N. 4 – 2005 – Contributi

 

Le origini delle compagnie barracellari e gli ordinamenti di polizia rurale nella Sardegna moderna*

 

Piero Sanna

Università di Sassari

 

Sommario: 1 La tradizione storiografica e il «Tractatus de barracellis». – 2. Il problema delle origini del barracellato. – 3. La contrastata affermazione del barracellato nelle terre infeudate. – 4. Il barracellato tra giurisdizione regia e giurisdizioni territoriali.

 

1. – La tradizione storiografica e il «Tractatus de barracellis»

 

La diffusione delle compagnie barracellari nella Sardegna del Seicento segna la nascita di un’originale forma di polizia rurale che trova ben pochi riscontri nel panorama dei corpi di polizia dell’Europa moderna[1]. Nel XVII e nel XVIII secolo la compagnia barracellare si presenta, infatti, come una speciale squadra di guardie campestri che si rinnova di anno in anno nell’ambito della comunità rurale o urbana e che in cambio dei contributi versati dagli allevatori e dai coltivatori s’impegna a pattugliare il territorio, a proteggere le attività agricole, a prevenire i reati, a sorvegliare i beni rurali e in particolare a risarcire i danni causati da furti, atti vandalici e sconfinamenti del bestiame che siano rimasti impuniti. Le peculiarità di questo singolare istituto, che ha profondamente caratterizzato la storia rurale della Sardegna moderna e contemporanea, sono in realtà molteplici: la struttura associativa e insieme corporativa della compagnia, la dimensione strettamente locale del reclutamento e del campo operativo, il ruolo d’indirizzo svolto dalla municipalità urbana o dalla comunità rurale, il coinvolgimento degli agricoltori e degli allevatori chiamati a finanziarne i servizi in proporzione al valore dei beni affidati in custodia, e infine il caratteristico impegno dei barracelli a rispondere dell’eventuale inefficacia delle loro attività di vigilanza indennizzando i proprietari per le perdite subite in seguito a furti e danneggiamenti rurali.

Non è facile ricostruire le caratteristiche delle prime forme embrionali di barracellato che compaiono nella Sardegna spagnola, ma certamente gli ordinamenti agrari ereditati dal periodo giudicale e le robuste consuetudini territoriali del mondo rurale sardo giocarono un ruolo determinante nel modellarne la fisionomia e le funzioni. Non a caso i complessi rapporti che legavano le compagnie barracellari alle normative agrarie d’età comunale e giudicale costituiscono il fulcro di un’interessante tradizione di studi, i cui esordi risalgono al XVIII secolo.

Fu un oscuro ma dotto giurista cagliaritano, Giuseppe Lorenzo Carta Deidda, a teorizzare, forse per primo, negli anni Ottanta del Settecento, nel quadro di un’ampia rivalutazione dell’antico «diritto patrio» della Sardegna, la discendenza dei barracelli dai majores e dagli juratos de justicia cui la Carta de Logu d’Arborea affidava, sul piano locale, le funzioni di governo, giustizia, polizia e controllo del territorio. Anzi, il suo Tractatus de barracellis et ministris saltuariis, un ponderoso manoscritto di oltre seicento carte che puntava a offrire una dettagliata summa della normativa sarda in materia di polizia rurale, non esitava a presentare gli stessi juratos del periodo giudicale come veri e propri barracelli[2]. Secondo il giurista cagliaritano, infatti, le guardie barracellari erano state istituite dai Longobardi e figuravano con il nome di juratos negli ordinamenti pisani, dai quali erano state poi trasposte negli ordinamenti giudicali, come del resto lasciavano intravedere le numerose disposizioni della Carta de Logu («prout innumera Cartae Localis capitula id comprobant») che vincolavano i majores e gli juratos de justicia ad assicurare l’arresto dei malfattori e a rispondere, individualmente e insieme alla comunità, dei danni subiti dai proprietari: chiamiamo barracelli, affermava perciò Carta Deidda, quelle guardie e quegli ufficiali di polizia locale che i giudici Mariano ed Eleonora d’Arborea vollero che fossero designati col nome di juratos.

Scrupolosamente Carta Deidda si preoccupava di esibire un primo dettagliato elenco dei non pochi capitoli del testo normativo arborense «ubi dispositum novimus – osservava – maiores et iustitiae iuratos insimul constrictos malefactores probare, et capere, damnum parti laesae risarcire, sub poenis ibidem praescriptis»[3]. Ma il riferimento più significativo riguardava soprattutto il capitolo XVI, in cui era stabilito che gli «juratos de logu», per le delicate funzioni cui erano preposti, fossero scelti con cadenza annuale tra i membri più capaci e stimati della comunità, in numero di dieci per i villaggi maggiori e di cinque per quelli minori; che fossero tenuti a impegnarsi con apposito giuramento a ricercare, denunciare, arrestare («tenner») e consegnare alla giustizia («batire ad sa corte») i colpevoli di reati contro le proprietà e contro la sicurezza delle persone; e che nel caso in cui i colpevoli fossero rimasti ignoti o impuniti, ciascuno di essi pagasse una multa e «comunamente sos homines dessa villa et sos jurados» pagassero «su dannu a cuy hat essere»[4].

Sia i barracelli che i majores e gli juratos della Carta de Logu erano presentati, dunque, come gli ultimi anelli di una lunga catena di magistrature che, snodandosi dall’antichità greca e latina, e passando per le tortuose esperienze dell’età medievale, giungeva fino alla Sardegna sabauda. Sicché, com’era buona consuetudine per i giuristi del Settecento, anche Carta Deidda non rinunciava ad aprire il suo trattato giuridico con un’erudita digressione storica in cui, rifacendosi agli studi romanistici dei giuristi tedeschi e olandesi dell’«Usus modernus Pandectarum» e affidandosi ai celebri commentari di Dionisio Gotofredo, Johannes Brunneman e Samuel Stryk[5], disquisiva sul bisogno di sicurezza e sulle esigenze di tutela dell’ordine pubblico che avevano indotto i romani a istituire l’officium praefecti vigilum e a creare quelle particolari figure di ufficiali e funzionari di polizia locale che sotto diverse denominazioni – curiosi e stationarii, irenarchae e apparitores – avevano svolto compiti e funzioni che ora apparivano propri dei moderni barracelli.

In effetti, osservava Carta Deidda, nessuno aveva mai messo in dubbio che durante la dominazione romana quegli ordinamenti fossero stati in vigore nell’isola come nelle altre province dell’Impero. Si poteva dunque correttamente supporre che anche dopo la sua caduta quelle antiche figure di funzionari e ufficiali di polizia così somiglianti ai moderni barracelli avessero continuato a svolgere, seppure sotto altre denominazioni, le loro tipiche e originarie attività di polizia locale («et licet barracellorum nomine minime insigniti, substantialiter tamen ipsorum explebant officium»).

Così, ricorrendo all’autorità del cardinal De Luca e ai celebri «annali» di Paolo Tronci, Carta Deidda rievocava il lungo periodo delle invasioni barbariche nella penisola italiana, le incursioni dei Mori e l’avvento della dominazione pisana in Sardegna, le tradizioni giuridiche longobarde e pisane, la complessa gestazione della legislazione giudicale[6]. In particolare, sulla scorta degli scritti georgici del giurista e storico monopolitano Prospero Rendella (1553-1630) – autore, fra l’altro, di un interessante Proloquium in reliquias iuris Longobardi («una vera e propria introduzione al sistema delle fonti del diritto patrio», secondo l’efficace definizione di Domenico Maffei) – il Tractatus de barracellis metteva acutamente in luce l’influsso che le leggi longobarde avevano finito per esercitare su alcuni istituti del diritto sardo («Analogia itaque nostrorum, et combinatio statutorum cum Longobardo iure, ipsius in hoc Regno comprobat observantiam»)[7]. Ne offrivano un chiaro esempio i capitoli della Carta de Logu e le disposizioni delle regie prammatiche che a protezione delle attività agricole imponevano all’interno delle comunità rurali la pratica delle tenture e delle maquizie e disciplinavano, in perfetta sintonia con i «Longobardica iura», la cattura e la macellazione dei capi di bestiame sorpresi sui terreni coltivati o vietati al pascolo brado («pro nunc sufficit conferre cap. 154 et cap. 194 Cartae Localis, capitulumque 2 et 3 Regiae Prammaticae, tit. 43, ubi de quadrupedum macello parili forma dispositum cernimus»).

Le analogie che si potevano stabilire tra alcuni capitoli della Carta de Logu e le normative di matrice longobarda presenti negli ordinamenti dei principali Stati della penisola erano dunque la riprova del contributo che le tradizioni giuridiche longobarde avevano apportato anche alla legislazione giudicale e alla formazione del diritto patrio: alla luce di un’attenta analisi comparativa, alcuni istituti giuridici, che di primo acchito potevano sembrare tipici del diritto sardo, risultavano presenti in diversi ordinamenti territoriali e a ben vedere erano riconducibili alle dominazioni barbariche. Ne erano appunto un esempio le complesse disposizioni che regolavano il sequestro e la macellazione del bestiame nel caso dello sconfinamento di pascolo che il giurista cagliaritano, rifacendosi al fortunato Jus georgicum, sive Tractatus de praediis di Gottfried Christian Leiser apparso a Lipsia nel 1698, non esitava a classificare tra le normative che il diritto sardo aveva mutuato dalla tradizione longobarda[8]. E del resto, come si poteva evincere dalla Practica criminalis di Bossius (i Tractatus varii del giurista lombardo del primo Cinquecento Egidio Bossi), dalle Decisiones di Capycius (le pluriedite Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani del sorrentino Antonio Capece, apparse a Venezia nel 1541) e dalle Quaestiones di Onciacus (le classiche Quaestiones academicae relative alle decisioni del Senato di Savoia di Guillaume D’Oncieaux), era proprio attraverso l’influsso della dominazione longobarda che l’istituto del sequestro e della macellazione del bestiame si era imposto non solo in Sardegna ma anche nel Regno di Napoli, in Lombardia, in Savoia e in altre regioni della penisola italiana[9]. Era dunque evidente che la pratica del sequestro e della macellazione del bestiame e, più in generale, l’articolata e complessa normativa che regolava la prevenzione e la repressione dello sconfinamento di pascolo erano penetrate nell’isola per il tramite della legislazione longobarda («Igitur concludimus [...] animalium pignorationem et macellum a Longobardis legibus in hoc introductam Regno, prout in Italia [...] in Sabaudia [...] pluribusque in regionibus usu et moribus recepta fuit»).

Certo, in questa dotta ricostruzione delle radici romanistiche e longobarde del «diritto agrario patrio» la sottolineatura di una presunta continuità dell’esperienza barracellare, dall’età classica al periodo sabaudo, finiva per offuscare le numerose trasformazioni che avevano portato a quei nuovi corpi di polizia rurale che tra il Sei e il Settecento avevano affiancato (e in molti casi soppiantato) gli antichi juratos previsti dalla Carta de Logu. In effetti, negli anni in cui Carta Deidda componeva il suo trattato, le compagnie barracellari si erano già imposte come soluzione predominante in gran parte dei villaggi della Sardegna. La relazione della «visita generale del Regno» compiuta nel 1770 dal viceré sabaudo conte d’Hallot des Hayes testimonia il radicamento che il nuovo istituto aveva ormai raggiunto nelle campagne dell’isola. Come risultava dall’ampia e approfondita inchiesta viceregia (per ogni villaggio la «visita» doveva accertare non solo la presenza della compagnia barracellare, ma anche la qualità dei servizi da essa resi), la maggior parte delle comunità rurali si avvaleva abitualmente di squadre barracellari che sulla base di capitolati assai dettagliati assicuravano le ronde nell’agro e risarcivano i furti e i danni, talvolta soltanto dopo lunghi ed estenuanti contenziosi, come lamentavano soprattutto i rappresentanti delle comunità agro-pastorali della Sardegna centro-settentrionale, ma più spesso con una certa regolarità e con soddisfazione delle popolazioni, come risultava invece dalle numerose testimonianze raccolte nei villaggi a prevalente economia agricola delle aree pianeggianti del meridione dell’isola[10].

In realtà, sulle oscure vicende del barracellato nel periodo spagnolo, la ricostruzione storica di Carta Deidda glissava assai disinvoltamente limitandosi a ipotizzare che sotto i nuovi dominatori le disposizioni giudicali sugli antichi juratos fossero state abrogate, o fossero cadute in desuetudine, come faceva supporre l’energica petizione presentata dallo Stamento militare nel Parlamento del viceré Cardona (1543), che ne aveva invocato il pronto ristabilimento e la piena applicazione in tutti i villaggi del Regno: «Abolitos postea fuisse Hispani guberni temporibus ex eo coniectamus, iuratos, quod ad observantiam dictae Cartae Localis revocatur per Regni Stamenta, dispositio»[11]. E del resto anche l’autorevole giurista Francisco de Vico, primo reggente sardo del supremo Consiglio d’Aragona, non aveva mancato di deplorare, circa un secolo dopo, negli anni Quaranta del Seicento, l’assurda condotta di quei regnicoli che «in boni publici detrimentum» facevano di tutto per rendere inoperanti quelle sagge disposizioni[12].

Successivamente, all’aprirsi del XVIII secolo, lo spirito di quelle norme era stato ampiamente ripreso dal pregone generale del viceré duca di S. Giovanni che aveva riaffermato la responsabilità dei capitani, podestà, ufficiali e giudici ordinari nell’individuazione, cattura e punizione degli autori dei reati e nel pagamento delle sanzioni e degli indennizzi:

 

denuoque praescripta fuit methodus anno 1700 in eodem ducis a S. Ioanne preconio cap. 17 ad 25 – precisava il giurista cagliaritano –, eligendi in iuratos deputatosve homines primae qualitatis, qui et damna resarcire maleficosque capere tenentur, sub poena ducatorum centum; quod in odium praemaxime furtum – osservava – factum credimus[13].

 

Così, giungendo a grandi passi alla dominazione piemontese, la ricostruzione storica di Carta Deidda finiva per ricollegare, con qualche evidente forzatura, la nascita dei moderni barracelli alla benevola protezione assicurata all’isola dalla dinastia sabauda e da Vittorio Amedeo III: «Horum tandem deputatorum infractus usus paucis post annis, quo invictissimi Regnantis arma Regnum protegerunt; in locumque istorum barracellos submissos agnovimus modo et forma infra exaranda»[14].

Sarebbe però sbagliato fermarsi a considerare nel lavoro di Carta Deidda soltanto i suoi riferimenti storici. Il Tractatus de barracellis è infatti un’opera di spiccato taglio giuridico e rappresenta il primo pionieristico tentativo di ricostruire il quadro delle fonti normative e di offrire, insieme, un’organica chiave interpretativa delle convenzioni più diffuse e dei capitolati stipulati dalle compagnie barracellari. Non a caso, il giurista cagliaritano prendeva di petto uno dei nodi più controversi dell’amministrazione della giustizia nell’isola mettendo subito in evidenza lo stridente contrasto tra il moderno impianto civilistico della responsabilità dei barracelli per i furti rimasti impuniti e l’assurda persistenza dell’arcaico istituto dell’«incarica» fondato sulla presunzione della responsabilità dell’intera comunità per i reati commessi nel suo territorio. In effetti, la diffusione delle compagnie barracellari metteva profondamente in crisi il sistema dell’«incarica»: non era più tollerabile, osservava Carta Deidda, che le comunità rurali che erano già impegnate a mantenere a proprie spese la squadra barracellare fossero poi chiamate a pagare anche la gravosa sanzione dell’«incarica», quando in realtà toccava al principe assicurare ogni protezione ai sudditi con le imposte che a questo fine gli erano versate.

 

Nimis adhuc urget alia super recensita ratio – affermava pertanto il giurista cagliaritano – ut universitates a pecuniaria encarica poena tueamur, dum barracellis salarium perhibent; quippe princeps tenetur purgare terram latronibus et mare piratis, idque suis sumptibus [...]; ad hoc enim ei tributum et vectigalia penduntur[15].

 

Sulla vita e sulla formazione di Carta Deidda si sa ben poco: sappiamo che nacque e visse a Cagliari e vi morì tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento; sappiamo che si laureò in utroque iure, che svolse l’attività forense fino agli anni Ottanta del Settecento e che in seguito, preso l’ordine sacerdotale, divenne canonico della cattedrale di Cagliari e consigliere del vescovo di Ales. Sappiamo inoltre che nel 1778 finì di redigere l’ultimo di tre volumi manoscritti, l’unico pervenutoci, di un’ampia raccolta di sentenze della Reale Udienza – il supremo magistrato del Regno – da lui stesso selezionate[16].

Così, nel gennaio del 1781, quando si accinse a comporre il Tractatus de barracellis, Carta Deidda aveva già al suo attivo una ricerca giuridica approfondita cui doveva la sua notevole padronanza non solo della normativa, ma anche della giurisprudenza e della dottrina. Ciononostante il giurista cagliaritano era consapevole di cimentarsi in un’impresa che si prospettava particolarmente difficile, anche perché il tema che aveva prescelto non era mai stato affrontato fino ad allora: eppure tra i tanti argomenti che gli si erano affacciati alla mente «nessuno – raccontava nella prefazione – aveva solleticato il suo interesse quanto l’analisi degli ordinamenti barracellari». Peraltro il giurista cagliaritano aveva ben presente la molteplicità degli usi locali e delle normative agricole che caratterizzavano la realtà dell’isola, nettamente distinguendo, per esempio, i Campidani di Cagliari e di Oristano dalle aree del Capo di Sassari e di Gallura. Sicché il suo programma di lavoro prevedeva anche un secondo volume, che forse non fu mai composto, nel quale avrebbe trovato collocazione una raccolta commentata delle convenzioni e dei cosiddetti capitolati barracellari adottati nelle diverse zone del Regno[17].

Fin dalla sua progettazione il Tractatus de barracellis si presentava, dunque, come un lavoro d’indubbio impegno teorico, ma ideato con lo spirito del giurista pratico, sensibile alle esigenze del mondo forense e alla necessità di ancorare l’interpretazione dei casi e delle problematiche esaminate al quadro normativo vigente. L’esperienza del barracellato si era sviluppata, infatti, sulla base di una regolamentazione assai fluida e frammentata, che aveva scarsissimi riferimenti nella normativa regia e faceva prevalentemente perno sulle convenzioni e sui capitoli, sempre più numerosi e dettagliati, che di anno in anno erano rinnovati tra le comunità e le compagnie barracellari.

Di qui il particolare interesse del Tractatus de barracellis, che costituisce non solo una preziosa rassegna delle problematiche giuridiche e sociali legate all’esperienza barracellare, ma anche una testimonianza viva delle numerose critiche che denunciavano le disfunzioni delle giustizie feudali, l’arcaicità di alcuni antichi istituti del diritto patrio e l’inadeguatezza della normativa vigente nelle campagne dell’isola, la cui base principale era ancora costituita dai capitoli della Carta de Logu. Non era, dunque, una preoccupazione meramente antiquaria quella che portava Carta Deidda a scavare nella ratio delle disposizioni della Carta arborense: egli, infatti, si prefiggeva di rintracciare tutte quelle norme che dovevano orientare il funzionamento delle istituzioni barracellari e costituire quindi un imprescindibile punto di riferimento nelle controversie giudiziarie e nei contenziosi giurisdizionali.

