N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana

 

 

Sebastiano Tafaro

Università di Bari

 

 

Brevi riflessioni su buona fede e contratti

 

 

 

Relazione presentata nel II Seminario en el Caribe «Derecho romano y latinidad: identidad e integración latinoamericana y caribeña», La Habana-Cuba, 12-14 febbraio 2004.

 

 

 

Sommario: 1. Fides. – 2. Fides e contratti. – 3. Fides e processo. – 4. La considerazione di quod sit cogitatum. – 5. Conventio e cogitatio: attenzione all’uomo. – 6. Il limite del duplum. – 7. Il giudicante. – 8. Fides bona ed arbitrium boni viri. – 9. Considerazioni finali.

 

 

 

1. – Fides

 

La fides delle fonti romane ancora oggi, malgrado gli studi innumerevoli su di essa, si presta a riflessioni e spunti di grande rilievo ed attualità[1].

In questa sede credo di potere rivisitare particolari caratteristiche del modo di operare della fides nei contratti.

In proposito sarebbe molto utile sapere quale era il concetto di buona fede formulato dalle fonti romane; purtroppo in esse non si incontra un’esplicita definizione della bona fides[2]. Occorre perciò coglierlo nel suo porsi e nella sua strutturazione storica del suo divenire.

Comincerò con il richiamo delle sue origini, in buona parte legate ai rapporti internazionali dove la si incontra anche a base dei trattati (ad esempio con Cartagine)[3]. Ma questo non deve indurre a credere che la fides fosse rivolta solo alla disciplina dei rapporti tra le città (che oggi definiremmo di diritto internazionale pubblico). Essa aveva una portata più ampia e riguardava l’impegno a garantire la protezione degli interessi del cittadino dell’altra città: perciò si rivolgeva anche ai negozi di diritto privato[4].

Elemento distintivo della fides romana era il fatto che si trattava di una categoria operante sia nei rapporti internazionali sia nei rapporti privati, poiché si proponeva come nucleo normativo unico sia del trattato e dei rapporti tra le città sia dei contratti di diritto privato, tanto più che spesso una delle finalità principali del trattato risiedeva nel riconoscimento della facoltà di negoziare riconosciuta ai cittadini delle due parti stipulanti reciprocamente sul territorio dell’altra parte[5]. Essa consisteva nel dovere di onestà e di rispetto degli impegni assunti. La sua principale caratteristica risiedeva nell’affidamento sulla correttezza del comportamento di un’altra parte, che accomunava, giova ripeterlo, tanto i rapporti fra le città quanto i rapporti tra i privati.

Va tuttavia precisato che i rapporti internazionali ed i relativi contratti tra privati non costituivano il solo campo di applicazione della fides: nell’esperienza romana infatti accanto a questi rapporti, che possiamo definire intersoggettivi, vi era il campo dei rapporti interni alla collettività di Roma, che possiamo indicare come intrasoggettivi, e che nella Roma antica concernevano soprattutto i rapporti di clientela, nei quali vi era un obbligo di assistenza e protezione continua del patrono nei confronti del cliente; sancito, in caso di violazione, dalla ‘sacertà’ (cioè dalla consacrazione agli dei e quindi dalla possibilità di essere ucciso in ogni momento) comminata al patrono che avesse tradito la fides dovuta al proprio cliens[6].

In questi due vasti ambiti di applicazione la fides presentava caratteristiche convergenti: la necessità di attendere scrupolosamente ai propri doveri, rispettando gli impegni assunti ed accordando, ove ce ne fosse bisogno, protezione a persone bisognevoli. Il contenuto dell’impegno costituiva la dinamica della fides sulla quale vorrei avanzare alcune osservazioni, limitate, in questa sede, ai contratti.

 

 

2. – Fides e contratti

 

La materia dei contratti presta il terreno più propizio per l’applicazione della fides.

In partenza il contratto valeva per quello che una determinata forma (gestum o pronuncia di certa verba) esprimeva, secondo il mos maiorum, il rituale e le visioni degli antenati radicate nella coscienza della collettività.

L’intervento della fides rivoluzionò la materia.

Esso si applicò alle antiche fonti verbali, con l’introduzione della stipulatio (che evolveva e sostituiva l’antica sponsio) e con la creazione dei iudicia e quindi dei contratti iuris gentium.

La stipulatio attraverso la fides fu interpretata secondo il significato delle parole pronunciate: fit quod dicitur. Su di esso si assistette ad un impegno costante della giurisprudenza per fare in modo che il contenuto del contratto corrispondesse ad una valutazione corretta ed esatta dell’impegno assunto dallo stipulante.

Un esempio è particolarmente significativo.

Gran parte delle stipulazioni erano espresse dalla formula quanti res est, con la quale lo stipulante si impegnava a dare il valore della res. In origine questa forma venne riferita ad una cosa materiale ed al suo valore. Così se in una contesa possessoria il promettente si impegnava con quella stipulazione era tenuto a dare il valore dell’intero fondo. In seguito, a partire però solo dalla fine della Repubblica, i giuristi dettero a res un diverso significato e la identificarono con la cosa dedotta in giudizio, cioè con il motivo per il quale si era in lite. Il risultato era la materializzazione del concetto di res per farlo coincidere con l’effettività dell’interesse leso. Perciò si ritenne che le parole della stipulazione quanti res est significassero “quanto vale l’interesse per il quale si ricorre alla promessa”. Questo passaggio avvenne attraverso una penetrante interpretazione del significato della formula e quindi di ciò che le parti avevano effettivamente detto, in base al principio, introdotto con la fides, che fit quod dicitur[7].

L’interpretazione perseguita dalla giurisprudenza del Principato era stata così penetrante che alla fine del Principato anche l’impegno formale assunto con la stipulazione era riferito alla effettività delle volontà delle parti e, in un’ottica di correttezza e di equilibrio, si teneva conto della diversa posizione avuta dalle due parti nella formulazione delle parole contenenti l’impegno del promittente[8].

In tal modo la stipulazione era stata intesa secondo fides e, per la sua duttilità, aveva potuto assumere l’effettività delle volontà dei contraenti. Questa visione era poi corroborata dalla pratica di accompagnare la stipula del contratto, in particolare della stipulatio, dalla promessa che non ci sarebbe stato il dolo malo.

Questo processo però da un lato arrivò a completamento tardi, solo nel corso del Principato, dall’altro concerneva una situazione nella quale la condizione delle parti non era paritaria: infatti era solo il promettente ad indicare il contenuto dell’obbligazione nella sua domanda e comunque concerneva obblighi unilaterali. Il complesso della negoziazione e la eventuale reciprocità di prestazioni che di solito la accompagnano non potevano entrare nella stipulatio.

Perciò in essa potevano verificarsi situazioni insoddisfacenti e persino paradossali.

Vi era infatti un legame troppo stretto con la forma che pur nel criterio fit quod dicitur continuava a mantenere uno stretto legame tra il negozio compiuto e la veste (forma) giuridica utilizzata per la sua realizzazione, sicché la stessa fides era una fides formale, la quale fino alla creazione dell’actio de dolo ed alla sua immissione nella clausola dei giudizi di buona fede, non potette tutelare i contraenti da eventuali inganni e sperequazioni: su ciò vi è la denuncia chiara ed efficace di Cicerone[9]. Invero la fides era il contrario della fraus e perciò potette esplicare tutta la sua efficacia solo quando si pervenne alla punizione del dolo, che con l’ampiezza del suo concetto abbracciava ogni comportamento contrario all’affidamento richiesto dalla fides.

Come è noto la piena operatività della fides fu raggiunta con la creazione dei iudicia bonae fidei e la conseguente configurazione dei contratti dello ius gentium: i primi furono creati dal praetor peregrinus, creato per rendere giustizia (ius dicere) tra Romani e stranieri; siamo perciò sempre nell’ambito dei rapporti intersoggettivi e per esigenze di diritto internazionale. I secondi furono frutto della costante riflessione della iurisprudentia e delle interazioni tra le sentenze dei giureconsulti e l’attività del pretore.

Furono questi eventi, sui quali non mi soffermo oltre (essendo sufficiente averli richiamati), a produrre una vera e propria ‘rivoluzione’ nella concezione dei contratti e quindi nella configurazione dell’obligatio.

Ad una fides formale si sostituì una fides non formale; dal rispetto di quello che si era dichiarato (fit quod dicitur) si passò all’attenzione ed al rispetto di ciò che il negozio nel suo complesso e nella sua dinamica storico-sociale significava per le parti: age quod agis. I contraenti assumono obblighi reciproci ed incrociati, nel senso che l’uno era in funzione dell’altro ed avevano una proporzionalità reciproca (synallagma). Ciascuno era chiamato ad uniformare il proprio comportamento al disegno sul quale aveva consentito con la controparte e che non veniva specificato nel dettaglio perché si operava un rinvio recettivo alla normazione propria della tipologia contrattuale; la quale era quella formata nel contesto della koiné mercantile del Mediterraneo ed era indicata dal ius gentium, perciò essi sono giuridicamente validi senza nessuna forma.

In tal modo la fides «costringe chi ha promesso a mantenere non secondo la lettera, ma secondo lo spirito; non guardando al testo della formula promissoria, ma allo stesso organismo contrattuale posto in essere: non scegliendo un valore normativo esterno al negozio concretamente posto in essere (il contesto verbale della promessa), ma facendo dello stesso concreto intento negoziale la misura della responsabilità di coloro che lo hanno posto in essere».

Risiede in ciò una delle principali ragioni per le quali la fides viene qualificata bona.

 

 

3. – Fides e processo

 

Mi soffermo su questi aspetti noti per sottolineare un punto: il rinnovamento inizia e si consuma nell’ambito del processo. È quella la sede nella quale si prescinde da qualsiasi testo promissorio ma si prende in considerazione direttamente il contenuto del negozio per individuare le responsabilità che ne derivano «quidquid ob eam rem N.um N.um A.o A.o dare facere oportet ex fide bona» (quello che secondo buona fede è opportuno che Numerio Negidio dia ad Aulo Agerio) era lo scopo dell’azione di buona fede, nella quale al iudicium subentra l’arbitium, cioè si attua la sostituzione del procedimento formale e tassativo, legato alla solennità ed alla insostituibilità delle parole, con un procedimento nel quale conta l’essenza delle posizioni delle parti e delle loro ragioni.

Ne consegue che i iudicia bonae fidei sono nati per realizzare una penetrante valutazione della responsabilità delle parti attraverso la semplificazione delle procedure processuali.

Ce lo dice esplicitamente un testimone autorevole ed attento dell’esperienza romana: Cicerone:

 

Cicero, Pro Roscio comoedo § 10 s.: «Iudicium est pecuniae certae, arbitrium incertae. Ad iudicium hoc modo venimus, ut aut totam litem obtineamus, aut amittamus: ad arbitrium hoc animo adimus, ut neque nihil, neque tantum, quantum postulamus, consequamur».

«Eius rei ipsa verba formulae testimonio sunt. Quid est in iudicio? directum, asperum, simplex. Si paret HS ….. dari oportere. Hic, nisi planum facit, HS …. ad libellam deberi, causam perdit. Quid est in arbitrio? m i t e, m o d e r a t u m, quantum aequius et melius, id dari».

(Tr.: Il iudicium è rivolto ad ottenere una somma certa, l’arbitrium si rivolge ad un valore incerto. Al giudizio addiveniamo in modo che o otteniamo tutta la lite, o perdiamo la causa: all’arbitrio andiamo con la consapevolezza che non potremo conseguire nulla o esattamente quello che chiediamo”; […] “Come è strutturato un giudizio? È diretto, aspro, non duttile. Esso dice: Se risulta che bisogna dare tot assi. In modo che se non spettano esattamente gli assi indicati, si perde la causa. Cosa avviene, invece, nell’arbitrio? Vi è mitezza e moderazione, verrà dato quanto sembrerà più equo e meglio).

