N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana

 

 

Massimo Miglietta

Università di Trento

 

Intorno al metodo dialettico della scuola serviana: cenni in materia di conflitto logico tra ‘quaestio’ e ‘responsum’ nei ‘digesta’ di Alfeno Varo

 

 

 

Relazione presentata nel III Convegno internazionale «Diritto romano privato e pubblico: l’esperienza plurisecolare dello sviluppo del diritto europeo» (Jaroslavl e Mosca, 25-30 giugno 2003).

 

 

 

 

1. – Questa breve relazione – predisposta per il Convegno – rappresenta parte di un più ampio lavoro in corso di pubblicazione sulla ‘Rivista di Diritto Romano’, in cui intendo presentare una interessante caratteristica di tipo ‘stilistico’ interna ai digesta di Alfeno Varo.

E mi spiego subito.

 

1.1. In una pagina particolarmente articolata, quanto descrittivamente efficace, del Brutus (40.150-42.156), Cicerone dà testimonianza del fatto che il giurista ‑ e amico ‑ Servio Sulpicio Rufo si fosse perfezionato, in gioventù, nell’arte dialettica presso la celebre scuola di Rodi, arte che, trasferita sul piano dell’interpretazione giuridica, risultava consistere in una composita serie di operazioni logiche così schematizzate:

 

Cic., Brut. 41.152: […] rem universam tribuere in partis, latentem explicare definiendo, obscuram explanare interpretando, ambigua primum videre, deinde distinguere, postremo habere regulam qua vera et falsa iudicarentur et quae quibus propositis essent quaeque non essent consequentia.

 

Le attività specifiche della ‘dialettica’ si svolgono, dunque, su due livelli. Un primo livello, immediato, impone all’interprete di operare la ‘partitio’ e, quindi, la suddivisione per categorie, dell’intera materia esaminata (‘rem universam tribuere in partis’); di procedere, poi, alla ‘definitio’ (non soltanto volta a ‘fissare i confini’ della questione, ma anche a portare ad emersione ciò che sottostà, letteralmente, ‘tra le pieghe’ del discorso [etimol. ‘ex–plicare’], all’oggetto analizzato: ‘latentem explicare definiendo’); di approdare, infine, alla ‘interpretatio’ (tesa a rendere logicamente ‘percorribile’ ‑ appianare ‑ tutto quanto costituisca res obscura: ‘obscuram explanare interpretando’).

Un secondo versante si rivolge, invece, alle res che appaiono essere ambiguae: si tratta di quegli oggetti d’analisi che, a differenza delle precedenti res (quelle del ‘primo livello’) non sono semplicemente ‘nascoste’ o ‘lontane dalla luce’ ma, allo stesso tempo, di meccanica individuabilità. Per gli ambigua pare debba compiersi un’opera ermeneutica più complessa, poiché possiedono ‑ letteralmente ‑ un significato plurimo (almeno ‘doppio’: amb–iguus), come, infatti, sottolinea ancora

 

Cic., de inv. 2.40.116: Ex ambiguo autem nascitur controversia, cum, quid senserit scriptor, obscurum est, quod scriptum duas pluresve res significat…, et rell.

 

Per queste ragioni, l’opera dell’interprete non si esaurisce in un unico atto ‑ per quanto, in sé considerato, anche complesso ‑ ma richiede una serie di operazioni ‘necessariamente’ consecutive (‘… primum… deinde… postremo…’) rappresentate dal ‘videre’, dal ‘distinguere’, finalizzate al ‘habere regulam’, ossia dalla analisi attenta della quaestio (se è ‘amb–igua ’ va osservata in ogni sua angolatura); dalla identificazione di ogni parte (‘di–stinguo’ significa, infatti, ‘punteggiare’ cioè ‘marchiare’); dalla individuazione, finalmente, della ‘regula’, ossia del ‘metro di valutazione’ attraverso cui stabilire ‑ degli ambigua ‑ cosa sia vero e cosa sia falso (‘ambigua primum videre, deinde distinguere, postremo habere regulam qua vera et falsa iudicarentur…’) e quali conseguenze possano derivare ‑ o vadano, per contro, escluse ‑ poste determinate premesse (‘… et quae quibus propositis essent quaeque non essent consequentia’).

