani continueranno ad essere «religione, id est cultu deorum, multo superiores»[72].

Nel secondo passo, Cicerone fa delineare a C. Aurelio Cotta[73] i principali campi della religio («les deux grandes divisions, exhaustives, de la religion», come scrive G. Dumézil[74]), teorizzando che essa in sacra et in auspicia divisa sit:

 

De nat. deor. 3.5: Cumque omnis populi Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit si quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sibyllae interpretes haruspicesve monuerunt, harum ego religionum nullam umquam contemnendam putavi mihique ita persuasi Romulum auspiciis, Numam sacris constitutis fundamenta iecisse nostrae civitatis, quae numquam profecto sine summa placatione deorum immortalium tanta esse potuisse[75].

 

Da questo passo, emergono con chiarezza anche le convinzioni profonde della tradizione sacerdotale in merito alle basi teologiche e giuridiche della civitas romana: sacra e auspicia non solo costituiscono i due principali campi della religio, ma devono essere considerati più propriamente gli originari fundamenta (riferibili, infatti, alle origini dell’Urbs di Romolo e di Numa Pompilio) della res publica[76]: sia l'elevato potere conseguito dal Popolo romano nel corso della sua storia, sia l’estensione “mondiale” dell’imperium populi Romani sarebbero del tutto inspiegabili sine summa placatione deorum immortalium.

Questa visione provvidenziale della civitas Romana e del suo imperium, concepito essenzialmente come espressione della volontà degli dèi, quasi un premio al Popolo romano per aver superato tutti i popoli in religiosità, si ritrova anche in diversi altri luoghi dell'opera ciceroniana: così, ad esempio, nell'orazione De haruspicum responsis si legge che per pietas e religio «omnis gentis nationesque superavimus»:

 

De har. resp. 19: Etenim quis est tam vaecors qui aut, cum suspexit in caelum, deos non sentiat et ea quae tanta mente fiunt, ut vix quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem persequi possit, casu fieri putet, aut, cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum? Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique ipso huius gentis ac terrae domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus[77].

 

Oppure nell'orazione pro Milone: dove la imperi nostri magnitudo viene presentata in strettissima connessione con la

 

maiorum nostrorum sapientia, qui sacra, qui caerimonias, qui auspicia et ipsi sanctissime coluerunt et nobis suis posteris prodiderunt[78].

 

Anzi, a ben vedere, proprio la consapevolezza del ruolo fondamentale esercitato dalla religio nella vita della comunità romana costituiva una caratteristica saliente della storiografia latina. Consapevolezza che traspare, ad esempio, con grande chiarezza nella Catilinae coniuratio[79] di C. Sallustio Crispo:

 

Cat. 12.1-5: Postquam divitiae honori esse coepere et eas gloria imperium potentia sequebatur, hebescere virtus, paupertas probro haberi, innocentia pro malivolentia duci coepit. Igitur ex divitiis iuventum luxuria atque avaritia cum superbia invasere: rapere consumere, sua parvi pendere, aliena cupere, pudorem pudicitiam, divina atque humana promiscua, nihil pensi neque moderati habere. Operae pretium est, cum domos atque villas cognoveris in urbium modum exaedificatas, visere templa deorum, quae nostri maiores, religiosissumi mortales, fecere. Verum illi delubra deorum pietate, domos suas gloria decorabant, neque victis quicquam praeter iniuriae licentiam eripiebant. At hi contra, ignavissumi homines, per summum scelus omnia ea sociis adimere, quae fortissumi viri victores reliquerant: proinde quasi iniuriam facere, id demum esset imperio uti[80].

 

Lo storico dei populares[81] contrapponeva, dunque, il luminoso esempio dei nostri maiores, religiosissimi mortales, alla corrotta decadenza dei contemporanei, rimarcando con nostalgia e rimpianto, soprattutto che illi, a differenza di questi ignavissumi homines del suo tempo, delubra deorum pietate, domos suas gloria decorabant[82].

Allo stesso modo Tito Livio, nei libri ab urbe condita, aveva voluto caratterizzare la città di Roma come il luogo massimamente votato alla religione[83]:

 

5.52.2: Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis solemnibus non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiant[84].

 

Nell’opera liviana si trova riaffermata più volte la convinzione che la storia dei Romani costituisse la prova più inconfutabile di come omnia prospera evenisse sequentibus deos:

 

Tito Livio 5.51.4-5: Equidem, si nobis cum urbe simul positae traditaeque per manus religiones nullae essent, tamen tam evidens numen hac tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem neglegentiam divini cultus exemptam hominibus putem. Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas res vel adversas; invenietis omnia prospera evenisse sequentibus deos, adversa spernentibus[85].

 

Inoltre, mette conto sottolineare un altro convincimento profondo dello storico patavino, il quale considerava la pietas e la fides[86] elementi essenziali per la legittimazione divina dell’imperium dei Romani; a suo avviso, gli dèi si sarebbero mostrati, in ogni circostanza, assai più ben disposti verso coloro i quali praticano la pietas ed onorano la fides: favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit[87].

Anche Valerio Massimo[88] sottolineava, quale elemento basilare e caratterizzante della civitas romana, il principio omnia namque post religionem ponenda semper nostra civitas duxit:

 

Fact. et dict. memor. 1.1.9: Qui praetor a patre suo collegii Saliorum magistro iussus sex lictoribus praecedentibus arma ancilia tulit, quamvis vacationem huius officii honoris beneficio haberet. Omnia namque post religionem ponenda semper nostra civitas duxit, etiam in quibus summae maiestatis conspici decus voluit. Quapropter non dubitaverunt sacris imperia servire, ita se humanarum rerum futura regimen existimantia, si divinae potentiae bene atque constanter fuissent famulata[89].

 

Spiegava, infatti, l’autore dei Facta et dicta memorabilia[90] che per questa ragione i titolari della summa maiestas non avevano mai esitato a mettersi a disposizione della civitas per il compimento dei riti sacri, stimando che avrebbero avuto il governo del mondo, se avessero servito bene e costantemente il potere degli dèi.

L’ultima testimonianza, che intendo proporre, proviene dal campo avverso alla religione politeista romana. Si tratta della testimonianza di Q. Settimio Fiorente Tertulliano[91], vero padre della letteratura latina cristiana, il quale alla fine del II secolo d.C., nel suo Apologeticum[92], contestava le misure repressive anticristiane con precisi riferimenti a nozioni giuridiche romane[93] e polemizzava contro i molti dèi della religione tradizionale.

 

Apolog. 25.1-2: Satis quidem mihi videor probasse de falsa et vera divinitate, cum demonstravi, quemadmodum probatio consistat, non modo disputationibus nec argumentationibus, sed ipsorum etiam testimoniis, quos deos creditis, ut nihil iam ad hanc causam sit retractandum. Quoniam tamen Romani nominis proprie intercedit auctoritas, non omitto congressionem, quam provocat illa praesumptio dicentium, Romanos pro merito religionis diligentissimae in tantum sublimitatis elatos et impositos, ut orbem occuparint, et adeo deos esse, ut praeter ceteros floreant, qui illis officium praeter ceteros faciant[94].

 

Come appare evidente dal passo appena citato, la polemica di Tertulliano in difesa della causa Christianorum[95] tende soprattutto a dimostrare infondata la stessa base teologica e giuridica della religione politeista romana: vale a dire, illa praesumptio, assai diffusa naturalmente tra i suoi contemporanei, secondo cui i Romani sarebbero stati innalzati fino al dominio del mondo (ut orbem occuparint) solo in ragione della grandissima pietà religiosa (pro merito religionis diligentissimae), in quanto gli dèi concedono il massimo della potenza ai popoli che più degli altri li venerano[96].

 

 

5. – Pax deorum

 

Quanto affermato dagli autori antichi costituisce una concezione quasi originaria dell'esperienza giuridica e religiosa romana; profondamente connaturata, quindi, con la più antica teologia sacerdotale e con la primitiva elaborazione dello ius.

Già in epoca risalente, i sacerdotes aveva teorizzato l'esistenza di un legame indissolubile tra la vita del popolo romano e la sua religio, al punto da finalizzarne tutta l'attività al conseguimento (e conservazione) della "pace con gli dèi"[97]: cioè al permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra gli uomini e le divinità[98], intese anch’esse come parte integrante del sistema giuridico-religioso[99].

Emerge così il concetto di pax deorum, attestato anche nella sua forma arcaica pax divom o deum[100] da Plauto (sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet adesse)[101], Lucrezio (non divom pacis votis adit, ac prece quaesit)[102], Tito Livio[103] e Virgilio (exorat pacem divom)[104].

Tuttavia, dal punto di vista umano, il "legalismo religioso"[105] dei sacerdoti romani configurava la pax deorum come una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività e individui dovevano necessariamente attenersi per conservare il favore degli dèi. Ciò spiega, tra l'altro, l'attenzione precisa e minuziosa dell'annalistica romana, erede diretta dell'attività "storiografica" del collegio dei pontefici[106], nel documentare i fatti suscettibili di turbare la pax deorum, le conseguenze negative per la vita comunitaria, i rimedi rituali posti in essere per espiare[107].

In questa prospettiva, può ben comprendersi perché la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale[108] e fosse considerata, al tempo stesso, l'elemento basilare del sistema giuridico-religioso. Oggetto, dunque, dello ius del popolo (ius publicum), non a caso tripartito secondo il giurista Ulpiano in sacra, sacerdotes, magistratus[109]: «una suddivisione propria della giurisprudenza repubblicana, tracciata in spontanea adesione ai documenti sacerdotali e magistratuali» (Catalano)[110].

Come credo di aver dimostrato nel mio libro dedicato ai documenti sacerdotali di Roma antica, la partizione ulpianea (e ciceroniana[111]) dello ius publicum affonda le sue radici in elaborazioni sacerdotali di età precedente al pareggiamento dei plebei ai patrizi, o di età appena successiva; riflettendo una gerarchizzazione assai antica delle parti dello ius publicum[112]. La conservazione tenace dei sacerdoti e il carattere sacerdotale della giurisprudenza medio-repubblicana[113] hanno consentito poi a questa antica partizione dello ius publicum, di affermarsi nella sistematica giurisprudenziale del III e II secolo a.C., fino ad essere poi riproposta in funzione politica nel I secolo da Cicerone.

 

 

6. – Riflessioni conclusive su tradizione documentaria sacerdotale, diritto e istituzioni

 

Per finire, alcune brevi riflessioni sulla tradizione documentaria sacerdotale e sui suoi rapporti con le istituzioni e con il diritto. Vorrei concludere, cioè, esponendo alcune considerazioni più generali in merito all'attendibilità della tradizione documentaria riferibile agli archivi dei grandi collegi sacerdotali romani[114]; specialmente per la ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma.

I materiali religiosi e giuridici degli archivi sacerdotali[115] (e quindi il lessico e i concetti elaborati dai sacerdoti)[116] rappresentano le evidenze più autentiche e le prime riflessioni sistematiche della più antica giurisprudenza romana[117]; documenti, dunque, di straordinaria importanza per lo storico e per il giurista: non solo perché contengono gli elementi basilari per individuare le caratteristiche originarie e la dialettica dello sviluppo delle istituzioni, pubbliche e private; ma soprattutto, perché costituiscono il nucleo più risalente e affidabile della storiografica romana.

Vi è però anche un'altra ragione che rende preziosi tali materiali. A fronte della constatata inadeguatezza delle moderne categorie giuridiche, per comprendere quel peculiare rapporto tra religione e diritto, che stava alla base dell'organizzazione 'politica' romana; i documenti sacerdotali sono da considerare strumenti indispensabili per un riesame complessivo del "sistema giuridico-religioso" dei Romani: a cominciare dalla ridefinizione del «diritto pubblico romano» in chiave non "statualista"[118].

Non è certo questo il luogo per sviluppare critiche articolate intorno alla sistematica sottesa al Römisches Staatsrecht di Theodor Mommsen; critiche variamente formulate dalla dottrina, e con ben altra autorevolezza. Basterà rilevare – citando il mio collega Lobrano – che nel complesso rapporto «così instaurato tra “materiale” romano e sistematica contemporanea»[119], quel voler ricondurre la concreta realtà dello ius publicum all’astratto sistema dello «Staatsrecht» ha prodotto risultati a dir poco unilaterali, inadeguati e parziali.