L’interesse di questa testimonianza deriva inoltre dal fatto che il Tractatus de barracellis rispecchia una realtà destinata a subire di lì a poco radicali trasformazioni, sia sotto la spinta del movimento patriottico e antifeudale degli anni Novanta, sia per effetto delle incisive riforme neoassolutistiche imposte dalla monarchia sabauda negli anni dell’esilio della corte (1799-1815). A partire dai primi dell’Ottocento, una serie di provvedimenti governativi prese, infatti, a disciplinare in modo uniforme l’attività delle compagnie barracellari, dapprima modificandone profondamente i connotati originari e poi sciogliendole all’interno di un nuovo corpo di polizia a struttura centralizzata e gerarchizzata[18]. Si chiudeva così quella fase storica in cui, nell’assenza di una specifica normativa unitaria, l’attività delle compagnie barracellari era stata principalmente regolata dalle convenzioni locali e dalle disposizioni della Carta de Logu (o degli statuti urbani), fatti salvi naturalmente i riferimenti più generali alle regie prammatiche, ai capitoli di corte, agli editti e ai pregoni del periodo spagnolo e sabaudo.

A parte il singolare caso del Tractatus di Carta Deidda, la tradizione degli studi sugli ordinamenti barracellari presenta tre momenti particolarmente significativi sia per il rapporto con l’evoluzione della storiografia sulle istituzioni agrarie dell’isola, sia per le sollecitazioni provenienti dal dibattito politico e giuridico del tempo.

Il primo momento coincide con la grande discussione sul destino degli antichi ordinamenti del Regnum Sardiniae che agitò la società isolana nel periodo delle riforme feliciane e carloalbertine e soprattutto all’indomani della «fusione perfetta» con gli Stati sabaudi di terraferma[19]. Le accese discussioni sulla necessità di riformare il barracellato o sull’opportunità di decretarne l’abolizione per far posto alle «libere e mutue assicurazioni» spinsero diversi intellettuali, amministratori e uomini politici a interrogarsi sui caratteri peculiari di quell’antico istituto e sulle sue connessioni con le tradizioni e con gli ordinamenti del mondo agro-pastorale[20]. In questo contesto vide la luce La questione barracellare di Giovanni Battista Tuveri, un battagliero e documentato studio attraverso il quale l’ex deputato, filosofo e brillante polemista, analizzava le ragioni economiche, giuridiche e sociali che imponevano un’energica ripresa della tradizione comunitaria locale e un convinto e massiccio rilancio delle compagnie barracellari. Non a caso l’eccentrico esponente del pensiero democratico e risorgimentale sardo sottolineava romanticamente la nobile tradizione comunitaria e pubblicistica del diritto patrio e ricollocava le origini e lo sviluppo dell’istituto barracellare nell’alveo normativo dello ius municipale e della Carta de Logu.

 

Al barracellato – osservava acutamente Tuveri – si suole attribuire un’antichità che forse non ha. Quel che è antichissimo in Sardegna è il principio, che niuno sia in facoltà di lasciare incustodite le sue proprietà, e che i danneggiati debbano essere indennizzati. [...] Nella Carta de Logu di Eleonora si ordinava che in ciascun comune vi fosse un certo numero di giurati da scegliersi tra le persone più reputate. Era uffizio loro lo scoprire i delitti e l’arrestare i delinquenti. [...] Da queste ed altre prescrizioni [...] è facile l’inferire come gli elementi [...] dell’istituzione che poscia ebbe il nome di barracellato si trovino nei monumenti più antichi della sarda legislazione: anzi è da presumere, che stante la deferenza che si aveva un tempo alle abitudini del popolo, i nostri legislatori non facessero che inserire tra le leggi scritte ciò che già esisteva nel diritto consuetudinario. Dubito però – concludeva Tuveri – che il barracellato propriamente detto sia di molto anteriore alla metà del secolo decimo settimo[21].

 

Né era senza significato che l’aspro dibattito sul destino delle istituzioni barracellari finisse per intrecciarsi con quella singolare controversia politico-giuridica che riguardava la salvaguardia delle norme con cui nel 1848 erano state escluse dall’abrogazione del codice feliciano le disposizioni sulle maquizie e sulle tenture, risparmiate dalla «saviezza dei legislatori» fino al varo di una nuova organica legislazione agraria[22]. Ma, in realtà, era stata l’autorevole e fortunata Storia di Sardegna di Giuseppe Manno, apparsa a Torino tra il 1825 e il 1827, ad accreditare sul piano storiografico non solo un’acuta ricostruzione in chiave patriottica delle origini e dello sviluppo del barracellato nell’isola, ma anche la singolare tesi (che in verità circolava già negli ultimi decenni del Settecento)[23] della spiccata natura assicurativa e della precoce modernità giuridico-economica delle istituzioni barracellari.

 

Quella parte della militare sorveglianza che tende a guarentire l’interiore tranquillità dello stato [...] esercitavasi in Sardegna – affermava Manno – dai così detti giurati delle curie per quanto ragguardava ai malefizi che offendono le persone; e dalle bande conosciute nell’isola col nome di compagnie di barracelli per quanto dipendeva dai delitti contro la privata proprietà. Queste compagnie, cognite già fra noi nel tempo dei giudicati – spiegava ai lettori subalpini ed europei il grande storico sardo – furono stabilite in ciaschedun villaggio per particolare accordo coi comuni; dal quale derivava in quelle bande l’obbligo di ricompensare di qualunque danno sopportato nelle proprietà quei popolani che di buon grado si volessero giovare della loro opera; e ciò mediante una retribuzione di cui era determinata dalle convenzioni la quantità, come lo era il valsente delle indennità. Sentivano dunque quelle compagnie il bisogno di affrancarsi dall’obbligo di rifare gli altrui danni impedendoli. Ed in tal modo davasi in Sardegna in tempi assai da noi discosti l’esempio di quelle utili società di assicurazione le quali, stabilite primieramente per la salvezza delle spedizioni di commercio, pullularono poscia in Europa ai nostri dì in tanti altri rispetti. Dissimili in ciò solamente dalla società dei custodi delle nostre proprietà – puntualizzava Manno – che molte di quelle sono ciecamente governate dalla ventura, [mentre] questa si appoggia nelle opere concordi e fruttifere degli stessi soci[24].

 

Nello stesso periodo sia l’appassionata Histoire de Sardaigne di Jean-François Mimaut, sia il solido Voyage di Alberto La Marmora contribuivano a far conoscere all’opinione pubblica europea la singolare esperienza delle compagnie barracellari segnalandone le molteplici peculiarità e sottolineandone il caratteristico impegno al risarcimento dei furti e dei danni che sembrava accomunarle alle moderne compagnie d’assicurazione.

 

Cette garde, qu’on appelait la barracelleria – osservava l’ex console francese a Cagliari – était composée des propriétaires et cultivateurs des villages, et formait une compagnie par canton. [...] Au moyen d’une faible rétribution, proportionnée à la valeur des biens, que chaque cultivateur payait aux barracelli [...], ces officiers se rendaient responsables de tous les dommages, de toutes les pertes que pouvaient éprouver les souscripteurs. Leur premier soin était de faire bonne garde, et d’exercer une active surveillance, assistés des hommes qu’ils commandaient, et qui eux-mêmes y étaient intéressés. [...] Sans attacher à la barracelleria la même importance que le savant magistrat sarde [il riferimento era all’entusiastico elogio che il giudice Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli aveva dedicato agli antichi corpi barracellari nel suo commento alla Carta de Logu apparso circa vent’anni prima][25], il serait peut-être permis – azzardava Mimaut – d’y trouver la première pensée des compagnies d’assurance[26].

 

Inoltre l’ex console francese a Cagliari non mancava di sottolineare l’importanza dell’originario lascito giuridico che la Carta de Logu e la normativa barracellare avevano ricevuto dalle

 

dispositions du code rural de Mariano ayant pour objet de mettres les vergers et les récoltes à l’abri des voleurs et de l’avidité des animaux [...]. C’est à lui – affermava Mimaut – qu’est due l’idée première de l’établissement d’une autorité chargée spécialement de la surveillance et de la conservation des productions de la terre [...]. Cette création des gardes de récoltes [...] donna lieu, plus tard, sous l’administration d’un vice-roi espagnol, à l’établissement d’une véritable garde nationale champêtre[27].

 

Gli faceva eco di lì a poco Alberto La Marmora con la sua interessante descrizione delle compagnie barracellari e del contesto sociale e ambientale che ne aveva favorito lo sviluppo:

 

Le barrancellat [...] date en Sardaigne du temps du gouvernement espagnol; modifié, étendu, aboli, et rétabli à maintes reprises, il a survécu à toutes ces variations. On désigne, sous le nom de barrancellat [...], une compagnie d’assurance armée, dont l’objet est non seulement de préserver les campagnes des dégats et des vols de toute espèce, mais aussi d’assurer une indemnité aux proprietaires, dans le cas où les coupables ne pourraient être arretés [...]. Une telle institution – considerava acutamente l’ufficiale dell’esercito sabaudo – qui peut-être ne serait pas deplacée dans les plusieurs contrées les plus civilisées de l’Europe, est d’autant plus utile en Sardaigne que les champs, ainsi que les bestiaux, y sont en quelque sorte abandonnés au hasard, et que la distance qui sépare les territoires cultivés et les villages, ainsi que l’éloignement des abitations entre elles, ne permettent pas aux habitans d’avoir constamment l’œil sur leurs propriétés[28].

 

Successivamente, nel 1844, fu ancora Giuseppe Manno, ormai reggente di toga nel Supremo Consiglio di Sardegna a Torino, a richiamare l’attenzione di un pubblico specialistico di storici e operatori del diritto – com’erano i lettori dell’autorevole «Revue de droit français et étranger» – sulla saggezza e finezza giuridica dell’antica legislazione sarda, all’interno della quale rimarcava in particolare la sorprendente modernità degli statuti

 

des anciennes compagnies d’assurance contre le vols et les dommages, qui existent ancore aujourd’hui sous le nom de compagnie di barrancelli. Propagées aujourd’hui sous tant de rapports, elles méritent bien – avvertiva però l’autorevole storico – qu’on en étude les premières ébauches dans les anciennes lois des peuples[29].

 

Il secondo interessante momento della tradizione di studi sulle origini del barracellato si colloca tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento e coincide non solo con la svolta della legislazione speciale per l’isola, ma anche con l’aprirsi di quella felice stagione d’intensa riflessione storiografica sugli ordinamenti della Sardegna medievale e moderna che accompagnò la nascita della scuola storico-giuridica italiana. Appartengono a questo periodo sia il contributo monografico sul barracellato pubblicato da Natale Angioi nel 1909, sia i fondamentali lavori di Enrico Besta, di Arrigo Solmi, di Ugo Guido Mondolfo, e più tardi di Antonio Era, sulla Carta de Logu e sul diritto sardo nel Medioevo, sul feudalesimo e sulla storia delle istituzioni agrarie dell’isola[30]. Avremo modo di ritornare sull’importante contributo della scuola storico-giuridica, ma intanto occorre segnalare che nello stesso periodo appaiono anche gli studi linguistici di Pier Enea Guarnerio e di Max Leopold Wagner, i cui apporti scientifici sono ancora essenziali per comprendere il lessico, la cultura e gli stessi ordinamenti giuridici della società agro-pastorale[31].

Il terzo momento significativo si delinea negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, nel clima autonomistico alimentato dai progetti di rinascita dell’isola e dalle aspettative di riforma suscitate dall’inchiesta parlamentare sul banditismo. È in questo quadro che matura una rinnovata attenzione della storiografia per le peculiarità dell’isola nell’ambito della storia agraria italiana ed europea. A metà degli anni Sessanta compaiono il volume collettaneo di Saggi storici sull’agricoltura sarda e i primi volumi della collana «Testi e documenti per la storia della Questione sarda» all’interno della quale sono ripubblicati alcuni dei più significativi studi della scuola storico-giuridica sulla realtà agraria e sulle strutture feudali della Sardegna medievale e moderna[32]. Soltanto negli anni Settanta e Ottanta emerge però quella particolare sensibilità per la storia della società rurale che favorì l’avvio di nuovi studi e di una sistematica ricognizione delle relative fonti archivistiche. È in questa linea di ricerca che si colloca l’efficace profilo storico del barracellato tracciato da Giovanni Todde all’inizio degli anni Ottanta: un contributo prezioso che avvalendosi di un’interessante documentazione archivistica mette bene a fuoco i compiti e le caratteristiche delle compagnie barracellari alla fine del Seicento e ripercorre le alterne vicende dell’istituto nell’età moderna e contemporanea[33].

Ma la storia delle compagnie barracellari resta ai margini delle ricerche di questi anni. Sicché il bilancio delle specifiche acquisizioni relative al tema, messo a confronto con gli importanti contributi offerti per la storia di altre istituzioni e per gli studi di storia del diritto della Sardegna medievale e moderna, appare limitato: le nostre conoscenze sulle intricate e complesse vicende che hanno portato all’affermazione delle compagnie barracellari nella realtà rurale della Sardegna spagnola e sabauda sono ancora estremamente frammentate e complessivamente insoddisfacenti[34].

 

2. – Il problema delle origini del barracellato

 

Cavallo di battaglia della storiografia giuridica otto-novecentesca, la ricerca delle origini e dei precedenti storici degli ordinamenti del cosiddetto diritto intermedio ha segnato profondamente lo sviluppo degli studi sulle istituzioni della Sardegna medievale e moderna[35]. Non deve meravigliare dunque che anche le ricerche sulle origini del barracellato abbiano risentito a lungo dell’impostazione culturale (e metodologica) della scuola storico-giuridica, coerentemente impegnata a comparare normative e a ricercare nessi di causalità tra istituzioni di epoche diverse più che a verificare le funzioni da esse concretamente svolte nelle specifiche realtà storiche. Così, prendendo le mosse dalla fisionomia che il barracellato aveva assunto nella Sardegna dell’Ottocento, la storiografia d’impianto positivistico si è affannata a ricostruire le linee di continuità che sul piano giuridico-formale potevano ricondurre le origini delle compagnie barracellari agli antichi ordinamenti della Sardegna pre-aragonese.

Il saggio di Natale Angioi è il frutto più contraddittorio e insieme più significativo di questo filone di studi. Nato come tesi di laurea («È il lavoro di un principiante», avvertiva nella sua graffiante recensione lo storico Ugo Guido Mondolfo), il saggio era suddiviso in tre parti: la prima era dedicata alla storia dell’istituto, la seconda alla legislazione vigente e la terza alla diffusione del servizio barracellare nella Sardegna del primo Novecento. Si trattava, in effetti, di tre parti qualitativamente assai disomogenee, tra le quali, mentre la «parte giuridica», come sottolineava Mondolfo, era certamente «la migliore», quella «storica» era invece la più debole[36]. In essa l’autore, dopo alcune considerazioni sull’«etimologia della parola barracello», si soffermava a illustrare le ipotesi affacciate da «vari scrittori» sui precedenti giuridico-istituzionali delle guardie barracellari.

Certo, Angioi non mancava di prendere le distanze dalle tesi che gli apparivano più ardite, come quelle che indicavano i «precedenti storici» dei barracelli nei «vari agenti di polizia» dell’età romana o nel principio della responsabilità collettiva vigente presso i Franchi[37]; ma non rinunciava ad aderire, seppur problematicamente, alle posizioni di chi ricollegava la figura del barracello a quelle degli jurados e dei padrargios della Carta arborense. Così, dopo aver attentamente confrontato attraverso i procedimenti tipici della cultura giuridico-positivistica le disposizioni degli Statuti sassaresi, del Codice rurale di Mariano IV e della Carta de Logu di Eleonora, Angioi non esitava a presentare le affinità di carattere normativo come la dimostrazione della discendenza dei moderni barracelli dagli «ufficiali di polizia» dell’età giudicale: «Mi pare pertanto di poter razionalmente concludere – dichiarava – che questi giurati (cioè gli jurados in genere e i padrargios in specie) sono all’evidenza i predecessori immediati dei nostri barracelli»[38].

Di qui il severo giudizio di Mondolfo, secondo cui

 

la ricerca intorno ai precedenti storici del barracellato sarebbe stata più proficua [...], se l’autore avesse chiarito da principio la natura giuridica della istituzione, quale era prima della legge del 1853 [...], e prima anche del 1799 [...]. Ma le ricerche dell’autore in questa parte – osservava – sono deficientissime[39].

 

E tuttavia il saggio, al di là del fragile impianto scientifico, offriva una preziosa sintesi degli studi compiuti fino ad allora; sicché per molti decenni e fino a tempi relativamente recenti – nel ristagno delle ricerche e nell’assenza di altri contributi monografici – il lavoro di Angioi ha costituito il testo di riferimento per chiunque intendesse documentarsi sulla storia del barracellato e sulle sue trasformazioni ottonovecentesche[40].

Ma sulle origini dell’istituto nella Sardegna moderna le tesi di Angioi erano certamente debolissime, appiattivano le peculiarità dei diversi momenti storici e soprattutto accreditavano alcuni luoghi comuni, come per esempio quello che faceva risalire alla metà del Seicento la prima attestazione dell’esistenza di compagnie barracellari nell’isola. Il riferimento consueto era alle Dissertationes quotidianae del giurista Pietro Quesada Pilo, pubblicate a Napoli nel 1662, nelle quali figurava un esplicito richiamo alle regole che presiedevano al funzionamento dell’istituto, e che, seppure in assenza di altre testimonianze documentarie, facevano datare a quell’epoca la nascita del barracellato[41]. In realtà, come era stato già rilevato da Vittorio Angius e come fu poi ulteriormente documentato da Enrico Costa e Antonio Era, l’esistenza di compagnie barracellari in Sardegna risulta attestata fin dalla fine del Cinquecento.

Certo nelle fonti cinquecentesche il termine «barracello» designava realtà e funzioni assai differenti, il cui comune denominatore era costituito dall’idea di una squadra di guardie armate con compiti di polizia e di tutela dell’ordine pubblico. In quest’accezione, il termine ricorreva già a partire dalla seconda metà del XVI secolo. Per esempio nelle corti presiedute dal viceré Coloma nel 1572-74, il rappresentante della città di Sassari chiedeva che in tutto il Regno fossero istituiti

 

barincellos eo iusticia de campanya ab las iurisdictions, poders, et altres com a Vostre Senyoria apparra convenir per que aquells pugan y degan [perseguir] lladres i malfactors i bandejats que van per la campanya [...] y los salaris de dits barinjellos que se le [pague de] la suma del servei del Parlament[42].