 

Vorrei qui sottolineare il ruolo, colto dai Romani, della buona fede come esigenza di predisporre procedure processuali semplificate ed elastiche e mi permetto di metterne in evidenza l’attualità, perché ancora oggi un aspetto dolente dell’amministrazione della Giustizia risiede nella complessità e pesantezza delle procedure: sicché viene da domandarsi se non si debba invocare la buona fede anche per superare questa grave difficoltà e rendere più ragionevole l’espletamento di procedure giudiziali efficaci e semplici.

Uno dei punti critici era costituito dai vincoli cui era sottoposto il giudicante di una causa, sia nella procedura per azioni di legge che in quella formulare.

La creazione dei iudicia bonae fidei supera questa restrizione. Con l’ampliamento del potere del giudicante e l’affidamento al suo potere di corretta valutazione della posizione delle parti si introduce elasticità ed equità nei rapporti contrattuali.

Molti esempi lo dimostrano. Per ragioni di economia espositiva, non li posso esaminare in questa sede; mi limito a rinviare alla già copiosa letteratura esistente sui relativi brani della giurisprudenza romana[10], osservando che essi dimostrano il progressivo ampliamento operato dai giuristi romani, i quali dettero al giudicante la facoltà di tener conto delle situazioni e dei comportamenti sia contrattuali che precontrattuali; avverte il Frezza «La giurisprudenza aveva cioè avvertito la spontanea forza espansiva del criterio della valutazione ex fide bona e da metro di valutazione della responsabilità stricto sensu contrattuale ne aveva fatto il metro di valutazione dell'intero comportamento (precontrattuale e contrattuale) che si concludeva nel perfezionamento del contratto»[11]. Con ciò si andava ben al di là di ciò che si era convenuto e del consenso prestato e si faceva corrispondere il contenuto del contratto con ciò che appariva equo e ‘giusto’. Nella materia dei contratti, attraverso la fides bona, veniva introdotta l’etica[12] e veniva salvaguardata la persona e le aspettative di correttezza che ne accompagnavano la sua negoziazione[13]. In conseguenza della fides bona il negozio non veniva più considerato in modo statico, riferendo gli obblighi ed i diritti fissati al momento della conclusione del contratto, bensì in modo dinamico, riconoscendo che vi potessero essere adeguamenti (cioè sia incrementi che diminuzioni) anche in considerazione di eventi che si verificavano durante la vita di esso[14].

 

 

4. – La considerazione di quod sit cogitatum

 

Quanto questo avanzamento sia andato avanti, a mio avviso, è mostrato da una interessante decisione di Giuliano[15] nella quale il giurista mostra un’attenta considerazione del nesso che deve esistere costantemente tra le prestazioni e della loro adeguatezza rispetto ad un’ipotesi di prevedibilità e di normalità[16].

La decisione del giurista adrianeo ci è pervenuta attraverso un frammento delle quaestiones del giurista severiano Paolo inserito nel Digesto di Giustiniano frammezzato da un brano delle omonime (quaestiones) di Africano, discepolo, lettore e commentatore di Paolo:

 

D. 19.1.43, Paul. 5 quaest.: Titius cum decederet, Seiae Stichum Pamphilum Arescusam per fideicommissum reliquit eiusque fidei commisit, ut omnes ad libertatem post annum perduceret. Cum legataria fideicommissum ad se pertinere noluisset nec tamen heredem a sua petitione liberasset, heres eadem mancipia Sempronio vendidit nulla commemoratione fideicommissae libertatis facta: emptor cum pluribus annis mancipia supra scripta sibi servissent, Arescusam manumisit, et cum ceteri quoque servi cognita voluntate defuncti fideicommissam libertatem petissent et heredem ad praetorem perduxissent, iussu praetoris ab herede sunt manumissi. Arescusa quoque nolle se emptorem patronum habere responderat. Cum emptor pretium a venditore empti iudicio Arescusae quoque nomine repeteret, lectum est responsum Domitii Ulpiani, quo continebatur Arescusam pertinere ad rescriptum sacrarum constitutionum, si nollet emptorem patronum habere: emptorem tamen nihil posse post manumissionem a venditore consequi. Ego cum meminissem et Iulianum in ea sententia esse, ut existimaret post manumissionem quoque empti actionem durare, quaero, quae sententia vera est. Illud etiam in eadem cognitione nomine emptoris desiderabatur, ut sumptus, quos in unum ex his quem erudierat fecerat, ei restituerentur. Idem quaero, Arescusa, quae recusavit emptorem patronum habere, cuius sit liberta constituta? An possit vel legatariam quae non liberavit vel heredem patronum habere? Nam ceteri duo ab herede manumissi sunt. Respondi: semper probavi Iuliani sententiam putantis manumissione non amittitur eo modo. De sumptibus vero, quos in erudiendum hominem emptor fecit, videndum est: nam empti iudicium ad eam quoque speciem sufficere existimo: non enim pretium continet tantum, sed omne quo interest emptoris servum non evinci. Plane si in tantum pretium excedisse proponas, ut non sit cogitatum a venditore de tanta summa, veluti si ponas agitatorem postea factum vel pantomimum evictum esse eum, qui minimo veniit pretio, iniquum videtur in magnam quantitatem obligari venditorem.

(Tr.: Tizio morendo, lasciò a Seia per fedecommesso Stico, Panfilo ed Arescusa e rimise alla sua fides (buona fede) di portare tutti alla libertà dopo un anno. Dal momento che la legataria non aveva voluto accettare il fedecommesso senza comunque liberare l’erede dalla sua domanda, l’erede vendette gli stessi schiavi a Sempronio omettendo di menzionare la libertà fedecommissaria: il compratore dato che gli schiavi soprascritti lo avevano servito per molti anni, manomise Arescusa, e poiché anche gli altri schiavi, conosciuta la volontà del defunto chiesero la libertà data per fedecommesso e portarono l’erede davanti al pretore, furono manomessi dall’erede per ordine del pretore. Arescusa inoltre aveva risposto di non volere per patrono il compratore. Poiché il compratore con l'azione di acquisto aveva richiesto indietro dal venditore il prezzo anche a nome di Arescusa fu letto un responso di Domizio Ulpiano, nel quale si diceva che Arescusa sarebbe rientrata nel rescritto delle sacre costituzioni, se non volesse avere per patrono il compratore: tuttavia il compratore dopo la manomissione non poteva conseguire nulla dal venditore. Io poiché mi ero ricordato che anche Giuliano era dell’avviso di ritenere che l’azione di acquisto durasse anche dopo la manomissione, mi domando quale decisione sia vera. Nello stesso giudizio cognitorio a nome del compratore si chiedeva anche che gli venissero restituite le spese sostenute per l’erudizione di uno di essi. Parimenti chiedo, Arescusa, che ricusò di avere per patrono il compratore, a chi è stata assegnata per liberta? Può forse avere per patrono la legataria che non la liberò o l’erede? Infatti gli altri due furono manomessi dall’erede. Risposi: approvai sempre la decisione di Giuliano che ritiene che (l’azione di acquisto) non si perde con la manomissione. Si deve invece discutere delle spese, che il compratore fece per l’erudizione dello schiavo: infatti ritengo che anche per quel caso basti l’azione di acquisto: infatti non contiene solo il prezzo, ma tutto quanto interessa al compratore perché lo schiavo non sia evitto. Per altro se affermi che abbia superato il prezzo a tal punto, che una somma tanto alta non fu pensata dal venditore, come se fai l’ipotesi che fosse stato evitto uno, divenuto poi auriga o pantomimo, che era stato venduto a prezzo bassissimo, sembra iniquo che il venditore sia obbligato a dare una così grande quantità).

 

D. 19.1.44, Afr. 8 quaest.: cum et forte idem mediocrium facultatium sit: et non ultra duplum periculum subire eum oportet.

(Tr.: specialmente se per caso abbia modeste possibilità finanziarie: ed occorre che non risponda oltre il doppio).

 

D. 19.1.45, Paul. 5 quaest.: Idque et Iulianum agitasse Africanus refert: quod iustum est: sicut minuitur praestatio, si servus deterior apud emptorem effectus sit, cum evincitur.

(Tr.: Africano riferisce che anche di ciò si occupò Giuliano: il che è giusto; così come diminuisce la prestazione al momento dell’evizione, se lo schiavo sia deteriorato presso il venditore).

 

I brani sono stati variamente commentati da una copiosa letteratura che li ha esaminato da diversi punti di vista, non di rado sostenendo che essi furono oggetto di interpolazioni effettuate dai redattori del Digesto[17]. Tuttavia non mi pare che sia stata colta la portata profondamente innovatrice della decisione di Giuliano, riproposta da Paolo e pertanto è interessante riesaminarla da un punto di vista nuovo.

La questione esposta da Paolo, autore del brano, era complessa e intrecciava temi di materia ereditaria con profili concernenti la compravendita. Il punto che qui mi preme evidenziare è quello riguardante il risarcimento dovuto al compratore per l’evizione della cosa comprata. La quale tuttavia era strettamente intrecciata con la problematica ereditaria, poiché era stata venduta, tra l’altro, una schiava alla quale era stata concessa l’affrancazione, assieme ad altri schiavi dell’eredità, attraverso un fedecommesso di libertà[18]. Il compratore, in conseguenza di ciò, chiamò in giudizio l’erede e, con l’actio empti, chiese la restituzione del prezzo pagato per lo schiavo Arescusa e gli altri schiavi chiedendo anche il risarcimento delle spese sostenute per l’educazione di uno degli schiavi. La risposta, interessante perché contrappone all’autorità di Ulpiano, motivata addirittura con il richiamo di rescritti imperiali, il parere di Giuliano fatto proprio da Paolo, ritiene che con certezza si possa utilizzare l’actio empti per la restituzione del prezzo degli schiavi, mentre ritiene più complessa e problematica la questione relativa al risarcimento delle spese sostenute per la formazione di uno degli schiavi. Questa appare una questione nuova affrontata e risolta direttamente da Paolo. Il giurista partiva da una considerazione di carattere generale ricordando che nel iudicium empti non si teneva conto solo del prezzo, ma di tutto l’interesse che il compratore aveva a non subire l’evizione dello schiavo. Da ciò conseguiva che le spese sostenute per la formazione dello schiavo, le quali rientravano in siffatto interesse, andavano risarcite. Però, specificava Paolo, ciò a condizione che le spese sostenute rientrassero in un ambito di prevedibilità, perché, se fossero state effettuate spese non previste dal venditore (come nel caso che fosse stato addestrato per fare l’auriga o il pantomimo uno schiavo venduto a prezzo molto basso), sarebbe stato davvero iniquo obbligare il venditore al pagamento di una somma spropositata rispetto al prezzo di vendita.

A questo punto il discorso di Paolo è stato interrotto dai redattori del Digesto, i quali, prima di concluderlo, inframmezzarono un breve squarcio delle Quaestiones di Africano (opera nella quale il giurista commentava i Digesta di Salvio Giuliano, suo maestro) dove si sosteneva che comunque bisognava tenere conto delle condizioni economiche del venditore ed in ogni caso non esporlo al rischio di un pagamento superiore al doppio del valore della cosa venduta.

La trattazione prosegue con il brano di Paolo che dopo il punto nel quale era stato interrotto a sua volta ricordava che Africano aveva discusso della questione pervenendo alla stessa conclusione da lui sostenuta di una limitazione del risarcimento dovuto dal venditore. Limitazione che gli appariva giusta, perché doveva derivare dalla natura proporzionale delle obbligazioni sinallagmatiche, per le quali era ad esempio pacifico che il compratore dovesse dare di meno se lo schiavo fosse stato danneggiato mentre era presso il compratore.

Orbene è proprio questa parte del discorso di Paolo a fornirci indicazioni preziose sul modo di operare della fides.

Ci troviamo di fronte ad una decisione di Paolo, annodata su una precedente sentenza di Giuliano, che a me sembra di grande respiro e tale da innovare profondamente le nostre conoscenze sui concetti dei giuristi romani, rectius di alcuni autorevoli giuristi romani, riguardo al contenuto del contratto.