Nella tradizione documentaria dei collegi sacerdotali, possono individuarsi due linee di tendenza, in qualche misura peraltro complementari. Abbiamo da un lato un formalismo assai rigoroso[120] (cioè conservazione del testo originario, o di quello ritenuto tale) per quanto riguarda gli antichissimi carmina[121], recitati ancora in età imperiale avanzata nella loro forma linguistica arcaica, seppure ormai mal compresa dagli stessi sacerdoti, come ci riferisce l’autorevole testimonianza di Quintiliano[122]. D'altra parte i sacerdoti, mentre con prassi documentaristica costante e minuziosa registravano gli atti significativi del loro operare quotidiano, procedevano nel contempo all'aggiornamento linguistico dei testi che riguardavano regole rituali e forme di culto; al fine di renderli quanto più possibile comprensibili ai contemporanei. Così, di generazione in generazione, si andarono accumulando materiali d'archivio – per la maggior parte decreta[123] e responsa[124] – che attraverso revisioni e sistemazioni periodiche pervennero sostanzialmente integri ai sacerdoti-giuristi e agli antiquari degli ultimi due secoli dell'età repubblicana.

Sulla sostanziale continuità della tradizione documentaria sacerdotale, mi permetto di rinviare ai risultati conseguiti del mio Documenti sacerdotali di Roma antica[125]. Le fonti attestano, infatti, almeno quattro interventi ordinatori, che si susseguirono con sorprendente periodicità: il primo è attribuito a Numa, seppure nella forma di compilazione originaria; il secondo ci è presentato come opera di Anco Marcio; il terzo, datato nei primissimi anni della repubblica, è costituito dalla raccolta di leges regiae del pontefice Papirio[126]; l’ultimo si colloca immediatamente dopo l’incendio gallico. Completano il quadro dei possibili modi di trasmissione dei documenti sacerdotali fino alla seconda metà del II secolo a.C. altri due avvenimenti, che dovettero avere rilevanti riflessi su tali documenti: intendo parlare della lex Ogulnia del 300 a.C. e della composizione degli Annales Maximi intorno al 130 a.C. Appare, dunque, assai credibile che i sacerdoti-giuristi e gli antiquari degli ultimi secoli della repubblica, nel comporre le loro opere, abbiano attinto a documenti sacerdotali più antichi, o a copie fedeli di essi.

 

 

 

 



 

[1] Cicerone, De domo 1: Cum multa divinitus, pontifices, a maioribus nostris inventa atque instituta sunt, tum nihil praeclarius quam quod eosdem et religionibus deorum immortalium et summae reipublicae praeesse voluerunt, ut amplissimi et clarissimi cives rem publicam bene gerendo religiones, religionibus sapienter interpretando rem publicam conservarent.

 

[2] Altre fonti: Cicerone, De leg. 2.42; Plutarco, Cic. 33; Cassio Dione 38.17.6. Sull'episodio, da ultimo, vedi B. Berg, Cicero’s Palatine home and Clodius’ shrine of liberty: alternative emblems of the Republic in Cicero’s De domo sua, in Studies in Latin literature and Roman history, a cura di C. Deroux, VIII, [Colletion Latomus, 239] Bruxelles 1997, 122 ss.

 

[3] Il culto della Libertas ebbe ufficialmente inizio nella seconda metà del III secolo a.C.; proprio in quegli anni, infatti, fu dedicato a questa divinità un tempio nell'Aventino da parte di Ti. Sempronio Gracco, console dell'anno 238 (Tito Livio 24.16.19). Cfr. G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, 138 s.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 256; C. Koch, v. Libertas, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XIII.1, Stuttgart 1926, coll. 101 ss.; R.F. Rossi, v. Libertas Dea, in Dizionario Epigrafíco di Antichità Romane, IV, Roma 1958, 903.

 

[4] Alle molteplici problematiche religiose e giuridiche affrontate nell’orazione ciceroniana ha dedicato una recente monografia la studiosa tedesca Claudia Bergemann, Politik und Religion im spätrepublikanischen Rom, [Palingenesia, 30] Stuttgart 1992. Cfr. anche F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, 96 ss., 172.

 

[5] Utilizzo l’espressione «sistema giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle motivazioni offerte da P. Catalano: Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, 30 ss., in part. 37 nt. 75; Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.1, Berlin-New York 1978, 445 s.; Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 57; con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla Dignitatis Humanae, Roma 1991, 34 s. La validità del concetto di «ordinamento giuridico» viene ancora riaffermata negli ultimi scritti di R. Orestano: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, 395 ss.; Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, 959 ss., in part. 964 ss.; Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3a ed., Torino 1996, 10 ss. Assai più pragmatica, e non sempre in linea con le tesi dell’Orestano, appare invece la posizione di A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5a ed., Napoli 1990, 56 s.

 

[6] Ho esposto e discusso queste impostazioni storiografiche in alcuni scritti precedenti: F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, 28 ss.; Id., Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari 2, n. s., 1995, 67 ss.; Id., Dai peregrina sacra alle pravae et externes religiones dei baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 60, 1994 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, I, Roma 1996], 49 ss.

 

[7] Cfr. fra gli altri: A.G. Heffter, De antiquo iure gentium prolusio, Bonnae 1823, 7; E. Osenbrüggen, De iure belli et pacis Romanorum, Lipsiae 1836, 8, 16, 36; M. Voigt, Die Lehre von ius naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer, II, Leipzig 1858 [rist. an. Aalen 1966], 102 ss.; Id., Die XII Tafeln, I, Leipzig 1883 [rist. an. Aalen 1966], 269 ss.; R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I (1852), Leipzig 1878, 225 ss. [= Id., L’esprit du droit romain, trad. fran., I, Paris 1886 (rist. an. Bologna 1969), 226 ss.]; J. Madvig, Die Verfassung und Verwaltung des römischen Staates, I, Leipzig 1881, 58 ss.; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig 1881, 279 ss.; G. Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale. Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie dell’Accademia dei Lincei, ser. III, vol. 13 (1883-84), 455 ss.; G. Padelletti-P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2a ed., Firenze 1886, 67; P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, trad. it. di C. Longo, Roma-Milano-Napoli 1909, 112 ss., 116; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines, Paris 1909 [rist. fot. 1931], 343; E. Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romains, 2a ed., Paris 1928, 92; P. Huvelin, Etudes d’histoire du droit commercial romain, opera postuma a cura di H. Lévy-Bruhl, Paris 1929, 7 s.; H. Horn, Foederati. Untersuchungen zur Geschichte ihrer Rechtsstellung im Zeitalter der römischen Republik und des frühen Prinzipates, Diss. Frankfurt a. M. 1930, 6 s.; H. Lévy-Bruhl, Esquisse d’une théorie sociologique de l’esclavage, in Id., Quelques problèmes du trés ancien droit romain. Essai de solutions sociologiques, Paris 1934, 15 ss.; P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 4, 1938, 363 ss.; P. de Francisci, Storia del diritto romano, I, Milano 1943, 335; P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, rist. 4a ed. 1934, a cura di G. Bonfante-G. Crifò, Milano 1958, 229; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, nuova ed. a cura di S. Accame, Firenze 1979, 87; M. Meslin, L’uomo romano, trad. it., Milano 1981, 117.

 

[8] Cfr. in tal senso Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Id., Römische Forschungen, I, Berlin 1864, 326 ss.; E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I. Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Leipzig 1913 [rist. an. Roma 1964], 14 ss., 29 ss., 44 ss.

 

[9] Th. Mommsen, Römische Geschichte, I (1854), qui citata in trad. it.: Storia di Roma antica, nuova ed. con introduzione di G. Pugliese Carratelli, I, Firenze 1984, 192; Das römische Gastrecht und die römische Clientel, cit., 319 ss.; Römisches Staatsrecht, III.1, 3a ed., Leipzig 1887, 590 ss. [=Droit public romain, trad. fr. di P.F. Girard, VI.2, Paris 1889, 206 ss.]. Comunque è nell’Abriss che la posizione del grande giusromanista tedesco, forse proprio per esigenze di semplificazione, si presenta più netta: Disegno del diritto pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante, rist. an. dell’ed. 1943, Milano 1973, 91: «Di fronte a questa federazione latina, basata sulla comunità di razza e unita in una perpetua comunanza giuridica, le comunità italiche di diversa nazionalità, e in seguito gli Stati stranieri, si trovano in linea di diritto in perpetuo stato di guerra. Oltre i confini della nazione latina non vi ha proprietà territoriale né romana né straniera; l’abitante del territorio, l’hostis, più tardi peregrinus, è in linea di principio privo di diritto e di pace; l’immutabilità dello stato di guerra di fronte alla nazione di stirpe diversa ha la sua espressione in questo, che con le città etrusche, nelle quali la nazionalità diversa si affacciò per la prima volta ai romani, non vennero altrimenti conchiusi trattati se non con termine fisso». Per una rapida rassegna delle critiche alla dottrina mommseniana, cfr. da ultimo F. Sini, Bellum nefandum, cit., 28 ss.

 

[10] E. Täubler, Imperium Romanum, cit., 1: «Der Staatsfremde gilt rechtlich als Feind. Der einzelne wie der Staat tritt erst durch eine Rechtshandlung, den Vertrag, aus dem Zustande der natürlichen Feindschaft in den der Verkehrsgemeinschaft».

 

[11] E. Täubler, Imperium Romanum, cit., 402 ss., in part. 406 s.: «Auf den primitivsten Kulturstufen wird man an Tötung aus Angst, Menschenfrass und Menschenopfer denken, als erste Entwicklungsstufe die Werwandung des Fremden als Sklave annehmen müssen. Hier trennt sich dann die Entwicklung des Staatenvertrags und Gastvertrags. Der Unterschied darf nicht darin gesucht werden, dass die Entwicklung des einen vom Staate ausgehen muss, die des anderen von jedem einzelnen ausgehen kann, beruht vielmehr darauf, dass die Entwicklung, die zum Staatsvertrag führt, den Genfangenen zum Geisel macht, ihn für die Gemeinschaft, welcher er angehört, bürgen lässt, die zum Gastvertrage führende dagegen den Fremden nicht in Beziehung zu einem dritten setzt und deshalb nicht zu dessen Bürgen umwandelt vielmehr den Sklaven zum freien Mann und den freien Mann vertragsmässig als Eigenbürgen zum Gastfreund macht».

 

[12] Cfr. é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 1. Économie, parenté, société, Paris 1969, 355 ss., in part. 361; A. Piganiol, Le conquiste dei Romani, trad. it. di F. Coarelli, Milano 1971, 147 s.; A. Guarino, Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli 1987, 82.

Altri sottolineano, piuttosto, la mancanza di diritti per lo straniero: P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3a ed., Roma 1974, 210; più di recente, M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, 129; M. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, 2a ed., Milano 1988, 175; M. Talamanca, in Lineamenti di storia del diritto romano, sotto la direzione di M. T., 2a ed., Milano 1989, 154; Id., Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 103.

 

[13] Le posizioni del Täubler, e più in generale la tesi dell’ostilità naturale, furono sottoposte a serrate critiche, in Germania, da parte di A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen der römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit, [Klio, Beiheft 31, n. F. 18] Leipzig 1933, 4 ss., 12 ss., 18 ss. (sul ruolo di questo studioso nella storiografia tedesca contemporanea, vedi ora K. Christ, Römische Geschichte und deutsche Geschichtswissenschaft, München 1982, 245); in Italia, da parte di F. De Martino, Storia della costituzione romana, II [1a ed., Napoli 1954], 2a ed., Napoli 1973, 13 ss., in part. 39 ss., 46 ss.; Id., L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, relazione letta in Campidoglio per l’inaugurazione dell’VIII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma”, il 21 aprile 1988, poi pubblicata in Roma Comune, a. XII, n. 45, aprile-maggio 1988, 86 ss. (sul contributo dell’illustre studioso italiano agli studi storici e giuridici dell’antichità, vedi i due autorevoli interventi di F. Casavola, L’opera storica di Francesco De Martino, in Labeo 24, 1978, 7 ss.; Francesco De Martino storico, in Index 18, 1990, XV ss.); infine, sono veramente conclusive le ricerche di P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale, cit., in part. 8 ss., 51 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., IX s., 10 ss.