 

La richiesta fu respinta («No te’ lloch per hara lo supplicat», decretava il viceré), ma alla base di questa bocciatura non c’era soltanto la preoccupazione per le notevoli spese che si proponeva fossero poste a carico del donativo, ma anche l’apprensione del viceré per l’evidente rischio rappresentato dalla costituzione di nuove milizie che non sarebbe stato facile sottrarre al controllo dei feudatari.

L’apparizione del termine «barracello» risulta dunque legata, almeno inizialmente, al duro contenzioso tra l’autorità regia e i feudatari intorno alla possibilità di reclutare milizie autonome e formare nuovi corpi armati. Del resto era ancora viva l’eco del secco rifiuto che era stato opposto dal viceré de Madrigal nel Parlamento precedente (1564) alla richiesta, che per l’appunto era stata avanzata dallo Stamento militare, di abrogare la prammatica regia che proibiva ai baroni di assoldare compagnie armate[43]. Non è un caso, però, che solo quattro anni prima della riunione del Parlamento Coloma, nell’agosto del 1570, un’analoga richiesta fosse stata accolta invece per alcuni territori delle incontrade reali, in cui naturalmente non si poneva il problema di una concorrenza con la giurisdizione baronale. La proposta era stata formulata dallo spagnolo Beltran de Guevara che, ormai residente in Sardegna da alcuni anni, si dichiarava colpito dai numerosi abusi che erano perpetrati dagli ufficiali delle incontrade e dalla massiccia presenza che il banditismo faceva registrare nelle campagne dell’isola:

 

Seria muy util y necessario en este Reyno – sosteneva de Guevara – uno que tuviesse cargo de capitan y barrachel de campanya, con el qual cargo [...] dentro de breves anyos se poneria mucho sossiego y quietud en el Reyno y se quietarian muchas ocasiones de insultos y robos que en el se hazen.

 

La proposta, ottenuto il parere favorevole dei giudici della Reale Udienza, fu accolta da Filippo II che affidò allo stesso de Guevara l’incarico di «capitan y barrachel de campanya»[44].

Tuttavia, a parte l’interesse che il documento riveste per l’uso del termine barrachel, il provvedimento non sembra discostarsi dal modello delle compagnie armate, costituite da soldati di mestiere e poste sotto il comando di capitani di ventura, periodicamente assoldate dai viceré‚ ed efficacemente descritte da Gabriella Olla Repetto come uno dei tipici strumenti di lotta contro la criminalità in uso nella Sardegna spagnola[45].

A questo punto occorre però distinguere: è evidente, infatti, che tanto in questo caso come in quello della petizione respinta nel Parlamento Coloma, i termini barrachel e barincellos designano realtà assai diverse da quella che invece troviamo documentata, circa un ventennio più tardi, nei tredici capitoli della convenzione per la barracelleria stipulata, il 25 giugno 1597, dai consiglieri civici di Sassari con il «suttavegueri» Gaspar Brasino Restarellu e con l’«algozinu reale» Hieroni Mansanedda (rispettivamente un giudice e una guardia regia),

 

pro causa et rexone – si legge nel proemio dell’atto – de estirpare sos furtos, dannos et ruinas si faguen in totale destrusione dessas vingias, jardinos, ortos et atteras possesiones de custa dicta cittade. A questo fine – si dice – hat parfidu [è sembrato] multu conveniente, antis necessariu, eliger et ponner barincellos[46].

 

La convenzione, come imponevano i regolamenti municipali per le decisioni di particolare rilevanza, era stata precedentemente approvata dal Consiglio maggiore della città. Con essa i due capitani dei barracelli si impegnavano a custodire e a proteggere per un anno «de die et de nocte, totu sas vingias, jardinos, ortos, cannedos, junc[argios], cungiados et domos et pinnetas de dictas possessiones de sos cittadinos et habitadores de custa cittade»; e contemporaneamente si obbligavano a risarcire ai proprietari, dietro semplice denuncia e giuramento, tutti i danni, «in cale si siat modu sian istados fattos», a eccezione di quelli derivanti da incendio e da furto di cavalli. Lo stipendio spettante ai barracelli sarebbe stato pagato mensilmente previa decurtazione delle somme necessarie per i risarcimenti. I due capitani inoltre promettevano di sorvegliare il lavoro e la condotta dei salariati agricoli, di impedire che il bestiame domito sconfinasse nei campi coltivati e in generale di assicurare un continuo servizio di vigilanza e guardiania nell’agro.

Dal canto loro i consiglieri civici, considerando «multu justu et degudu et conforme a rexone»[47] che i principali beneficiari del servizio di vigilanza, i «particulares, padronos et señores de sas tales possesiones», si facessero carico dell’intero salario concordato in 115 lire mensili, s’impegnavano a ripartirne l’onere tra i proprietari e a raccogliere (e a pagare agli stessi barracelli) le somme dovute. Oltre ai due capitani la compagnia sarebbe stata composta da sedici «homines de bona vida et fama», i cui nominativi dovevano essere preventivamente approvati dai consiglieri, che comunque si riservavano il diritto di licenziarli in ogni momento e a loro discrezione.

Fin qui ciò che risulta dai capitoli della convenzione. Ben poco sappiamo però del concreto funzionamento dell’istituto nel contesto locale, che proprio in quegli anni (e forse non è un caso) attraversava una fase di straordinaria espansione demografica e produttiva[48]. Le gravi lacune della documentazione archivistica relative alla vita amministrativa della municipalità sassarese in età moderna non consentono di ricostruire organicamente le vicende dell’istituto: esse non impediscono tuttavia di aprire qualche spiraglio sul ruolo e sull’attività di quella compagnia barracellare. Dai pochi elementi che si ricavano risulta che l’operatività dei barracelli si limitò in quell’anno ai soli mesi estivi, concentrandosi dunque sul momento dei raccolti e giungendo fino al tempo della vendemmia. L’incarico terminava alla fine di settembre: «S’est notefficadu a Gaspare Brasinu, barizellu – si legge in una nota del 3 ottobre – qui no si tengiat pius pro tale et dae hoi en avante no le det currer pius salariu de barizellu»[49].

Le poche annotazioni rintracciate sul funzionamento dell’istituto (riferite anch’esse ai soli mesi estivi) non consentono però di delineare che un quadro ipotetico ed estremamente parziale. Abbiamo, per esempio, la registrazione di un sopralluogo svoltosi in seguito a un furto in un frutteto con la stima dei danni attribuita a tre periti (revisors), scelti e nominati con l’assenso dei barracelli e della parte lesa[50]. Appare chiaro, per gli aspetti non previsti dalla convenzione, il ricorso ai tradizionali meccanismi di apprezzamento dei danni regolati dalla consuetudine e dalla normativa locale[51].

Per molti versi simile a quello di Sassari è il caso di Alghero, che è stato messo in luce alla fine degli anni Trenta del Novecento dall’intenso lavoro di scavo delle fonti normative municipali condotto da Antonio Era[52]. Nella città catalana la presenza di una compagnia di barracelli incaricati di assicurare la ronda nell’agro urbano, di proteggere i beni agricoli e risarcire ai proprietari i danni dei reati rimasti impuniti, risulta documentata fin dal 1609. In quell’anno furono approvati, infatti, dal Consiglio generale della municipalità algherese i capitoli di una convenzione per l’istituzione di una compagnia di «barranchellos de campaña», composta da otto uomini, con il compito di perlustrare, di giorno e di notte, il territorio della città e in particolare «qualsevol inyes, jardi y orts»; d’individuare e consegnare al veghiere (cioè al giudice municipale) i ladri e «qualsevol persones que trobaran prenint fruita y raims [uva]»; e, infine, di rifondere i danni ai proprietari per i furti o gli atti vandalici i cui autori fossero rimasti ignoti.

Non è possibile proporre una minuziosa comparazione fra i testi normativi di Sassari e di Alghero. È però necessario tener presente che i tratti essenziali che emergono dal breve (e incompleto) documento algherese riconducono al modello di polizia campestre già esaminato per Sassari.

Sappiamo, inoltre, che analoghe convenzioni barracellari, purtroppo non pervenuteci, furono stipulate ad Alghero nel 1618, 1619, 1648 e 1652. Infine, da alcune delibere assunte dai Consigli generali della municipalità algherese possiamo evincere quale fosse il principale oggetto della custodia e dell’attività di vigilanza affidata alla compagnia barracellare. La stessa determinazione della durata del servizio non lascia dubbi: i barracelli, infatti, erano chiamati a operare dalla tarda primavera fino al periodo immediatamente successivo alla vendemmia, «fin portan lo vi en casa los vinyonols» (1618) o «des del primer de maig fins a encunyar lo vi» (1619)[53].

È dunque in qualche modo possibile delineare i principali aspetti che sembrano caratterizzare le compagnie barracellari comparse nelle due città regie tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII, individuandone questi tratti distintivi:

1) la predominanza dei quadri urbani come contesto di nascita dell’istituto barracellare nell’accezione di polizia campestre, legata probabilmente sia ai particolari poteri normativi che a quell’epoca erano ancora riconosciuti ad alcune municipalità dell’isola, sia all’intensa presenza, nell’agro delle città principali, di colture specializzate e di una società agricola evoluta che chiedeva una tutela delle proprietà più articolata ed efficace di quella fino ad allora assicurata dagli ordinamenti tradizionali;

2) la netta caratterizzazione delle funzioni dei barracelli, sul piano della prevenzione e della repressione dei reati connessi al danneggiamento del patrimonio rurale e, in primo luogo, del furto e dello sconfinamento del bestiame;

3) il carattere sussidiario e integrativo dei compiti affidati alla compagnia barracellare rispetto ai compiti tradizionalmente svolti dalle altre figure istituzionali preposte a funzioni di polizia rurale: non a caso, accanto ai barracelli, continuavano a operare giurados, padrargios, vidazzonargios;

4) la precisa connessione tra le prestazioni richieste alla compagnia barracellare e l’interesse dei beneficiari, chiamati a sostenerne le spese;

5) il ruolo centrale dell’istituzione municipale, che interviene direttamente non solo come committente del servizio ma anche come ente regolatore delle attività svolte dai barracelli e come garante delle reciproche obbligazioni tra gli stessi barracelli e i proprietari dei beni agricoli affidati alla loro tutela. E qui incise probabilmente quella particolare forma di responsabilità e garanzia collettiva per i danni patrimoniali che alcuni capitoli degli Statuti sassaresi ponevano specificatamente a carico del Comune:

 

Nei capitoli I, 17 e I, 108 dello statuto di Sassari – osservava Ugo Guido Mondolfo – troviamo il germe (anzi qualcosa più che il germe) del barracellato [...]. I jurati villarum [dello Statuto di Sassari] e sos jurados dessas villas [della legislazione di Eleonora d’Arborea], nei loro obblighi e nelle loro funzioni relative all’arresto dei colpevoli di furti, specialmente di furti campestri, sono poi predecessori diretti dei barracelli, e ancor più direttamente questi si possono considerare, quanto alle loro funzioni, figli o trasformazioni posteriori del Maggiore o dei Giurati di Prato che Mariano IV d’Arborea aveva già introdotto sin dalla metà circa del sec. XIV nel suo codice rurale, in capitoli che passarono poi nella carta di sua figlia Eleonora[54].

 

Alla luce di questi elementi vale la pena di riesaminare le considerazioni del Quesada Pilo, più volte richiamate nella letteratura storiografica sui barracelli. Per l’insigne giurista sassarese il richiamo all’istituto del barracellato costituiva soltanto uno dei molteplici argomenti di cui si serviva per dipanare l’aggrovigliato tema della sua XXII dissertazione dedicata alla causa che nel 1657 aveva opposto il sindaco di Sassari e il conte di San Giorgio, cavaliere dell’ordine di San Giacomo e di Calatrava, che pretendeva di essere esentato dalla gabella di esportazione del formaggio dal Regno[55]. Quesada Pilo ricorreva all’esempio della ripartizione delle spese del barracellato, da cui non erano esclusi né i cavalieri degli ordini militari, né gli altri cosiddetti «esenti», per sostenere l’inapplicabilità dell’immunità invocata dal conte di San Giorgio, anche nel caso esaminato.

Appare chiaro che il giurista sassarese faceva riferimento a una realtà ormai conosciuta e ben radicata: infatti, non solo richiamava il barracellato come istituto già regolato «iuxta consuetudinem huius Regni», ma poteva anche riferirsi con una certa sicurezza alle norme del suo funzionamento puntualizzandone le finalità più ampie non solo a protezione dei beni dei singoli, ma «in communem utilitatem». Resta da chiedersi però in quale periodo il barracellato si sia esteso al di là delle realtà periurbane di Sassari e di Alghero e abbia messo radici nella realtà della Sardegna feudale e agro-pastorale.

 

3. – La contrastata affermazione del barracellato nelle terre infeudate

 

Le tracce più remote della presenza di compagnie barracellari all’interno di comunità infeudate sono individuate alla fine degli anni Trenta del Seicento e riguardano la costituzione di squadre di «barancheles de campaña» in una decina di villaggi del Capo settentrionale del Regno. L’area interessata è quella dei quattro feudi sardi della contea di Oliva, appartenenti ai Borja, duchi di Gandía, residenti in Spagna (uno dei più vasti complessi feudali dell’isola, che comprendeva le incontrade dell’Anglona, di Osilo, del Monteacuto e del Marghine), dove il reggitore del feudo Geronymo de Sossa si affannava, nel 1639, a potenziare l’esperienza delle compagnie barracellari avviata pochi anni prima in alcune comunità, con il proposito di estenderla a tutti i villaggi sottoposti alla sua giurisdizione[56]. Ma il progetto era apertamente avversato da un influente personaggio della nobiltà rurale locale, Salvador Sini del villaggio di Pattada, solerte vassallo e uomo di fiducia dei Borja, che in aperta polemica con il reggitore non esitò a riferire al feudatario che quelle prime esperienze barracellari si erano rivelate un inutile spreco di risorse e una nuova sorgente di pericolosi maneggi. Una sua lettera del 1642 al duca Francisco Diego de Borja ci offre una fugace ma preziosa testimonianza del contrastato processo di radicamento delle compagnie barracellari nella Sardegna agro-pastorale e feudale. Secondo Sini, infatti, al contrario di ciò che il reggitore aveva voluto far credere al feudatario, i risultati ottenuti dai «barancheles de campaña» e i frutti della loro attività nei due o tre anni in cui erano stati sperimentati in sette od otto villaggi del feudo erano stati quantomeno deludenti: non a caso, mentre la loro istituzione era difesa soltanto da quei pochi – i barracelli e qualche indennizzato – che vi avevano tratto un diretto guadagno, per gli altri vassalli l’esperienza si era dimostrata così negativa che nessuno aveva neanche lontanamente pensato d’istituirli in altre zone del Regno, e anzi le stesse comunità che per qualche anno vi avevano fatto ricorso se ne erano presto liberate, con l’unica eccezione del villaggio di Osilo[57].

Ma al di là di questo incerto avvio, l’esperienza del barracellato riprese a diffondersi nei decenni successivi, attecchendo soprattutto nel settentrione dell’isola. Il consolidamento delle istituzioni barracellari nelle comunità agro-pastorali coincise dunque con quella lunga fase di recrudescenza e «soprassalto» della criminalità rurale che accompagnò gli anni Quaranta del Seicento, quando iniziarono a farsi sentire i contraccolpi sociali del pesante carico fiscale e dell’emorragia di risorse cui il Regno fu sottoposto nel corso della guerra dei trent’anni: tanto più che nel 1637 la massiccia distribuzione di fucili e munizioni alle popolazioni locali in occasione dello sbarco francese sulle coste occidentali dell’isola aveva notevolmente aumentato la quantità di armi da fuoco in circolazione, rendendo ancor più aggressive le bande criminali[58].

Successivamente, nel corso degli anni Cinquanta, il ribellismo nobiliare, da un lato, e il dissesto sociale provocato dalla grande peste mediterranea, dall’altro, alimentarono una nuova ondata di banditismo e di criminalità rurale[59]. Il marchese di Castel Rodrigo, viceré di Sardegna dal 1657 al 1662, dipingeva a tinte fosche la situazione dell’ordine pubblico nelle campagne al tempo del suo arrivo nel Regno: «las muertes eran sin numero – scriveva al sovrano – y los hurtos fuera de toda credulidad». In particolare le dimensioni dell’abigeato erano inimmaginabili, «pues como en otras partes se suele tomar un carnero, aqui se trataba de millares, y algunas veces de tres y quatro mil obejas, quinientas vacas y cosa de este genero». Non stavano tranquilli gli agricoltori, spesso depredati di grandi partite di grano o dei raccolti delle vigne. I malfattori colpivano ovunque: «reducianse con un encendio en çenisa posesiones y casas, matabanse rebaños de ganado por mera invidia o vengança, y hubo villa en la qual se mataron en un hora veinte y tres personas»[60].

S’inquadra in questo contesto l’energico programma di ristabilimento dell’ordine nelle campagne varato alla fine degli anni Cinquanta dal marchese di Castel Rodrigo, che di fronte alla gravità della situazione nel Capo di Sassari non esitò a imporre lo scioglimento delle barracellerie di villaggio e la loro sostituzione con «soldados de campaña» pagati dalle stesse comunità, ma tenuti a render conto del loro operato direttamente all’autorità viceregia[61]. Il provvedimento nasceva dalla stessa esperienza delle barracellerie fino ad allora attivate nell’ambito dei singoli villaggi: la riflessione critica da cui derivava costituiva contemporaneamente una delle prime testimonianze di parte viceregia su quel sotterraneo processo di diffusione del barracellato nei territori feudali che era già in corso da oltre un ventennio. In alcune zone della Sardegna settentrionale, riferiva il viceré,

 

de muchos años a esta parte [...] havianse juntadose las comunidades y instituido un genero de guardas que llamaban barrancheles, a los quales entregaban y registraban sus haciendas, como sembrados, viñas, ganados domesticos y en algunas partes los rudes, y dandole un tanto de trigo por cada jugo de la labrança, tanto mosto a la vendimia [...] se obligaban a la guardia de todo su distrito y a la refacción de los daños[62].

 

Il viceré spiegava però che quell’esperienza – che era stata avviata, riferiva, molti anni prima del suo arrivo – presentava ormai alcuni gravi difetti: capitava per esempio che i barracelli di un villaggio rubassero nel territorio del villaggio confinante, che finissero per spararsi gli uni con gli altri, e soprattutto che si rifiutassero di risarcire i danni. Ciononostante, anche le comunità che per qualche anno avevano deciso di fare a meno della barracelleria si erano dovute ben presto convincere della necessità di ristabilirla per evitare il maggior danno sperimentato dal restare senz’alcuna difesa.