Cicerone, tuttavia, non si contenta di procedere a questa (pur preziosa) descrizione ma proclama che lo scopo per cui Servio si dedicò ‑ tanto assiduamente e fin dalla prima giovinezza ‑ allo studio della dialettica e delle arti liberali non fu dovuto al semplice desiderio di gratificare un interesse meramente ‘accademico’, ma fu mirato ad utilizzare e sfruttare al meglio le potenzialità di tali conoscenze e metodologie ‘ut ius civile facile posset tueri’.

Servio ‑ in altre parole ‑ avrebbe preferito primeggiare nella scienza giuridica piuttosto che appartenere alle seconde fila della nutrita schiera dei retori e, in questo, avrebbe superato anche il giurista Quinto Mucio Scevola (cosicché il primo avrebbe esercitato una vera ‘ars’ a differenza del secondo qualificato un ‘ottimo pratico’ del diritto). E l’Arpinate esprime questa motivazione con felice costruzione a chiasmo (che pare riecheggiare quelli che saranno gli arditi giochi linguistici agostiniani): ‘videtur mihi in secunda arte [= ius civile] primis esse maluisse quam in prima [= eloquentia] secundus’.

 

Per quanto entusiastica ‑ come consuetudine dell’Autore verso i propri amici ‑ essa sta a fondamento della opinione corrente in dottrina secondo cui uno degli elementi di maggiore interesse ‑ oltre che apporto particolarmente fecondo ‑ relativo alla riflessione della scuola giuridica serviana sia rappresentato proprio dal consistente impiego del metodo dialettico nella analisi dei casi controversi. Sebbene un poco limitante nella sintesi, appare esatta la lettura dello Schulz che descrive tale interpretazione come caratterizzata dall’impiego di distinzioni o differentiae (la dia…resij della dialektik») e di conseguenti operazioni di ‘sintesi’ (la sÚntesij della sunagwg»).

In particolare, è attraverso i digesta di Publio Alfeno Varo ‑ ‘iureconsultus, Servii Sulpicii discipulus’ ‑ i quali racchiudono la porzione più consistente tratta dall’esperienza e dall’insegnamento dello scolarca, che è possibile ripercorrere lo stile della scuola serviana. Al di là, infatti, della sussistenza di seri problemi di riconduzione del materiale alla elaborazione di Alfeno ‑ stanti, come è noto, le due epitomi, anonima e paolina, che ce ne hanno conservato la produzione scientifica ‑ circa metà dei settantaquattro frammenti che le compongono avrebbero mantenuto ugualmente, secondo l’autorevole giudizio del Ferrini, «lo spirito originale dell’opera [...]: l’amabile semplicità del dettato, la straordinaria e quasi ciceroniana purità del sermone, il carattere arcaico dello stile, la minuta esposizione del caso pratico che dà origine al responso ‑ tutto, insomma, ci farebbe credere di aver davanti un giurista degli ultimi tempi della repubblica» (così il Ferrini).

Forse meno noto ‑ o, comunque, meno indagato ‑ è, al contrario, un fenomeno interno ad alcuni frammenti alfeniani, in cui si assiste al tentativo, di certa scaltrezza, di colui che si rivolge al giurista in funzione respondente, di condurre quest’ultimo verso una determinata soluzione. Ovviamente favorevole a colui che sta ponendo la quaestio.

Ad un simile artificio si oppone lo sforzo interpretativo del giurista che, come vedremo, a partire dai termini stessi espressi dal richiedente ‑ ovvero sfruttando la struttura logico-sintattica della quaestio ‑ rovescia le premesse ed approda alla soluzione opposta rispetto a quella cui sarebbe giunto se avesse ceduto alla ‘tentazione’ di addentrarsi nella via tracciata dalla parte.

I frammenti alfeniani che si prestano a questa indagine (invero, in numero abbastanza contenuto) presentano, poi, al loro interno una variegata formalizzazione di tale metodologia. Essi, infatti, vanno ‑ e minore ad maiorem ‑ dalla (più o meno) semplice opera di ‘scardinamento’ della posizione del richiedente, fino alla necessità di recuperare l’ulteriore mossa dialettica della controreplica di quest’ultimo, passando attraverso l’abbattimento del tentativo ‑ questa volta implicito ‑ della parte di evitare alcune conseguenze sfavorevoli derivanti dal responso del giurista.