Secondo Giuliano-Paolo le spese andavano sì rimborsate, ma non oltre ciò che al momento del contratto si sarebbe potuto ipotizzare.

 

 

5. – Conventio e cogitatio: attenzione all’uomo

 

La decisione mi pare poggiante su un principio, affermato con acume e forse travaglio[19] da Giuliano e condivisa senza perplessità da Paolo, che proverei a riassumere in questi termini: ogni contratto va regolato non solo in base al consenso espresso, ma anche alle implicazioni di esso, però solo riguardo a quanto il contraente, se ne fosse consapevole, accetterebbe ugualmente di includere nel contratto. Sicché appare conseguente intervenire sul contenuto del contratto per tenerlo nei limiti dell’accettabile in considerazione di un bilanciamento ponderato degli interessi da esso coinvolti.

Tra consensus e bilanciamento dell’assetto degli interessi, ispirato dal sinallagma, sui quali la dottrina contemporanea fonda la concezione romana del contractus, mi sembra che Giuliano ipotizzasse la considerazione di un ulteriore riferimento: quello dell’aggancio del complesso della negoziazione (conventio) che disciplinava il contractus. Esso abbracciava anche ciò che se immaginato si sarebbe ugualmente accolto in essa, ma che non era presente ai contraenti al momento della conclusione del contratto. Tale aggancio non incideva sulla validità del contratto, ma solo ne determinava la proporzionale riduzione delle conseguenze che, a rigori, sarebbero dovute scaturire dal consensus prestato. Questa riduzione, che poteva operare a favore tanto dell’una quanto dell’altra parte, mi sembra un ulteriore più ultraneo sviluppo di una linea di pensiero, espressa da Aristone[20] ed iniziata da Labeone[21]; con la differenza che le dottrine espresse da quei giuristi concernevano la conclusione del contractus, mentre la costruzione di Giuliano era diretta a regolare le conseguenze di esso: le prime guardavano al momento genetico del vincolo obbligatorio, la disciplina giulianea mirava a fissare criteri per l’esecuzione del contractus, ivi compreso il momento dell’eventuale dissoluzione di esso, per responsabilità di una delle parti.

In qualche misura Giuliano perfezionava ed andava oltre la posizione espressa in precedenza da Pedio[22]. Questi aveva già affermato l’essenzialità della conventio per qualsiasi contratto od obbligazione, ma poi sembra avere riferito la conventio stessa al consensus; infatti egli dopo avere affermato che non vi poteva essere vincolo senza la conventio precisava che anche nella stipulazione, la quale pareva nascere solo dalla pronuncia di determinate parole, era necessario il consenso, operando, a mio avviso, una identificazione della conventio con il consensus: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum, nulla est (Tr.: infatti anche la stipulazione, che si crea con le parole, è nulla se non contenga il consenso).

Giuliano, almeno per i contratti sinallagmatici che confluivano in un iudicium bonae fidei, invece parrebbe far rientrare nella conventio non solo il consensus, ma anche i termini nei quali si sarebbe potuto concludere l’accordo se si fossero ipotizzate circostanze o situazioni che in realtà non furono ipotizzate dai contraenti; sempre che esse avessero comportato uno squilibrio apprezzabile negli obblighi assunti dalle parti. Con il riferimento a quod sit cogitatum Giuliano, facendo leva sulla fides, aveva inteso richiamare proprio le circostanze non previste e, direi, impensabili; che, però, se note, avrebbero portato ad un diverso accordo.

In conclusione sembra di potere affermare che (come il riferimento a quod non sit cogitatum) i giuristi romani siano pervenuti a considerare le intenzioni dei contraenti in un ambito di prevedibilità, conseguente alla natura ed alle modalità della negoziazione; escludendo ogni rilievo per ciò che fosse imprevedibile o, comunque, non pensabile ed accettabile (se noto) al momento del negozio.

Il tutto avvenne attraverso una penetrante interpretazione del concetto di buona fede e della volontà dei contraenti identificata in quello che in base alle circostanze dell’atto poteva ragionevolmente ritenersi realizzato.

Un cardine restò l’ancoraggio alla volontà dei contraenti, in relazione a quello che realmente avevano inteso stabilire fra di loro.

Ma la buona fede consentiva di andare oltre e di interpretare i rapporti in modo dinamico, cioè non solo in relazione ciò che si era voluto, ma anche addirittura in prospezione di quanto si sarebbe voluto se si fossero conosciute tutte le circostanze ed in particolare quelle verificatesi in un tempo successivo alla contrazione del vincolo obbligatorio. Si arrivò così ad una rivoluzionaria soluzione di equità e giustezza per i casi di sperequazione sopravvenuta, che ancora oggi sono particolarmente acuti e sono la fonte di ingiustizie legalizzate.

In altre parole abbiamo qui un esempio dell’attenzione per l’uomo, vale a dire per il singolo agente, che ha diritto ad essere tutelato nelle sue aspettative in base ad un criterio di ‘normalità’ di previsioni ed aspettative: diversamente sarebbe non tutelato, bensì ‘schiacciato’ dal diritto.

 

 

6. – Il limite del duplum

 

L’attenzione all’uomo così manifestata e perseguita attraverso l’interpretazione del iudicium bonae fidei implicò un’altra importantissima affermazione: quella che comunque il debitore non dovesse pagare più del doppio.

Spettava alla valutazione del giudicante modellare la condanna sulle effettive circostanze del contratto, tenendo conto anche della loro proiezione nella vita del rapporto, ma in ogni caso egli non doveva superare il duplum.

In tal modo l’arbitrium del giudicante riceveva una significativa limitazione (‘esterna’, perché non proveniva del processo di formazione della sua convinzione) che limitava l’ampiezza della sua discrezionalità.

È significativo che siffatto limite del duplum venne avvertito come naturale per i giudizi di buona fede, tanto che venne ritenuto implicito nella sententia di Giuliano, come mostra la nota dell’allievo Africano; il quale spiegava il pensiero del suo maestro chiosando: et non ultra duplum periculum subire eum oportet.

La fides del iudicium bonae fidei imponeva di tener conto del laborioso cammino che aveva portato alla fissazione del tetto del doppio del valore della res oggetto della lite.

Su tale cammino, che segna un punto di estremo avanzamento del diritto romano, appare opportuno gettare uno sguardo.

Alcuni studiosi contemporanei ritengono che il punto di partenza e di riferimento del limite del duplum risedette nella stipulatio duplae creata proprio per l’evizione[23]. Come ho già osservato in altra sede[24] vi sono molti casi nei quali i giuristi della tarda Repubblica e dell’Impero applicarono il limite del doppio; al riguardo un riferimento certo appare il limite introdotto per gli interessi sia legali che convenzionali[25]. Esso risulta applicato già sul finire dell’età Repubblicana (tra il 72 e il 70 a.C.[26]) da un editto di Lucullo, mentre non è databile la sua introduzione in Roma[27], dove tuttavia era operante durante il Principato, poiché la giurisprudenza di quel periodo lo menzionava più volte, dandone per scontata la sua applicazione[28]; la quale fu anche confermata e, talora meglio precisata, da alcune costituzioni imperiali ispirate dai giuristi della Cancelleria[29].

Di modo che appare legittimo concludere che in tutta l’esperienza romana si tentò di non consentire che un debitore potesse essere gravato oltre il doppio del debito contratto.

Tale limite fu infine oggetto di una costituzione di Giustiniano del 531, espressione della sua politica legislativa che aveva per obiettivi il contenimento delle pretese dei creditori ed il temperamento delle situazioni che rendessero eccessivamente onerosa e insopportabile la condizione dei debitori. Riguardo a questi obiettivi la costituzione del 531 pare costituire il punto terminale diretto a riassumere in via generale le direttive di contenimento dell’ammontare dei debiti, attraverso la determinazione di un tetto per le condanne giudiziali. Essa era stata preceduta da altri provvedimenti, tra i quali risalta una costituzione del 529:

 

CI. 4.32.27.1, Iust: Cursus insuper usurarum ultra duplum minime procedere concedimus, nec si pignora quaedam pro debito creditori data sint, quorum occasione quaedam veteres leges et ultra duplum usuras exigi permittebant. § 2: Quod et in bonae fidei iudiciis ceterisque omnibus in quibus usurae exiguntur servari censemus.

(Tr.: CI 4.32.27.1 Giust.: Non concediamo che il tasso degli interessi vada al di là del doppio, neppure se per il debito siano stati dati alcuni pegni al creditore, in occasione dei quali talune vecchie leggi permettevano di esigere interessi anche al di là del doppio. § 2: E ciò vogliamo si mantenga e nei giudizi di buona fede e in tutti gli altri casi in cui si esigono gli interessi).

 

La costituzione è esplicita e categorica: in nessun caso il debito, a causa degli interessi, avrebbe potuto crescere di là dal doppio; senza eccezioni di sorta, nemmeno quelle previste da veteres leges[30] e conteneva un riferimento esplicito ai giudizi di buona fede. Essa è l’indice di un disegno che andava maturando nella mente dell’Imperatore il quale già l’anno prima aveva esposto il convincimento che occorresse un più energico e decisivo intervento per limitare le usurae:

 

CI. 4. 32. 26.1: Super usurarum vero quantitate etiam generalem sanctionem facere necessarium esse duximus, veterem duram et gravissimam earum molem ad mediocritatem deducentes.

(Tr.: CI. 4.32.26.1: Sulla quantità degli interessi, poi, abbiamo, anche, stimato essere necessario fare una disposizione generale, riducendo alla moderazione la loro antica dura e gravissima mole).

 

Da questi presupposti nacque la menzionata costituzione del 531, che era generale e tassativa:

 

CI. 7.47.1 pr. Iust.: Cum pro eo quod interest dubitationes antiquae in infinitum productae sunt, melius nobis visum est huiusmodi prolixitatem prout possibile est in angustum coartare. § 1: Sancimus itaque in omnibus casibus, qui certam habent quantitatem vel naturam, veluti in venditionibus et locationibus et omnibus contractibus, quod hoc interest dupli quantitatem minime excedere: in aliis autem casibus, qui incerti esse videntur, iudices, qui causas dirimendas suscipiunt, per suam subtilitatem requirere, ut, quod re vera inducitur damnum, hoc reddatur et non ex quibusdam machinationibus et immodicis perversionibus in circuitus inextricabiles redigatur, ne, dum in infinitum computatio reducitur, pro sua impossibilitate cadat, cum scimus esse naturae congruum eas tantummodo poenas exigi, quae cum competenti moderatione proferuntur vel a legibus certo fine conclusae statuuntur. § 2: Et hoc non solum in damno, sed etiam in lucro nostra amplectitur constitutio, quia et ex eo veteres quod interest statuerunt: et sit omnibus, secundum quod dictum est, finis antiquae prolixitatis huius constitutionis recitatio.

(Tr.: CI. 7.4.7.1 pr. Giust.: Essendosi protratti all’infinito gli antichi dubbi su quello che è interesse, a noi sembrò cosa migliore restringere, per quanto sia possibile, un prolissità di tal genere. § 1: Ordiniamo dunque che, in tutti i casi che hanno una quantità o natura determinata, come nelle vendite, nelle locazioni ed in tutti i contratti, l’interesse non ecceda minimamente la quantità del doppio. Negli altri casi, poi, che sembrano essere incerti, i Giudici, che sono chiamati a decidere le cause, dovranno ricercare in che cosa realmente consiste il danno e non badare ai raggiri, e ciò affinché, l’ammontare dilatato all’infinito, non venga meno a causa della sua stessa impossibilità, poiché noi sappiamo essere per natura congruo esigere soltanto quelle pene che vengono fissate con appropriata moderazione o determinate dalla legge con un limite certo. § 2: E ciò la nostra costituzione stabilì non soltanto per il danno ma anche per il lucro, poiché gli antichi anche da ciò stabilirono gli interessi. E per tutti, secondo quello che è stato detto, la lettura di questa costituzione ponga fine all’antica prolissità).