Prendendo spunto da queste esperienze il viceré aveva suddiviso le incontrade del Capo di Sassari in «capitanie», calcolando per ciascuna un contingente di truppe proporzionato alla popolazione e al territorio; ai capitani e ai soldati chiamati a comporre le nuove milizie aveva attribuito ampi poteri e soprattutto il rango di «ministros de campaña»; le contribuzioni versate dai vassalli per il nuovo servizio non avrebbero dovuto superare quelle riconosciute ai precedenti barracelli, e i risarcimenti dei danni sarebbero stati pagati con priorità rispetto agli stipendi dei «soldados de campaña». Infine, i capitani sarebbero stati scelti direttamente dal viceré all’interno di terne di nominativi appositamente fornite da ciascun distretto.

Ma il provvedimento viceregio, benché concertato con la Reale Udienza, conteneva diversi punti di dubbia legittimità: esso, infatti, forzando gli ordinamenti vigenti (e molti equilibri consolidati), intaccava vistosamente le tradizionali autonomie feudali ed emarginava le comunità dal controllo del territorio. Non devono, quindi, stupire le immediate proteste con cui i baroni più direttamente interessati chiesero l’intervento del sovrano e la revoca del provvedimento. Le prime avvisaglie del conflitto si ebbero nell’autunno del 1660, quando il marchese di Lombay, il valenciano Francisco Carlos de Borja, erede in pectore del duca di Gandía e conte di Oliva, durante un suo lungo soggiorno nei feudi sardi della casata, indirizzò al sovrano un vibrante memoriale in cui riferiva di aver trovato i suoi vassalli «desconsolados» per le pesanti contribuzioni pretese dai «soldados de campaña» e denunciava le illegittime ingerenze del viceré nella sfera della giurisdizione baronale. Sarebbe stato ben più utile, secondo il Borja, che i provvedimenti viceregi si fossero allineati agli ordinamenti consolidati e avessero lasciato agli stessi vassalli di scegliere «las personas a proposito para la guardia de sus haciendas [...], pues a nadie importaba mas que a ellos el guardar sus frutos». E poiché un balzello così ingiusto non era mai stato adottato in nessuno dei regni della monarchia di Spagna, il marchese di Lombay, come amministratore del patrimonio della famiglia e procuratore generale del duca, non esitava a chiedere che i suoi feudi ne fossero totalmente esentati.

Ma in assenza di ulteriori informazioni il sovrano si era limitato a raccomandare di sospendere le nuove imposizioni, lasciando che le cose riprendessero il loro corso tradizionale[63]. E tuttavia, poiché il provvedimento rimaneva in vigore, il braccio di ferro tra i baroni e il viceré non tardò a trasformarsi in un ampio contenzioso che toccò il culmine nell’estate del 1661, quando alcuni feudatari particolarmente agguerriti e influenti – i marchesi di Orani, di Lombay e di Quirra e il conte di Monteleone, residenti in Spagna, e i conti di Sedilo e di Bonorva, residenti in Sardegna – presentarono alla corte di Madrid due nuovi memoriali in cui rivendicavano il rispetto delle prerogative baronali e invocavano la piena osservanza delle disposizioni della Carta de Logu[64].

Intorno alle istituzioni barracellari si apriva così un conflitto giurisdizionale destinato a riaccendersi, fino agli ultimi decenni del Seicento, tutte le volte che il governo viceregio avrebbe cercato d’inserirsi nel controllo dell’ordine pubblico nelle campagne e nella gestione dei corpi di polizia rurale nei feudi.

Il primo memoriale dei feudatari prendeva le mosse da una dettagliata ricostruzione del contesto normativo nel quale era maturato il provvedimento viceregio. I baroni sostenevano innanzitutto che la prevenzione e la repressione dei furti, sia del bestiame che di altri beni agricoli, erano già compiutamente disciplinate dallo ius municipale (cioè dalla Carta de Logu e dagli altri statuti territoriali), dalle regie prammatiche e dalle consuetudini locali, che stabilivano la presunzione di responsabilità per i pastori degli ovili vicini e il coinvolgimento dei ministri e dell’intera comunità per i reati rimasti impuniti. Ricordavano, inoltre, che circa dieci anni prima, il cardinal Trivulzio, viceré dal 1649 al 1651, accogliendo la richiesta dei villaggi di alcune incontrade reali, aveva concesso alle comunità a giurisdizione regia, previo parere favorevole della sala criminale della Reale Udienza, di costituire proprie compagnie barracellari, purché a loro spese. Ma anche i villaggi infeudati, secondo i baroni, erano soliti dotarsi di proprie compagnie barracellari, salva la preventiva autorizzazione del feudatario: esse però, a differenza dei «soldados de campaña», erano pagate con salari assai modici e soprattutto erano composte da abitanti del luogo (e loro vassalli), nominati e revocati dalle stesse comunità.

Così il memoriale offriva un’interessante (e rara) descrizione del modello di barracellato che iniziava a profilarsi negli anni Cinquanta del Seicento con il primo consolidamento delle barracellerie di villaggio nelle comunità agro-pastorali del Capo settentrionale del Regno. Secondo l’idilliaca (e forse un po’ nostalgica) definizione fornita dai feudatari, la compagnia barracellare era infatti

 

una quadrilla de diez o dotze hombres de buena vida y costumbres, a cuyo cargo estuviesse el correr la campaña, y prender los facinorosos que cometen hurtos en el ganado mayor y menor, o otros delictos, y entregarlos a las justicias ordinarias para que fuessen castigados conforme a derecho, y en caso de no prenderlos, pagassen los daños, que sucediessen en a quel parage, para lo qual davan fiansas idoneas, y por su ocupación se les señalava una porción de dinero que se depositava en poder del juez ordinario, y a fin del año se pagavan de este pósito los daños que havian sucedido a los particulares, y si sobrava se repartia entre los barracheles, y si faltava lo pagavan de sus proprios[65].

 

E tuttavia i delicati equilibri su cui si fondavano le esperienze barracellari maturate nei villaggi baronali erano stati già compromessi, secondo i feudatari, verso la metà degli anni Cinquanta, quando il viceré conte di Lemos (1653-57), di fronte all’imperversare della peste (e soprattutto di fronte alle resistenze oppostegli da una parte della nobiltà locale), aveva attribuito speciali poteri a diversi commissari, che «con absoluta mano obraban en todo a su alvedrio» nelle incontrade reali e baronali. Ne erano derivati gravissimi danni all’amministrazione della giustizia, che aveva iniziato a riprendersi, secondo i feudatari, soltanto nel 1657, quando il governo viceregio era provvisoriamente passato al presidente e capitano generale del Regno, Bernardino Matthias de Cervellón, che aveva messo fine agli abusi revocando i commissari e ordinando che l’amministrazione della giustizia e la custodia del bestiame fossero ricondotte «a la disposición de Carta de Logu, reales pragmáticas y costumbre antigua siempre observada». Sebbene informato di questi tormentati precedenti, il marchese di Castel Rodrigo non si era fatto scrupolo, sostenevano i feudatari, d’istituire «nuevos barracheles y capitanes de campaña», e di dar loro il potere di punire i delinquenti, senz’alcun rispetto «de las justicias ordinarias» e dei ministri baronali.

I baroni sottolineavano quindi l’esosità delle contribuzioni stabilite dal viceré e arrogantemente pretese dai suoi «soldados de campaña», che si presentavano ai vassalli come ufficiali regi[66]. A conti fatti, secondo i feudatari, l’ammontare complessivo «de las nuevas cargas» configurava un gettito di oltre duecentomila ducati: una vera «imposición universal», che soltanto il sovrano, con il consenso dei tre corpi privilegiati del Regno riuniti in Corti generali, avrebbe potuto istituire. Si rimarcava inoltre l’inefficienza dei «soldados de campaña», ridotti in realtà a squadre di pochi uomini tra i quali figuravano noti delinquenti arruolatisi gratuitamente in cambio del condono delle pene. Nel richiedere l’immediata revoca del provvedimento viceregio, i feudatari auspicavano che la lotta alla delinquenza rurale fosse ricondotta nell’alveo delle disposizioni della Carta de Logu e soprattutto restituita alle competenze dei ministri baronali e delle comunità locali. A questo aspetto era in particolare dedicato il secondo memoriale, che denunciava i poteri che il viceré si era arbitrariamente attribuito per condizionare i processi di competenza dei giudici feudali, ai quali aveva perfino vietato di concludere le cause criminali o di concedere la libertà ai carcerati senza la sua preventiva approvazione[67].

Per parte sua il marchese di Castel Rodrigo, mettendo in evidenza i risultati ottenuti dai suoi «soldados de campaña», sottolineava la diminuzione dei delitti, dei maneggi e delle «compaderias» dei baroni, delle protezioni accordate ai facinorosi e soprattutto delle «illegales composiciones y perdones» espressamente vietati dalla Carta de Logu e dalla normativa regia. Spiegava, inoltre, che dopo aver constatato che i malfattori consegnati ai giudici baronali erano regolarmente rimessi in libertà, aveva escogitato un meccanismo che gli consentiva di controllare gli esiti giudiziari dell’attività repressiva avviata dai suoi «soldados» con la consegna dei malfattori alle curie baronali: aveva infatti ordinato

 

a los capitanes de campaña, que a los reos, que ellos prendiessen hiciessen los procedimientos, y hechos los entregassen a la justicias ordinarias (pues con eso – spiegava – tomando yo cuenta cada tres meses, y visto las copias de los procedimientos, tendria forma como haçerles cargo)[68].

 

Di fronte alle furbizie dei feudatari non gli restava però che rivendicare il merito di aver profuso tutto il proprio impegno per alleggerire i sudditi

 

de las tiranias que algunos de los barones usan con ellos [...], baliendose del dominio no para serles padres o dueños, sino fierissimos lobos, que deboran a los buenos las asiendas y vidas, protegiendo, amparando y ocultando las bellaquerias de los ladrones[69].

 

Il viceré non esitava a segnalare al sovrano le connivenze e la torbida condotta del marchese di Lombay, che istigava i baroni a ribellarsi alle nuove disposizioni ma ospitava nella sua casa un pericoloso delinquente ricercato per gravi delitti nel Regno di Valencia ed estorceva ai suoi vassalli gravosi donativi promettendo in cambio l’abolizione dei «soldados de campaña» quando tutti sapevano che «el mayor numero de ladrones y de facinorosos» si concentrava proprio nei suoi feudi. Insomma, i lupi non vogliono i cani («Los lobos no quieren perros»), concludeva amaramente il viceré[70].

La controversia era diventata incandescente. Con la saldatura delle proteste dei feudatari residenti in Sardegna e di quelli residenti in Spagna il conflitto era rapidamente rimbalzato nel Supremo Consiglio d’Aragona: la posta in gioco andava ormai ben al di là dello specifico contrasto sull’istituzione dei «soldados de campaña», per investire i delicati rapporti tra l’assolutismo e le prerogative cetuali, tra i poteri viceregi e l’autonomia della giurisdizione feudale, tra le facoltà normative del sovrano e quel complesso di vincoli e di ordinamenti – «leyes, constituciones y fueros del Reyno» – di cui i baroni si facevano scudo per difendere le proprie prerogative. Così, su questa controversa materia anche il Consiglio d’Aragona si divise e deliberò a maggioranza.

Circa la legittimità del provvedimento, il Supremo Consiglio affermava che i viceré erano tenuti a governare le province «guardandoles las leyes y derechos sin faltar a la puntualidad de su observancia», ma nel merito sospendeva la valutazione, limitandosi a osservare che al di là delle loro proteste i feudatari non avevano addotto alcuna prova delle lamentate violazioni normative. E tuttavia, sul punto più delicato – l’ampiezza dei compiti assegnati ai «soldados de campaña» inviati nei territori infeudati – il verdetto non ammetteva dubbi. La sentenza era chiarissima: il viceré può certamente ricorrere a ministri di sua fiducia per catturare i delinquenti in tutti i territori del Regno, «pero no para que reciban información de qualquier delito en las tierras de barones». Occorreva perciò revocare i poteri inquisitori conferiti ai «soldados de campaña», e consentire ai baroni di esercitare integralmente, in piena libertà e autonomia, la loro giurisdizione all’interno del feudo. Al viceré toccava comunque il compito – faceva osservare il Consiglio – di perseguire per via giudiziaria quei feudatari che avessero mancato di punire i delinquenti o avessero abusato dei loro poteri «en perjuicio de la causa publica del Reyno». Il Consiglio si asteneva dunque dal suggerire l’abolizione delle nuove milizie viceregie, e poiché il successore del marchese di Castel Rodrigo era stato già designato proponeva di affrettarne l’insediamento nel Regno con l’idea che il contenzioso si sarebbe definitivamente sgonfiato[71].

Schierati su posizioni nettamente distinte da quelle della maggioranza dei consiglieri guidati dall’influente vicecancelliere Cristóbal Crespí de Valdaura, due autorevoli membri del consesso, il reggente catalano Bernardo Pons y Turell, conte de Robres, e il nobile sardo Giorgio di Castelví, consigliere di cappa e spada, rifacendosi alle principali rivendicazioni dei «titulos y barones del Reyno», non esitavano a censurare la condotta del marchese di Castel Rodrigo, condannando in blocco i suoi «soldados de campaña» e sottolineando apertamente il loro diverso parere con «voto singular»[72]. Anch’essi, come gli altri componenti del Consiglio, richiamavano il principio generale in base al quale i governatori e i viceré erano tenuti a governare le province «guardandoles sus leyes municipales, pramáticas y reales ordenes [...], sin que en esto pasen a ninguna variación»; ma diversamente dai loro colleghi sostenevano che il viceré non doveva, né poteva decidere, senza l’ordine del sovrano, un’innovazione così importante com’era quella dei «soldados de campaña»: l’esperienza aveva sempre insegnato quali gravi danni potevano derivare dal «querer alterar las leyes con que se goviernan las provincias».

Certo, il provvedimento non aveva carattere generale, ma pur riguardando soltanto il Capo di Sassari aveva finito per interessare, secondo i due consiglieri, «mas de las tres partes del Reyno». Inoltre, a sentire i feudatari, i risultati dell’esperienza erano stati fallimentari: nel villaggio di Ittiri, secondo il marchese di Lombay, i furti e i danni che si erano verificati da quando erano stati attivati i «soldados de campaña» avevano superato, nel solo primo anno, quelli registrati nei quattro anni precedenti. Nei villaggi del Monteacuto le denunce di «perdite» o furti di capi di bestiame avevano toccato cifre impressionanti: nei tre anni trascorsi dall’istituzione dei «soldados de campaña» risultavano scomparse – in base ai prospetti forniti dalla curia baronale – 1.375 vacche, 145 buoi, 190 vitelli, 154 maiali, 29 cavalli, 132 capre, 93 pecore, 7 asini e 4 alveari. E i «soldados» del marchese di Castel Rodrigo non avevano neppure risarcito i danni[73].

In assenza di dati sul periodo precedente era tuttavia impossibile confrontare le due esperienze per verificare la crescita o la diminuzione dei fenomeni criminali. Eppure il Monteacuto e gli altri feudi della Contea di Oliva erano tra le poche terre che potevano già vantare una loro, seppur modesta, tradizione barracellare. Ma al di là delle controverse valutazioni sulla maggiore o minore efficacia dei «soldados de campaña» rispetto alle preesistenti barracellerie di villaggio, i ragionamenti e le argomentazioni di carattere giuridico dei due consiglieri puntavano a dimostrare l’illegittimità dei barracelli viceregi e quindi la necessità di abolirli, «extinguiendolos totalmente», e riportando «las guardias [...] en la forma que antiguamente estaban». Così, le disposizioni della Carta de Logu erano evocate ancora una volta come scudo delle prerogative baronali e come ultimo argine da opporre allo strapotere viceregio:

 

no parece ser necessaria la introducción ni continuación destos barracheles [...], pues el Reyno – spiegavano i due consiglieri – tiene prevenido su modo de governarse en esto, en la forma que siempre se ha estilado, que es quando sucede algun hurto de ganado u otra especie de bienes en despoblado, no constando de delinquente [...], suele acerse pagar el daño a los pastores mas cercanos de donde sucedio, y en falta destos a la población mas vecina[74].

 

Ai due consiglieri appariva inoltre indispensabile che il provvedimento fosse revocato prima che s’insediasse il nuovo viceré. Ma la carta reale del 29 agosto 1661, rispecchiando il parere del Consiglio d’Aragona, non imponeva il ritiro del provvedimento: i «soldados de campaña» potevano, infatti, continuare a operare non solo nelle incontrade reali, ma anche, seppure con minori poteri (e senza introiti adeguati), nell’ambito delle comunità infeudate. E tuttavia al marchese di Castel Rodrigo era imposta una decisa retromarcia: gli era intimato, infatti, non solo di revocare i poteri conferiti ai «soldados de campaña» per controllare le giustizie feudali, ma anche di astenersi da qualunque interferenza sul libero svolgimento dei processi di competenza delle curie territoriali, fatta salva la possibilità di perseguire per via giudiziaria i baroni inadempienti nei casi previsti dalle normative[75].

In questo quadro non meraviglia che nel novembre del 1662, alla vigilia dell’avvicendamento viceregio, i marchesi di Lombay e di Orani ritornassero alla carica per chiedere alla corte di Madrid una perentoria riaffermazione delle disposizioni impartite nell’anno precedente. Così, anche il Consiglio d’Aragona, concordando sulla necessità di raccomandare il rigoroso rispetto delle giurisdizioni baronali, suggeriva di comunicare al nuovo viceré principe di Piombino «que todo lo que sea de haver puesto nueva contribución con los barrachelles se deve quitar y reformar desde luego»[76].

Insomma, la prova di forza ingaggiata dal marchese di Castel Rodrigo era stata definitivamente vinta dai feudatari. L’immissione di polizie viceregie nelle terre baronali era ormai diventata un’esperienza da rigettare. In realtà, sotto il fuoco di sbarramento delle obiezioni dei feudatari era caduta l’idea stessa di sostituire le barracellerie di villaggio con un corpo unico di milizie rurali dipendenti dal governo viceregio. Il principale punto di divergenza che l’aspra contesa aveva messo a nudo – la ripartizione delle competenze relative al controllo e alla sicurezza delle campagne – si sarebbe periodicamente riproposto ancora per molti decenni; ma dell’ipotesi di costituire un corpo di milizie viceregie che rimpiazzassero le barracellerie di villaggio non si sarebbe più parlato per oltre un secolo.