 

[14] B. Constant, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes, in Id., Oeuvres politiques, Paris 1874, 258 ss. [= La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, in Id., Antologia di scritti politici, a cura di A. Zanfarino, Bologna 1962 (nuova ed. 1982), 36 ss.; breve discussione sulla complessa figura del Constant, con la bibliografia essenziale, nell'introduzione del curatore]. «L'explication de l'idéologie de Constant et la chronologie de sa vie» costituiscono l'oggetto del recente, accurato, lavoro di K. Kloocke, Benjamin Constant. Une biographie intellectuelle, Genève-Paris 1984: per gli anni che interessano in questa sede, vedi in particolare 215 ss.

 

[15] B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, cit., 39. Per una riflessione più generale sul tema della libertà dei moderni, rinvio all'importante lavoro di A. Zanfarino, La libertà dei moderni nel costituzionalismo di Benjamin Constant, Milano 1961; quanto invece all'influenza del pensatore francese in rapporto alla storiografia tedesca, vedi P. Catalano, Tribunato e resistenza, Torino 1971, 1 ss.; Id., Populus Romanus Quirites, Torino (1970) 1974, 7 ss.; 26 ss.

 

[16] Il tema della libertà degli antichi, con particolare riferimento all'esperienza romana, è stato ripreso, in tempi a noi più vicini, da Ch. Wirszubski, Libertas. Il concetto politico di libertà a Roma tra Repubblica e Impero, con appendice di A. Momigliano, Bari 1957; G. Crifò, Su alcuni aspetti della libertà in Roma, in Archivio Giuridico 154, 1958, 3 ss. (con ampie referenze bibliografiche sulla dottrina che negava l'esistenza della libertà individuale presso gli antichi, a 7 nt. 13); Id., Libertà e uguaglianza in Roma antica. L’emersione storica di una vicenda istituzionale, 2a ed., Roma 1984 (raccolta di saggi, fra cui particolarmente significativi: Libertà e uguaglianza in Roma, 7 ss.; Staatliche Ordnung und Freiheit, 183 ss.; Diritti della personalità e diritto romano cristiano, 269 ss.); J. Bleicken, Der Begriff der Freiheit in der letzen Phase der römischen Republik, in Historische Zeitschrift 195, 1962, 3 ss.; Id., Staatliche Ordnung und Freiheit in der römischen Republik, Kallmunz 1972; L. Bruno, Libertas plebis in Tito Livio, in Giornale Italiano di Filologia 19, 1966, 107 ss.; J. Hellegouarc'h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la République, 2a ed., Paris 1972, 546 ss.; I. Lana, La libertà nel mondo antico, ora in Id., Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973, 13 ss.; del Lana vedi anche il più recente Studi sulla libertà nell’antica Roma. Corso di letteratura latina, Torino 1991; H.P. Kohns, Libertas populi und libertas civium in Ciceros Schrift De re publica, in Bonner Festgabe J. Straub zum 65. Geburtstag, hrsg. von A. Lippold und N. Himmelmann, Bonn 1977, 201 ss.; C. Nicolet, Il mestiere di cittadino nell’antica Roma, cit., 404 ss.; P.A. Brunt, Libertas in the Republic, in Id., The Fall of the Roman Republic and Related Essays, Oxford 1988, 281 ss.

 

[17] Fra le opere del Constant, oltre a La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, cit., 39 ss.; 52 ss., sono da vedere con particolare attenzione: Lo spirito di conquista [trad. it. della prima parte di De l’esprit de la conquête et de l’usurpation dans leurs rapports avec la civilisation européenne (1814)], introduzione di G. Calogero, Roma 1945, 13 ss. Per l'aspetto più propriamente religioso si veda invece l'opera postuma: Du Polytheisme romain, considéré dans ses rapports avec la philosophie grecque et la religion chrétienne, ouvrage posthume, II, Paris 1833.

 

[18] N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de la Grèce et de Rome, 1864; per le citazioni seguo il testo della riedizione Paris 1984, a cura di F. Hartog; alla cui «Préface» rimando per la bibliografia essenziale.

 

[19] N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique, cit., 3-4: «La comparaison des croyances et des lois montre qu'une religion primitive a constitué la famille grecque et romaine, a établi le mariage et l'autorité paternelle, a fixé les rangs de la parenté, a consacré le droit de la proprieté et le droit d'héritage. Cette même religion, après avoir élargi et étendu la famille, a formé une association plus grande, la cité, et a régné en elle comme dans la famille. D'elle sont venues toutes les institutions comme tout le droit privé des anciens. C'est d'elle que la cité a tenu ses principes, ses règles, ses usages, ses magistratures».

A proposito del grande studioso francese, assai acutamente, ha scritto A. Momigliano, La città antica di Fustel de Coulanges, in Rivista storica italiana 82, 1970, 81 [= Id., Quinto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1975, I, 159]: «Con Fustel de Coulanges si percepisce il caratteristico inizio di quella che è la caratteristica storiografia francese del mondo antico nei suoi elementi distintivi dalla storiografia tedesca del mondo antico». L'influenza delle tesi del Fustel de Coulanges sulla scienza romanistica francese è stata ben evidenziata da J. Gaudemet, Tendances et méthodes en droit romain, in Revue Philosophique 145, 1955, 151; e da A. Fernández-Barreiro, Los estudios de derecho romano en Francia después del código de Napoleón, Roma-Madrid 1970, 54. Naturalmente non mancarono le critiche già nell'Ottocento: cfr., ad esempio, H. D'arbois de Jubainville, Réponse à M. Fustel de Coulanges, in Id., Recherches sur l’origine de la propriété foncière, et des Noms de lieux habités en France, Paris 1890, XXIII-XXXI, in part. XXVIII. In altra prospettiva vedi, più di recente, C. Ampolo, Le origini di Roma e la «Cité antique», in Mélanges de l’École Française de Rome 92, 1980, 567 ss.; C. Warnke, Antike Religion und antike Gesellschaft: wissenschaftshistorische Bemerkungen zu Fustel de Coulanges «La cité antique», in Klio 68, 1986, 287 ss.

 

[20] N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique, cit., 2: «L’idée que l’on s’est faite de la Grèce et de Rome a souvent troublé nos génération. Pour avoir mal observé les institutions de la cité ancienne, on a immaginé de les faire revivre chez nous. On s’est fait illusion sur la liberté chez les anciens et pour cela seul la liberté chez les modernes a été mise en péril. Nos quatre-vingts dernières années on montré clairement que l’une des grandes difficultés qui s’opposent à la marche de la société moderne est l’habitude qu’elle a prise d’avoir toujours l’antiquité grecque et romaine devant les yeux». Cfr. L. Canfora, Ideologie del classicismo, Torino 1980, 18 ss.

 

[21] N.D. Fustel de Coulanges, La città antica, trad. it. di G. Perrota (1924), rist. Firenze 1972, 234. [La cité antique, cit., 230: «L’étranger, au contraire, n’ayant aucune part à la religion, n’avait aucun droit»]. Il grande studioso argomentava la sua tesi constatando che: «Un témoignage de cette antique sentiment de répulsion nous est testé dans un des principaux rites du culte romain; le pontife, lorsqu’il sacrifie en plein air, doit avoir la tête voilée, parce qu’il ne faut pas devant les feux sacrés, dans l’acte religieux qui est offert aux dieux nationaux, le visage d’un étranger se montre aux yeux du pontife; les auspices en seraient troublés» [La cité antique, cit., 228 = La città antica, cit., 232]; laddove l’ultima parte corrisponde alla traduzione di Aen. 3.406-407 (ne qua inter sanctos ignis in honore deorum / hostilis facies occurrat et omina turbet), con la precisazione che «hostilis facies, dans Virgile, signifie le visage d’un étranger». Nel brano appena citato mi pare del tutto evidente la forzatura presente nella traduzione del verso virgiliano proposta dal Fustel; infatti, come altrove ho avuto modo di mostrare (F. Sini, Bellum nefandum, cit., 152 s.), Virgilio in Aen. 3.407 usa l’aggettivo hostilis, non con l’antico significato di “straniero”, ma seguendo l’uso linguistico corrente nel suo tempo, cioè semplicemente nel senso di “nemico”.

 

[22] Di particolare interesse, al riguardo, si presenta la frase che il grande storico francese scrive all'inizio del capitolo XVIII (intitolato «De l'omnipotence de l'État; les anciens n'ont pas connu la liberté individuelle») del libro terzo: «La cité avait été fondée sur une religion et constituée comme une Église. De là sa force; de là aussi son omnipotence et l'empire absolu qu'elle exerçait sur ses membres. Dans une société établie sur de tels principes, la liberté individuelle ne pouvait pas exister. Le citoyen était soumis en toutes choses et sans nulle réserve à la cité; il lui appartenait tout entier. La religion qui avait enfanté l'État, et l'État qui entretenait la religion, se soutenaient l'un l'autre et ne faisaient qu'un; ces deux puissances associées et confondues formaient une puissance presque surhumaine à laquelle l'âme et le corps étaient également asservis» [La cité antique, cit., 265 = La città antica, cit., 269]. Assai significativo anche quanto si legge nel proseguo del capitolo: «Les anciens ne connaissaient donc ni la liberté de la vie privée, ni la liberté de l’éducation, ni la liberté religieuse. La personne humaine comptait pour bien peu de chose vis-à-vis de cette autorité sainte et presque divine qu’on appelait la patrie ou l’État. L’État n’avait pas seulement, comme dans nos sociétés modernes, un droit de justice à l’égard des citoyens. Il pouvait frapper sans qu’on fût coupable et par cela seul que son intérêt était en jeu» [La cité antique, cit., 268 = La città antica, cit., 272].

 

[23] R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I (1852), qui citato in trad. francese: L’esprit du droit romain, dans les diverses phases de son développement, I, Paris 1886 [rist. an. Bologna 1969], 267 s.: «Chez le peuple grec, cette séparation ne s’est faite que dans les temps historiques; chez le peuple romain, au contraire, elle se fit à l’origine des siècles. Dès sa première apparition, ce peuple apporte avec lui l’antithèse du fas et du jus, qui porte l’empreinte de cette séparation, comme si dès le principe il avait voulu constater sa mission pour le monde juridique et son pouvoir d’analyse. Fas, c’est le droit religieux, saint ou révélé. Il comprend aussi bien la religion, en tant qu’elle prend un aspect juridique (dans notre langage actuel, le droit ecclésiastique) que le droit privé et public, en tant qu’il a un côté religieux». Cfr. anche la traduzione italiana della prima edizione: Lo spirito del diritto romano nei diversi gradi del suo sviluppo, trad. L. Bellavite (con aggiunte e cambiamenti dell'Autore o da esso approvati, ed una prefazione del Traduttore), Milano 1855, 208 ss. Più in generale, sul contributo del grande giurista tedesco alla scienza giuridica contemporanea, vedi le brevi sintesi di F. Wieacker, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit unter besonderer Berücksichtigung der deutschen Entwicklung, neubearbeite Auflage, II, Göttingen 1967, cit. in trad. it.: Storia del diritto privato moderno, II, Milano 1980, 150 ss. (con essenziali riferimenti bibliografici); e di R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, cit., 278 ss. (ivi altra bibliografia); quanto, invece, agli «elementi per una rinnovata visione storica» presenti nell'opera dello Jhering, rinvio alla suggestiva trattazione di P. Catalano, Populus Romanus Quirites, cit., 64 ss.

 

[24] Così P. Cogliolo, in G. Padelletti-P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2a ed., Firenze 1886, 21 nt. X. Nello stesso senso vedi, fra gli altri, L. Mitteis, Das römische Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, I, Leipzig 1908, 22 s.; C. Ferrini, v. Fas, in Nuovo Digesto Italiano, V, Torino 1938, c. 919.