 

In questo ordine di idee si inserisce, ad esempio, un interessante frammento, in materia di interpretazione dei negozi mortis causa. Si tratta di

 

Alf. V dig. ab anon. epit, D. 35.1.27 [= Pal. 21]: In testamento quidam scripserat, ut sibi monumentum ad exemplum eius, quod in via Salaria esset Publii Septimii Demetrii, fieret: nisi factum esset, heredes magna pecunia multare et cum id monumentum Publii Septimii Demetrii nullum repperiebatur, sed Publii Septimii Damae erat, ad quod exemplum suspicabatur eum qui testamentum fecerat monumentum sibi fieri voluisse, quaerebant heredes, cuiusmodi monumentum se facere oporteret et, si ob eam rem nullum monumentum fecissent, quia non repperirent, ad quod exemplum facerent, num poena tenerentur. Respondit, si intellegeretur, quod monumentum demonstrare voluisset, is qui testamentum fecisset, tametsi in scriptura mendum esset, tamen ad id, quod ille se demonstrare animo sensisset, fieri debere: sin autem voluntas eius ignoraretur, poenam quidem nullam vim habere, quoniam ad quod exemplum fieri iussisset, id nusquam extaret, monumentum tamen omnimodo secundum substantiam et dignitatem defuncti extruere debere.

 

Il caso, originato da una fattispecie particolarmente gradevole alla stessa lettura, offre il ricordo di una clausola testamentaria in cui il de cuius impose agli heredes ‑ sotto pena di pagamento di una poena, consistente in una considerevole somma di denaro (‘magna pecunia’) ‑ l’edificazione di un monumento alla propria memoria sul modello di quello che contestualmente indicava esservi, lungo la via Salaria, ad un tale Publio Settimio Demetrio (‘ad exemplum eius, quod in via Salaria esset Publii Septimii Demetrii’).

Gli eredi, intuitivamente sospinti dalla (sgradita) prospettiva di vedere abbondantemente decurtato l’asse ereditario in applicazione della multa prevista dal testatore, vanno alla ricerca dell’exemplum descritto e scoprono che, mentre il monumentum in questione ‘nullum repperiebatur’, esiste per contro un’erma ad un tale Publius Septimius Dama.

Il profilo logico insito nella descrizione della fattispecie poggia, dunque, su una alternativa: il giurista osserva come l’identità del praenomen e del nomen gentilicium, nonché la stessa posizione urbanistica del monumentum (lungo la via Salaria), rendano congetturabile l’ipotesi che il de cuius avesse voluto riferirsi al monumento rinvenuto, ma abbia scritto l’uno per l’altro ‘per sinallagen’: si tratta, forse, più di un ragionevole dubbio ‑ che insorge nell’uomo comune, di media perspicacia ‑ che di una vera e propria ipotesi (‘ad quod exemplum suspicabatur eum qui testamentum fecerat monumentum sibi fieri voluisse’). Per contro, il giurista non può escludere l’elemento di differenziazione (il cogomen Dama al posto di Demetrius) che potrebbe portare a concludere che non sia identificabile quanto il testatore ‘sibi fieri voluisse[t].

Del resto la discussione prende avvio dalla regula ‑ che il Lenel ha, a mio parere, opportunamente posto in apertura del medesimo frammento palingenetico ‑ derivata dalla riflessione di Quinto Mucio (D. 50.17.73.3) e riportata in

 

Alf. V dig. ab anon. epit., D. 34.8.2 [= Pal. 21]: Quae in testamento scripta essent neque intellegerentur quid significarent, ea perinde sunt ac si scripta non essent: reliqua autem per se ipsa valent.

 

Tutto questo viene implicitamente affermato nella quaestio ‑ i cui autori sono espressamente indicati nelle persone dei successori a titolo universale (‘quaerebant heredes’) ‑ ma il primo dato che emerge da una lettura attenta della domanda posta al giurista è che gli eredi scelgono ‑ tra le due possibili soluzioni individuate da Alfeno (o da Servio) ‑ quella a loro più vantaggiosa.

Vediamo, infatti, la quaestio per intero: ‘quaerebant heredes, cuiusmodi monumentum se facere oporteret et, si ob eam rem nullum monumentum fecissent, quia non repperirent, ad quod exemplum facerent, num poena tenerentur’.