Negli anni immediatamente successivi ci fu però un curioso strascico amministrativo-contabile che aiuta a comprendere la compattezza delle reazioni con cui i baroni e le comunità infeudate avevano osteggiato i «soldados de campaña». Nel settembre del 1665, a quasi tre anni dalla fine di quella contrastata esperienza, la corte madrilena continuava, infatti, a richiedere un puntuale consuntivo del gettito che le comunità del Capo settentrionale erano tenute ad assicurare, in base alle disposizioni impartite dal marchese di Castel Rodrigo, «para la guarda de sus frutos». In realtà, un preciso rendiconto era stato già sollecitato con un biglietto regio del 23 dicembre 1664 indirizzato al principe di Piombino (allora viceré di Sardegna), a cui si ricordava che il suo predecessore aveva istituito, nel Capo di Sassari, «capitanes de campaña con soldados para guarda de los ganados y heredades, señalandoles sueldos que se aura de pagar de lo que contribuyessen las villas y lugares», contemporaneamente disponendo «que se formasse cuenta de lo que importava la contribución y gasto de dichos sueldos», e in particolare ordinando «que lo que avanzasse se incorporasse en la Real hazienda». La replica dell’amministrazione viceregia non si era fatta attendere: da un lato si faceva presente che le disposizioni del marchese di Castel Rodrigo prevedevano che «los tales capitanes y barracheles huviessen de gozar çierto sueldo de lo que contribuhirian dichas villas y ellos huviessen de pagar todos los daños que se causarian en dichos ganados y sembrados»; dall’altro si obiettava che i fondi erano stati in larga parte spesi, addirittura ancor prima che fossero concretamente incassati, quando il marchese di Camarassa, «biendo lo que estavan obligadas a pagar dichas villas segun lo pactado», aveva fatto calcolare le somme dovute «a los tales capitanes y soldados» e aveva ordinato di utilizzare il saldo presunto per comprare una partita di millecinquecento starelli di grano «que sirvieron para satisfacer en parte lo que havian emprestado» gli appaltatori dell’annona frumentaria di Cagliari «en socorro de los reales exercitos contra Portugal».

E tuttavia, dopo la prima stagione, l’afflusso delle contribuzioni per i «soldados de campaña» si era rapidamente inaridito, e alla renitenza dei villaggi si era ben presto aggiunto il definitivo abbandono delle riscossioni. L’esperimento finiva dunque in un groviglio di debiti, mentre una sfilza di contenziosi avrebbe impegnato ancora per molti anni l’amministrazione viceregia, i capitani e i soldati rimasti senza paga e alcune importanti comunità che continuavano a lamentare il mancato risarcimento dei danni.

 

4. – Il barracellato tra giurisdizione regia e giurisdizioni territoriali

 

La rapida liquidazione dei «soldados de campaña», all’indomani della partenza del marchese di Castel Rodrigo dal Regno, era peraltro il frutto di una congiuntura politica particolarmente favorevole alla feudalità isolana. Nel corso degli anni Cinquanta le tormentate vicende del Parlamento Lemos (1653-57) avevano gravemente logorato l’autorità della Corona. Il fronte parlamentare, che aveva cercato di forzare la mano al sovrano condizionando l’approvazione del contributo fiscale del Regno alla concessione dell’esclusività delle cariche pubbliche a favore dei sardi, aveva subito una pesante sconfitta: ma lo spirito di rivincita di una parte importante dei corpi privilegiati del Regno aveva posto le premesse per un ulteriore indebolimento del potere regio nell’isola. Durante l’energico governo del marchese di Castel Rodrigo, le principali fazioni della nobiltà locale erano passate al contrattacco, contestando l’autoritarismo del viceré e creando nuove difficoltà alle istituzioni della monarchia. Sicché i feudatari poterono approfittare dell’evidente debolezza dell’autorità viceregia per pretendere, insieme con l’abolizione dei «soldados de campaña», il pieno rispetto delle loro prerogative giurisdizionali; e poco più tardi il Parlamento Camarassa (1666-68), facendo ancora affidamento sulla debolezza della Corona, non esitò a richiedere la soppressione della sala criminale della Reale Udienza, un provvedimento radicale che avrebbe completamente affrancato le giustizie baronali dal controllo della giurisdizione regia[77].

Ma la favorevole congiuntura politica si chiuse rapidamente nel 1668 con il drammatico epilogo del Parlamento Camarassa e la sconfitta del partito nobiliare che aveva cavalcato le aspirazioni veteropattiste dei ceti privilegiati del Regno. La repressione dei principali esponenti della nobiltà ribelle, affidata all’inflessibile viceré duca di San Germano (1668-72), segnò una precisa inversione di tendenza negli indirizzi di governo dell’isola. Nel decennio successivo l’aristocrazia feudale, ormai costretta sulla difensiva, dovette registrare non solo la netta riduzione della sua forza contrattuale nei confronti del potere viceregio, ma anche la parallela crescita della capacità d’iniziativa politica delle oligarchie urbane, delle contrade reali e delle stesse comunità infeudate, che iniziavano a conquistare nuovi spazi di autonomia all’interno del robusto involucro delle prerogative baronali.

Non a caso il conflitto giurisdizionale che aveva alimentato la controversia sui «soldados de campaña» – il contrasto sulle interferenze del potere viceregio nella sfera del potere feudale – ritornò di attualità già nelle successive Corti generali del 1676-78, quando i tre bracci del Parlamento chiesero congiuntamente al sovrano di annullare alcuni pregoni del viceré marchese de los Vélez (1673-75) e di proteggere il libero esercizio delle giurisdizioni baronali. Anche in questa occasione l’impegno della Corona a garantire l’autonomia del feudo da eventuali prevaricazioni viceregie fu solennemente confermato. Il sovrano, infatti, seppur evitando il giudizio sui provvedimenti specifici, mostrava di voler accogliere la sostanza della richiesta parlamentare, formalmente riaffermando che nessun pregone viceregio poteva avere la forza di infrangere o eludere i privilegi baronali. Non si trattava però, in questo caso, di un’astratta dichiarazione di principio. La petizione parlamentare si ricollegava, infatti, alla vertenza giurisdizionale improvvisamente esplosa nell’estate del 1675, quando la maggior parte dei «titulos y barones del Reyno» era insorta contro le nuove misure repressive adottate dal marchese de los Vélez nel quadro della lotta alla delinquenza. Denunciando con forza le gravi ingerenze che si profilavano nelle giurisdizioni feudali, i procuratori dei principali baroni dell’isola si erano precipitati a depositare una vigorosa supplica al viceré scongiurandolo di revocare in particolare l’articolo «según el cual, no podían nombrar, ni oficiales ni demás ministros sin su autorización»[78]. È pur vero che il marchese de los Vélez aveva abbandonato il Regno poche settimane dopo, per assumere l’incarico di viceré di Napoli, ma il Parlamento apertosi nell’aprile del 1677 aveva ugualmente preteso un chiarimento formale: il decreto regio che sanciva l’approvazione del capitolo parlamentare rappresentò non solo un’implicita sconfessione delle disposizioni viceregie, ma anche un’esplicita presa di posizione a favore delle autonomie giurisdizionali del baronaggio.

È evidente che una feudalità così gelosa dei suoi privilegi giurisdizionali poteva certamente autorizzare la costituzione di barracellerie di villaggio composte da vassalli fedeli e condizionabili, ma non avrebbe facilmente accettato l’interferenza di milizie esterne o di ministri viceregi nell’esercizio delle funzioni di polizia e di amministrazione della giustizia nel feudo. Di qui, il progressivo assestamento dell’iniziativa viceregia su due direttrici principali: da un lato il rafforzamento dei vincoli e delle sanzioni a carico dei feudatari e dei ministri baronali per i delitti rimasti impuniti, dall’altro il rispetto dello ius municipale e la non ingerenza dell’amministrazione regia nelle attività di vigilanza e nella tutela della sicurezza nei territori infeudati. La facoltà di istituire compagnie barracellari era dunque lasciata, in questo quadro, all’iniziativa delle comunità locali, mentre di fronte all’amministrazione regia i feudatari, i loro ufficiali e i ministri di giustizia restavano i responsabili principali dell’ordine pubblico e delle attività di prevenzione dei reati nei territori di loro competenza. L’istituzione della compagnia barracellare si configurava pertanto come una possibile opzione organizzativa di carattere locale nei confronti della quale i governi viceregi mostravano (e a lungo avrebbero continuato a mostrare) una relativa indifferenza.

Nel 1688 un pregone del viceré duca di Monteleone, nel ribadire la responsabilità di veghieri, podestà, ufficiali, luogotenenti e «principali» delle città e delle ville del Regno nell’individuazione, l’arresto e la condanna dei delinquenti, aggiungeva la seguente significativa precisazione:

 

Y si dichas ciutades, villas y lugares quisieron nombrar barracheles lo puedan hazer no obstante lo contenido en este capitulo, con calidad que el cap de los barracheles no pueda nombrar otros sin que sean aprovados por los ministros de justicia, de manera que el nombramiento con la calidad riferida no impida la obligación que se ha puesto en este capitulo a los ministros y principales, ni al contrario la obligación de los ministros y principales impida el nombramiento de barracheles[79].

 

In realtà, nel vasto e assai variegato mondo della società rurale continuavano a operare, in modo quanto mai articolato e diversificato, le figure istituzionali e gli ordinamenti tipici previsti dalla Carta de Logu, su cui si era via via innestata (e in parte sostituita e sovrapposta) la normativa dei capitoli di corte e delle prammatiche regie. Sui majores e sugli juratos delle ville continuava a ricadere l’onere di scoprire e catturare i delinquenti e di stimare e far risarcire i danni, mentre ai padrargios era affidato il compito di impedire gli sconfinamenti del bestiame nella vidazzone, vigilare sul prato e attivare le tenture e le machizie. E tuttavia, al di là delle modeste rettifiche che di tempo in tempo avevano ritoccato singoli aspetti della normativa, gli istituti tradizionalmente preposti a regolamentare la vita agricola e pastorale delle comunità avevano subito profonde modificazioni.

I «capitoli di grazia» che le comunità rurali strapparono al potere feudale nel corso del Seicento costituiscono una viva testimonianza del ruolo mutevole giocato dagli ordinamenti della Carta arborense di fronte alla pressione dell’individualismo agrario e alla capacità d’iniziativa delle collettività locali[80]. D’altro canto la stessa istituzione del censore dell’agricoltura, con i suoi vasti compiti di coordinamento delle attività agricole, pur così contrastata e osteggiata, denotava quantomeno che nella struttura degli ordinamenti tradizionali si erano ormai aperte brecce significative. E, tuttavia, le figure istituzionali previste da quegli ordinamenti, sebbene sottoposte a pressioni e sollecitazioni contrastanti, conservavano, almeno formalmente, tutte le loro competenze.

Allo stato attuale delle ricerche non è possibile documentare l’effettiva diffusione delle compagnie barracellari nelle realtà agro-pastorali dell’isola. La frammentazione e la dispersione di questo tipo di fonti rendono, inoltre, assai difficile ogni ricerca sistematica. Per esempio per la contea di Bonorva, il cui feudatario era stato tra i promotori della protesta dell’estate del 1661 contro i «soldados de campaña», la presenza di una compagnia barracellare risulta finora documentata soltanto a partire dal 1673[81]. Certo, molte perplessità ha finora destato il fatto che il barracellato fosse totalmente ignorato dal pregone generale del duca di San Giovanni (1700), malgrado le aspirazioni di organicità che esso evidenzia, per esempio, nella puntigliosa elencazione dei compiti dei padrargios, bidazzonargios e saltargios e nella valorizzazione del censore dell’agricoltura. In realtà, più che la spia di una ancora scarsa diffusione del barracellato, il silenzio di questo importante pregone, che rimase una delle fonti più durature del diritto agrario sardo nel XVIII e nel XIX secolo, derivava dalle caratteristiche dell’istituto che probabilmente era ancora considerato una presenza utile, ma non indispensabile.

Ma in ogni caso, come dimostrano le convenzioni stipulate negli ultimi anni del Seicento (si veda, per esempio, quella di Flussio, del 1699, su cui ha soffermato la sua attenzione Giovanni Todde)[82], il barracellato aveva messo solide radici in diversi villaggi, segno inequivocabile del consolidamento di un modello già capace di propagarsi e di adattarsi in realtà assai diverse. D’altra parte nei primi decenni del Settecento anche il governo viceregio mostra di tener conto della presenza delle compagnie barracellari, le cui funzioni sono infatti valorizzate dagli stessi provvedimenti viceregi. Poteva così accadere che il viceré ordinasse ai ministri di giustizia di assicurarsi che i barracelli risarcissero tempestivamente i proprietari del controvalore dei capi di bestiame da lavoro dolosamente uccisi o rubati, e contemporaneamente disponesse che l’intera comunità provvedesse al risarcimento del danno con la consueta colletta nel caso che il villaggio non avesse una sua compagnia barracellare[83].

Tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento la stabilizzazione degli statuti barracellari, cioè il fatto che i termini principali e le condizioni generali dei patti siano riproposti pressoché immutati di anno in anno in ciascuna comunità, segnala che si è concluso un processo di adattamento del modello e delle funzioni ai singoli contesti locali. Il caso di Alghero (che consente di confrontare una significativa serie di capitolati barracellari dal 1684-85 fino al 1737) dimostra, per esempio, la sostanziale continuità dell’impianto iniziale. Per tutto il periodo documentato i capitols dels barrancheles conservano per lo più le stesse formule, mentre i nuovi capitoli integrativi o specificativi vanno ad aggiungersi in coda a quelli adottati negli anni precedenti[84].

Dai capitoli degli Statuti algheresi emerge un quadro assai articolato dei compiti affidati alla compagnia barracellare, solitamente composta da un minimo di dieci a un massimo di sedici uomini, compresi il capitano e uno o due tenenti. Ai barracelli era attribuita in particolare la responsabilità di assicurare la ronda nell’agro comunale e far rispettare le prammatiche regie e le ordinanze municipali sia nei terreni riservati alle colture che in quelli destinati al pascolo del bestiame manso: non rientravano tra le competenze dei barracelli algheresi né la custodia degli ovini e del bestiame rude, né la sorveglianza dei numerosi saltus, i vasti territori incolti lasciati al bosco, alla macchia e al pascolo brado. Ai barracelli era invece specificamente imposto di garantire la protezione dei vigneti e dei frutteti, dei fabbricati e degli attrezzi rurali, e soprattutto del bestiame da lavoro, che giornalmente doveva essere radunato in alcune zone del territorio specificatamente destinate a questo scopo. La giurisdizione sui reati commessi nell’agro era di competenza del veghiere reale, cioè del giudice municipale; ma ai barracelli che avevano riscosso un’ammenda o avevano denunciato eventuali malfattori alla giustizia, spettava una parte degli introiti delle pene pecuniarie incassate. Per parte loro i barracelli erano tenuti a risarcire i danni entro termini stabiliti. E del resto al momento della stipula della convenzione promettevano di prestare il loro servizio per un anno impegnando «sas personas i bens mobles e inmobles, de quiscu de eills simul et in solidum»[85]. Ogni anno, subito dopo l’approvazione dei capitolati, era fatto obbligo a tutti gli agricoltori di recarsi presso la casa comunale per denunciare i cavalli, i buoi da lavoro, i terreni seminati, le vigne che specificatamente erano affidati alla custodia dei barracelli: nei mesi successivi ciascun proprietario versava alla compagnia un compenso (significativamente denominato «salario» e non «premio» com’era in uso nelle assicurazioni marittime e mercantili) in denaro o in natura (soprattutto grano e vino) commisurato al valore dei beni registrati e calcolato sulla base di tariffe prestabilite:

 

Ultra del escut y migt que se paga a dits barranchels per cada giu – stabilivano per esempio i capitoli per la barracelleria di Alghero approvati nel 1737 – se lis ha de pagar per los massayos y altres individuos particulars que fan llaurera, mich estarel de forment de lo que sembraran per cada giu pagador à la encungia del forment[86].

 

Nel caso poi di mancata denuncia e registrazione dei beni presso il Comune, il proprietario non aveva diritto al risarcimento dell’eventuale danno subito, anche se restava obbligato al pagamento del «salario» barracellare dovuto in via generale da tutti gli agricoltori.

Dall’insieme dei capitoli emerge con chiarezza la funzione della compagnia barracellare a presidio delle attività agricole, a tutela degli strumenti e degli animali da lavoro e a difesa dei campi coltivati dalla pressione della pastorizia e del pascolo brado. Non a caso uno dei primi provvedimenti che i capitoli contenevano (e a cui i barracelli dovevano quanto prima dare esecuzione) era l’intimazione data ai pastori all’inizio di ogni nuova annata agraria perché evacuassero il loro bestiame dai terreni destinati alle semine:

 

Ittem se notifica y mana a tots los pastors de la present Ciutat – disponevano i capitoli della barracelleria per l’annata agraria 1684-85 – que atgian y degan de buhidar llur bestiar que portaran y pasturan del prado, vidazoni y segada de la present Ciutat dins tres dies del dia de la pubblicasiò de les presents sots pena de deu lliures aplicadores ut supra y un mes de presò[87].

 

Dal tenore di alcuni capitoli traspaiono peraltro alcune delle disfunzioni più frequenti (e forse divenute ormai fisiologiche) dell’esperienza barracellare. È indicativo per esempio il capitolo, già presente negli statuti del 1684, che regolava addirittura le sanzioni previste per il furto commesso dai barracelli:

 

Ittem que sempre y quant costàs que algu de dits barranchellos prenguessen de qualsevol viña o jardì, fruita y dels de mes arreos seran en dita viña, jardì o olivar, hatgia de pagar deu escuts al amo y lo dany. Y de maquissa [cioè di multa] altres deu escuts aplicadors ut supra[88].

 

Analogamente un capitolo del 1691 disciplinava le sanzioni per il furto di frutta compiuto dai barracelli, e un altro vietava loro di omettere la denuncia del ladro in cambio di una privata e interessata composizione della questione. Infine un progressivo assorbimento del barracellato nella sfera delle istituzioni sottoposte a particolari controlli da parte delle autorità comunali: nello statuto del 1724 appare già documentata la creazione di una «caxia de tres claus» in cui dovevano affluire i contributi e i proventi riscossi dalla compagnia e da cui non poteva uscire alcuna somma di denaro se non autorizzata congiuntamente dai titolari delle tre chiavi – un rappresentante della città, un ecclesiastico e il capitano dei barracelli[89].

Appare peraltro evidente negli statuti barracellari che, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, le compagnie hanno definitivamente assorbito la gran parte delle funzioni precedentemente riservate agli juratos de logu, ai padrargios, ai vidazzonargios, ai saltargios. Ciò non significa tuttavia che tali figure scompaiano definitivamente dal panorama delle campagne sarde: esse, al contrario, non solo continuano a operare nei villaggi in cui non è presente la compagnia barracellare, ma talvolta continuano a sopravvivere anche accanto ai barracelli[90]. Non a caso ancora nella seconda metà del XVIII secolo nella maggior parte dei villaggi dell’isola la protezione dei seminativi non era in realtà affidata a barracelli, bensì ai majores de padru previsti dal capitolo 112 della Carta de Logu.