 

Vi fu dunque un processo parallelo che portò il diritto romano a limitare la condanna del debitore facendo leva su interventi specifici ma anche sulla natura della fides.

 

 

7. – Il giudicante

 

Ma l’intervento dell’Imperatore è anche rivelatore di un altro aspetto.

Il iudicium bonae fidei aveva introdotto, con l’arbitrium, un grande potere per i giudici: essi non erano più legati alla richiesta dell’attore e poteva procedere liberamente all’apprezzamento della lite. Nella procedura nella quale quel tipo di iudicium era sorto la correttezza di esercizio di tale potere era in qualche modo garantito dal fatto che il giudicante veniva scelta da ambedue le parti, sicché era ragionevole la scelta di persona onesta e che avrebbe giudicato secondo obiettività.

Le cose cambiarono profondamente con il passaggio alla procedura della cognitio extra ordinem. In essa il giudice era un funzionario e non era più scelto dalle parti. Perciò assistiamo all’emersione di una crescente preoccupazione per l’operato dei giudici che potevano emettere sentenze senza tener conto del bilanciamento tra gli interessi dei litiganti e sempre più spesso si rendevano responsabili di arbitrii e collusioni con i creditori: tanto più che questi dovevano essere persone abbienti ed influenti, in grado di influenzare il convincimento e non di rado la carriera dei giudici[31].

Nello stesso iudicium bonae fidei si assiste ad una deviazione dell’officium iudicis, che, abusando della discrezionalità della quale godeva, aveva dilatato oltre misura la previsione di somme elevate, a titolo di interesse[32].

È questo nuovo ma preoccupante aspetto alla base dell’intervento degli Imperatori e da ultimo di Giustiniano: il richiamo al rispetto rigoroso del limite del doppio costituiva una remora a questa situazione degenerata ormai anche nei giudizi di buona fede.

 

 

8. – Fides bona ed arbitrium boni viri

 

La buona fede esigeva che ogni discrezionalità, da quella riservata al giudicante, il cui operato era censurabile se non corrispondente a correttezza, a quello di chiunque fosse chiamato ad esprimere una valutazione riguardo al rapporto negoziale, dovesse avvenire secondo un modello di onestà e congruità.

È il caso dell’arbitrium inteso sempre riferito all’arbitrium boni viri nei rapporti di buona fede.

Ove previsto esso imponeva che l’esattezza della prestazione (quindi il giudizio sul se e sul quanto fosse dovuto) dovesse essere valutata secondo un criterio di conformità ai canoni di legittima aspettativa e non di mero arbitrio.

Diverse sono le testimonianze al riguardo, che derivano quanto meno sin dagli inizi del Principato.

Ulpiano ci dice che nella compravendita già i veteres (gli antichi giuristi)[33] avevano inteso il rinvio al giudizio del padrone di uno schiavo, liberato a condizione che a suo arbitrio avesse reso i conti (evidentemente della gestione a lui affidata), come se avesse fatto riferimento all’arbitrium boni viri. Ciò era parso loro necessario per salvare la validità della vendita condizionata al fatto che «lo schiavo a giudizio del padrone avesse reso i conti». Infatti vi era una profonda differenza, in quanto se si fosse trattato di rinvio al mero arbitrio del padrone la vendita sarebbe stata nulla, mentre se si fosse operato un rinvio all’arbitrium boni viri la vendita sarebbe stata valida ed il padrone avrebbe potuto essere chiamato in giudizio con l’azione di acquisto se il padrone dello schiavo non accettò i rendiconti, oppure li ricevette ma finse di non averli ricevuti[34].

Se non conosciamo chi fossero i predecessori ‘vecchi’ ricordati da Ulpiano sappiamo che proprio agli inizi della giurisprudenza classica Proculo affermò che nei giudizi di buona fede l’arbitrium andava riferito all’arbitrium boni viri. Ce lo dice lui stesso, dopo avere delineata la differenza tra il mero arbitrio e quello boni viri[35], parlando del iudicium bonae fidei di societas:

 

D. 17.2.78, Proc. 5 epist.: in proposita autem quaestione arbitrium boni viri existimo sequendum esse, eo magis quod iudicium pro socio bonae fidei est.

(Tr.: nella questione sottopostami ritengo che si debba procedere attraverso la valutazione della persona corretta).

 

Il punto si trova precisato in altri brani, i quali, ribadiscono la necessità che l’arbitrium sia riferito all’arbitrium boni viri là dove si debba avere riferimento alla fides[36].

Mi sembra poi oltremodo significativa una conclusione di Ulpiano il quale generalizzava l’assimilazione tra del mero arbitrio all’arbitrato della persona corretta in tutti i giudizi di buona fede:

 

D. 50.17.22.1, Ulp. 28 ad Sab.: Generaliter probandum est, ubicumque in bonae fidei iudiciis confertur in arbitrium domini vel procuratoris eius condicio, pro boni viri arbitrio hoc habendum esse.

(Tr.: In via generale va confermato che nei giudizi di buona fede ogni volta sia previsto la valutazione del proprietario o del suo procuratore essa va riferita alla valutazione della persona corretta).

 

La conclusione di Ulpiano partiva dal caso dell’arbitrio rimesso alla mera discrezionalità del padrone[37] per pervenire ad una generalizzazione e forse ad una regola.

Come regola venne utilizzato dai redattori del Digesto, attraverso l’inserimento nel titolo 17 del libro 50 che con la rubrica de diversis regulis iuris antiqui (le diverse regole del diritto antico), proponeva le regole generali destinate a fornire la chiave di lettura di tutto il Digesto[38].

 

 

9. – Considerazioni finali

 

Abbiamo così avuto l’occasione di soffermarci su una ulteriore forma della fecondità della bona fides dalla quale risulta come la sua presenza avvicinava il diritto al concetto di ‘giustezza’ che è nell’aspirazione dei fruitori.

Avviandomi alla conclusione vorrei provare a ricapitolare, per sommi capi, alcuni punti che la mia analisi spero possa avere evidenziato.

               La fides interveniva sia nei rapporti internazionali sia nei rapporti privati.

               La fides servì a contrastare le durezze e le difficoltà del processo.

               La fides, specie quando divenne bona, introduceva un rinvio ‘recettizio’ a normative del ius gentium. Essa perciò poteva assicurare la tutela di valori che andavano oltre la piattaforma negoziale avuta presente al momento della formazione di un contratto.

               La fides bona diventò il criterio normativante delle relazioni intersoggettive regolandole nella fase di preparazione e nella fase di esecuzione, esigendo che si rispettasse costantemente la proporzionalità e la congruità delle reciproche prestazioni.

               La fides bona consentiva di limitare gli obblighi contrattuali a quello che appariva sopportabile per il debitore, anche con riferimento alle usurae, per le quali, anche per altra via, venne affermato il limite del duplum.

               La fides bona conferiva discrezionalità ampia al giudicante e perciò presupponeva che questi fosse una persona degna: all’uopo nel processo formulare veniva incontro la scelta del giudice da ambo le parti.

               Era assente al diritto romano una distinzione tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva poiché si faceva capo ad un concetto unitario che concerneva ogni situazione, creata o meno dalle parti, di possibile sperequazione o iniquità: essa contemplava l’onestà di agire della persona, ma anche la congruità rispetto a certe esigenze che le circostanze del caso potevano rivelare.

               Nei iudicia bonae fidei e nei conseguenti rapporti contrattuali non era concepibile una stima del dovuto diversa da quello scaturente dalla valutazione della persona onesta e corretta.

               Il centro di riferimento della funzione normativante della bona fides era l’uomo concreto con le sue esigenze le sue potenzialità.

Questi punti spingono ad alcune osservazioni sul presente. Mi pare che le implicazioni dei concetti derivanti dal diritto romano possano suggerire, pur con le cautele dell’accostamento di realtà tanto distanti nel tempo e nella loro articolazione, alcune considerazioni.

La poliedricità di implicazioni della fides romana spinge ad un’attenta revisione della concezione dei contratti e delle obbligazioni. Essa è in gran parte iniziata e spesso parte delle fonti e dai concetti del diritto romano.

I punti che mi sembrano passibili di riconsiderazione concernono la immotivata distinzione tra rapporti di diritto internazionale e rapporti privati, che incide pesantemente sul debito estero. Credo che, invece, proprio la normatività della fides romana indichi la strada di una disciplina unitaria delle obbligazioni, secondo una concezione dinamica capace di adeguarne gli obblighi, in considerazione della proporzionalità di essi e della prevedibilità, in modo che non si assista alla trasmigrazione del rapporto obbligatorio in una situazione di altra natura.

In proposito giova richiamare l’intuizione, segno di alta politica legislativa, di Giustiniano che un’obbligazione non eseguibile per la sopraggiunta eccessiva onerosità scompare (ne, dum in infinitum computatio reducitur, pro sua impossibilitate cadat, cum scimus esse naturae congruum eas tantummodo poenas exigi, quae cum competenti moderatione proferuntur vel a legibus certo fine conclusae statuuntur – tr.: e ciò affinché, l’ammontare dilatato all’infinito, non venga meno a causa della sua stessa impossibilità, poiché noi sappiamo essere per natura congruo esigere soltanto quelle pene che vengono fissate con appropriata moderazione o determinate dalla legge con un limite certo); al suo posto però prende corpo un rapporto che può essere di assoggettamento personale, incidendo direttamente sulla condizione della persona.

È singolare che in materia di obbligazione si faccia riferimento in modo rigido agli impegni assunti nel momento iniziale e pur equiparando spesso il contratto alla legge[39], non se ne traggano le dovute conseguenze ammettendo anche per il contratto l’interpretazione evolutiva riconosciuta per la legge.

Questa consentirebbe l’adeguamento delle prestazioni in base a diversi fattori che tengano conto delle mutate condizioni, anche se indipendenti dal comportamento delle parti, e che ben conoscevano i giuristi romani, come mostra il riferimento a quod sit cogitatum introdotto dalle sentenze di Giuliano, Africano e Paolo. Il quale è altra cosa e va ben di là dalla clausola rebus sic stantibus, alla quale si è in gran parte ispirata la disciplina della imprevisione[40], perché a differenza di questa non costringe il debitore a scegliere tra l’esecuzione iniqua o la risoluzione, per lui spesso altrettanto gravosa ed impossibile in quanto gli è gravoso restituire quello che ha preso in prestito perché aveva necessità di mezzi per sopravvivere o per un suo disegno produttivo; mezzi che non sono più nella sua immediata disponibilità[41]. Inoltre la soluzione delle fonti romane non era legata alle restrizioni imposte per l’imprevisione che non può concernere tutti i contratti e richiede il verificarsi di eventi non solo imprevedibili ma anche straordinari[42].

Si deve affermare che è nella normalità del rapporto obbligatorio l’aggancio a situazioni ipotizzabili ed accettabili e che quando uno sbilanciamento non prevedibile e non consueto allo specifico rapporto si verifichi si debba procedere al riequilibrio, senza costringere il debitore a scegliere tra l’esecuzione ingiusta o l’annullamento del contratto.

Ciò tanto se si tratti di debito tra privati quanto se si tratti di debito pubblico ed in particolare di debito estero.

Questo mi sembra un principio che dovrà essere riconosciuto come principio generale del diritto, preesistente ai singoli ordinamenti, e come tale dichiarato dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Ma qui vorrei anche osservare che rispetto a questo importante e vitale Organismo la situazione dei possibili ricorrenti non è paritaria, come la realtà degli ultimi tempi ha dimostrato, impedendo che esso venga adito a causa della pressione dei Membri più forti delle nazioni Unite, che spesso sono o direttamente o indirettamente i creditori o i loro rappresentanti.

Mi pare che, accanto alla faticosa e paziente via intrapresa per arrivare ad una decisione della Corte, sia giunto il momento di ridiscutere le modalità di attivazione del procedimento davanti ad essa. Così come si chiede una riforma del Consiglio di Sicurezza, perché non più rispondente alla realtà odierna, credo che andrebbe ipotizzata la riforma della Corte Internazionale, prevedendo meccanismi di attivazione che non penalizzino i meno forti e la sua riproposizione come organo di interpretazione del diritto e degli atti giuridici in via generale[43].