La richiesta è formalizzata, infatti, attraverso due domande. La prima racchiude una sorta di captatio benevolentiae ‑ una dichiarazione di buone intenzioni ‑ e, cioè, quale tipologia di erma sia necessario costruire (‘quaerebant heredes, cuiusmodi monumentum facere oporteret’).

Tale premessa pare, tuttavia, finalizzata ad introdurre le seconda domanda (‘et, si – num poena tenerentur?’), a cui gli heredes paiono mirare effettivamente ‑ e cioè se debbano pagare la poena ‑ dal momento che fanno precedere questa richiesta da una ratio che è, in pari tempo, una infirmatio rationis. In altri termini, gli heredes si trincerano dietro l’alibi di ‘nullum monumentum facere, quia non repperirent, ad quod exemplum facerent’.

Che si tratti di una astuzia lo rende palese, a mio avviso, il contrasto espressivo tra la descrizione del fatto (‘cum id monumentum Publii Septimii Demetrii nullum repperiebatur, sed Publii Septimii Damae erat, ad quod exemplum suspicabatur…’, et rell.) e quanto affermato dagli eredi. I secondi assolutizzano il ‘non repperire monumentum’, mentre nella descrizione dei fatti tale verbo ‑ alla forma negativa ‑ si rivolgeva soltanto al mancato rinvenimento del modello come descritto dal testatore, ciò che lasciava aperti, però, l’‘esse monumentum’ (scl.: Publio Septimio Damae) e la conseguente suspicio che quello fosse il modello, l’exemplum individuato ‑ nella sostanza (mens testatoris) ‑ dal de cuius.

Alfeno è, dunque, interpellato strettamente ad una risposta e le modalità con cui costruisce il responsum paiono manifestare la sua consapevolezza di muoversi in terreno infido, tanto che un qualsiasi cedimento alla struttura della quaestio può condurlo a dare una soluzione non equa.

L’armamentario logico sfoderato e messo in campo dal giurista è ‑ a mio giudizio ‑ un autentico capolavoro di tecnica giuridica risolutoria.

Egli, infatti, si richiama alla regola alla quale va ricondotto il caso ‑ e cioè a quanto contenuto in D. 34.8.2 (‘quae in testamento scripta… neque intellegerentur…’) ‑ aprendo con lo stesso verbo: ‘respondit, si intellegeretur…’.

Mentre la regula d’apertura del frammento indicava uno sbocco semplificato (se non è possibile in alcun modo interpretare la volontà espressa in forma scritta dal testatore, la relativa clausola si ha come non apposta), la ripresa che ne fa il giurista viene modellata intorno ad uno svolgimento dei fatti più ‘variegato’, attraverso l’analisi di tre eventualità.

In primo luogo si analizza l’ipotesi che il testatore ‘monumentum demonstrare voluisset’ ma ‑ e questo è l’elemento di assoluta novità, con effetto dirompente sulla logica imposta dalla quaestio degli heredes ‘tametsi in scriptura mendum esset’, allora ci si deve riferire ‘ad id, quod ille se demonstrare animo sensisset’ (e così ‘fieri debere’).

In secondo luogo, se al contrario (‘sin autem’) ‘voluntas eius ignoraretur’ ‑ in altri termini non sia possibile in alcun modo determinare a quale modello si riferisse il testatore ‑ ‘poenam quidem nullam vim habere’. Anche in questa seconda ipotesi, la logica di Alfeno non rifugge da una minuziosa attenzione al contesto ‘regula-casus-responsum’: il giurista, infatti, non afferma che non si deve costruire il monumento ‑ ciò cui miravano, in effetti, gli eredi ‑ ma che non si è tenuti al pagamento della multa ‘quoniam ad quod exemplum fieri iussisset, id nusquam extaret’.