 

[25] F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934; qui cit. in trad. it.: I principii del diritto romano, a cura di V. Arangio-Ruiz, Firenze 1949, 16 ss.

 

[26] F. Schulz, I principii del diritto romano, cit., 17-18. Ma «anche entro il dominio del diritto procede il lavoro di separazione e di isolamento»: così per lo Schulz, fin dal principio dell'età repubblicana, furono nettamente separati «il diritto sacro ed il profano» (22-23); a cui seguì la separazione «ancora più importante» del diritto pubblico dal privato» (23-24); ed infine, «anche entro il diritto privato si opera una separazione ulteriore» (28).

Una decisa posizione «contro l’‘isolamento’ del diritto e contro l’evoluzionismo» è stata espressa da P. Catalano, Per lo studio dello ius divinum, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 33, 1962, 129 ss.; Id., La religione romana «internamente»: il punto di vista giuridico, Ibidem 20, n.s., 1996, 148 ss. Per un'impostazione alternativa allo Schulz, vedi soprattutto R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939 [ma 1940], 194 ss.; Id., I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 99 ss.; e P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, 226 ss.].

 

[27] M. Kaser, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Catania 3, 1948-49, 77 ss. [il saggio è stato ripubblicato di recente, con il medesimo titolo e senza alcun cambiamento, in Ars boni et aequi. Festschrift für W. Waldstein zum 65. Geburtstag, hrg. von M.J. Schermaier und Z. Végh, Stuttgart 1993, 151 ss.]; cfr. Id., Religiöse Begriffe in frührömischen Recht, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 67, 1950, 47 ss.

 

[28] C. Gioffredi, Religione e diritto nella più antica esperienza romana, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 20, 1954, 261: «Nel delimitare l'ambito del fatto giuridico non si può guardare soltanto all'aspetto estrinseco e formale della giuridicità: l'organo da cui deriva la norma, e la coattività della medesima. V'è innanzi tutto l'aspetto sostanziale, quello dell'interesse che sta a base del rapporto giuridico e ne costituisce l'essenza. Ora, perché si possa dire che v'è un nesso organico tra diritto e religione, occorre che quest'ultima costituisca l'interesse giuridicamente tutelato. Se la religione opera soltanto al momento della sanzione, v'è qualcosa che rende l'atto non intrinsecamente religioso, ed è qui il principio di diversificazione tra religione e diritto».

 

[29] G. Pugliese, L'autonomia del diritto rispetto agli altri fenomeni e valori sociali nella giurisprudenza romana, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche. Atti del primo Congresso Internazionale della Società Italiana di Storia del diritto, Firenze 1966, 162.

 

[30] F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I, München 1988, 318 ss.

 

[31] F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, cit., 503: «Auf der anderen Seite liess die in den Ursprüngen der römischen Rechtsvorstellung und der Spezialisierung des pontifikalen Expertenwissens angelegte Isolierung des im Ius repräsentierten Teilsystems eine unmittelbare Anwendung oder eine genaue Abbildung der ausserrechtlichen Wertungen in der rechtlichen Verhaltensordnung nicht zu»; cfr. anche 322 s.

 

[32] Per una recente discussione sul problema de «La libertà nella Roma arcaica e repubblicana», vedi G. Lombardi, L'editto di Milano del 313 e la laicità dello Stato, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 50, 1984, 10 ss., il quale si propone di «chiarire come la consapevolezza del fondamento dell'autonomia dell'uomo sia sostanzialmente mutata a seguito del diffondersi del cristianesimo»; Id., Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla Dignitatis Humanae, cit.

 

[33] Sulla questione vedi ora, brevemente, le puntuali riflessioni di P. Catalano-P. Siniscalco, Laicità tra diritto e religione. Documento introduttivo del XIV Seminario «Da Roma alla Terza Roma», pubblicato in Index 23, 1995, 461 ss.; in part. paragrafo 5 «'Laicizzazione' della giurisprudenza e cosiddetta 'Isolierung' del diritto», 463: «Il sistema romano antico, sia precristiano sia cristiano, non conosce l'isolamento del diritto rispetto alla morale o alla religione. Non vi è isolamento del diritto nell'età repubblicana (ius civile in penetralibus pontificum repositum erat, Liv. 4.3.9), né nell'impero cristiano (publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit, D. 1.1.1.2). Quanto alla giurisprudenza, significativa è la definizione contenuta in D. 1.1.10.2: divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. [...] E' corrente poi nella dottrina romanistica l'uso del termine ‘laico’ per indicare i giuristi non sacerdoti (onde si parla di laicizzazione della giurisprudenza)».

 

[34] Sullo stato della questione cfr. M. Adriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica, in Studi Romani 6, 1958, 507.

 

[35] Cfr. ad esempio, in tal senso, R. Bloch, La religione romana, in H.-Ch. Puech, Storia delle religioni, I.2. L’Oriente e l’Europa nell’antichità, trad. it., Roma-Bari 1976, 554 s., il quale indica l'apertura e la tolleranza verso divinità straniere come «un'espressione singolare e affascinante della religione romana». Sottolinea, invece, le ambiguità insite nell'atteggiamento "tollerante" dei Romani A. Momigliano, Appunti preliminari sull'«opposizione religiosa» all’impero romano, in Id., Saggi di storia della religione romana, Brescia 1988, 154; in altro senso, Id., The desadvantages of monotheism for a universal State, in Classical Philology 81, 1986, 285 ss.

 

[36] M. Sordi, «Pax deorum» e libertà religiosa nella storia di Roma, in La pace nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1985, 150 s.

 

[37] La stessa tradizione antica ricorda, peraltro, l'introduzione a Roma di numerosi culti "stranieri" già ad opera dei re: cfr., P.M. Martin, L’idée de royauté à Rome. De la Rome royale au consensus républicain, Clermont-Ferrand 1982, 110 ss.

 

[38] Per le fonti vedi Tito Livio 1.19-20; Dionigi d’Alicarnasso 2.64-73; Plutarco, Numa 9-14. Fra gli studiosi che si sono occupati delle riforme religiose attribuite a Numa sono da vedere: F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti dell’Accademia dei Lincei, ser. VIII, vol. 5, 1950, 553 ss.; E.M. Hooker, The Significance of Numa’s Religious Reforms, in Numen 10, 1963, 87 ss.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, 3 ss.; M.A. Levi, Il re Numa e i penetralia pontificum, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo 115, 1981 (pubbl. 1984), 161 ss.; J. Martinez Pinna, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, 97 ss.; J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire, Bruxelles 1985, in part. 194 ss., 219 ss.; infine L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica’ di Dionigi d'Alicarnasso, I parte, Napoli 1988, 128 ss.; G. Capdeville, Les institutions religieuses de la Rome primitive d’après Denys d’Halicarnasse, in Pallas 39, 1993, 153 ss.

 

[39] Riguardo al testo liviano, E. Peruzzi, Le origini di Roma, I. La famiglia, Firenze 1970, 142 ss., dimostra in maniera particolarmente convincente che si tratta di un documento di autentica derivazione sacerdotale, poiché conserva elementi assai risalenti come la formula onomastica del pontifex; sempre dello stesso studioso, vedi anche la tesi sul particolare significato da attribuire all'espressione exscripta exsignataque, nonché la ricostruzione dei materiali in essi contenuti: Le origini di Roma, II. Le lettere, Bologna 1973, 155 ss. Sul rapporto tra i sacra omnia exscripta exsignataque di Numa Pompilio e i più antichi libri dei pontefici, vedi invece F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 160 ss.

 

[40] Sul tema, a parte i più usati manuali sulla religione romana, cfr. E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939, 246 ss.; J. Gagé, Apollon romain. Essai sur le culte d’Apollon et le développement du “ritus Graecus” à Rome des origines à Auguste, Paris 1955; fra i lavori più recenti, G. Radke, Zur Entwicklung der Gottesvorstellung und der Gottesverehrung in Rom, Darmstadt 1987, 31 ss.; A. Bernardi, La Roma dei re fra storia e leggenda, in Storia di Roma, I. Roma in Italia, direzione di A. Momigliano e A. Schiavone, Torino 1988, 191 s. (con breve cenno a «culti locali e influenze greco-asianiche»); M.A. Levi, Appunti su Roma Arcaica, in La Parola del Passato 46, 1991, 121 ss.

 

[41] K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 148 ss.

 

[42] Cicerone, De nat. deor. 1.84: At primum, quot hominum linguae, tot nomina deorum; non enim ut tu Velleius, quocumque veneris, sic idem in Italia Volcanus, idem in Africa, idem in Hispania. Deinde nominum non magnus numerus ne in pontificiis quidem nostris, deorum autem innumerabilis (cfr. Gellio, Noct. Att. 13.23.1: Comprecationes deum immortalium, quae ritu Romano fiunt, expositae sunt in libris sacerdotum populi Romani et in plerisque antiquis orationibus; Agostino, De civ. Dei 4.8). Per A.S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum, I, Darmstadt 1968 [rist. della 1a ed. 1955], 426, nel passo ciceroniano «The word libris is understood, as often with annales»; cfr. anche l’edizione curata da M. van den Bruwaene, Ciceron, De natura deorum. Livre premier, Bruxelles 1970, 146: «dans nos livres pontificaux». G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, 18-19, formula invece l’ipotesi che Cicerone abbia attinto alle Antiquitates rerum divinarum di Varrone: «Woher diese Vorstellung stammt, ist nicht zu sagen; doch darf nicht vegessen werden, dass zur Zeit, als Cicero seine philosophischen Schriften abfasste, Varros Antiquitates bereits an das Licht getreten waren, und dass Cicero dieses Werk kannte».

Sui nomina deorum che si invocavano negli indigitamenta, risulta di qualche utilità il vecchio lavoro di J.A. Ambrosch, Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; ancora indispensabili, invece, sia il bel libro di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], 24 ss.; sia il manuale di J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III. Das Sacralwesen, 2a ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an. New York 1975], 7 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, Paris 1889, 10 ss.]; più di recente vedi J. Bayet, Croyances et rites dans la Rome antique, Paris 1971, 175 ss.; G.B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, 45 ss.; A. Pastorino, La religione romana, Milano 1973, 199 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2a ed., Paris 1974, 50 ss. [= Id., La religione romana arcaica, trad. it. a cura di F. Jesi, Milano 1977, 46 ss.]; infine, dedica brevi ma interessanti notazioni agli «dèi degli indigitamenta» R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992, 78 ss.

 

[43] Sul passo, vedi da ultimo F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externes religiones dei baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, cit., 59 s. Si presenta, invero, di grande interesse anche il seguito del commento: [Servio Dan., in Verg. Georg. 1.21] Quod autem dicit “studium quibus arva tueri”, nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum continent, quae etiam Varro dicit. Nam, ut supra diximus, nomina numinum ex officiis constant imposita, verbi causa ut ab occatione deus Occator dicatur, a sarratione Sarritor, a stercoratione Sterculinus, a satione Sator. Ho seguito la lezione del testo serviano offerta da B. Cardauns: M. Terentius Varro, Antiquitates rerum divinarum, I. Die Fragmente, Wiesbaden 1976, 64 fragm. 87; l'insigne studioso ritiene, non senza ragione, che il passo di Servio sia in realtà un frammento varroniano, tratto dal XIV libro delle Antiquitates rerum divinarum [op. cit. II. Kommentar, 184]. Vedi, brevemente, anche F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 108 s.

 

[44] M. Adriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica, cit., 516.

 

[45] J. Bayet, La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959 [rist. 1992], 60.

 

[46] J.-L. Girard, Interpretatio Romana. Questions historiques et problèmes de méthode, in Revue d’Histoire et Philosophie Religieuses 60, 1980, 21 ss.; scopo dichiarato dello studioso è quello di comprendere pienamente la ragione del «fait, solidement attesté, mais devenu un peu surprenant, que les grandes divinités étrangères, et notamment grecques, aient, pour la plupart sans difficulté aucune, trouvé des homologues à Rome».