Un’ultima considerazione la fides romana mi suggerisce in via più generale riguardo ai ‘giudicanti’. Ogni sistema ha invero bisogno di buoni giudici perché possa dare buona prova di sé. Perciò va individuata la strada migliore per ottenerli. L’esperienza romana suggerisce che essi offrono maggiori garanzie di obiettività ed equità quando siano espressione della scelta operata da ambedue le parti di una causa. La situazione attuale contrassegnata dalla riserva di giurisdizione a favore di Organi dei Paesi creditori è contro l’operatività della buona fede. Inoltre occorre prevedere la possibilità di censurare le decisioni dei giudicanti non solo secondo il principio di legalità, ma anche secondo criteri di equità e congruità, che consentano di verificare se vi sia stata una valutazione corretta conforme al ‘diritto’ ed alle sue proiezioni di Giustizia, cardini e salvaguardia della persona umana.

Ciò era l’essenza della bona fides nel diritto romano e deve esserlo anche nel nostro diritto.

 

 

 

 

 



 

[1] Ultime significative riflessioni si trovano in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporaneaAtti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese (Padova – Venezia – Treviso, 14-16 giugno 2001), voll. I-IV, Padova 2003.

 

[2] Sul punto v. M. Talamanca, La bona fides nei giuristi romani “Leerformeln” e valori dell’ordinamento, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, cit., 30.

 

[3] Sul punto richiamo le osservazioni di P. Frezza, Fides bona, in Studi sulla buona fede, Pub. fac. giur. Università di Pisa 53, 1975, 1: «La prima testimonianza tecnica che noi troviamo della presenza della fides nelle istituzioni giuridiche romane è, se non m'inganno, contenuta nella antichissima norma ‘patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto’. Noi troviamo questa norma, così formulata, nelle dodici tavole (8,21: Serv. ad Aen. 6, 609); ma la tradizione raccolta da Dionigi di Alicarnasso (2, 10) attribuiva questa norma allo stesso fondatore della città: ossia la norma è tanto antica quanto l'istituzione della clientela, e dunque verosimilmente più antica della stessa città, in quanto ordinamento unitario ed accentrato. Nella norma qui sopra citata non troviamo la parola fides, ma la parola fraus, che esprime il disvalore polarmente opposto al valore fides (il qual valore, come è noto, costituisce il nucleo normativo dell’istituzione della clientela). In questa opposizione polare fides – (fraus) dolus la nozione di fides manifesta la più notevole e duratura fra le costanti della sua evoluzione tecnico giuridica. Un altro antichissimo documento, in cui la fides viene richiamata come fondamento di una obbligazione nascente non da contratto di diritto privato, ma da contratto internazionale, è il primo trattato fra Roma e Cartagine, del cui contenuto ei informa Polibio (3, 22, 9) […] La presenza della fides come valore normativo proprio dei rapporti internazionali è ampiamente documentata nei testi dei trattati a partire dal sesto secolo a.C. Le parti contraenti solevano affermare in un solenne giuramento la volontà di osservare i patti ‘fedelmente e senza dolo’».

 

[4] Osserva il Talamanca, La bona fides nei giuristi romani “Leerformeln” e valori dell’ordinamento, cit., 41 s.: «Quale che ne sia stata la data, i iudicia bonae fidei hanno origine policentrica: a mio avviso, essi non sorgono esclusivamente nell'ambito del commercio internazionale (per usare di questo termine un po’ convenzionale), né trovano il loro unico punto di emersione nelle spinte in senso evolutivo all'interno della società romana: fra le actiones empti et venditi e l'actio tutelae (solo di poche decine d'anni più recente delle prime) v'è una profonda differenza a tale riguardo e, d'altronde, le stesse azioni correlate a quelle che sarebbero divenute le obligationes consensu contractae non nascono tutte, di certo, nel mondo dei traffici commerciali. Né, d'altro lato, l'aspetto della fides riesce a fornire una precisa risposta sotto il profilo qui discusso, dato che rapporti ispirati alla fides esistevano da sempre sia nell'ambito internazionale (basti pensare alla deditio in fidem) che in quello interno. V'è, però, un punto comune a tutte queste fattispecie, che, com'era la regola alle origini, l'intervento del pretore viene a colmare lacune esistenti nell'ordinamento, in quanto mancava, in linea di massima, la possibilità di trovare una tutela sul piano del diritto altrimenti vigente, il che comportava – oltre all'assenza di una predeterminata istanza giurisdizionale – la necessità di individuare la disciplina del rapporto».

 

[5] Osserva il P. Frezza, Bona fides, cit., 3 «[…] la fides va considerata come nucleo normativo sia del trattato fra le città, sia del contratto di diritto privato. Quest'ultimo, una volta entrato nella sfera della coercibilità statuale, non cessa di essere configurato come rapporto fondato sul dovere che ha ogni galantuomo di rispettare gli impegni liberamente consentiti; rivela cioè una struttura normativa atteggiantesi in maniera analoga al rapporto liberamente consentito fra due stati. La differenza fra il contratto di diritto privato ed il trattato internazionale non sta nella struttura delle due istituzioni, ma nel diverso meccanismo protettivo che è proprio di ciascuna di esse; a parte questa differenza, esse obbediscono al medesimo principio».

 

[6] «Patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto» sancivano le XII tabulae (Tab. 8.21; Saervius, ad Aeneidem 6.609. Si tratta di un precetto antichissimo che addirittura preesisteva alla costituzione della Civitas, se è vero, come affermava Dionigi di Alicarnasso (2.10) che esso fu sancito da Romolo.

 

[7] Il punto è evidente in un frammento di Ulpiano, il quale, pur dopo tre secoli, polemizzava con Servio Sulpicio Rufo sul valore della formula processuale, che rispecchiava le precedenti stipulazioni intervenute tra i contendenti, nel caso di disputa intorno al possesso di un fondo, per la quale si era richiesto l’interdetto uti possidetis: D. 43.17.3.11, Ulp. l. 69 ad ed.: in hoc interdicto condemnationis summa refertur ad rei ipsius aestimationem. ‘quanti res est’ sic accipimus ‘quanti uniuscuiusque interest possessionem retinere’. Servii autem sententia est existimantis tanti possessionem aestimandam, quanti ipsa res est: sed hoc nequaquam opinandum est: longe enim aliud est rei pretium, aliud possessionis. (Tr. L’ammontare della condanna di questo interdetto va riferita alla stima della cosa stessa. Le parole ‘quanto è la cosa’ le dobbiamo intendere nel senso di ‘quanto è l’interesse di ciascuno a mantenere il possesso’. Vi è invero una sentenza di Servio il quale riteneva che il possesso dovesse essere valuto pari al valore del fondo, ma essa non è assolutamente condivisibile: infatti è evidente che una cosa è il prezzo della cosa altro quello del possesso).

 

[8] Cito l’affermazione di Giuvenzio Celso secondo la quale se la clausola di una stipulazione che potesse assumere più significati si dovesse tenere presente che la domanda era formulata dallo stipulator e che pertanto essa, si sottintende, dovesse essere chiara per il promettente e non dovesse celare oneri non previsti, di modo che l’impegno da questi assunto doveva concernere la situazione a lui più favorevole, perché era quella che egli aveva inteso promettere: D. 34.5.26, Cels. 26 dig.: Cum quaeritur in stipulatione, quid acti sit, ambiguitas contra stipulatorem est. (Tr. Quando le parole della stipulazione possano avere due o più significati si dovrà seguire quello meno favorevole allo stipulante).

 

[9] Nel de officiis l’Arpinate racconta un episodio esilarante nel quale un cavaliere romano (Canio), recatosi in Sicilia, viene raggirato da un banchiere del posto (Pizio) che, attraverso un’abile messa in scena (con attori assoldati all’uopo), riesce a vendergli una villa mezzo diroccata ed in terreno arido ed inospitale facendo credere che fosse un vero e proprio Eden. Purtroppo prima della creazione, ad opera di Aquilio Gallo, dell’azione de dolo a questi raggiri, basati sulla reticenza e sull’ostentazione di ciò che in realtà non esisteva, non vi era rimedio Ma seguiamo il racconto dell’Autore romano: Cicero, De officiis 3.14.58: «Quod vituperandi, qui reticuerunt, quid de iis existimandum est, qui orationis vanitatem adhibuerunt? C. Canius, eques, Romanus, nec infacetus et satis litteratus, cum se Syracusas otiandi, ut ipse dicere solebat, non negotiandi causa contulisset, dictitabat se hortulos aliquos emere velle, quo invitare amicos et ubi se oblectare sine interpellatoribus posset. Quod cum percrebuisset, Pythius ei quidam, qui argentariam faceret Syracusis, venales quidem se hortos non habere, sed licere uti Canio, si vellet, ut suis, et simul ad cenam hominem in hortos invitavit in posterum diem. Cum ille promisisset, tum Pythius, qui esset, ut argentarius, apud omnes ordines gratiosus, piscatores ad se convocavit et ab iis petivit ut ante suos hortulos postridie piscarentur, dixitque, quid eos facere vellet. Ad cenam tempore venit Canius; opipare a Pythio adparatum ad certum convivium; cumbarum ante oculos multitudo; pro se quisque, quod ceperat, adferebat, ante pedes Pythi pisces abiciebantur. Tum Canius: ‘Quaeso’, inquit, ‘quid est hoc, Pythi? tantumne piscium? tantumne cumbarum?’ Et ille: ‘Quid mirum?’ inquit, ‘hoc loco est, Syracusis quicquid est piscium, hic aquatio, hac villa isti carere non possunt’. Incensus Canius cupiditate contendit a Pythio, ut venderet; gravate ille primo; quid multa? impetrat. Emit homo cupidus et locuples tanti, quanti Pythius voluit, ei emit instructos; nomina facit, negotium conficit. Invitat Canius postridie familiares suos, venit ipse mature. Scalmum nullum videt, quaerit ex proximo vicino, num feriae quaedam piscatorum essent, quod eos nullos videret. ‘Nullae, quod sciam’, inquit; ‘sed hic piscari nulli solent, itaque heri mirabar, quid accidisset’. Stomachari Canius; sed quid faceret? nondum enim C. Aquilius, collega ei familiaris meus, protulerat de dolo malo formulas; in quibus ipsis, cum ex eo quaeretur, quid esset dolus malus, respondebat: cum esset aliud simulatum; aliud actum. Hoc quidem sane luculente, ut ab homine perito definiendi. Ergo et Pythius et omnes aliud agentes, aliud simulantes perfidi, improbi, malitiosi. Nullum igitur eorum factum potest utile esse, cum sit tot vitiis inquinatum». (Tr.: Come punire i reticenti, cosa si deve pensare di coloro che si avvalgono di discorsi vani? Il cavaliere romano Caio Canio, uomo arguto ed abbastanza colto, essendosi recato a Siracusa, per riposarsi, come era solito dire, e non per commerciare, dichiarava di volere comprare dei giardini, dove potere invitare amici e stare in pace senza postulanti. Essendosi diffusa la notizia di ciò un banchiere di nome Pizio, gli fece sapere che egli non aveva giardini da vendere ma che metteva a disposizione di Canio, se lo avesse gradito, i suoi giardini, nei quali lo invitò a cena per il giorno successivo. Avendo avuta conferma dell’accettazione dell’invito, Pizio, che, in quanto banchiere, vantava buone amicizie in ogni ordine di persone, chiamò i pescatori e chiese loro di pescare davanti ai suoi giardini nel dì successivo e disse loro cosa voleva che facessero. Canio si recò per tempo a cena; vi era un sontuoso banchetto preparato da Pizio; davanti ai suoi occhi si parava una moltitudine di barche; ciascuno portava ai piedi di Pizio quello che aveva preso, sicché davanti ai piedi di Pizio giacevano numerosi pesci. Allora Canio disse ‘Pizio, che significa tutto ciò? Tanti pesci, tante barche?’ E quello rispose ‘di cosa ti meravigli? In questo luogo di Siracusa ci sono tanti pesci quanti ne vuoi, qui vi è un rifornimento d’acqua, per cui non possono mancare a questa villa’. Infiammato di cupidigia Canio supplicò Pizio di vendergli la villa; Pizio si mostra subito indisposto; Canio lo supplica dicendosi disposto a pagare qualsiasi prezzo. Alla fine Canio, uomo cupido ma ricco, comprò per quanto Pizio volle e comprò anche le annessioni; redige i documenti e perfeziona il negozio. Il giorno dopo Canio invita i suoi parenti ed egli stesso si reca (in villa) di buon’ora. Non vede nessuna imbarcazione, domanda al suo vicino se per caso vi fosse qualche festività dei pescatori, poiché non ne aveva visto nessuno. ‘No che io sappia’, rispose; ‘ma qui non suole pescare nessuno, solo ieri mi meravigliavo per quello che successe’. Canio è costernato; ma che poteva fare? Infatti il mio collega ed amico C. Aquilio non aveva ancora approntato le formule contro il dolo malizioso; riguardo alle quali, a chi gli avesse domandato in cosa consistesse il dolo malizioso, rispondeva: che esso ricorreva ogni volta che venisse dissimulato qualcosa e fatta un’altra. Questo invero più dettagliatamente doveva essere definito dai periti. Pertanto comprendeva sia Pizio sia tutti coloro che con perfidia o con scorrettezza o malizia avessero simulato una cosa e realizzatane un’altra. A loro dunque non può giovare nulla di ciò che hanno fatto, dato che è inquinato da tanti vizi).