 

In plerisque vero oppidis – osservava Carta Deidda – satorum cura non barracellis, sed prati maioribus iniungitur ex praescripto Cartae Localis cap. 112, qui eadem, quae creantur barracelli methodo, constitui debent bona scilicet opinionis et fama [...], ternam enim universitas habilium format, ut pro libito baro unum ex eis religat [...]. Maior iste prati vel aidazonis, qui idem esse solet, dum promiscue usurpetur variis in capitulis dictae Cartae Localis [...], iuramentum et homagium praestat in actis officialis iustitiae, cum publico omnes inservientes ita iurent, ne scilicet lucrum turpe efficiant, fideliterque gerent[91].

 

Nei villaggi in cui non si era costituita la compagnia barracellare, al majore de padru e ai padrargios suoi aiutanti erano dunque affidate sia la sorveglianza del prato riservato al bestiame domito, sia la protezione dei seminativi, delle vigne e degli orti. Ad essi, inoltre, era riconosciuta una specifica competenza giurisdizionale e il precipuo compito di perseguire i responsabili dei danneggiamenti rurali, sotto la minaccia di una penale di venti soldi a testa («quod si neglexerit – sottolineava Carta Deidda – damnum exigere prati maior cum apparitoribus suis, solidorum viginti poenam singuli subibunt»), oltre all’obbligo del risarcimento, sancito dalla Carta de Logu e fondato sul sospetto della connivenza con gli stessi responsabili dei danni.

 

Neque hoc – avvertiva il giurista – a communi iure exorbitat [...]; non enim proba excusatio custodis, si animalia fruges devorent, et ipse nesciat, cum quamvis de regio iure nam et de lievissima etiam tenetur culpa, dum operarum locator summam praestare debeat diligentiam.

 

Per questa ragione, affermava Carta Deidda, nel marchesato del Marghine e in molti villaggi del Capo settentrionale del Regno, dove lo spirito e la lettera della Carta de Logu erano più in auge che nei Campidani del Capo di Cagliari («ubi Cartae Localis mens, et dispositivo magis famigerata, quam in nostris Campidaneis»), il compenso dei padrargios e dei vidazzonargios veniva saldato in natura con lo stesso genere di beni che erano affidati alla loro protezione («in speciebus ipsis quorum suscipiunt custodiam»)[92].

Tra gli anni Cinquanta e Settanta del Settecento un’ampia azione riformatrice nel campo agricolo ridisegna il contesto anche normativo nel quale sono chiamate a operare le compagnie barracellari. L’elenco delle innovazioni intervenute nelle comunità locali è assai lungo: si rafforzano l’autorità e i poteri del censore dell’agricoltura, si sviluppa il Monte granatico, si valorizzano le disposizioni a tutela dell’agricoltura, sorgono nuovi organismi preposti al controllo e all’indirizzo delle politiche agricole, si rafforzano le prescrizioni relative alle destinazioni colturali e all’utilizzo economico del territorio, si incoraggiano le colture cerealicole, s’impone un’embrionale razionalizzazione della giustizia anche all’interno dei feudi, si rilancia il ruolo delle comunità di villaggio riorganizzando e rafforzando i poteri dei consigli comunitativi, s’impegnano gli ecclesiastici nel governo delle risorse agricole della comunità, s’istituiscono i nuovi Monti di soccorso chiamati a erogare i prestiti agricoli in denaro accanto a quelli in natura assicurati dai Monti granatici. Ci si potrebbe attendere che la vasta normativa regia e viceregia, che a più riprese intervenne a disciplinare i molteplici aspetti della vita economica e sociale dei villaggi, comprenda anche una specifica ridefinizione del ruolo e delle funzioni delle compagnie barracellari: colpisce invece il carattere assolutamente marginale dei pochissimi cenni ai compiti dei barracelli presenti in tutta la serie di editti e pregoni emanati in questi anni[93].

Ma questa assenza non deve trarre in inganno. Sarebbe infatti un errore supporre che niente fosse mutato nelle modalità di funzionamento delle compagnie. Al contrario è sufficiente scorrere i capitoli di uno statuto barracellare di quegli anni per rendersi conto delle profonde trasformazioni in corso. Traspare intanto il nuovo ruolo del censore a difesa degli agricoltori e a salvaguardia della tempestività e dell’equità degli indennizzi. Diventano inoltre sempre più dettagliate le clausole che i barracelli sono tenuti a rispettare, segno di un contesto ambientale e sociale sempre più esigente nel richiedere una rigorosa difesa delle proprietà adeguatamente recintate e nel rivendicare il «giusto prezzo» degli indennizzi. Va accentuandosi il carattere obbligatorio del servizio che i pastori e gli agricoltori sono tenuti a prestare, a turno, nella compagnia barracellare; e parallelamente si precisano i casi di esenzione. Si profila la costituzione di un fondo stabile di pertinenza dell’istituto barracellare che di anno in anno viene trasmesso alla nuova gestione.

Il ruolo delle compagnie barracellari risulta dunque profondamente rafforzato dalla nuova dimensione giuridica e istituzionale che le riforme degli anni Cinquanta-Settanta del Settecento hanno ormai conferito al governo delle attività agricole. La stessa gestione delle attività e dei fondi barracellari è sottoposta a un penetrante sistema di indirizzo e di controllo che fa capo ai rappresentanti delle comunità locali e alle nuove magistrature agricole. Anche il governo viceregio, a distanza, vigila sul buon funzionamento delle compagnie e sempre più spesso interviene a correggere e a condizionare le decisioni delle comunità. «Hodiernis tamen moribus – osservava lucidamente Carta Deidda – aliter res se haberet: non enim a mero universitatis pendet placito barracellorum creatio, sed a principis et proregis imperio»[94].

Il funzionamento dell’istituzione è oggetto di una verifica sistematica in tutti i villaggi toccati dalla visita generale compiuta nel Regno dal viceré Des Hayes. Il quadro che ne scaturisce mostra, come si è accennato, una Sardegna divisa in due: nella parte meridionale dell’isola l’istituto raccoglie i giudizi positivi (e talvolta lusinghieri) dei rappresentanti delle comunità, ma nei villaggi dell’area centro-settentrionale le disfunzioni, le inadempienze e gli abusi dei barracelli suscitano molteplici proteste. L’accusa più frequente riguarda i ritardi e le resistenze nel risarcimento dei danni, ma in alcuni casi emergono gravi connivenze come quelle di cui risulta sospettato il capitano dei barracelli di Paulilatino, accusato di macellare pubblicamente bestiame rubato[95].

A cavallo degli anni Ottanta e Novanta, il barracellato svolse un ruolo importante ma anche molto controverso. L’ampia relazione sullo «stato attuale e miglioramento» del Regno di Sardegna che il nobile Antonio Ignazio Paliaccio, conte di Sindia, indirizzò agli Stamenti nella primavera del 1793, conteneva, tra molti punti di grande interesse, un’analisi impietosa delle principali distorsioni che caratterizzavano il funzionamento dell’istituto:

 

Queste convenzioni tra comunità e barracellerie [...] – osservava il nobiluomo sardo, capitano del Reggimento di Sardegna – sono tanti motivi di continue altercazioni essendo il villico opposto al barrancello e il barrancello nemico del villico a segno tale che spesse volte il povero proprietario oltre la perdita dei salari e maltrattamento delle mal conservate sue proprietà è costretto a soccombere alle spese di una giudiziaria decisione, attese le continue vettiglie e nullità che da’ barrancelli s’oppongono. Inoltre è doglianza comune di tutto il Regno che le stesse compagnie di barracelli sono per lo più composte dalle stesse persone sospette del luogo, anzi molte volte vengono pregate ad arruolarsi nelle compagnie per essere interessate e recare minori danni alle comunità[96].

 

Non si trattava evidentemente di un’analisi imparziale: l’impostazione cautamente riformatrice della relazione non deve, infatti, far dimenticare l’ispirazione aristocratica delle critiche e delle soluzioni proposte dal gentiluomo sardo. Traspaiono, per esempio, la diffidenza del mondo nobiliare e l’avversione degli ambienti feudali per quei corpi armati che sempre più spesso negli ultimi decenni del Settecento, dopo le riforme del periodo boginiano, sfuggivano al controllo dei ministri baronali e facevano riferimento ai consigli comunitativi, alle nuove magistrature agricole e agli esponenti più attivi dei nuovi ceti emergenti del mondo delle campagne. Non a caso il punto d’approdo di quest’analisi non era la riforma, ma il completo superamento del barracellato coerentemente perseguito attraverso una significativa rivalutazione del ruolo dei «luoghitenenti saltuarj» (cioè di quegli ufficiali baronali, majores e juratos de logu, che erano preposti al controllo dei salti e dei confini del feudo) e soprattutto attraverso un netto rafforzamento del ruolo delle truppe regie che con nuovi squadroni di cavalleria avrebbero assicurato l’ordine pubblico nelle campagne e reso superflue le milizie barracellari. In sostanza, la direzione e la sorveglianza delle attività di polizia rurale sarebbero passate dalle comunità di villaggio all’autorità viceregia e ai comandi militari che le avrebbero esercitate in modo centralizzato e uniforme, facendo attenzione a rispettare sul piano locale le prerogative dei feudatari e le competenze degli ufficiali baronali. Ma sui «luogotenenti di salto» vale la pena richiamare il sarcastico giudizio di Carta Deidda, che nel suo Tractatus de barracellis non esitava a denunciare la propensione dei feudatari a nominare soggetti di pessima fama, che col pretesto di reprimere gli sconfinamenti di pascolo spadroneggiavano indisturbati su vasti territori pressoché spopolati appropriandosi impunemente di numerosi capi di bestiame:

 

nam et saltuarios quos vocant ministros – riferiva il giurista cagliaritano – mala fama proponunt barones [...]; isti nacque confinantia invigilant nemora oppidorum, et saltus; furarunturque manu salva sub macelli specie; vulpes enim – considerava infine Carta Deidda – potius pilum, quam mores mutat[97].

 

Certo, in quei primi anni Novanta i tempi non erano favorevoli per il radicale rivolgimento che più tardi, in un contesto politico e sociale profondamente mutato, avrebbe invece ispirato le trasformazioni dell’istituto barracellare volute dal governo sabaudo nei primi decenni dell’Ottocento. E tuttavia le tesi del conte di Sindia non erano affatto isolate. Già negli anni Ottanta il moltiplicarsi delle lamentele per le inadempienze dei barracelli e l’infittirsi delle accuse di complicità con i malfattori rispecchiavano un clima di ostilità e sospetto che interessava ormai ambienti sociali assai diversi. È emblematico di queste nuove sensibilità il singolare progetto che fu presentato nella primavera del 1789 al viceré conte di Sant’Andrea dal nobile Diego Marongio, un intraprendente proprietario terriero di Bessude (piccolo, ma vivace villaggio del marchesato di Montemaggiore, nella Sardegna settentrionale), che proponeva di sostituire le compagnie barracellari con adeguati contingenti di truppe regie distribuiti in diverse zone dell’isola e stipendiati con i fondi che in ogni villaggio venivano annualmente raccolti per le barracellerie. L’autore del progetto era un esponente della piccola nobiltà rurale che negli anni delle riforme boginiane aveva studiato nell’Università di Sassari dove nel 1772 aveva conseguito il baccellierato in legge: un personaggio abbastanza attivo e singolare, che nell’autunno del 1795 si sarebbe distinto come campione delle rivendicazioni antibaronali delle comunità infeudate e avrebbe attivamente partecipato al movimento angioiano e infine alla marcia su Cagliari del giugno 1796.

La sua proposta era illustrata in un’ampia relazione che egli stesso, quasi parodiando il titolo della celebre opera di Francesco Gemelli, aveva intitolato Progetto sul miglioramento della sarda agricoltura proposto nella riforma de’ barracellati. La relazione si articolava in due parti ben distinte: nella prima erano analizzate le caratteristiche e le disfunzioni del barracellato e nella seconda venivano prospettati i vantaggi di un’energica attività repressiva direttamente affidata alla «cavalleria aquartierata o allo squadrone volante» e dispiegata quindi da truppe regie di stanza nel territorio, coadiuvate da colonne militari mobili capaci di intervenire prontamente in diverse situazioni.

In realtà l’idea di Marongio si fondava sulla convinzione che il furto e il «ladroneccio» fossero la principale causa del mancato sviluppo dell’agricoltura dell’isola e insieme sulla certezza che le istituzioni barracellari, sebbene nel passato avessero dato buoni frutti, erano poi così degenerate che costituivano ormai una fonte di danni e corruzione più che di vantaggi[98]. Alcuni componenti delle compagnie barracellari, sosteneva Marongio, «oltre la colpevole connivenza che usano con i malfacenti, si fanno essi a gara di rubare ogni sorta di bestiame in rovina de’ contadini, così che potrei quasi affermare [che] niun furto si commette senza previa intelligenza de’ barracelli»[99]. Sconfortato, denunciava dunque la prassi, adottata ormai comunemente in diversi villaggi dell’isola, di reclutare nelle compagnie alcuni esponenti della malavita locale («gli eletti capitani van procacciandosi la grazia de’ ladri, eligendo alcuni di essi in barracelli»)[100] per ingraziarsene i favori e concretamente salvaguardare i profitti della barracelleria.

Sotto il profilo economico, gli scopi dell’istituzione gli apparivano ormai gravemente compromessi da due vizi sostanziali: da un lato l’inadeguatezza dei risarcimenti pagati agli agricoltori nel caso di furti o danneggiamenti («Non c’è villaggio o città dove la paga del bue rubato da farsi da’ barracelli al contadino ascenda a più di due terzi del giusto prezzo»), dall’altro l’estenuante ritardo con cui erano corrisposti gli indennizzi, spesso al termine di lunghe controversie giudiziarie che l’agricoltore doveva affrontare esclusivamente a proprie spese («Son tanti i sotterfugi, inviluppi e studiate maniere che adopransi da’ barracelli per esimersi dal dovuto pagamento del bue rubato che spesse volte il misero agricoltore spende il duplo del valor del bue in citazioni e litigi»). E spesso non riusciva a ottenere giustizia neppure il censore dell’agricoltura, che come protettore delle attività agricole e primo difensore degli agricoltori era tenuto a perorare il tempestivo risarcimento dei danni soprattutto nei casi di furto di animali da lavoro.

Così il barracellato si rivelava «un semenzaio di liti, di questioni e di risse, che sovente – sottolineava Marongio – vengono a terminare in omicidi». Di qui, la condanna senz’appello di quel tradizionale sistema di tutela dell’ordine pubblico, che gli appariva ormai non solo inadeguato ma addirittura «pernicioso alla repubblica». Non restava dunque che abolire le compagnie barracellari, ma continuare allo stesso tempo a raccogliere i fondi delle barracellerie devolvendoli a favore di contingenti di cavalleria cui affidare, oltre alla tutela dell’ordine pubblico nelle campagne, anche le funzioni di polizia rurale e di risarcimento dei proprietari originariamente svolte dai barracelli.

 

La Francia e la Spagna – considerava Marongio – fra tant’altre più colte nazioni, guarentite vengono da somiglianti truppe, in quella sotto il nome di squadron volante, in questa di Mignones de Catalogna, e tutte in ciaschedun regno militano a spese del regio erario[101].

 

L’insieme dei fondi fino ad allora «malimpiegati da’ barracellati in pubblico disvantaggio» sarebbe stato infatti più che sufficiente non solo per mantenere «una cavalleria proporzionata alle popolazioni del Regno», ma anche per «indennizzare il danneggiato contadino nelle straordinarie occorrenze di furto», che la massiccia offensiva anticriminale assicurata dalle truppe regie avrebbe ridotto, a suo avviso, a pochissimi casi.

L’autore del progetto, ben convinto dell’efficacia della sua riforma, non esitava a offrirsi di sperimentarla, assumendone personalmente la responsabilità per la zona in cui risiedeva (il Meilogu) e per gli undici villaggi che gravitavano intorno ad essa (Thiesi, Bessude, Cheremule, Torralba, Bonnanaro, Siligo, Banari, Ittiri, Uri, Usini, Tissi). «Altro non chiedo per l’impresa – dichiarava al viceré – che cinque dragoni e venti fanti; e io li provvederò de’ quartieri e dell’orzo per i cavalli dal fondo de’ depositi [delle barracellerie]»; e poiché, sottolineava, «niuno ha ragione su detti depositi se non quelli che nell’anno servono al barracellato», le somme avanzate alla fine dell’esercizio sarebbero spettate alla regia cassa. Così, sulla base dei risultati dell’esperimento, in capo a un anno il viceré avrebbe potuto decidere se «stabilire o rigettare» la riforma.

Non sappiamo quale seguito abbiano avuto le ingegnose proposte di Marongio: esse rappresentano comunque una preziosa testimonianza del clima di radicale sfiducia che ormai circondava l’istituzione barracellare. Il fatto è che, negli ultimi decenni del Settecento, il barracellato finì per trovarsi al centro degli aspri conflitti sociali che scuotevano le comunità infeudate. Non è un caso che una relativa inefficacia del barracellato fosse riconosciuta, seppure amaramente, anche da Carta Deidda, che nel suo Tractatus de barracellis non trascurava di soffermarsi, oltre che sulle regole e sulle normative, anche sui molteplici abusi, sulle disfunzioni e sulle degenerazioni che ormai caratterizzavano l’istituzione. Le accuse erano ancora le solite: sebbene il diritto patrio, la Carta de Logu, i pregoni e le regie prammatiche vietassero tassativamente ogni forma di transazione o mercanteggiamento delle pene, i barracelli venivano abitualmente a patti con i malfattori, solitamente recedendo da ogni denuncia, e astenendosi dall’imporre le sanzioni previste, in cambio di denaro[102]; soggetti ai potentati locali, non osavano inquisire i più noti malviventi, che spesso godevano di alte protezioni tra i prinzipales e i fiduciari dei baroni; e infine con mille cavilli e ben studiati sotterfugi riuscivano a sottrarsi perfino all’obbligo che gravava su ciascuno e su tutti solidalmente di pagare gli indennizzi agli agricoltori danneggiati.

Per il giurista cagliaritano, la causa di queste gravi disfunzioni andava ricercata nel pessimo stato della giustizia nel Regno: il disordine delle giustizie feudali, l’ignoranza dei giudici locali, la mancanza di controlli sull’operato dei ministri regi, l’inadeguatezza delle carceri baronali favorivano un inquietante sistema di complicità e connivenze che imbrigliava e condizionava la stessa azione dei barracelli. Gli inconvenienti e i vizi che minavano il buon funzionamento delle compagnie barracellari risultavano dunque indissolubilmente legati ai drammatici problemi dell’amministrazione della giustizia nelle vaste realtà agro-pastorali dominate dalle istituzioni feudali. Così, un’immagine rovesciata della giustizia era evocata a rappresentare il degrado delle curie baronali: nei villaggi sardi il simbolo della giustizia – osservava Carta Deidda – non è la giovane donna di solenne aspetto con la spada nella mano destra e la bilancia nella sinistra, ma una donna avvilita e accecata, con i ceppi ai piedi e con le mani legate. Di qui, la diffusa impunità resa possibile, per l’appunto, da una giustizia che nei villaggi era stata privata tanto della bilancia quanto della spada. E d’altra parte se i giudici baronali finivano per patteggiare tutte le cause in cambio di denaro, come si poteva pensare che i barracelli si astenessero dall’adeguarsi a un sistema così diffuso e radicato? Così Carta Deidda richiamava le parole di Francesco Gemelli che denunciavano i rischi di una giustizia corrotta, «perciocché se i delinquenti lusinghinsi con fondamento di poter venire a composizione con l’ufficiale delegato o giudice del luogo per danaro, i pastori, sulla speranza dell’impunità, seguiteranno ad esser ladri».