 

[47] Per J.-L. Girard, Interpretatio Romana, cit., 26 s., sarebbe, dunque, un grave errore valutare negativamente il procedimento teologico che stava alla base dell'interpretatio sacerdotale; non si trattava, a suo avviso, né di «un confusionnisme dissolvant l'héritage primitif de la religion romaine», né di «un irénisme basé en dernière analyse sur le scepticisme à l'ègard de toutes les formes d'esprit religieux», ma, al contrario: «elle permet d'éviter à la fois les conflits ouverts avec les religions étrangères et la conversion de certains éléments de la population à des cultes nouveaux, et témoigne de la sagesse d'un peuple qui ne crut jamais que sa recherche de l'universalité dût passer par une autre voie que par l'approfondissement de ses traditions particulières».

 

[48] R. Bloch, Interpretatio, in Id., Recherches sur les religiones del l’Italie antique, Genève 1976, 1 ss.

 

[49] R. Bloch, Interpretatio, cit., 1 ss. [Figures divines de Pyrgi]; 9 ss. [Héra, Uni, Junon en Italie centrale]; 19 ss. [Le corbeau divin des Celtes dans les guerres romano-gauloises]; 32 ss. [Hannibal et les Dieux de Rome].

 

[50] R. Bloch, Interpretatio, cit., 1: «Tout au long de leur histoire, le jeu de l'interpretatio a permis aux Romains de rapprocher de leurs propres divinités et de leur unir des dieux lointains par les lieux de culte et même, parfois, par leur nature. Certes, un tel processus n'est pas le seul fait de Rome. On retrouve, dans bien des secteurs du paganisme ancien, le sentiment plus ou moins clair que, sous des noms différents, les divers peuples ne pouvaient pas ne pas honorer les mêmes dieux. D'où résulta un mécanisme complexe et réciproque par lequel les divers panthéons antiques se rapprochèrent les uns des autres malgré les différences profondes qui, le plus souvent, les séparaient. Sans doute, cependant, la relative pauvreté de l'imagination religieuse romaine et le caractère essentiellement fonctionnel des dieux de Rome ont-ils permis, plus qu'ailleurs, un très large développement d'interpretationes de toutes sortes. La tolérance religieuse, presque constamment attestée, des Romains y trouvait son compte».

 

[51] Sui sacra peregrina vedi, per tutti, J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., 42 ss., 74 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, cit., 44 ss., 81 ss.]; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, 348 ss.

 

[52] Quanto alla fonte del testo verriano, F. Bona, Contributo allo studio della composizione del de verborum significatu di Verrio Flacco, Milano 1964, 16 nt. 11, ipotizza che possa essere una «glossa catoniana»: una delle glosse, cioè, «il cui lemma è costituito da espressioni verbali o nominali tratte dal lessico di Catone (nella quasi totalità dalle orazioni)» (15); nello stesso senso Id., Opusculum Festinum, Ticini 1982, 15.

 

[53] M. van Doren, Peregrina sacra. Offizielle Kultübertragungen im alten Rom, in Historia 3, 1955, 488 ss.

 

[54] Cfr. in tal senso R. Turcan, Lois romaines, dieux étrangers et «religion d’Etat», in Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca, a cura di M.P. Baccari, Roma 1994, 23 ss.: la citazione è a p. 31.

 

[55] Sul complesso fenomeno dei rapporti con gli dèi dei vicini e con gli dèi dei nemici, interpretato in termini di "estensioni" e "mutamenti" della religione tradizionale, vedi G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 409 ss., 425 ss. [= Id., La religione romana arcaica, cit., 355 ss., 369 ss.].

 

[56] Vedi, in tal senso, le potenzialità universalistiche della teologia augurale, insite nella divisione dello spazio terrestre sottesa alla distinzione dei genera agrorum elaborata dalla scienza augurale: Varrone, De ling. Lat. 5.33: Ut nostri augures publici dixerunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus. Romanus dictus unde Roma ab Rom<ul>o; Gabinus ab oppido Gabis; peregrinus ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his servantur auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo [quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur. Quocirca Gabinus quoque peregrinus, sed quod auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus dictus ab hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur. In merito a questa divisione elaborata dal collegio degli auguri e, più in generale, sul valore giuridico dell'ager, cfr. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.1, Berlin-New York 1978, 492 ss.

 

[57] Per una discussione più approfondita sui libri Sibyllini vedi soprattutto i lavori dedicati all'argomento da R. Bloch: Les origines étrusques des Livres Sibyllins, in Mélanges offerts à A. Ernout, Paris 1940, 21 ss.; La divination romaine et les livres sibyllins, in Revue des Études Latines 40, 1962, 118 ss.; Les prodiges dans l'antiquité classique (Grèce, Étrurie et Rome), Paris 1963 (sui libri sibillini 86 ss.); L’origine des livres Sibyllins à Rome: méthode de recherche et critique du récit des annalistes anciennes, in Aa.Vv., Neue Beiträge zur Geschichte der alten Welt, 2. Römisches Reich, Berlin 1965, 281 ss. Più di recente, vedi H.W. Parke, Sibyls and sibylline prophecy in classical antiquity, London-New York 1988, 190 ss. (Appendix II: The Libri Sibyllini).

 

[58] Sulle implicazioni teologiche e giuridiche delle evocationes degli dèi del nemico, sono da vedere anche Plinio, Nat. hist. 28.18: Verrius Flaccus auctores ponit, quibus credat in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis sacerdotibus evocari deum, cuius in tutela id oppidum esset, promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id sacrum, constatque ideo occultatum, in cuius dei tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent; Servio Dan., in Verg. Aen. 2.351: excessere quia ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. Inde est, quod Romani celatum esse voluerunt, in cuius dei tutela urbs Roma sit. Et iure pontificum cautum est, ne suis nominibus dii Romani appellarentur, ne exaugurari possint; Macrobio, Sat. 3.9.2-5: Constat enim omnes urbes in alicuius dei esse tutela, moremque Romanorum arcanum et multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent urbem hostium eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos; quod aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam si posset, nefas aestimarent deos habere captivos. Nam propterea ipsi Romani et deum in cuius tutela urbs Roma est et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. Sed dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus quicquid de hoc putatur innotuit. Alii enim Iovem crediderunt, alii Lunam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto silentium denuntiat; alii autem, quorum fides mihi videtur firmior, Opem Consiviam esse dixerunt. Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est, caventibus Romanis ne quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen divulgaretur.

Per un esame completo della documentazione antica e della dottrina moderna sulla formula e sul rito, rinvio all'ampio studio di V. Basanoff, Evocatio. Étude d’un rituel militaire romain, Paris 1947; ma vedi anche K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 125; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 425 s. [= Id., La religione romana arcaica, cit., 369 s.]; da ultimo J. Alvar, La fórmula de la evocatio y su presencia en contextos desacralizadores, in Archivo Español de Arqueología 57, 1984, 143 ss.; Id., Matériaux pour l’étude de la formule sive deus, sive dea, in Numen 32, 1985, 236 ss.

 

[59] L'evocatio di Giunone Regina è stata studiata, fra gli altri, da V. Basanoff, Evocatio, cit., 42 ss.; S. Ferri, La Iuno Regina di Veio, in Studi Etruschi 24, 1955, 106 ss.; J. Hubaux, Rome et Véies. Recherches sur la chronologie légendaire du moyen âge romain, Paris 1958, 154 ss.; R.E.A. Palmer, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays, Philadelphia 1974, 21 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 426 s. [= Id., La religione romana arcaica, cit., 370 s.]; R. Bloch, Interpretatio, cit., 15 ss.

 

[60] P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, 11 fragm. 52; F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896, 29 fragm. 1; C. Thulin, Italische sakrale Poesie und Prosa. Eine metrische Untersuchung, Berlin 1906, 59 ss.; Ph.E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquias, 6a ed., I, Lipsiae 1908, 15 fr. 1; V. Basanoff, Evocatio, cit., 37 ss.; R. Bloch, Interpretatio, cit., 17 s.; N. Berti, Scipione Emiliano, Caio Gracco e l’evocatio di Giunone da Cartagine, in Aevum 64, 1990, 69 ss.

 

[61] Significativa riprova dell'atteggiamento della classe dirigente romana costituisce il passo di Cicerone, Ad Quintum fratrem 1.1.8.24: Est autem non modo eius qui sociis et civibus, sed etiam eius qui servis, qui mutis pecudibus praesit, eorum, quibus praesit, commodis utilitatique servire. Più in generale sulla concezione romana di humanitas, vedi i saggi di N.I. Herescu, Les constantes de l'humanitas Romana, in Rivista di Cultura Classica e Medioevale 2, 1960, 258 ss.; Civis humanus: ethnos et ius, in Atene e Roma 6, 1961, 65 ss.; H. Haffter, Die römische humanitas, ora in Römische Wertbegriffe, hrsg. von H. Oppermann, Darmstadt 1967, 468 ss.; R. Schottlaender, Der Beitrag der ciceronischen Rhetorik zur Entwicklung der Humanitätsidee, in Antike und Abendland 22, 1976, 54 ss. Per gli aspetti più propriamente giuridici, vedi invece F. Schulz, I principii del diritto romano, cit., 164 ss.; e da ultimo, G. Crifò, A proposito di humanitas, in Ars boni et aequi. Festschrift für Wolfang Waldstein, cit., 79 ss.

 

[62] P. Veyne, Humanitas: romani e no, in L’uomo romano, a cura di A. Giardina, Roma-Bari 1989, 413.

 

[63] Per i significati della parola, cfr. H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 172 ss.; é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, 265 ss.; H. Wagenvoort, Wesenzüge altrömischer Religion, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I.2, Berlin-New York 1972, 348 ss. [ripubblicato col titolo Characteristic Traits of Ancient Roman Religion, in Id., Pietas. Selected Studies in Roman Religion, Leiden 1980, 223 ss.]; G. Lieberg, Considerazioni sull'etimologia e sul significato di Religio, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, 34 ss.; R. Muth, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.1, Berlin-New York 1978, 290 ss.; R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in Id., Rites, cultes, diex de Rome, Paris 1979, 30 ss.; E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, 423 ss. Per l'antitesi religio/superstitio, vedi il lavoro ormai classico di W.F. Otto, Religio und Superstitio, in Archiv für Religionswissenschaft 14, 1911, 406 ss.; F. Solmsen, Cicero on religio et superstitio, in The Classical Weekly 37, 1943-44, 159 ss.; e il recente saggio di M. Sachot, Religio/superstitio. Histoire d'une subversion et d'un retournement, in Revue de l'Histoire des Religions 208, 1991, 355 ss.

 

[64] Già il poeta Ennio aveva cantato, in questo modo, l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est (Svetonio, August. 7: cum, quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non solum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicatur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est); cfr. anche Tito Livio 1.4.1: Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium. Le varie ‘fondazioni’, di cui Roma sarebbe stata oggetto in epoche diverse, sono state studiate da A. Grandazzi, La fondation de Rome. Réflexion sur l’histoire, Paris 1991; di cui vedi, in part. 195, dove lo studioso francese sostiene che i Romani ebbero piena coscienza di questo «recommencement perpétuel» che aveva caratterizzato la storia della loro città.

 

[65] D. 1.2.2.7 (Pomponius libro singulari enchiridii): Augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum. Le implicazioni giuridiche e politiche del concetto di civitas augenscens, con particolare riguardo alla raccolta di iura ordinata dall’imperatore Giustiniano, sono state ben delineate da P. Catalano, Diritto e persone, cit., xiv s.: «Entro il quadro ‘sistematico’ della civitas augescens […], nei suoi aspetti demografici oltre che spaziali e temporali, dobbiamo collocare sia il favor libertatis e l’eliminazione degli status di peregrinus e di Latinus […] sia il favore per i nascituri». Sulla stessa linea interpretativa, vedi ora M.P. Baccari, Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di G. Lombardi, II, Roma 1996], 759 ss.; Ead., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996, 47 ss.

 

[66] P. Catalano, Alcuni sviluppi del concetto giuridico di imperium populi Romani, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi III] Napoli 1986, 649 ss.