 

[10] Di questa letteratura è arduo dar conto; mi limito a richiamare quella, peraltro più recente, citata più avanti alla nota 17.

 

[11] P. Frezza, Fides bona, cit., 16. Ricordo alcuni esempi di responsabilità precontrattuale e contrattuale che indicano fin dove si spinse la interpretatio prudentium, soprattutto nel fecondo periodo del Principato di Adriano. D. 19.1.13.4, Ulp. l. 32 ad edictum: Si venditor dolo fecerit, ut rem pluris venderet, puta de artificio mentitus est aut de peculio, empti eum iudicio tenetur ut praestaret emptori, quanto pluris servum emisset, si ita peculiatus esset vel eo artificio instructus. (Tr.: Se un venditore con dolo, per vendere ad un prezzo più alto, abbia mentito sull’addestramento in un’arte o riguardo al peculio di uno schiavo, sarà tenuto in base all’azione di ‘acquisto’ a prestare al compratore la differenza tra quanto vale effettivamente lo schiavo e quanto varrebbe se realmente avesse avuto il peculio nella quantità indicata oppure veramente fosse stato esperto nell’arte dichiarata). § 5: Per contrarium quoque idem Iulianus scribit, cum Terentius Victor decessisset relicto herede fratre suo et res quasdam ex hereditate et instrumenta et mancipia Bellicus quidam subtraxisset, quibus subtractis facile, quasi minimo valeret hereditas, ut sibi ea venderetur persuasit: an venditi iudicio teneri possit? et ait Iulianus competere actionem ex vendito in tantum, quanto pluris hereditas valeret, si hae res subtractae non fuissent. (Tr.: All’inverso, Giuliano scrive del caso di Terenzio Vittorio morto lasciando erede suo fratello. Un certo Bellico sottrasse dall’eredità alcune cose e le pertinenze e gli schiavi, in modo che una volta tolti quei beni l’eredità venisse stimata pochissimo, e persuase l’erede a vendergliela per un valore basso: potrà essere chiamato a rispondere di ciò in base al giudizio ‘di vendita’? Invero Giuliano afferma che spetta l’azione ‘di vendita’ per il valore maggiore che l’eredità avrebbe avuto se quelle cose non fossero state sottratte). L’utilizzo dell’azione di compravendita per riequilibrare le posizioni delle parti in modo che l’una (il venditore) non ottenesse più di quanto effettivamente prestava è chiaro. Invero lo schiavo è stato presentato come se avesse avuto abilità che in realtà non aveva o un ammontare del peculio che invece non c’era o non era quello dichiarato, dal prezzo versato per l’acquisto doveva essere restituita la parte pagata in più per le qualità vantate ma inesistenti: la restituzione poteva essere richiesta con l’azione derivante dalla compravendita, che quindi diventava lo strumento per la valutazione della responsabilità contrattuale, riferita alla fase precontrattuale (quella nella quale si erano dichiarate qualità inesistenti per convincere il compratore all’acquisto ad un determinato prezzo). Lo stesso giurista, nel successivo paragrafo del brano, ricordava un parere di Giuliano nel quale si perseguiva la perequazione a favore del venditore. Il caso mi sembra anch’esso una chiara testimonianza della possibilità di perseguire la perequazione tra gli interessi della parti attraverso l’azione di compravendita. Invero in esso ci troviamo di fronte ad un comportamento (la sottrazione di cose e pertinenze o accessioni) da parte del futuro compratore che poteva essere perseguito autonomamente per dolo. L’avanzamento compiuto da Giuliano consistette nell’inglobare quel comportamento all’interno della responsabilità contrattuale consentendo il riequilibrio delle posizioni, indipendentemente da un’azione esterna al contratto (quale poteva essere l’azione di dolo). Esso prevalse e diventò regola generale per la giurisprudenza successiva, tanto che Ulpiano, in altra sede la ricordava come principio generale: D. 4.3.9, Ulp. l. 11 ad ed.: Si quis adfirmavit minimam esse hereditatem et ita eam ab herede emit, non est de dolo actio, cum ex vendito sufficiat. (Tr.: Se uno dichiarò che un’eredità era di pochissimo valore e in conseguenza di ciò l’acquistò dall’erede per poco, non c’è necessità di ricorrere all’azione di dolo, poiché basta l’azione di compravendita). In questi casi la situazione appare chiara. Vi è stata una contrattazione e sulla base di essa è stato raggiunto un accordo e concluso il contratto di acquisto. Tuttavia, sebbene vi fosse stato un consenso validamente prestato, l’azione di compravendita (per l’acquisto in un caso, per la vendita nell’altro) consentiva di mettere in discussione il contenuto assegnato alla vendita al momento della perfezione del contratto e di ottenere la perequazione, volta al riequilibrio degli interessi dei contraenti, in un momento successivo.

 

[12] Sul punto v. P. Frezza, Fides bona, cit., 15.

 

[13] Di ciò è traccia evidente in una decisione di Pomponio, contemporaneo di Giuliano ma a lui sopravvissuto a lungo: D. 19.1.6.8, Pomp. l. 9 ad Sab.: Si dolo malo aliquid fecit venditor in re vendita, ex empto eo nomine actio emptori competit: nam et dolum malum eo iudicio aestimari oportet, ut id quod praestaturum se esse pollicitus sit venditor emptori, praestari oporteat. (Tr.: Se il venditore ha commesso dolo nella compravendita, per esso spetta al compratore l’azione ‘di acquisto’: infatti è opportuno che in quella azione si tenga conto del dolo malizioso, in modo che sia necessario che il venditore presti al compratore quello che ha promesso di prestare). La massima formulata da Pomponio è chiama in causa direttamente l’attenzione per il comportamento dell’agente e può essere considerata «come il risultato di un costante processo di espansione dell'area della responsabilità contrattuale; e la forza di espansione della responsabilità contrattuale va attribuita al criterio della buona fede, che informa i giudizi cui dànno luogo le azioni del contratto di compravendita»: v. P. Frezza, Fides bona, cit., 23. Inoltre è Ulpiano ad enunciare il principio: omnia enim quae contra bonam fidem fiunt veniunt in empti actionem (tutto ciò che è fatto contro la buona fede rientra nel giudizio di acquisto), a conferma della definitiva acquisizione delle posizioni espresse da Giuliano e Pomponio.

 

[14] Ne è esempio significativo un caso prospettato da Paolo: D. 18.4.25, Labeo l. 2 pithanon: Si excepto fundo hereditario veniit hereditas, deinde eius fundi nomine venditor aliquid adquisiit, debet id praestare emptori hereditatis. PAULUS: immo semper quaeritur in ea re, quid actum fuerit: si autem. id non apparebit, praestare eam rem debebit emptori venditor, nam id ipsum ex ea hereditate ad eum pervenisse videbitur, non secus ac si eum fundum in hereditate vendenda non excepisset. (Tr.: Se un’eredità è venduta senza il fondo ereditario e successivamente il venditore abbia acquistato alcunché a nome del fondo ereditario ciò che si è acquistato va dato al compratore del fondo ereditario. Paolo: invero sempre in questi casi ci si interroga su ciò che si è fatto: se questo non appare, il venditore dovrà prestare quella cosa (l’acquisto) al compratore, infatti essa sembrerà devoluta a lui da quella eredità, non diversamente dall’ipotesi in cui nel vendere l’eredità non eccettuò quel fondo).

 

[15] Di esso mi sono occupato in articoli in corso di stampa, in particolare in una relazione al Convegno internazionale di studi su «Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea» – Padova, giugno 2001, perciò qui mi limiterò a richiamarne gli aspetti più innovativi.

 

[16] Nella dottrina e nella giurisprudenza italiana questa esigenza è stata affermata più volte e si è, in proposito, parlato di criterio di proporzionalità (enunciato in Italia dal Perlingieri) e di principio di ragionevolezza, che si trova enunciato ed applicato in diverse sentenze della Corte Costituzionale italiana.

 

[17] Mi limito a citare la dottrina più recente vicina al profilo che tratto in questa sede: W.M. Gordon, Rc. Karl-Heinz Below, Die Haftung für lucrum cessans im römischen Recht, in T. 34, 1966, 114; A. Watson, Iusiurandum in litem in the bonae fidei iudicia, in T. 34, 1966, 178; D. Liebs, Gemischte Begriffe im römischen Recht, in Index 1, 1970, 168; R. Röhle, Digestorum Editio Maior und Theodor Mommsen, in Bidr 73, 1970, 19-34; D. Medicus, Rc. H. Honsell, Quod interest im bonae-fidei-iudicium. Studien zum römischen Schadensersatzrecht, in Zss 101, 1971, 449, 450; G. Provera, Rc. H. Honsell, Quod interest im bonae fidei iudicium, in Sdhi 37, 1971, 455, 456; S. Tafaro, "Id Quod Interest", Rc. H. Honsell, Quod interest im bonae-fidei-iudicium. Studien zum römischen Schadenersatzrecht, in Index 2, 1971, 375; «Emptio uno pretio» e «id quod interest», in Labeo 19, 1973, 32, 38; A. Wacke, Zur Lehre vom pactum tacitum und zur Aushilfsfunktion der exceptio doli, in Zss 104, 1974, 257; F. Peters, Die Verschaffung des Eigentums durch den Verkaeufer, in Zss 109, 1979, 199, 201; P. Pescani, Ancora sui manoscritti del Digesto, in Bidr 82, 1979, 179; R. Syme, Fiction about roman jurists, in Zss 110, 1980, 100; R. Backhaus, Rc. A. Bürge, Retentio im römischen Sachen-und Obligationenrecht, in Zss 111, 1981, 508; P. Pescani, Studi sul Digestum vetus, in Bidr 84, 1981, 170; Origine delle lezioni della litera bononiensis superiori a quelle della litera florentina, in Bidr 85, 1982, 270; T. Honoré, Rc. T. Masiello, I libri excusationum di Erennio Modestino, in Iura 34, 1983, 167; F.P.W. Sötermeer, Recherches sur Franciscus Accursii, vol. 51, 1983, 23, 30, 45; R. Röhle, Modestins lateinisches Pauluszitat in D. 27.1 6.5 u. 6, in Labeo 32, 1986, 203; T. Giaro, Dogmatische Wahrheit und Zeitlosigkeit in der römischen Jurisprudenz, in Bidr 90, 1987, 37; M. Amaya Calero, La compraventa de los esclavos manumitidos en un fideicomiso de libertad (Paul. 5 quaest. d. 19, 1, 43; 45, 2), in Bidr 90, 1987, 191, 192, 197, 201, 217, 219, 220; F. Cancelli; Il presunto "ius respondendi" istituito da Augusto, in Bidr 90, 1987, 563; J. Plescia, The development of the doctrine of boni mores in roman law, in Rida 34, 1987, 290; M. Amaya Calero, Un famoso pleito sucesorio que decide Marco Aurelio, in Labeo 34, 1988, 27, 38; J. Reszczynski, Impendere, impensa, impendium (sulla terminologia delle spese in diritto romano), in Sdhi 55, 1989, 218, 225; T.A.J. Mc Ginn, Ne serva prostituatur, in Zss 120, 1990, 325; C. Pennacchio; Sopravvenienza della libertà e acquisizione 'mortis causa" in una "quaestio" di Paolo: D. 31.83, in Index 18, 1990, 218; H. Van De Wouw, Brocardica dunelmensia, Zss, vol. 108, 1991, 268; H. Ankum, Pomponio, Juliano y la responsabilidad del vendedor por eviccion con la actio empti, in Rida 39, 1992, 61, 64, 65, 67, 80; H. Ankum-J.-H. Michel, La 45 session de la societé internationale Fernand de Visscher pour l'histoire des droits de l'antiquité, in Rida 39, 1992, 429.