Il giurista cagliaritano non esitava ad attribuire la responsabilità di questo stato di cose ai feudatari e ai loro rappresentanti nei feudi. In ogni incontrada i baroni disponevano infatti di loro scherani, veri e propri «bravi» («Itali bravos vocant»), che proteggevano i malfattori e all’occorrenza arrivavano a minacciare i giudici e gli stessi barracelli. Non doveva pertanto stupire che i maggiori delitti rimanessero impuniti e fossero addirittura occultati. È ben vero che la legge patria e l’istituto dell’«incarica» attribuivano all’intera comunità la responsabilità di individuare, denunciare e catturare gli autori dei reati chiamandone tutti i membri a pagare una multa per i delitti impuniti. Ma il giurista cagliaritano non esitava a giudicare assurda la presunzione, su cui si basava l’«incarica», che tutti i membri della comunità sapessero chi aveva commesso il reato. Inoltre anche l’«incarica» era stata deformata dalla logica del patteggiamento che aveva indotto i baroni a trasformarla in un tributo ordinario con cui si era persa l’originaria ratio del disincentivo al crimine. Sicché le norme che in origine dovevano colpire i protettori dei delinquenti erano ormai «campane senza battaglio» («campanae sine pistillo»).

L’istituto dell’«incarica» doveva dunque essere abolito o radicalmente riformato. In questo quadro il barracellato avrebbe potuto ritrovare credibilità ed efficacia, ma solo se fossero stati adottati almeno tre provvedimenti essenziali: la sostituzione dei giudici e dei ministri di giustizia baronali non stipendiati con un giudice ordinario remunerato che fosse competente a giudicare di tutte le cause e che non potesse essere ricusato a piacimento o rimosso a semplice richiesta di una delle parti; l’istituzione in tutti i villaggi di un corpo stabile di guardie campestri («milites stationarii») che si affiancassero ai barracelli, stimolandone e controllandone l’iniziativa; il rafforzamento dei controlli non solo sui giudici locali ma anche sui ministri regi. Il rilancio del barracellato si configurava dunque come parte essenziale di una più ampia riforma della giustizia, che inevitabilmente avrebbe messo in discussione i privilegi nobiliari e le prerogative del potere feudale.

Non è un caso che la prima riforma del barracellato frutto dei nuovi tempi, varata con i Capitoli di convenzione tra la centuria dei volontari di campagna della città di Sassari e li di più cittadini della medesima, prendesse corpo nella primavera-estate del 1794 quando, all’indomani della sollevazione antipiemontese, il movimento patriottico sardo s’impose prepotentemente nella vita pubblica del Regno sperimentando nuove forme di governo e realizzando un primo significativo allargamento delle élite dirigenti locali. Non deve perciò meravigliare che tra gli artefici della riforma sperimentata a Sassari nel 1794 spiccassero alcuni dei principali esponenti del movimento patriottico nel Capo settentrionale dell’isola, com’erano due autorevoli capitani della nuova barracelleria – il nobile Giorgio Scardaccio e il battagliero avvocato repubblicano Gioachino Mundula – che avrebbero poi alacremente sostenuto le rivendicazioni antifeudali dei villaggi del Logudoro e la coraggiosa iniziativa riformatrice del giudice Giommaria Angioy, con il quale avrebbero infine condiviso nel giugno del 1796 la disperata avventura della marcia armata sulla capitale del Regno[103].

Le novità della riforma non erano poche, ma colpiva innanzitutto lo straordinario dispiegamento di apparati e uomini messo in campo dalla nuova «centuria dei volontari di campagna della città di Sassari». Complessivamente, considerando anche i capitani e i tenenti, la nuova barracelleria poteva contare su cento uomini armati, organizzati in quattro compagnie che dovevano assicurare, con turni di tre settimane di attività e una di riposo, il pattugliamento dell’agro sia di giorno che di notte e un presidio di due «volontari» per ognuna delle cinque porte della città. Parallelamente le categorie dei beni presi in custodia dalla «centuria» (e coperti dall’impegno al risarcimento di eventuali danni) si erano notevolmente diversificate arrivando a comprendere oltre al bestiame manso, ai terreni coltivati, ai fabbricati e agli attrezzi rurali, anche i molini con le farine e i grani di provvista, i carri e i buoi dei carratori, le «robe» conservate nelle «capanne o stazzi» dei salti lontani dall’abitato e perfino «qualunque arma permessa dalla legge che il padrone lasciasse dentro la casa del suo podere»[104]. Conseguentemente anche le prerogative dei nuovi barracelli risultavano sensibilmente ampliate. Alla «centuria dei volontari di campagna» erano attribuiti particolari compiti di rappresentanza e due compagnie a rotazione, in occasione delle feste del 4 maggio e del 25 ottobre, erano tenute a scortare il Consiglio civico che in pompa magna si recava alla basilica di San Gavino – presso Porto Torres, a una ventina di chilometri da Sassari – per onorare il santo protettore della città. Ai nuovi barracelli erano inoltre riconosciuti particolari poteri in relazione ai loro compiti di prevenzione e repressione dei reati rurali. Così, i «volontari di campagna» erano abilitati a controllare le numerose concerie della città e a compiervi periodiche ispezioni con l’assistenza di un funzionario designato dalla Reale Governazione per contrastare la ricettazione delle pelli, verificando direttamente che non fosse utilizzato «qualche cuoio di bue rubato». Analogamente i barracelli erano autorizzati ad assistere alle operazioni del pubblico macello per controllare la provenienza dei capi di bestiame e impedire che illecitamente fossero soppressi animali di provenienza furtiva. Ad essi era inoltre consentito «previa licenza dei legittimi superiori» perquisire «qualunque casa privata», sia di secolari che di ecclesiastici, ogniqualvolta avessero avuto notizia che in essa fosse stata clandestinamente introdotta o vi fosse venduta della carne di dubbia provenienza. E infine, a loro discrezione potevano arrestare e condurre in carcere le «persone di sospetta fama e condizione» che nel corso delle perlustrazioni notturne fossero state sorprese «fuori dal camino ordinario» senza riuscire a giustificare «quel loro traviamento sospetto». Così l’originale riforma varata a Sassari nel 1794 lasciava già intravedere quel nuovo approccio ai problemi dell’ordine pubblico e quella nuova sensibilità per le esigenze di sicurezza delle proprietà che nei primi decenni dell’Ottocento avrebbero profondamente trasformato la natura e le funzioni dell’antico istituto barracellare.

 



 

* Pubblicato in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a cura di Italo Birocchi e Antonello Mattone, Roma-Bari, Editori Laterza, 2004, 300-346.

 

[1] Per un inquadramento storiografico dei processi di formazione dei corpi di polizia nel continente europeo cfr. M. Stolleis, K. Härter (a cura di), Policey im Europa der Früen Neuzeit, Frankfurt a.M. 1996, e soprattutto L. Antonielli (a cura di), La polizia in Italia nell’età moderna, Soveria Mannelli 2002, cui si rinvia anche per la ricca e aggiornata bibliografia. Occorre peraltro osservare che questo interessante filone di studi, prevalentemente incentrato sulla storia degli ordinamenti di polizia nell’età moderna e contemporanea, riserva ogni attenzione alla dimensione urbana e ai processi di accentramento statale ma finisce per escludere dal campo d’indagine quelle forme arcaiche di vigilanza comunitaria e di repressione della criminalità rurale che, sebbene destinate a scomparire, costituivano una parte assai significativa delle polizie di antico regime.

 

[2] Cfr. I.L. Carta Deidda, Tractatus de barracellis et ministris saltuariis politico-iuridicus, in quo regaliarum, et munerum materia perlustratur, Senatus decisionibus, patriisque moribus elucubratis forensium usui accomodatus, conservato nella Biblioteca universitaria di Cagliari, Fondo Baille, ms X, s.p. 6.1.14, cc. 8-8v. Si tratta di un grosso volume in folio, di 626 carte con numerazione coeva (mm 310 x 215), manoscritte sul recto e sul verso. Il volume, proveniente dalla biblioteca del giurista e letterato cagliaritano Lodovico Baille (1764-1839), fu donato alla Biblioteca universitaria di Cagliari dal fratello Faustino, canonico della cattedrale, nel 1849. È un manoscritto autografo che, in coda all’imponente Tractatus (cc. 1-609v), contiene tre brevi ma interessanti pareri giuridici (cc. 612-626) resi dallo stesso Carta Deidda a proposito di privilegi ed esenzioni ecclesiastiche oggetto di controversie: l’ultimo, datato Villacidro 28 luglio 1790, era stato rilasciato a favore dell’arcivescovo di Ales Michele Antonio Aymerich, del quale Carta Deidda era a quel tempo consultore. Come risulta dalle annotazioni autografe all’interno del manoscritto, il Tractatus fu composto tra il gennaio del 1781 e il gennaio del 1785; e nell’ottobre dello stesso anno (o del 1789) fu ultimato il dettagliatissimo Index rerum notabilium (cc. 572-609v). L’opera si articola in sei corposi capitoli privi di titolo, ma suddivisi in tanti piccoli paragrafi e opportunamente corredati di minuziosi indici sommari che ne facilitano la consultazione. Il tema è dunque affrontato, come si legge nella prefazione, attraverso sei principali angolazioni: le origini storiche dell’istituto; la necessità e l’utilità dei barracelli; i minori e l’arruolamento nelle compagnie barracellari; i doveri dei chierici e degli ecclesiastici in ordine al servizio del barracellato; i privilegi e le esenzioni dei cavalieri e dei nobili; il ruolo delle comunità (cfr. ivi, c. 1v). Ma gli argomenti preannunciati risultano spesso soffocati all’interno di una trattazione farraginosa e ridondante che per lunghi tratti si allarga ad altri temi, talvolta abbandonando totalmente la materia principale.

 

[3] L’elenco comprendeva i capitoli 6, 7, 16, 17, 33, 38, 39, 41, 45, 46, 47: cfr. ivi, c. 8v. L’idea che i barracelli avessero preso il posto degli antichi jurados arborensi è più volte ripresa anche nel prosieguo della trattazione: «Etenim operae istae, barracellis nuper indicate, maiores iustitiae olim, et iurati, nulla mercede praestita, perhibebant Eleonorae, ipsiusque praepositis, ut Cartae Localis perplurima comprobant capitula» (c. 36v).

 

[4] H. Olives, Commentaria et glosa in Cartam de Logu, apud I.B. Canavera, Calari 1708, prima ed. Matriti 1567, 46.

 

[5] I riferimenti erano, in particolare, al Corpus iuris civilis, che evidentemente Carta Deidda poteva consultare in un’edizione «cum notis integris Dionysii Gothofredi», e soprattutto al classico Johannis Brunnemanni, Commentarius in quinquaginta libros Pandectarum, che dalla fine del Seicento aveva preso a circolare nelle edizioni notevolmente arricchite dai commenti e dalle annotazioni di Samuel Strikius, «de iure communi novissimo, Saxonico et Marchico, aliisque provincialibus iuribus». Sull’opera di Samuel Stryk e sul ruolo che la dottrina dell’«Usus modernus Pandectarum» giocò nella promozione delle culture giuridiche territoriali e nella nascita della scienza del diritto patrio cfr. I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino 2002, 63-69, 229-30.

 

[6] «A Turcis postea subactum – riferiva Carta Deidda – anno Domini 1022, tertio a Pisanis, Mauritanus rex Musetus, qui tyrannice Regnum vexabat, profligatus, prout episcopus testatur Tronci in suis annalibus, dum Pisanorum gesta dicto anno 1022 refert, iisdem credimus Sardiniam nostram gubernatam Longobardicis legibus, cum et Pisani ipsi hoc uterentur iure, ut citatus prope testatur De Luca» (Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., cc. 7v-8). Per il richiamo agli «annali pisani» cfr. P. Tronci, Memorie istoriche, Bonfigli, Livorno 1682, all’anno 1022. Ma il principale punto di riferimento di Carta Deidda era il Theatrum veritatis et justitiae sive decisivi discursus per materias, l’enciclopedica opera giuridica del cardinale Gian Battista De Luca (15 tomi, Corbelletti eredi, Roma 1669-73), un caposaldo del diritto comune italiano tra Sei e Settecento, che il giurista sardo poteva consultare in una delle tante edizioni ampliate che continuarono ad apparire nel XVIII secolo (l’opera si era ben presto arricchita di diversi tomi supplementari). Per gli ordinamenti giuridici affermatisi nell’area della penisola nel corso del Medioevo i riferimenti erano ai tomi secondo («De servitutibus praedialibus, usufructu ecc.») e sedicesimo («Conflictus legibus et rationis, sive observationes in iis legalibus propositionibus ecc.»): «Invasione itaque Gothorum et Longobardorum, qui Italiam integram subegerint, De Luca de servit., disc. 1, n. 11, Sardiniam nostram et Siciliam [...], legibus ipsorum tunc moderatum Regnum fuisse credimus [...], prout Italia ipsa saeculorum septem spatio ab ipsis gubernatam iisdem novimus barbaricis legibus, De Luca conflict. leg. et ration., observ. 19, iuncta observ. 22» (Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., c. 7v). Sull’incidenza degli scritti di De Luca nella dottrina giuridica europea tra XVII e XVIII secolo cfr. G. Gorla, I tribunali supremi degli Stati italiani fra i secc. XVI e XIX, quali fattori della unificazione del diritto nello Stato e della sua uniformazione fra Stati, in La formazione storica del diritto moderno in Europa, vol. I, Firenze 1977, 455-532, e in particolare 468-82; A. Mazzacane, Giambattista De Luca e la «compagnia d’uffizio», in H. Kellenbenz, P. Prodi (a cura di), Fisco, religione, Stato nell’età confessionale, Bologna 1989, 505-30, e Id., De Luca Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXXVIII, Roma 1990, 340-47; A. Lauro, Il cardinale Giovan Battista De Luca. Diritto e riforme nello Stato della Chiesa (1676-1683), Napoli 1991; e soprattutto le penetranti osservazioni di Birocchi, Alla ricerca dell’ordine, cit., 297-315.

 

[7] Il riferimento di Carta Deidda («Sic in l. De porcis, tit. de eo, qui pecul. in damn. inve., iure Longobardo sancitum, refert Rendella, De pasc. forest. et aquab., par. 4, cap. 6») era alla fortunata opera di P. Rendella, Tractatus de pascuis, defensis, forestis et aquis regum, baronum, universitatum et singulorum. De columbis et columbariis, de olea et oleo commentaria, Trani 1630, ripetutamente ripubblicata nella prima metà del Settecento (Napoli 1718, 1726, 1732, 1742), in cui le vicende e le problematiche dell’economia agraria meridionale e pugliese erano dettagliatamente esaminate nella loro dimensione storico-giuridica, costituzionale, amministrativa, fiscale, contrattuale e processuale. Sulla figura e sull’opera di Rendella cfr. il raffinato studio di D. Maffei, Prospero Rendella giureconsulto e storiografo. Con note su altri giuristi meridionali, Monopoli 1987 (per la citazione in testo p. 26), ora anche in Id., Studi di storia delle Università e della letteratura giuridica, Goldbach 1995, 405-67.

 

[8] Il riferimento («Leisero, De iur. georg., lib. 2, cap. 11, n. 1 ad 6») era all’imponente trattato di G.C. Leiser, Jus georgicum, sive Tractatus de praediis, «von Land-Güther», in quo universum jus praediorum cum eorum constitutione, differentia et pertinentiis [...] explicatum [...] illustratum est, [...] cum epistola de argumenti dignitate cl. C.S. Schurtzfleiscii, Lipsiae et Francofurti 1698. L’opera, un volume in folio di oltre 900 pagine, ebbe almeno altre due edizioni nella prima metà del Settecento: Lipsiae 1713 e 1748, quest’ultima con il titolo variato Jus georgicum [...], in quo universum jus praediorum et pertinentiarum ex jure gentium, publico, feudali, romano-germanico nec non e scriptoribus historicis, politicis et oeconomicis de ductum [...] explicatum [...] est. Di Gottfried Christian Leiser, giurista e proprietario terriero della Westfalia, sappiamo che visse nella seconda metà del Seicento, che fece alcuni viaggi di studio, in Francia nel 1680 e in Italia nel 1691, in compagnia dello storico, poeta e grecista Conrad Samuel Schurtzfleisch (1641-1708), e che divenne successivamente consigliere del municipio di Stolberg (cfr. le succinte note di C.G. Jocher, Allgemeines geleherten Lexicon, vol. II, Leipzig 1750-51, rist. anast., Hildesheim 1960-61, col. 354). Il suo nome non figura nelle più recenti enciclopedie e biografie tedesche, ma il suo trattato, particolarmente apprezzato dai giuristi del tempo e ancora oggi presente in diverse biblioteche tedesche, francesi, italiane, dovette avere una buona circolazione nell’Europa del Settecento. «In hoc opere autem – assicurava Struve – quidquid de praediis dici potest, velut in Bibliotheca quadam singulari cum utilitate congestum videmus» (B.G. Struve, Bibliotheca juris selecta, VIII ed. corretta e accresciuta da C.G. Buder, Lipsiae 1756, 257-58). Ai primi dell’Ottocento un «Leiseris jus georgicum, tomo 1 in fol., usato e legato in carta pecora» era ancora presente nella fornitissima «libreria» (circa 1.700 volumi) dell’alto magistrato sardo Gavino Cocco, interamente costituita nella seconda metà del Settecento: cfr. M.A. Langiu, Riforme e patriottismo nella Sardegna del secondo Settecento. La biografia del magistrato Gavino Cocco, tesi di laurea, relatore P. Sanna, Università degli studi di Sassari, Facoltà di Scienze politiche, a.a. 1997-98, 205.

 

[9] Cfr. E. Bossi, Tractatus varii, apud F. Senensem, Venetiis 1562; A. Capece, Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani, apud Juntas, Venetiis 1541; G. D’Oncieaux, Quaestiones academicae [...] permulta Catherini Pobelli Senatus Sabaudiae olim Praesidis responsa extemporanea [...] continentur, Lugduni 1579). Non è possibile fornire in questa sede un quadro esauriente delle nutrite serie di auctoritates e delle innumerevoli fonti, di carattere giuridico, storico, religioso e letterario, costantemente richiamate da Carta Deidda con puntualissimi riferimenti testuali sia di prima sia di seconda mano: basti dire che accanto agli autori classici e ai giuristi medievali figuravano i grandi maestri della tradizione civilistica e canonistica del diritto comune da Bartolo a Baldo, i pionieri della criminalistica moderna, Giulio Claro, Prospero Farinacci (e lo stesso Egidio Bossi), i più celebri giureconsulti d’Oltralpe francesi e tedeschi, gli spagnoli Jerónimo Castillo de Bobadilla, Pedro Belluga, Diego Covarrubias, le più note raccolte normative degli Stati italiani, la giurisprudenza dei tribunali territoriali, la dottrina, i consilia, i commentari ai diritti consuetudinari di diverse città e regioni soprattutto degli ex domini spagnoli e degli Stati sabaudi di terraferma.