 

[67] Virgilio, Aen. 1.275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine dicet. / His ego nec metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi. La forte carica ideologica e la precisa connotazione religiosa del passo non sono sfuggiti a P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, 54, per il quale proprio sull’annuncio Imperium sine fine dedi «sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu suprême repose pour ainsi dire toute l’oeuvre». Già i commentari antichi (cfr. Servio, in Verg. Aen. 1.278) avevano stabilito un nesso ben preciso tra l’imperium sine fine e l’eternità di Roma; lo stesso orientamento si registra nella maggior parte della dottrina contemporanea. Tuttavia, ad un esame più attento, il verso non sembra avere univoco senso temporale. Lo interpretano in senso spazio/temporale sia G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974, 209; sia R. Turcan, Rome éternelle et les conceptions gréco-romains de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi I] Napoli 1983, 16; mentre A. Mastino, Orbis, kosmos, oikoumene: aspetti spaziali dell’idea dell’impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, cit., 71, sostiene che nei due versi Aen. 1.278-279 è attestata la propensione augustea a superare tutti i limiti di spazio: «l’impero romano era almeno teoricamente un imperium sine fine, che non aveva frontiere». Per la bibliografia sul poema virgiliano, mi pare utile rinviare a W. Suerbaum, Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.31.1, Berlin-New York 1980, 3 ss. Quanto alla “divini et humani iuris scientia” di Virgilio, vedi invece F. Sini, Bellum nefandum, cit., 17 ss.

 

[68] Più in generale, riguardo alle concezioni religiose di Cicerone rimane tuttora insostituibile M. van den Bruwaene, La théologie de Cicéron, Louvain 1937; cfr. inoltre, fra gli altri: P. Deforny, Les fondaments de la religion d’après Cicéron, in Les études Classiques 22, 1954, 241 ss., 366 ss.; R.D. Sweeney, Sacra in the Philosophic Works of Cicero, in Orpheus 12, 1965, 99 ss.; J. Guillén, Dios y los dioses en Cicerón, in Helmantica 25, 1974, 511 ss.; J. Kroymann, Cicero und die römische Religion, in Ciceroniana. Hommages à K. Kumaniecki, Leiden 1975, 116 ss.; L. Troiani, Cicerone e la religione, in Rivista Storica Italiana 96, 1984, 920 ss.; C. Bergemann, Politik und Religion im spätrepublikanischer Rom, Stuttgart 1992.

 

[69] Cfr. anche De nat. deor. 1.117 (religionem, quae deorum cultu pio continetur); De leg. 1.60 (cum suis, omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem susceperit); 2.30 (Quod sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum, ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper populum indigere. Discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset infinitum, neque ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra collegium nosset); ed ancora De har. resp. 18 (Ego vero primum habeo auctores ac magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta fuisse sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum prudentiam non dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint; qui statas sollemnisque caerimonias pontificatu, rerum bene gerendarum auctoritates augurio, fatorum veteres praedictiones Apollinis vatum libris, portentorum expiationes Etruscorum disciplina contineri putaverunt).

Una diversa definizione di religio è data dal grammatico Servio, in Verg. Aen. 8.349: religio id est metus, ab eo quod mentem religet dicta religio. Sull’uso del termine nelle opere di Virgilio, vedi E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana, IV, cit., 423 ss.

 

[70] A. Momigliano, La storiografia della religione nella tradizione occidentale, in Storia di Roma, IV. Caratteri e morfologie, direzione di A. Schiavone, Torino 1989, 900: «I Latini del I secolo avevano problemi loro particolari, e imboccarono una loro strada. Essi avevano uno stato con una vigorosa tradizione religiosa propria; una tradizione che veniva considerata fondamento e giustificazione dell’enorme potere di Roma».

 

[71] Acute osservazioni in C. Bailey, Phases in the religion of ancient Rome, Berkeley 1932 (Westport, Conn., 1972), 274 s.; da ultimo, M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges F. Wubbe, Fribourg Suisse 1993, 196 s. Anche Virgilio si mostra sensibile a tale ideologia, al punto da attribuire allo stesso Iuppiter versi quali Aen. 12.838-840: Hic genus Ausonio mixtum quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis, / nec gens ulla tuos aeque celebrabit honores; cfr. F. Sini, Bellum nefandum, cit., 192 nt. 27.

 

[72] Cfr. R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden-New York-København-Köln 1988, 5 s.: «C'est à la piété collective et institutionnelle, aux religiones de la cité que les Romains attribuaient le succès de leur politique et leur hégémonie universelle. [...] A cet égard, les Romains pouvaient à bon droit se targuer de l'emporter sur tous peuples religione, id est cultu deorum».

 

[73] Cfr. G.W.R. Ardley, Cotta and the Theologians, in Prudentia 5, 1973, Heft 1, 33 ss.; W. Heilmann, Auctoritas der Tradition und Ratio im Widerstreit. Zur Position des Cotta in Ciceros De natura deorum (3,5 und 3,51f.), in Der Altsprachliche Unterricht 36, 1994, Heft 6, 23 ss.

[74] G. Dumézil, Idées romaines, Paris 1969, 96 nt. 1; nello stesso senso, vedi anche R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, cit., 37: «En définitive, on comprend que les pontifes et les augures constituent pour les Anciens les piliers fondamentaux de la religion romaine. Les premiers administrent les sacra, les seconds interviennent dans la prise des auspicia – division qui correspond aux deux provinces de la religion romaine».

 

[75] Sul testo citato, vedi l'ampio commento di A.S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum, II (1957), rist. an. Darmstadt 1968, 983 s.

 

[76] Più in generale, cfr. R. Stark, Ciceros Staatsdefinition, ora in Das Staatsdenken der Römer, hrsg. von R. Klein, Darmstadt 1966, 332 ss.

 

[77] Stimolanti riflessioni sul valore più generale del testo in M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, cit., 191 ss.

 

[78] Cicerone, Pro Mil. 83: Nec vero quisquam aliter arbitrari potest, nisi qui nullam vim esse ducit numenve divinum, quem neque imperi nostri magnitudo neque sol ille nec caeli signorumque motus nec vicissitudines rerum atque ordines movent, neque, id quod maximum est, maiorum nostrorum sapientia, qui sacra, qui caerimonias, qui auspicia et ipsi sanctissime coluerunt et nobis suis posteris prodiderunt.

 

[79] Per quanto attiene a quest’opera e al contesto in cui maturò la “congiura”, vedi: Z. Yavetz, The Failure of Catiline's Conspiracy, in Historiae 12, 1963, 485 ss.; W. Wimmel, Die zeitlichen Vorwegnahmen in Sallusts Catilina, in Hermes 95, 1967, 192 ss.; E.J. Phillips, Catiline's Conspiracy, in Historia 25, 1976, 441 ss.; H.-J. Glücklich, Gute und schlechte Triebe in Sallusts Catilinae coniuratio, in Der Altsprachliche Unterricht 31, 1988, Heft 5, 23 ss.; W. Dahlheim, Die Not des Staates und das Recht des Bürgers: Die Verschwörung des Catilina (63/62 v.Chr.), in Macht und Recht. Grosse Prozesse in der Geschichte, hrsg. von A. Demandt, München 1990, 27 ss.; A. Drummond, Law, politics and power. Sallust and the execution of the Catilinarian conspirators, [Historia. Einzelschriften, 93] Stuttgart 1995; G. Philipp, Gedanken zum Prooemium und zur Charakterisierung Catilinas in Sallusts Coniuratio Catilinae, in Die Antike und ihre Vermittlung. Festschrift für F. Maier zum 60. Geburtstag, hrsg. von K. Bayer-P. Petersen-K. Westphalen, München 1995, 137 ss.; A. Giovannini, Catilina et le problème des dettes, in Leaders and Masses in the Roman World. Studies in Honor of Z. Yavetz, edited by I. Malkin-Z.W.Rubinsohn, Leiden-New York-Köln 1995, 15 ss.; A.T. Wilkins, Villain or Hero. Sallust's Portrayal of Catiline, New York 1996.

 

[80] Per un esauriente commento del passo, rinvio a C. Sallustius Crispus, De Catilinae coniuratione, Kommentiert von K. Vretska, Heidelberg 1976, 232 ss.

 

[81] Fra la sterminata bibliografia sul grande storico, basterà citare giusto qualche titolo: G. Funaioli, v. C. Sallustius Crispus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, I A 2, Stuttgart 1920, coll. 1913 ss.; W. Schur, Sallust als Historiker, Stuttgart 1934; D.C. Earl, The Political Thought of Sallust, Cambridge 1961; K. Hanell, Bemerkungen zu der politischen Therminologie des Sallustius, in Eranos 43, 1945, 263 ss. [ripubblicato in Das Staatsdenken der Römer, cit., 500 ss.]; R. Syme, Sallust, Berkeley 1964 [= Sallustio, trad. it. di S. Galli, Brescia 1968]; A. La Penna, Sallustio e la “rivoluzione” romana, Milano 1968; K.-E. Petzold, Der politische Standort des Sallust, in Chiron 1, 1971, 219 ss.; S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II.2, 4a ed., Roma-Bari 1974, 3 ss.; J. Malitz, Ambitio mala. Studien zur politischen Biographie des Sallust, Bonn 1975; V. Pöschl, Sallust, 2a Aufl., Darmstadt 1981; K. Büchner, Sallust, 2a Aufl., Heidelberg 1982. Per maggiori informazioni rinvio a L. Di Salvo, Nota bibliografica, in Opere di Caio Sallustio Crispo, 2a ed., a cura di P. Frassinetti e L. Di Salvo, Torino 1991, 29 ss.

 

[82] Sui temi della decadenza e del rapporto tra espansione e crisi delle istituzioni repubblicane nella visione storica di Sallustio, vedi fra gli altri: C. Perl, Sallust und die Krise der römischen Republik, in Philologus 113, 1969, 201 ss.; E. Koestermann, Das Problem der römischen Dekadenz bei Sallust und Tacitus, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I.3, Berlin-New York 1973, 786 ss.; K. Bringmann, Weltherrschaft und innere Krise Roms im Spiegel der Geschichtsschreibung des zweiten und ersten Jahrhunderts v.Chr., in Antike und Abendland 23, 1977, 28 ss.; C. Venturini, Luxus e avaritia nell’opera di Sallustio, in Athenaeum 57, 1979, 277 ss.; J.M. Aloñso-Nunez, La crisi in Sallustio, in La rivoluzione romana, inchiesta tra gli antichisti, [Biblioteca di Labeo, 6] Napoli 1982, 208 ss.; H. Wolff, Bemerkungen zu Sallusts Deutung der Krise der Republik, in Klassisches Altertum, Spätantike und frühes Christentum. A. Lippold zum 65. Geburtstag gewidmet, hrsg. von K. Dietz-D. Hennig-H. Kaletsch, Würzburg 1993, 163 ss.; K. Heldmann, Sallust über die römische Weltherrschaft. Ein Geschichtsmodell im Catilina und seine Tradition in der hellenistischen Historiographie, Stuttgart 1993; E. Schütrumpf, Die Depravierung Roms nach den Erfolgen des Imperiums bei Sallust, Bellum Catilinae Kap. 10 - philosophische Reminiszenzen, in Imperium Romanum. Studien zu Geschichte und Rezeption. Festschrift für K. Christ zum 75. Geburtstag, hrsg. von P. Kneissl-V. Losemann, Stuttgart 1998, 674 ss.

 

[83] Cfr., in tal senso, A. Ferrabino, Urbs in aeternum conditam, Padova 1942; J. Vogt, Römischer Glaube und römisches Weltreich, Padova 1943. Per quanto riguarda, invece, più specificamente l’ideologia, vedi H. Haffter, Rom und römische Ideologie bei Livius, in Gymnasium 71, 1964, 236 ss. [= Id., Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg 1967, 74 ss.]; M. Mazza, Storia e ideologia in Livio. Per un'analisi storiografica della ‘praefatio’ ai ‘libri ab urbe condita’, Catania 1966, in part. 129 ss.; G. Miles, Maiores, Conditores, and Livy's Perspective of the Past, in Transactions of the American Philological Association 118, 1988, 185 ss.; B. Feichtinger, Ad maiorem gloriam Romae. Ideologie und Fiktion in der Historiographie des Livius, in Latomus 51, 1992, 3 ss.