 

[18] La questione, complessa, più articolatamente concerneva il caso di Tizio, il quale aveva stabilito, per fedecommesso, che alla sua morte gli schiavi Stico, Panfilo ed Arescusa dovessero andare a Seia, la quale tuttavia doveva liberarli dopo un anno. Seia aveva rifiutato il fedecommesso, ma senza liberare l’erede (gravato dal fedecommesso); l’erede, da parte sua, aveva venduto gli schiavi, senza far cenno dell’esistenza del fedecommesso di libertà. Colui che aveva acquistato dall’erede, dopo molti anni, per sua iniziativa aveva liberato uno degli schiavi: Arescusa. Gli altri schiavi intanto avevano saputo del fedecommesso di libertà ed avevano chiamato in giudizio l’erede, ottenendo, per ordine del pretore, l’affrancazione dalla schiavitù ad opera dell’erede (il quale, quindi, ne era diventato loro patrono). A questo punto Arescusa si rifiutò di avere per patrono il compratore, che già era divenuto suo patrono, al momento dell’affrancazione, concessale in precedenza, proprio dal compratore. Nasceva così una delicata questione giuridica sulla legittimità della richiesta di Arescusa e sulle conseguenze che dovevano scaturire da tutta la vicenda. Intanto il compratore chiamò a sua volta in giudizio l’erede, con l’actio empti, chiedendo la restituzione del prezzo pagato per l’acquisto degli schiavi, compreso quello di Arescusa. Nel corso della causa fu esibito un responso di Domizio Ulpiano nel quale, richiamando precedenti costituzioni degli Imperatori, il giurista asseriva che Arescusa poteva rifiutarsi di avere per patrono il compratore, ma che questi, malgrado ciò, non poteva ottenere nulla dal venditore, in conseguenza del fatto che era già intervenuta la manomissione. Paolo contrastava quest’orientamento. Egli, ricordando un precedente parere di Salvio Giuliano, il quale aveva sostenuto che l’azione di compravendita non si perdeva con la manomissione, si era chiesto, retoricamente, quale decisione fosse quella ‘vera’. Naturalmente egli dava per scontata (perché ovvia, in considerazione dell’autorevolezza del giurista adrianeo) la prevalenza di quella di Giuliano, che veniva contrapposto ad Ulpiano, proprio perché supposto di gran lunga più attendibile ed autorevole. E Paolo concludeva proclamando (quasi enfaticamente) che per parte sua si era sempre attenuto al parere di Giuliano, nel ritenere che la manomissione non segnava la perdita del diritto ad agire nei confronti del venditore. A questo punto Paolo però si chiedeva di chi dovesse diventare liberta Arescusa: del legatario che non la liberò o dell’erede?

 

[19] Di ciò mi appare indice il verbo agitasse adoperato da Paolo-Africano, quasi a sottolineatura della tensione posta dal giurista adrianeo nella formulazione della soluzione riferita.

 

[20] Di essa ci parla Ulpiano in D. 2.14.7.2, Ulp. 4 ad ed.: Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso respondit esse obligationem, ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias: hoc sunallagma esse et hinc nasci civilem obligationem. Et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas: manumisisti: evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a praetore dandam: ille ait civilem incerti actionem, id est praescriptis verbis sufficere: esse enim contractum, quod Aristo sun£llagma dicit, unde haec nascitur actio. – (Tr.: Ma se la situazione (il negozio?) non assume la veste già prevista per un contratto e tuttavia vi è una causa, elegantemente Aristone rispose a Celso che vi è obbligazione, come nel caso che ti diedi una cosa affinché tu me ne restituisse un’altra oppure ti diedi una cosa in cambio di qualcosa che tu debba fare: questo è sinallagma e di qui nasce un’obbligazione di diritto civile. E di conseguenza ritengo corretto il pensiero di Giuliano, ripreso da Mauriciano, riguardo a questa fattispecie: ti diedi Stico, affinché manometta Panfilo: tu lo manomettesti; Stico (però) è stato evitto. Giuliano dice che il pretore deve dare un’azione in factum: egli dice che è sufficiente l’azione civile in fatto, cioè praescriptis verbis; infatti vi è un contratto, che Aristone denomina sinallagma, dal quale nasce questa azione).

 

[21] Il pensiero di Labeone ci è riferito da Ulpiano, in un brano che può essere annoverato tra i più commentati e, anche, più controversi frammenti della letteratura giuridica romana: D. 50.16.19, Ulp. l. 11 ad ed.: Labeo libro primo praetoris urbani definit, quod quaedam ‘agantur’ quaedam ‘gerantur’: quaedam ‘contrahantur’. et actum guidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci sunallagma vocant, veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem: gestum rem significare sine verbis factam. (Tr. come è fornita da F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto, cit., 83: «Labeone, nel libro primo sul pretore urbano, definisce il fatto che in alcuni casi 'si agisce' (si compiono atti), in altri ‘si fa’ (si pongono in essere ‘azioni materiali’), in altri ancora ‘si contrae’ (si stringono contratti): e ‘atto’ è un segno di portata generale, alludente a ciò che si fa, sia mediante le parole sia con il comportamento, come avviene rispettivamente nella stipulatio e nella consegna di denaro [a scopo, ad esempio, di pagamento]; 'contratto' invece è l'atto produttivo di obbligazioni reciproche, quello che i Greci chiamano synallagma, come la compravendita, la locazione-conduzione, la società; ‘azione materiale’ significa una cosa fatta senza l’uso di parole»). È arduo ricordare le variegate, cospicue e talora contrapposte, opinioni della dottrina contemporanea a proposito di questo squarcio ulpianeo; il quale, non a torto viene posto a fondamento della ricostruzione del concetto romano di ‘contratto’ e di ‘obbligazione’ e, in tale ottica, accostato e confrontato con le posizioni di Gaio, di cui in Gai 3.88 e D. 44.7.52 pr. (per le Res cottidianae): in tal senso, per tutti, v. da ultimo A. Guzman Brito, Derecho privado romano, tomo I. Sintesis historica del derecho romano, 1996, 708 ss.; così come non mi resta che rinviare, per un approccio d’assieme alla problematica, ai manuali, dei quali, da ultimo, v., M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, 1990, 508 ss.; M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, 2a ed., 1994, 450 ss.

 

[22] D. 2.14.1.3, Ulp. 4 ad ed.: Conventionis verbum generale est ad omnia pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt: nam sicuti convenire dicuntur qui ex diversis locis in unum locum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis animi motibus in unum consentiunt, id est in unam sententiam decurrunt. Adeo autem conventionis nomen generale est, ut eleganter dicat Pedius nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re sive verbis fiat: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum, nulla est. (Tr.: La parola convenzione è termine di portata generale concernendo tutti i negozi per i quali gli agenti prestano il loro consenso, si per contrarre sia per transigere: infatti così come si dice che convengono coloro che da luoghi diversi si raccolgono e vengono in uno stesso luogo, parimenti anche coloro che mossi da differenti sentimenti consentono sulla stessa cosa, cioè giungono alla stessa decisione. Il nome convenzione è generale fino al punto che, come elegantemente dice Pedio, non vi è nessun contratto, nessuna obbligazione, che non abbia in sé la convenzione, sia che si contragga con la consegna della cosa sia che si contragga con le parole: infatti anche la stipulazione, che si crea con le parole, è nulla se non contenga il consenso).

 

[23] Medicus, Id quod interest, 1962, 63 ss.; Schindler, Justinians Haltung zur klassik, – Versuch einer Darstellung an Hand seiner Kontroversen entscheidenden Konstitutionen, 1966, 260 ss.; Knütel, Stipulatio poenae. Studien zur römischen Vertragstrafe, 1976, 338 ss.

 

[24] Debito e responsabilità, cap. 1.

 

[25] Sul divieto di usurae legali ultra duplum v. G. Cervenca, Sul divieto delle cd. «usurae supra duplum», in Index 2, 1971, 291 ss.; sul divieto per le usurae convenzionali v. L. Solidoro, Ultra sortis summam usurae non exiguntur, in Labeo 28, 1982, 164 ss.; Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale, in L’usura ieri ed oggi, 1997, 177 ss.

 

[26] V. G. Cervenca, Sul divieto delle cd. «usurae supra duplum», cit., 300 alla nt. 3, il quale ricorda che del provvedimento di Lucullo parla Plutarco (Luc. 20.3) come di un intervento per alleviare la condizione degli abitanti dell’Asia minore «oppressi dalle pretese degli usurai», che doveva trovare una solida radice nel diritto delle Provincie, per il quale Diodoro Siculo menzionava un precedente dell’antico diritto egiziano, risalente sino all’VIII secolo a.C.

 

[27] Al riguardo il Mommsen, Römische Geschichte III, 8a ed., 1856, 537, aveva ipotizzato l’introduzione in Roma attraverso un provvedimento di Cesare, del quale però mancano le prove: v. le riflessioni svolte in questa sede dalla Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale, loc. cit.; l’a. richiama le considerazioni del Piazza, «Tabulae novae». Osservazioni sul problema dei debiti negli ultimi decenni della Repubblica, in Atti del II Sem. rom. Gardesano, 1980, 39 ss., spec. 91 ss. Cautela circa i tempi di accoglimento in Roma suggerisce la natura straordinaria e transitoria del provvedimento di Lucullo, anche se non è affatto scontato che il divieto del doppio sia entrato in Roma come conseguenza della prassi diffusasi nelle province e non sia avvenuto piuttosto il contrario e cioè «che sia stato invece il governatore Lucullo ad ispirarsi ad una norma romana»: sul punto v. Solidoro, Ultra sortis summam usurae non exiguntur, cit., 169.