A questo punto, il giurista porta, per così dire, la stoccata finale in questo avvincente duello logico. Se gli heredes potevano ‑ ipoteticamente ‑ iniziare a ritenersi al sicuro, grazie al tenore dispositivo del secondo corno della soluzione (in cui si presupponeva che ‘voluntas eius [scl.: testatoris] ignoraretur’), Alfeno recupera il principio generale in tema di interpretazione dei negotia mortis causa, ossia che vada individuato e fatto salvo, comunque, il nucleo volitivo del testatore. In ragione di ciò, se (anche) nella confusione degli exempla richiamati divenisse impossibile individuare il modello cui riferirsi, un dato si mantiene fermo: il de cuius voleva fosse costruito un monumentum alla propria memoria ad opera degli eredi. E così, correttamente, il giurista: ‘monumentum tamen omnimodo [!] secundum substantiam et dignitatem defuncti extrure debere’.

Ancora una sottolineatura. Il binomio impiegato da Alfeno ‘substantia e dignitas’ (‘secundum substantiam et dignitatem defuncti’) potrebbe apparire innocuo. In realtà non è così, poiché nella concisione (e precisione) del giurista romano esso individua i due confini estremi entro cui è consentito muoversi agli heredes ‑ anche a tutela degli stessi.

Da un lato, infatti, si dovrà impiegare per l’edificazione del monumento una somma proporzionata al patrimonio del defunto: se l’asse ereditario risulterà composto da un complesso modesto di beni, non si potrà pretendere che gli eredi sostengano una spesa eccessiva. Per contro, anche dove il patrimonio ereditato sia particolarmente consistente, non si dovrà erigere qualcosa che possa suonare come una ingiuria alla memoria del defunto ‑ specialmente ove la sua dignitas sia stata modesta: erigere un monumento equestre, ad esempio in veste censoria, a qualcuno che, in vita, si sia arricchito con attività commerciali, per quanto oneste, provocherebbe l’ilarità, se non addirittura il biasimo, dei passanti, così come un monumento in foggia da atleta a colui che fosse stato fisicamente poco prestante (o deforme) non potrebbe che indurre al riso denigratorio. Allo stesso modo, gli eredi, in presenza della memoria di un testatore facoltoso ed onorato in vita non potrebbero limitarsi ad una piccola stele commemorativa o ad un erma dimesso e di ridotte dimensioni (che vìolerebbe, in tal caso, sia la substantia ricevuta mortis causa sia la dignitas dell’ereditando). Come è stato scritto a questo proposito, il monumento «deve perpetuare la memoria del ruolo politico-sociale che il defunto occupava durante la vita».

Se, dunque, quanto esposto può essere segno di una possibile lettura del brano nella sua interezza (e coerenza), cade di conseguenza quanto espresso, con una certa tendenza alla schematizzazione, dall’Albertario. Secondo questi, infatti, «si può anche comprendere come un banale lapsus scripturae, quale sarebbe Publii Septimii Damae invece di Publii Septimii Demetrii, non giunga a tanto da esonerare gli eredi dall’adempiere l’onere imposto dal testatore, quando appunto le circostanze di fatto rendono evidente il lapsus scripturae; ma non si comprende affatto come vi possa essere l’obbligo da parte degli eredi, quando il suo contenuto non è stato in alcun modo determinato o sia per lo meno incerto. In questo caso il giurista immancabilmente doveva con logica coerenza decidere: poenam nullam vim habere» ‑ e fin qui non si può che essere d’accordo. Quanto, invece, lascia profondamente perplessi è la continuazione del ragionamento (neppure del tutto aderente alla ratio del passo): «i Giustinianei non cancellano questa decisione classica; ma, con sorprendente aggiustamento del testo, affermano che l’obbligo degli eredi esiste» per cui «in mancanza di una precisa manifestazione della volontà del defunto [sic], in mancanza di una precisa determinazione del contenuto dell’onere da parte sua, possono interpretare quella volontà e determinare questo contenuto, tenendo presenti la sua substantia e la sua dignitas».

Al contrario, come ha osservato il Biondi, non possono essere considerati «elementi estranei alla disposizione», dal momento che, se un dato è assolutamente certo (ossia è chiaramente deducibile dall’interprete), è che «il disponente ha voluto la costruzione del monumento».