 

[84] La valenza religiosa del testo è stata colta assai bene da H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, cit., 207: «En fait, le populus ne pourrait subsister s’il perdait le milieu sacré qui le nourrit pour ainsi dire, en quittant l’urbs fondée avec l’acquiescement des auspices et par un acte inaugural; ou pour exprimer la même idée à un niveau religieux un peu plus moderne, il ne pourrait conserver la pax deorum, hors du cadre seul apte à contenir les sacrifices réguliers, par lesquels cette «paix» se maintient. Telles sont les vérités que lui rappelle Camille, pour ruiner la folle suggestion des tribuns, d’émigrer en masse vers le site de Véies»; ma vedi anche la riflessione di C.M. Ternes, Tantae molis erat… De la ‘nécessité’ de fonder Rome, vue par quelques écrivains romains du – 1er siècle, in “Condere Urbem”. Actes des 2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg (janvier 1991), édités par C.M. Ternes, Luxembourg 1992, 18 s.

 

[85] Cfr. Tito Livio 1.9.3-4: Urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem. 1.21.1-2: Ad haec consultanda procurandaque multitudine omni a vi et armis conversa, et animi aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat, ut fides ac ius iurandum pro legum ac poenarum metu civitatem regerent. Et cum ipsi se homines in regis velut unici exempli mores formarent, tum finitimi etiam populi, qui antea castra non urbem positam in medio ad sollicitandam omnium pacem crediderant, in eam verecundiam adducti sunt, ut civitatem totam in cultum versam deorum violare ducerent nefas. 1.55.3-4: Inter principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium sacellorum exaugurationes admitterent aves, in Termini fano non addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est, non motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere. 8.39.10: Hoc demum proelium Samnitium res ita infregit, ut omnibus conciliis fremerent minime id quidem mirum esse, si impio bello et contra foedus suscepto, infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent. 28.11.1: In civitate tanto discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum adversorumque causas in deos verterent, multa prodigia nuntiabantur.

 

[86] M. Merten, Fides Romana bei Livius, Diss. Frankfurt am Main 1965; W. Flurl, Deditio in fidem. Untersuchungen zu Livius und Polybios, Diss. München 1969, 127 ss.; su fides e pietas vedi T.J. Moore, Artistry and Ideology: Livy’s Vocabulary of Virtue, Frankfurt am Main 1989, in part. 35 ss., 56 ss.

 

[87] Tito Livio 44.1.9-11: Paucis post diebus consul contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei perpetrato in fratrem, cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum veneficia, caedes, latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum Romanum, direptiones sociarum urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque invisa essent, sensurum in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit.

Per una visione più in generale delle concezioni religiose del sommo annalista romano, cfr. G. Stübler, Die Religiosität des Livius, Stuttgart-Berlin 1941; I. Kajanto, God and fate in Livy, Turku 1957; A. Pastorino, Religiosità romana dalle Storie di Tito Livio, Torino 1961; W. Liebeschuetz, The Religious position of Livy’s History, in The Journal of Roman Studies 67, 1967, 45 ss.; D.S. Levene, Religion in Livy, Leiden-New York-Köln 1993; per le formule di preghiera, vedi invece F.V. Hickson, Roman prayer language: Livy and the Aeneid of Vergil, Stuttgart 1993.

 

[88] Quanto agli aspetti biografici, vedi R. Helm, v. Valerius Maximus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VIII A, 1, Stuttgart 1955, coll. 90 ss.; R. Faranda, Introduzione, a Valerio Massimo, Detti e fatti memorabili, a cura di R. F., 1a ed. 1971, rist. Torino 1976, 9 ss. (ivi anche la bibliografia precedente).

 

[89] Non mi pare che colga bene tutte le implicazioni teologiche e giuridiche del passo il recentissimo commento di D. Wardle, Valerius Maximus, Memorable deeds and saying, Book I, traslated with an introduction and commentary by D. W., Oxford 1998, 100, dove si legge: «V. has rhetorical exaggeration, particularly in glory of the highest majesty, with is not a natural definition of the praetorship».

 

[90] Le più recenti edizioni dell’opera sono quelle curate da R. Combès, Valère Maxime. Faits et Dits Mémorables, Voll. I-II (libri I-III, IV-VI), Paris 1995, 1997; J. Briscoe, Valeri Maximi Facta et dicta memorabilia, 2 Voll., Stuttgart-Leipzig 1998. Fra gli ultimi studi su Valerio Massimo (ma resta ancora utile il saggio di A. Klotz, Studien zu Valerius Maximus und den Exempla, [Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Historische Abteilung] München 1942) sono da vedere: F. Römer, Zum Aufbau der Exempelsammlung des Valerius Maximus, in Wiener Studien 103, 1990, 99 ss.; W.M. Bloomer, Valerius Maximus and the Rhetoric of the new Nobility, London 1992; C. Skidmore, Practical Ethics for Roman Gentlemen. The Work of Valerius Maximus, Exeter 1996; infine i contributi di vari studiosi raccolti da J.-M. David, in Valeurs et mémoire à Rome. Valère Maxime ou la vertu recomposée, Paris 1998 (saggi, oltre che dello stesso David, di Y. Lehmann, C. Loutsch, M. Coudry, M. Chassignet, M. Humm, A. Jacquemin, M.L. Freyburger).

 

[91] Fra la bibliografia, veramente considerevole, basterà citare alcune delle opere più recenti: R. Braun, Deus Christianorum. Recherches sur le vocabulaire doctrinal de Tertullien, Paris 1962; R. Klein, Tertullian und das römische Reich, Heidelberg 1968; J.-C. Fredouille, Tertullien et la conversion de la culture antique, Paris 1972; C. Rambaux, Tertullien face aux morales des trois premiers siècles, Paris 1979; T.D. Barnes, Tertullian. A historical and literary study, 2a ed., Oxford 1985.

 

[92] C. Becker, Tertullians Apologeticum. Werden und Leistung, München 1954; P. Frassinetti, Tertulliano e l’“Apologetico”, Genova 1974; G. Eckert, Orator Christianus. Untersuchungen zur Argumentationskunst in Tertullians Apologeticum, Stuttgart 1993.

 

[93] Per lo studio dei riferimenti a nozioni giuridiche romane e del vocabolario giuridico di Tertulliano, vedi P. Vitton, I concetti giuridici nelle opere di Tertulliano, Roma 1924; A. Beck, Römisches Recht bei Tertullian und Cyprian. Eine Studie zur frühen Kirchenrechtsgechichte, (1930) rist. Aalen 1967, in part. 49 ss., 60 ss.; J.K. Stirnimann, Die praescriptio Tertullians im Lichte des römischen Rechts und der Theologie, Freiburg in der Schweiz 1949, in part. 39 ss.; R.D. Sider, Ancient Rhetoric and the Art of Tertullian, Oxford 1971, 74 ss.; J. Gaudemet, Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle, [Ius Romanum Medii Aevi, pars I, 3, b] Mediolani 1978, 15 ss. Quanto invece alla possibilità di identificare il polemista cristiano con l’omonimo giurista, rinvio alla dettagliata disamina di W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Weimar 1952, 236 ss.; cfr. anche T.D. Barnes, Tertullian. A historical and literary study, cit., 22 ss.

 

[94] La problematica trattata nel passo e il relativo “argomento politico” risultano assai bene inquadrati nel commento di J.P. Waltzing, Tertullien, Apologétique, teste établi par J.P. W., Liège-Paris 1919, 120 ss.

 

[95] Tertulliano, Apolog. 1.1: Si non licet vobis, Romani imperii antistites, in aperto et edito, in ipso fere vertice civitatis praesidentibus ad iudicandum, palam dispicere et coram examinare, quid sit liquido in causa Christianorum; si ad hanc solam speciem auctoritas vestra de iustitiae diligentia in publico aut timet aut erubescit inquirere; si denique, quod proxime accidit, domesticis indiciis nimis operata infestatio sectae huius os obstruit defensioni: liceat veritati vel occulta via tacitarum litterarum ad aures vestras pervenire.

 

[96] All’analisi della «Polemik im Werke Tertullians» sono dedicate molte pagine del recente lavoro di I. Opelt, Die Polemik in der christlichen lateinischen Literatur von Tertullian bis Augustin, Heidelberg 1980, 4 ss.

 

[97] Per la definizione del concetto di pax deorum, con ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla, vedi P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., 49 ss. (ora in Id., Scritti di diritto romano, I, cit., 226 ss.); a cui sono da aggiungere, M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, Milano 1985, 146 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di pax e pax deorum, in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma", Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, 49 ss.; Id., Mito e storia nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, 85 ss. (Appendice I: "Tempo della città e pax deorum: l'infissione del clavus annalis"); infine, F. Sini, Bellum nefandum, cit., 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente).

 

[98] Cfr., in tal senso, P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., 49 [= Id., Scritti di diritto romano, cit., 224]; ma anche, da ultimo, M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, cit., 195: «La conception - d'ordre philosophique - du monde romain est celle d'un ensemble de rapports ou de forces en équilibre: toute action humaine affecte par définition cette harmonie naturelle et trouble l'ordre voulu par les dieux. D'où la nécessité, avant (ou, au pire, après) toute action, de se concilier l'accord des dieux témoignant leur adhésion. La paix universelle est alors sauvegardée. La religion consiste ainsi à rester en bons rapports avec les dieux, pour les avoir avec soi».

 

[99] J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in Aa.Vv., Des ordres à Rome, dir. de C. Nicolet, Paris 1984, 269 s.: «La République est effectivement une association de trois partenaires: les dieux, le peuple et les magistrats».

 

[100] Sull'autenticità e risalenza dell'espressione pax deum, vedi M. Sordi, Pax deorum e la libertà religiosa nella storia di Roma, cit., 147. Le conclusioni dell'illustre studiosa non sono del tutto condivise da E. Montanari, Il concetto originario di pax e la pax deorum, cit., 56.

 

[101] Plauto, Poen. 253.

 

[102] Lucrezio, De rer. nat. 5.1229.

 

[103] Tito Livio 3.5.14: His avertendis terroribus in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum mulierumque turba implebantur; 7.2.2: nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit.

 

[104] Aen. 3.369-373: Hic Helenus caesis primum de more iuvencis / exorat pacem divom vittasque resolvit / sacrati capitis, meque ad tua limina, Phoebe, / ipse manu multo suspensum numine ducit, / atque haec deinde canit divino ex ore sacerdos. Questo è anche l'unico passo di Virgilio in cui troviamo esplicitamente menzionata l'espressione pax deorum; il contenuto, poi, è di particolare solennità rituale (cfr. C. Bailey, Religion in Virgil, Oxford 1935, 47; F. Sini, Bellum nefandum, cit., 262), come aveva già rilevato il grammatico Servio, in Verg. Aen. 3.370, spiegando che il verbo exorare nel linguaggio sacerdotale significa impetrare.

 

[105] L'espressione è di P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., 50, per il quale «Legalismo religioso è l'insieme delle regole che insegnano a mantenere la pax deorum» [= Id., Scritti di diritto romano, cit., 225].

 

[106] Su tale attività e sull'influenza di essa per il formarsi della tradizione annalistica, v. B.W. Frier, ‘Libri Annales pontificum Maximorum’: the origins of the Annalistic Tradition, [Papers and Monographs of the American Academy in Rome, XXVII] Roma 1979.

 

[107] Cfr., giusto a titolo d'esempio: Tito Livio 2.36.1; 3.5.14; 3.10.6; 4.9.3; 4.12.6; 4.21.5; 4.30.7; 5.13.4; 6.20.16; 7.2.2; 7.3.3; 7.27.1; 7.28.7; 8.6.9; 8.9.6-12; 8.25.1; 10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13; 22.3.11; 22.9.7; 22.36.6; 23.31.15; 23.36.10; 23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9; 25.7.7-9; 25.16.1; 25.17.3; 26.23.3-6; 26.45.9; 27.4.11; 27.11.1; 28.27.16; 30.2.9-13; 30.38.8. Sul nutrito elenco di prodigi presenti nell'opera liviana, certo improntati - direttamente o indirettamente - agli Annales Maximi, v. E. De Saint-Denis, Les énumerations de prodiges dans l'oeuvre de Tite-Live, in Revue de Philologie 16, 1942, 126 ss.; J.Ph. Packard, Official notices in Livy's fourth decade: style and treatment, Ann Arbor 1970, 125 ss.; E. Rawson, Prodigy list and the use of Annales Maximi, in The Classical Quarterly 21, 1971, 158 ss.; infine il più recente lavoro di B. MacBain, Prodigy and expiation: a study in religion and politics in Republican Rome, Bruxelles 1982, 82 ss. [Appendix A: index of prodigies].