 

[28] Sul punto fondamentale è il frammento di Ulpiano in D. 12.6.26.1, Ulp. 26 ad ed.: Supra duplum autem usurae et usurarum usurae nec in stipulatum deduci nec exigi possunt et solutae repetuntur, quemadmodum futurarum usurarum usurae. (Tr.: Né gli interessi né gli interessi maturati sugli stessi interessi possono essere previsti in una stipulazione o essere riscossi se superano il doppio; se sono stati pagati se ne può chiedere la restituzione, così come per gli interessi che matureranno sugli interessi futuri). Ulpiano doveva far riferimento ad un divieto preesistente, il quale (secondo la Solidoro, Ultra sortis summam usurae non exiguntur, in Labeo 28, 1982, 172 e 179) poteva provenire da una lex imperfecta o da un senatoconsulto o, più verosimilmente, da una costituzione imperiale. Esso era comunque radicato nella pratica giuridica dell’età dei Severi: lo dimostra il riscontro fornito da un frammento di Papiniano: D. 22.1.9 pr., Pap. 2 quaest.: Pecuniae faenebris, intra diem certum debito non soluto, dupli stipulatum in altero tanto supra modum legitimae usurae respondi non tenere: quare pro modo cuiuscumque temporis superfluo detracto stipulatio vires habebit (Tr.: Se alla scadenza non si è pagato il debito non sarà tenuto a pagare le usure previste in una stipulazione al di là del limite legittimo del doppio: di conseguenza la stipulazione avrà valore solo per la parte che in relazione al tempo del pagamento corrisponde al legittimo, dovendosi togliere la parte in eccedenza). Le fonti contengono numerosi riferimenti al modus usurarum: sui quali v. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, 1990, 545 s.; Marrone, Istituzioni di diritto romano, 194, 459; e soprattutto l. Solidoro, locc. citt. Secondo il Cervenca, Sul divieto delle cd. «usurae supra duplum», cit., 297, tuttavia, il divieto delle usurae ultra duplum avrebbe riguardato esclusivamente le usurae convenzionali per tutta l’età classica e del tardo-antico sino a Giustiniano, il quale, per primo, lo avrebbe esteso anche alle usurae legali.

 

[29] L’intervento degli Imperatori a partire da una costituzione di Antonino Caracalla (C. 4.32.10) è frequente sino al Codice Teodosiano, che raccolse una importantissima costituzione del 380 d.C. (degli imperatori Imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio I, forse emanata a Tessalonica dal solo Teodosio: CTh. 4.19.1) e rivela una costante preoccupazione di tenere a freno l’ammontare degli interessi e, comunque, a limitare il debito a non più del doppio. La tendenza espressa era di estremo rigore e venne riflessa dalla interpretatio visigotica: Int. CTH. 4.19.1. In proposito voglio osservare che il contenuto delle costituzioni del tardo-antico doveva riprodurre punti già affermati almeno nell’età dei Severi, poiché la turbolenza degli avvenimenti militari e politici degli anni ai quali appartengono gli interventi imperiali citati difficilmente avrebbe potuto dar luogo a disposizioni innovative, il cui contenuto non fosse già nella consapevolezza dei contemporanei, rielaborata dalla scienza giuridica del tempo, in massima parte espressa dalla Cancelleria imperiale.

 

[30] Le quali dovevano concernere il prestito marittimo ed il prestito agrario.

 

[31] È crescente la preoccupazione degli Imperatori che tentano di ostacolare gli abusi dei giudici, moltiplicando i propri interventi contro la collusione e la vendita delle liti: basta scorrere i codici, sia Teodosiano che Giustiniano, per averne un quadro indicatore.

 

[32] Sul punto rinvio al Cervenca, Sul divieto delle cd. «usurae supra duplum», cit., 296 s. ed ivi le ntt. 29 e 30, dove viene richiamata la precedente bibliografia, con particolare riguardo al Fadda e al Carcaterra.

 

[33] È difficile stabilire chi fossero i veteres nel linguaggio del giurista severiano; in particolare forse poteva trattarsi di giuristi precedenti a Sabino e da questi richiamato, dato che Ulpiano commentava l’opera di Sabino citandolo direttamente o non citandolo, perché dava per scontata la conoscenza dell’originale (i tre libri iuris civilis) da parte dei suoi lettori. Ma non è escluso che veteres fossero chiamati i giuristi del primo Principato: sul punto cfr. F. Schulz, History of roman legal science, Oxford 1967, 222 ss.

 

[34] D. 18.1.7 pr., Ulp. 28 Ad Sab.: Haec venditio servi ‘si rationes domini computasset arbitrio’ condicionalis est: condicionales autem venditiones tunc perficiuntur, cum impleta fuerit condicio. sed utrum haec est venditionis condicio, si ipse dominus putasset suo arbitrio, an vero si arbitrio viri boni? nam si arbitrium domini accipiamus, venditio nulla est, quemadmodum si quis ita vendiderit, si voluerit, vel stipulanti sic spondeat ‘si voluero, decem dabo’: neque enim debet in arbitrium rei conferri, an sit obstrictus. placuit itaque veteribus magis in viri boni arbitrium id collatum videri quam in domini. si igitur rationes potuit accipere nec accepit, vel accepit, fingit autem se non accepisse, impleta condicio emptionis est et ex empto venditor conveniri potest.

(Tr.: Questa vendita dello schiavo ‘se abbia reso i conti secondo la valutazione del padrone’ è una vendita condizionata. Bisogna precisare che le vendite condizionate si perfezionano solo con l’avveramento della condizione. Ma come va intesa la condizione in questo caso, cioè bisogna far riferimento al mero arbitrio del padrone o alla valutazione di un uomo corretto? Invero se la riferiamo al mero arbitrio del padrone la vendita è nulla, così come quando uno venda in questo modo ‘se vorrà’, oppure uno stipulante prometta con tali parole ‘se vorrò darò dieci’: infatti non dovrà dare e non potrà essere costretto a dare. Perciò ai veteres piacque ritenere che quella clausola andasse riferita all’arbitrato della persona corretta piuttosto che al mero arbitrio del padrone. Se pertanto potendo non accettò i rendiconti, oppure se li ricevette ma finse di non averli ricevuti, la condizione della vendita si riterrà adempiuta ed il venditore potrà essere convenuto in base all’azione di vendita).

 

[35] D. 17.2.76, Proc. 5. epist.: [...] Arbitrorum enim genera sunt duo, unum esiusmodi, ut sive aequum sit sive iniquum, parere debeamus, quod observatur, cum ex compromisso ad arbitrum itum est, alterum eiusmodi, ut ad boni viri arbitrium redigi debeat, etsi nominatim persona sit comprehensa, cuius arbitratu fiat.

(Tr.: Vi sono due generi di ‘arbitri’; uno concepito in modo che dobbiamo attenerci a lui sia che abbia agito con equità sia che si sia comportato in modo iniquo, come avviene quando si nomina un arbitro nel compromesso, l’altro concepito in modo che si comporti come una persona corretta, anche se si sia indicato il nome della persona che deve emettere l’arbitrato).

 

[36] Il punto è più volte specificato in brani di Pomponio, di Paolo ed ancora di Ulpiano: D. 40.7.21 pr., Pomp. 7 ex Plaut.: Labeo libro posteriorum ita refert: ‘Calenus dispensator meus, si rationes diligenter tractasse videbitur, liber esto suaque omnia et centum habeto’. diligentiam desiderare eam debemus, quae domino, non quae servo fuerit utilis. erit autem ei diligentiae coniuncta fides bona non solum in rationibus ordinandis, sed etiam in reliquo reddendo. et quod ita scriptum est ‘videbitur’, pro hoc accipi debet ‘videri poterit’: sic et verba legis duodecim tabularum veteres interpretati sunt ‘si aqua pluvia nocet’, id est ‘si nocere poterit’. et si quaereretur, cui eam diligentiam probari oporteat, heredum arbitratum boni viri more agentium sequi debebimus, veluti si is, qui certam pecuniam dedisset, liber esse iussus est, non adscripto eo, cui si dedisset, eo modo poterit liber esse, quo posset, si ita fuisset scriptum ‘si heredi dedisset’.

(Tr.: Labeone nei posteriori esamina questo disposizione: ‘il mio dispensiere Caleno sia libero ed ottenga le cose sue più cento, se risulterà che avrà gestito con diligenza i miei conti’. Dobbiamo richiedere la diligenza che si rivolga all’utilità del padrone e non dello schiavo. A quella diligenza dovrà essere congiunta la buona fede non solo nel mantenimento dei conti, ma anche nel resto. E l’espressione: ‘risulterà’ va intesa come se avesse detto ‘si potrà verificare’; gli antichi interpretarono in tal modo le parole delle XII tavole ‘se l’acqua piovana nuoce’ intese come se avessero detto ‘se potrà nuocere’; se poi si chiedesse chi debba approvare quella diligenza, dobbiamo seguire la valutazione di persona corretta fatta dall’erede, come quando sia previsto che se dia una determinata somma sarà libero senza l’indicazione della persona alla quale dovrebbe dare per essere libero, la disposizione va intesa come se fosse stato scritto ‘se dette la somma all’erede’.

D. 19.2.24 pr., Paul. 34 ad ed.: Si in lege locationis comprehensum sit, ut arbitratu domini opus adprobetur, perinde habetur, ac si boni viri arbitrium comprehensum fuisset, idemque servatur, si alterius cuiuslibet arbitrium comprehensum sit: nam fides bona exigit, ut arbitrium tale praestetur, quale viro bono convenit. idque arbitrium ad qualitatem operis, non ad prorogandum tempus, quod lege finitum sit, pertinet, nisi id ipsum lege comprehensum sit. quibus consequens est, ut irrita sit adprobatio dolo conductoris facta, ut ex locato agi possit.

(Tr.: Se nell’accordo di una locazione sia stato previsto che il manufatto venga approvato secondo il giudizio del padrone, ci si dovrà regolare come se fosse stata prevista la valutazione della persona corretta; lo stesso si dovrà ritenere se sia stato previsto la valutazione di una qualsiasi altra persona: infatti la buona fede esige che si effettui una valutazione congrua a quella dell’uomo corretto. La valutazione poi si riferisce solo alla valutazione della qualità dell’opera, non anche al termine concordato, a meno che espressamente sia stata estesa anche ad esso. Da ciò consegue che non è valida l’approvazione fatta con dolo del conduttore, nel qual caso si potrà agire con l’azione di locazione).

D. 50.8.3.2, Ulp. 3 opin.: Sed si in locatione fundorum pro sterilitate temporis boni viri arbitratu in solvenda pensione cuiusque anni pacto comprehensum est, explorata lege conductionis fides bona sequenda est.

(Tr.: Ma se con un patto sia stato previsto che nella locazione dei fondi il pagamento del canone in caso di periodo di sterilità sarebbe stato affidato alla valutazione di una persona corretta, bisognerà attenersi ad un criterio di buona fede per via della disciplina della conduzione).

 

[37] Il brano, si trova nello stesso libro 28 del commentario a Sabino al quale apparteneva D. 18.1.7 pr. (riportato sopra alla nt. 34), del quale doveva costituire la chiusura.

 

[38] Sul punto v. le mie riflessioni, con esame del tit. 17 del 50° libro, svolte in Regula e ius antiquum in D. 50.17.23. Ricerche sulla responsabilità contrattuale. I, 1984, cap. II.

 

[39] Così, ad esempio, l’art. 1372 c.c. Italiano dichiara «Il contratto ha forza di legge tra le parti». L’enunciato, poi, si trova anche in altri codici: ad es. negli artt. 1091 e 1256 c.c. Spagnolo, che parlano appunto di «fuerza de ley entre las partes». Più incisiva e parzialmente differente è la dizione dell’art. Art. 1545 c.c. de Chile: «Todo contrado legalmente celebrado es una ley para los contrahentes, y no puede ser invalidado sino por su consentimento mutuo o per causas legales».

 

[40] Al riguardo viene in considerazione l’art. 1467 del Codice Civile italiano, che è stato in qualche misura il prototipo di protezione contro l’imprevisione: «Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’art. 1458. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto».

 

[41] Va tenuto presente che la conseguenza prevista dalla disciplina dell’imprevisione è quella della risoluzione secondo le modalità dell’art 1458, le quali prevedono che «La risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti».

 

[42] Infatti la protezione offerta al contraente svantaggiato nel corso dell’esecuzione di un contratto ha due limiti: a. che si tratti di contratto «a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita»; b. che si verifichino eventi «straordinari ed imprevedibili».

 

[43] Mi rendo conto che il punto ha bisogno di una riflessione molto profonda la quale deve riguardare il modo stesso di essere e di operare del diritto internazionale. Personalmente mi propongo di ritornare su di esso, limitandomi qui a proporlo come individuazione di un punto critico del modo in cui il diritto si pone oggi e, se possibile, come provocazione per una differente organizzazione e quindi operatività del diritto nel futuro.