Si noti, in conclusione, la simmetria offerta dal giurista nella illustrazione della domanda e della risposta. Si è in presenza di una sorta di chiasmo, le cui parti estreme sono costituite da quella parte che ho definito come (speciosa) manifestazione di buona volontà da parte degli heredes (‘quaerebent heredes, cuiusmodi monumentum se facere oporteret’) e da quella corrispondente all’affondo alfeniano (‘monumentum tamen omnimodo [!] secundum substantiam et degnitatem defuncti extruere debere’); le parti interne, invece, risiedono, rispettivamente, nella continuazione della quaestio (‘et, si ob eam rem nullum monumentum fecissent, quia non repperirent, ad quod exemplum facerent, num poena tenerentur’) e nel consequenziale primo corno ‑ costituito, dialetticamente, da due ipotesi ‑ della risposta (‘Respondit, si intellegeretur, quod monumentum demonstrare voluisset, is qui testamentum fecisset, tametsi in scriptura mendum esset, tamen ad id, quod ille se demonstrare animo sensisset, fieri debere: | sin autem voluntas eius ignoraretur, poenam quidem nullam vim habere, quoniam ad quod exemplum fieri iussisset, id nusquam extaret’).

 

2. Al momento di giungere alle conclusioni, penso sia opportuno soffermarsi ‑ seppure brevemente ‑ intorno ad un altro frammento che solo apparentemente può essere ricompreso all’interno della tipologia specificata, ma che, per le ragioni che verranno chiarite, vanno comunque esclusi.

Mi riferisco ad

 

Alf. III dig. ab anon. epit., D. 9.2.52.1 [= Pal. 7]: Tabernarius in semita noctu supra lapidem lucernam posuerat: quidam praetereins eam sustulerat: tabernarius eum consecutus lucernam reposcebat et fugientem retinebat: ille flagello, quod in manu habebat, <in quo dolor inerat,> [itpl. ?] verberare tabernarium coeperat, ut se mitteret: ex eo maiore rixa facta tabernarius ei, qui lucernam sustulerat, oculum effoderat: consulebat, num damnum iniuria non videtur dedisse, quoniam prior flagello percussus esset. Respondi, nisi data opera effodisset oculum, non videri damnum iniuria fecisse, culpa enim penes eum, qui prior flagello percussit, residere: sed si ab eo non prior vapulasset, sed cum ei lucernam eripere vellet, rixatus esset, tabernarii culpa factum videri.

 

Al di là del dato di critica testuale ‑ legato all’inciso ‘in quo dolor inerat’ ‑ la quaestio presenta, in effetti, un qualche interesse, poiché vi si protesta la non-iniuria del comportamento (‘quoniam prior flagello percussus est’).

A mio avviso, però, la presunta causa giustificativa ‑ che, se provata, farebbe del damnum un damnum iure datum ‑ appare lontana dal voler trarre in inganno il giurista. Si tratta, in altre parole, dell’istintiva protesta di innocenza da parte dell’oste ‑ non negata, in linea di principio della descrizione della fattispecie ‑ che conferma la… grazia (anche intellettuale) di quest’ultimo, pari almeno a quella esplicata nel cavare l’occhio al povero quidam praeteriens (assai probabilmente uno schiavo altrui, sia per la posizione del brano nel Digesto sia, soprattutto, per l’uso dell’espressione tecnica ‘damnum iniuria… dedisse’, quindi ‘damnum iniuria datum’).

Tutto ciò pare comprovato dal tenore del responsum, che non cassa tale eventualità, ma completa ‑ in ordine ai fatti ‑ l’altra per cui, al contrario, la responsabilità possa ricadere sul tabernarius. Diverso parere, invece, esprime il Negri, il quale parla di «doppia negativa della domanda, che prospetta tendenziosamente i fatti, mentre il caso è stato descritto in modo neutrale, evitando qualificazioni giuridiche, evitando, ad es., ogni allusione al linguaggio dei furti notturni flagranti a mano armata».

 

In conclusione, credo si possa attingere ancora ad una pagina del lavoro di Negri (Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, in «Per la storia del pensiero giuridico romano dall’età dei pontefici alla scuola di Servio», Torino, 1996): «Come accade nei disegni enigmistici, ove congiungendo dei punti si ottiene un’immagine, è possibile rintracciare in un microcontesto, assunto quale ipotesi di lavoro, un reticolato di corrispondenze stilistiche (non soltanto lessicali o grammaticali) che, pur tenendo conto del genere letterario e degli standars del linguaggio tecnico, è difficile sottrarre alla presenza unitaria di un autore. Questo reticolato non potrà mai rivelare un’immagine compiuta, ma almeno la struttura del contesto alfeniano direi di sì».