 

[108] C. Bailey, Phases in the religion of ancient Rome, Berkeley 1932 [Westport, Conn. 1972], 76: «Roman ritual, as it was later formulated in the ius divinum of the State-cult, recognized four means (caerimoniae) for securing and maintaining the pax deorum, the relation of kindliness betwen gods and men».

 

[109] D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit. Contrari alla genuinità del frammento F. Schulz, I principii del diritto romano, cit., 23 nt. 33; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt a. M. 1955, 618: «Die merkwuerdige Dreiteilung des ius publicum: in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus stammt sicherlich nicht von Ulpian»; dubbioso B. Albanese, Premessa allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, 192 nt. 295. Sono invece favorevoli all'autenticità del testo, fra gli altri: G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946, 152 ss.: «Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (161); F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélanges De Visscher, II, Bruxelles 1949, 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è una suddivisione di inconfondibile stampo repubblicano. Su tutta questa problematica, vedi ora G. Arico' Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 37, 1983, 447 ss., in part. 461 ss.

 

[110] P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino 1974, 676; con adesione di C. Nicolet, Notes complementaires, in Polybe, Histoires, Livre VI, Paris 1977, 149 ss.; J. Scheid, Le prêtre et le magistrat, cit., 269 ss.

 

[111] Cicerone, De leg. 2.19 ss.; 3.6 ss.

 

[112] F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 213-214: «Questa simiglianza rappresenta un fatto di notevole portata, in quanto consente di definire con precisione la matrice ideologica della concezione ciceroniana e ulpianea del ius publicum. Essa trae le radici da una gerarchizzazione assai antica delle parti del ius publicum, sostanzialmente antiplebea, risalente di certo alla elaborazione sacerdotale di età precedente al pareggiamento dei due ordini, o ad età immediatamente successiva: prova di ciò può trovarsi nel fatto che con l'avvento dei plebei alle magistrature, questi introdussero la consuetudine non solo di cumulare magistratura e sacerdozio, ma di anteporre gli honores ai sacerdotia (schema ancora conservato in Varrone, De ling. Lat. 5, 80-86), che divenne tipica dell'età medio-repubblicana».

 

[113] Cfr. F. d'ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli 1988.

 

[114] Per l'archivio dei pontefici, a parte le opere di I.A. Ambrosch citate nella nota seguente, vedi (ma senza pretesa di completezza): J.V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains, recherches précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments des journaux de l’ancienne Rome, Paris 1838, in part. 127 ss.; E. Luebbertus, Commentationes pontificales, Berolini 1859; A. Bouché-Leclercq, Les Pontifes de l’ancienne Rome, cit., 19 ss.; P. Preibisch, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; Id., Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., 299 ss.; R. Peter, Quaestionum pontificalium specimen, Argentorati 1886; W. Rowoldt, Librorum pontificiorum Romanorum de caeremoniis sacrificiorum reliquiae, Halis Saxon. 1906; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., 14 ss. Per l'archivio degli auguri, mi pare che le opere di F.A. Brause (Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875) e P. Regell (De augurum publicorum libris, Vratislaviae 1878; Fragmenta auguralia, Hirschberg 1882; Commentarii in librorum auguralium fragmenta specimen, Hirschberg 1893) siano tuttora le più complete. Ma è anche da vedere J. Linderski, The augural Law, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16,3, Berlin-New York 1986, 2241 ss.

 

[115] Le basi per la ricostruzione critica del materiale contenuto negli archivi sacerdotali erano già state poste, nella prima metà dell’Ottocento, dalle opere di I.A. Ambrosch: Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, in part. 159 ss.; Observationum de sacris Romanorum libris particula prima, Vratislaviae 1840; Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; Quaestionum pontificalium caput primum, Vratislaviae 1848; Quaestionum pontificalium caput alterum, Vratislaviae 1850. Sulle compilazioni sacerdotali e sul valore storico-giuridico dei dati provenienti da tali documenti, vedi, fra gli altri, C.W. Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College, København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal Westrup nel quarto volume della sua opera di maggiore impegno: Introduction to early Roman Law. Comparative sociological studies, IV. Sources and Methods, London-Copenhagen 1950); E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939; R. Besnier, Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois, in Studi in memoria di E. Albertario, II, Milano 1953, 1 ss.; G.B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, 41 ss.; infine F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 17 ss.

 

[116] F. Sini, Documenti sacerdotali e lessico politico-religioso di Roma arcaica, in Atti del Convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell'antichità (Torino, 28-29 aprile 1978), a cura di I. Lana-N. Marinone, Torino 1980, 127 ss.; ma più in generale cfr. anche C. Nicolet, Lexicographie politique et histoire romaine: problèmes de méthode et directions de recherches, ibid., 19 ss.

 

[117] Cfr., in tal senso, le «Remarques préliminaires sur la dignité et l’antiquité de la pensée romaine» di G. Dumézil, Idées romaines, cit., 9 ss.; in quelle pagine l’illustre studioso francese ha dimostrato, in maniera peraltro assai convincente, che «des techniques aussi complexes que l’augurale ius et le ius civile étaient constituées dès la fin des temps royaux, avec la réglementation rigoureuse que nous leur connaissons au seuil de l’Empire» (25).

Già negli studi sulla giurisprudenza romana di P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, I. Bis auf die Catonen, Berlin 1888, 15 ss., si dedicava ampio spazio all’analisi della «pontificale Jurisprudenz» e al ruolo insostituibile dei suoi «Ritualvorschriften» come modelli della successiva elaborazione giurisprudenziale. Nello stesso senso, vedi ora G. Nocera, Iurisprudentia. Per una storia del pensiero giuridico romano, Roma 1973, 11 ss.; e soprattutto F. Wieacker, Altrömische Priesterjurisprudenz, in Iuris professio. Festgabe für M. Kaser zum 80. Geburtstag, Wien-Graz-Köln 1986, 347 ss.; Id., Römische Rechtsgeschichte, cit., 310 ss.; da ultimo, brevemente, anche A. Schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, 4 s.

 

[118] Per una penetrante critica all'interpretazione "statualista'' del sistema giuridico-religioso romano, vedi P. Catalano, Populus Romanus Quirites, cit., 41 ss. (con ampia analisi [52 ss.] dei motivi di opposizione nei confronti della «Staatslehre» mommseniana, presenti nella coeva cultura giuspubblicistica italiana); Id., La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), cit., 273 ss.; ma anche J. Bleicken, Lex publica. Gesetze und Recht in der römischen Republik, Berlin-New York 1975, 16 ss. («Kritik der Staatsrechtslehre von Th. Mommsen»); infine G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982, 6 ss.

 

[119] G. Lobrano, Note su «diritto romano» e «scienze di diritto pubblico» nel XIX secolo, in Index 7, 1977, [ma 1979], 66; cfr. Id., Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari 1990, 81 ss.

 

[120] A proposito del formalismo rituale delle società antiche, non appare troppo lontana dal vero la giustificazione proposta nel secolo scorso dal grande storico e comparatista francese N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique, cit., 197: «Toutes ces formules et ces pratiques avaient été léguées par les ancêtres qui en avaient éprouvé l’efficacité. Il n’y avait pas à innover. On devait se reposer sur ce que ces ancêtres avaient fait, et la suprême piété consistait à faire comme eux. Il importait assez peu que la croyance changeât: elle pouvait se modifier librement à travers les âges et prendre mille formes diverses, au gré de la réflexion des sages ou de l’imagination populaire. Mais il était de la plus grande importance que les formules ne tombassent pas en oubli et que les rites ne fussent pas modifiés» [= Id., La città antica, cit., 202].

 

[121] Per il significato e l'antichità del termine vedi A. Rostagni, Storia della letteratura latina, 3a ed., I, Torino 1964, 41. Derivano certamente dagli archivi dei sacerdoti, oltre il carmen saliare (frammenti in: C.M. Zander, Carminis saliaris reliquiae, Lundae 1888; B. Maurenbrecher, Carminum Saliarium reliquiae, in Jahrbücher für classische Philologie, Suppl. 21, 1894, 315 ss.; W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et liricorum praeter Ennium et Lucilium, 2a ed. (1927), rist. Stutgardiae 1963, 1 ss.) e il carmen arvale (sul quale vedi: M. Nacinovich, Carmen arvale, 2 voll., Roma 1933-1934; E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, cit., 99 ss.; G. Radke, Archaisches Latein, Darmstadt 1981, 100 ss.; I. Paladino, Fratres Arvales. Storia di un collegio sacerdotale romano, Roma 1988, 195 ss.), le solenni formule giuridico-religiose di cui le fonti ci hanno conservato i testi: cfr. Tito Livio 1.18.6 ss. (inauguratio); 1.24.3 ss. (foedus); 1.32.11-13 (indictio belli); 1.38.2 (deditio); 8.9.16 (devotio); Macrobio, Sat. 3.9.7 (evocatio). Cfr. C.M. Zander, Versus Italici antiqui, Lundae 1890; C. Thulin, Italische sakrale Poesia und Prosa, Berlin 1906; G. Appel, De Romanorum praecationibus, [Religionsgeschichte Versuche und Vorarbeiten, 7, 1] Gissae 1909; G.B. Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958.

 

[122] Cfr. Quintiliano, Instit. orat. 1.6.39-41: Verba a vetustate repetita non solum magnos adsertores habent, sed etiam adferunt orationi maiestatem aliquam non sine delectatione: nam et auctoritatem antiquitatis habent, et, quia intermissa sunt, gratiam novitati similem parant. Sed opus est modo, ut neque crebra sint haec nec manifesta, quia nihil est odiosius adfectatione; nec utique ab ultimis et iam oblitteratis repetita temporibus, qualia sunt «topper» et «antegerio» et «exanclare» et «prosapia» et Saliorum carmina vix sacerdotibus suis satis intellecta. Sed illa mutari vetat religio et consecratis utendum est.

 

[123] Vedi, per tutti, P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, cit., 29 ss.; E. De Ruggiero, v. Decretum, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, II.2, Roma 1910, 1497 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 541 s., 527 ss., 551; F. Schulz, History of Roman Legal Science, 2a ed., Oxford 1953, 15 ss. [= Id., Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera, Firenze 1968, 37 ss.]; da ultimo, si occupa dei decreta pontificum, nell’ambito di uno studio più ampio sulla normativa decretale in Roma repubblicana, G. Mancuso, Studi sul decretum nell’esperienza giuridica romana, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 40, 1988, 78 ss.

 

[124] La distinzione tra i decreta e i responsa sacerdotali non risulta del tutto chiara in dottrina; per quanto riguarda i responsa, non è neppure certo se, e in che misura, essi vincolassero il magistrato, il Senato o il privato che li avevano richiesti; tuttavia il prestigio dei sacerdoti era tale da far sì che raramente venissero disattesi. Cfr. Cicerone, De harusp. resp. 6.12: Quae tanta religio est qua non in nostris dubitationibus atque in maximis superstitionibus unius P. Servili ac M. Luculli responso ac verbo liberemur? De sacris publicis, de ludis maximis, de deorum penatium Vestaeque matris caerimoniis, de illo ipso sacrificio quod fit pro salute populi Romani, quod post Romam conditam huius unius casti tutoris religionum scelere violatum est quod tres pontifices statuissent, id semper populo Romano semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum esse visum est.

 

[125] F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 163 ss.

 

[126] Su questa interpretazione dello ius Papirianum, vedi ora anche di D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrecht. Die Bronzetafel von Alcántara, München 1989, 28 nt. 5.