 

[10] Era la prima volta che il governo sabaudo si prefiggeva di acquisire un quadro dettagliato della diffusione e del funzionamento delle compagnie barracellari, ed è certamente significativo che le direttive per le audizioni dei rappresentanti delle comunità locali prescrivessero d’indagare accuratamente villaggio per villaggio «se vi siano barracelli, ed in qual numero sia composta la compagnia, se gli abitanti sono contenti dei capitoli [della convenzione], e se quelli che ora sono in osservanza sono legittimamente approvati, e se i danni vengano puntualmente pagati»: Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi AST), Sardegna, Paesi, Visita generale del Regno fattasi dal viceré don Hallot nel 1770, Pezze menzionate nella Relazione, vol. II (inedito), s. K, f. 45. Per la relazione e per le risultanze dell’inchiesta cfr. F. Loddo Canepa, Relazione della visita del viceré Des Hayes al regno di Sardegna (1770), in «Archivio storico sardo», XXV, 1958, 3-4, 113-14, e passim. Sulla documentazione inedita della «visita generale» cfr. le osservazioni di G. Ricuperati, Il riformismo sabaudo settecentesco e la Sardegna. Appunti per una discussione, in «Studi storici», XXVII, 1986, 1, ora in I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Torino 1989, 190-92.

 

[11] Il riferimento era a J. Dexart, Capitula sive acta Curiarum Regni Sardiniae, Calari 1645, lib. IV, tit. VI (De furtis), capp. 1 e 9, e in particolare al capitolo di corte approvato da Carlo V con cui si ordinava di osservare puntualmente, in tutte le incontrade del Regno e «sin excepción de pueblo», le disposizioni della Carta arborense che imponevano ai majores e juratos de logu di catturare i malfattori o di pagare, insieme con la comunità, le multe e i danni per i reati rimasti impuniti.

 

[12] F. de Vico, Leyes y pragmáticas reales del Reyno de Cerdeña, Sassari 1781 (I ed., Napoles 1640), vol. II, tit. XXI (De la refacción y emienda de los daños que comunemente se llama carrega o encarrega), cap. I, 12-19.

 

[13] Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., cc. 8v-9. Cfr. inoltre Pregón general andado publicar por el excelentísimo señor don Fernando de Moncada [...] duque de San Juan [...] sobre todas las materias pertenecientes à la buena administración de justicia [...], Caller 1700, ed. con testo italiano a fronte, Caller 1780, 16-20.

 

[14] Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., c. 9.

 

[15] Ivi, cc. 9v-10. «Iuratis praedictis – riferiva Carta Deidda – ullum de publico salarium praebitum, neque deputatis, prout modo ab universitate penditur barracellis; quod an iusta factum ratione haesitare decet, non ex eo solum, quod insimul gravatur universitas onere encaricas solvendi, sed etiam quia Principi incumbit oppressos subditos ab omni iniuria, et molestia tueri: maior dubitandi ratio, quoad primum, ex eo insurgit, quod plurimis in oppidis paciscant barracelli, privatos ipsos universitatis, noctu prosilire intra populatum, neque ad proprias recognoscendas segetes, et vineas pergere fas sit, sub certa stabilita pecuniaria poena, a contraventoribus exsolvenda; indeque irrationabile certe videtur, ipsos universitatis privatos ad encaricam pro delictis in istis locis eo tempore commissis, compellere solvendam; cum exinde praesumpta cooperatio contra istos penitus remaneat elisa potiusque contra barracellis insurgat praesumptio negligentiae in qua praecisa stabiliri ratione potuit Patrium statutum; quippe in capiendo et probando negligentes, fautores criminum dicuntur [...] quod aliunde exorbitans, nimiumque durum contra iuris communis regulas sit, alius pro alterius delicto poenam luere» (cc. 9-9v). Sull’opportunità di abolire l’«incarica» il Tractatus de barracellis insisteva ripetutamente sottolineando da un lato l’iniqua arcaicità dei princìpi giuridici su cui poggiava, e dall’altro la sua perversa natura di vero e proprio incentivo all’inerzia e all’avidità dei baroni: cfr. per esempio cc. 10v-11, 13-14v, e soprattutto 93-94 («Etenim iuridica sed insulsa praesumptio est, qua omnes de universitate sciant, quis delictum occultum patraverit»). Sull’«incarica» e sui problemi della giustizia penale nella Sardegna del Settecento cfr. M. Da Passano, Delitto e delinquenza nella Sardegna sabauda (1823-1844), Milano 1984, 39-40 e passim; Id., Riformismo senza riforme. I Savoia e il diritto penale sardo nel Settecento, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, vol. I, Saggi storici, Milano 1990, 209 sgg.; Id., La criminalità e il banditismo dal Settecento alla prima guerra mondiale, in L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Sardegna, Torino 1998, 423-35; G. Doneddu, Criminalità e società nella Sardegna del secondo Settecento, in L. Berlinguer, F. Colao (a cura di), Criminalità e società in età moderna, Milano 1991, 581-632; I. Birocchi, Dottrine e diritto penale in Sardegna nel primo Ottocento. Il trattato «Dei delitti, delle pene» di Domenico Fois, Cagliari 1988 e il saggio di G. Catani, C. Ferrante, Un antico istituto del diritto criminale sardo: l’«incarca» (XIV-XIX secolo), in I. Birocchi, A. Mattone (a cura di), La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, Roma-Bari 2004, 385 ss.

 

[16] Cfr. I.L. Carta Deidda, Decisiones Regiae Audientiae congestae anno Domini 1778, volume in folio ora conservato nello stesso fondo della Biblioteca universitaria di Cagliari: «Autografo – commentava lo storico Pietro Martini – donde si chiarisce viemeglio quanto il Carta faticasse per internarsi nelle pratiche del foro cagliaritano» (cfr. P. Martini, Catalogo della biblioteca sarda del cavaliere Lodovico Baille, Cagliari 1844, 202). Sulla figura e l’opera di Carta Deidda cfr. G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, vol. II, Cagliari 1843, 301-302, 338, 357, e i pochi cenni di F. Loddo Canepa, I giuristi sardi del secolo XIX, Cagliari 1938, 6, 8. Negli atti di una causa civile in cui fu coinvolto nel 1784, Carta Deidda risultava di modeste condizioni economiche, non possedeva beni né rendite e la sua attività di avvocato gli consentiva a malapena di mantenere i due figli che aveva ancora a carico e la madre povera e vecchissima: cfr. Archivio di Stato di Cagliari (d’ora in poi ASC), Reale Udienza, Cause civili, Pandetta 60, busta 70, fasc. 5. L’incartamento mi è stato segnalato dalla dott.ssa Carla Ferrante, che ringrazio vivamente.

 

[17] «In secundo postmodum volumine – prometteva l’autore – individuas uniuscuisque regionis pactionatas leges exhibere fas erit, cum glossematis» (Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., c. 1v). Va peraltro osservato che nei territori infeudati l’efficacia dei capitolati barracellari era subordinata a una regolare delibera di approvazione adottata dal consiglio della comunità con l’assistenza del ministro di giustizia baronale e alla definitiva concessione del placet da parte del feudatario: «aliunde capitula legesve barracellatus non sine baronis, consultorisque sui approbatione obligare incipientes, decreti efficatiam supplent» (ivi, c. 172). Del resto, anche gli ordinamenti del Regnum Sardiniae, come quelli del Principato di Catalogna, ricordava Carta Deidda, riconoscevano alle comunità soltanto la giurisdizione passiva: «universitates namque [...] ternam barracellorum et maiorum iustitiae conficiunt» (ivi, c. 406: il riferimento era al cap. 14 del regio editto 27 aprile 1775 che aveva ritoccato le competenze dei consigli comunitativi). «Solam igitur passivam exercent universitates Regni iurisdictionem, quatenus scilicet ternam efformant de personis illis, quae ad vicarii, vel maioris iustitiae munus exercendum habiles diiudicant, ut unum ex eis possit princeps aut baro pro libito secernere» (ivi, c. 473). Sulla riforma dei consigli comunitativi e sul significato delle modifiche apportate nel 1775 cfr. I. Birocchi, M. Capra, L’istituzione dei Consigli Comunitativi in Sardegna, in «Quaderni sardi di storia», luglio 1983-giugno 1984, 4, 139-58.

 

[18] Per i riferimenti archivistici e normativi relativi alle trasformazioni dei primi decenni dell’Ottocento, cfr. ASC, Regia Segreteria di Stato e di Guerra, II s., vol. 1923, «Indice degli editti, pregoni ed altre leggi relative alle milizie e barracellerie emanate dopo il 1799», s.d. [ma 1821]. Cfr. inoltre F. Loddo Canepa, Dizionario archivistico per la Sardegna, Ledda, Cagliari 1926, estratto da «Archivio storico sardo», XVI, 1926, 50-52, e Id., Inventario della Regia Segreteria di Stato e di Guerra del Regno di Sardegna (1720-1848), Società nazionale per la Storia del Risorgimento italiano, Roma 1934, 283-88. Sui nuovi indirizzi della giustizia criminale e della pubblica sicurezza durante la permanenza della corte sabauda nell’isola, cfr. M. Da Passano, I Savoia in Sardegna e i problemi della repressione penale, in All’ombra dell’Aquila imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi in età napoleonica (1802-1814). Atti del convegno, Torino, 15-18 ottobre 1990, Ministero per i Beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i Beni archivistici, Roma 1994, 210-34.

 

[19] Sul dibattito politico e culturale che accompagnò la fine del Regnum Sardiniae, cfr. I. Birocchi, La questione autonomistica dalla «fusione perfetta» al primo dopoguerra, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Sardegna, cit., 133-82. Cfr. inoltre A. Mattone, Le Carte d’Arborea nella storiografia europea dell’Ottocento, in L. Marrocu (a cura di), Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo. Atti del convegno «Le carte d’Arborea», Oristano, 22-23 marzo 1996, Cagliari 1996, 25-152 e Id., La storiografia giuridica dell’Ottocento e il diritto statutario della Sardegna medievale, in «Materiali per una Storia della Cultura giuridica», XXVI, 1996, 1, 67-100.

 

[20] Sulla necessità di una profonda riforma dell’istituto, già in decadenza e perfino sottoposto a uno sconsiderato prelievo fiscale, cfr. R. Orrù, Sulle condizioni attuali e sulle sorti sperabili della Sardegna. Discorso al popolo, Cagliari 1848, e sull’opportunità di una sua rapida abolizione, cfr. C. Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Torino 1848, ora entrambi in G. Sorgia (a cura di), La Sardegna nel 1848. La polemica sulla «fusione», Cagliari 1968, rispettivamente 168-69 e 250-51. Per una sintetica descrizione del barracellato (dopo la riforma che nel 1836 ne aveva ristabilito l’autonomia dalle altre milizie), cfr. anche C. Cattaneo, Di varie opere sulla Sardegna, in «Il Politecnico», IV, 1841, ripubblicato in Id., Della Sardegna antica e moderna, Milano 1846-47, ora in C. Carlino (a cura di), Carlo Cattaneo. Geografia e storia della Sardegna, introduzione di G.G. Ortu, Roma 1996, 76.

 

[21] Cfr. G.B. Tuveri, La questione barracellare, Cagliari 1861, 6-7, ora in Id., Tutte le opere, vol. IV, Il governo e i comuni. La questione barracellare, a cura di L. Del Piano, G. Contu, Sassari 1994, 193-94. Per un inquadramento delle posizioni di Tuveri, cfr. il saggio di G. Contu, G.B. Tuveri e la questione barracellare, in Tuveri, Tutte le opere, cit., vol. IV, 27-52; e inoltre, l’interessante introduzione di N. Bobbio, Giovanni Battista Tuveri a cent’anni dalla morte, in Tuveri, Tutte le opere, cit., vol. I, 11-29. Sul pensiero di Tuveri cfr. inoltre il lavoro monografico di A. Delogu, Filosofia e società in Sardegna. Giovanni Battista Tuveri (1815-1887), Milano 1992.

 

[22] Cfr. Tuveri, La questione barracellare, cit., 227-34.

 

[23] «Stando a ciò che mi si dice – aveva scritto Joseph Fuos (un pastore luterano tedesco che in qualità di cappellano di un reggimento di stanza in Sardegna vi aveva soggiornato dal 1773 al 1777 e aveva poi pubblicato a Lipsia le sue impressioni e testimonianze sulla società sarda) – in molte regioni [dell’isola] la pubblica sicurezza è presso a poco data in affitto. La comunità dà un tanto ad una società la quale prende su di sé l’assicurazione di ciò che si ha nella campagna. Se qualche cosa va perduta questa società è obbligata a pagarla»: J. Fuos, Nachrichten aus Sardinien, von der gegenwärtingen Verfassung dieser Insel, Leipzig 1780 (trad. it. di P. Gastaldi Millelire, La Sardegna nel 1773-1776 descritta da un contemporaneo, Cagliari 1899, ried. a cura di G. Angioni, Nuoro 2000, 238-39). Sull’insostenibilità, sotto il profilo giuridico e storiografico, della tesi dell’assimilazione delle compagnie barracellari al modello di derivazione capitalistico-mercantile delle moderne assicurazioni, cfr. infra, note 54 e 93.

 

[24] G. Manno, Storia di Sardegna, vol. III, Torino 1826, ried. a cura di A. Mattone, Nuoro 1996, 20-21. In particolare Manno rinviava il lettore al secondo tomo del suo lavoro, in cui soffermando l’attenzione sulla «filosofia criminale» degli antichi statuti del Comune di Sassari sottolineava la modernità del principio in base al quale «i delitti non vi si considerano tanto come un’offesa privata, quanto come un turbamento dell’ordine pubblico; e perciò non dall’accusa altrui si fa dipendere il giudizio, ma dall’ufficio del giudice. Allo stesso principio – affermava – si deve anche riferire l’ordinamento fatto per serbarsi indenne a costo del comune colui che fosse dannificato o dirubato nelle circostanze di Sassari; dove la pubblica autorità, confidandosi di poter difficultare o chiarire i misfatti a suo carico assumeva quella soddisfazione» (ivi, vol. II, 44-45).

 

[25] Cfr. G.M. Mameli de’ Mannelli, Le costituzioni di Eleonora giudicessa di Arborea intitolate Carta de Logu, Roma 1805, 184-86. In effetti, Mameli de’ Mannelli aveva nostalgicamente mitizzato un presunto periodo aureo del barracellato che riteneva si fosse definitivamente chiuso negli ultimi decenni del Settecento. «Corpi eran dessi utilissimi e vantaggiosissimi – osservava il giudice della Reale Udienza sarda – [...], quando aveano un sol capitano per ciascuno, sempre ed inalterabilmente de’ primi più rispettabili, e più benestanti del Paese [...]; quando i capitani, avendo la libera elezione de’ caporali, e de’ soldati eleggevano sempre persone le quali godessero della pubblica estimazione, esclusi assolutamente i ladri e diffamati; quando il numero de’ barracelli era stabilmente fisso [...]; pria che si fosse introdotto l’uso capriccioso degli annuali concordati co’ Consigli Comunitativi; e quando avean l’obbligo della rifazione de’ danni al giusto valore a giudizio di periti di probità, senza darsi luogo a litigi d’alcuna sorta: fin l’ultimo racimolo divorato da’ cani – commentava Mameli de’ Mannelli – doveano pagare i barracelli ai proprietari delle vigne, non che ogni manipolo di biada pasturata dal bestiame in qualunque stato de’ seminati» (ivi, 185-86). Su Mameli de’ Mannelli cfr. Loddo Canepa, I giuristi sardi, cit., 9, 40-41.

 

[26] J.-F. Mimaut, Histoire de Sardaigne ou La Sardaigne ancienne et moderne, Paris 1825, t. I, 456-57.

 

[27] Ivi, 455-56. «Mariano – spiegava inoltre Mimaut – avait ordonné par son code rural qu’un certain nombre de jurés de chaque village, ayant leur major à leur tête, seraient tenus de visiter fréquemment toutes les propriétés en culture, d’examiner avec attention leurs clôtures respectives, de veiller à ce que chacun jouît sans trouble du fruit de ses travaux, et de placer, particulièrement dans les vignes, des observateurs, en correspondance les uns avec les autres, aux regards desquels rien de ce qui faisait dans le territoire ne devait échapper» (ivi, 455).

 

[28] A. De La Marmora, Voyage en Sardaigne de 1819 a 1825, ou Description statistique, physique et politique de cette île, Paris 1826, 358-59. Cfr., inoltre, l’integrazione e l’aggiornamento relativo alle normative più recenti nella seconda edizione a cura di A. Bertrand, Paris-Turin 1839, 361.

 

[29] G. Manno, Législation de l’île de Sardaigne, in «Revue de droit français et étranger» (continuation de la «Revue étrangère et française»), I, 1844, 368. Ma si può meglio comprendere lo spirito del contributo di Manno, se lo si inquadra in quel sapiente patriottismo (cautamente riformatore e soprattutto riconciliato con la Dominante sabauda) che caratterizzò tutta la sua opera storiografica: «Ce ne sera pas peut-être sans quelque surprise que ceux des nos lecteurs pour lesquels le nom de cette île, si longtemps méconnue, est tous au plus une pièce de rapport pour complément de la géographie italienne, verront que, si les lois actuelles sont au niveau de la science, ses législateurs anciens ont dépassé quelquefois leur siècle [...]. Le règne de Charles-Félix fut marqué par la promulgation du Code sarde de 1827 [...]. Le roi Charles-Albert [...] a régénéré la Sardaigne spécialement par l’abolition des fiefs et par le mouvement et la liberté donnés ainsi à la masse immense des terrains qui constituaient les domaines immeubles des anciens barons [...]. Nous regrettons de ne pouvoir donner une plus grande étendue à cette aperçu de loi sardes, et nous souhaitons qu’il puisse aussi servir à faire connaître à nos lecteurs que la Sardaigne, même sous ce rapport, se trouve placée dans une voie sûre de progrès sans dangers et d’améliorations sans secousses» (ivi, 365, 370, 372-73).

 

[30] Cfr. E. Besta, Il diritto sardo nel Medioevo, Torino 1899 e Id., La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in E. Besta, P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con prefazioni illustrative, Sassari 1905; U.G. Mondolfo, Responsabilità e garanzia collettiva per danni patrimoniali nella storia del diritto sardo nel Medio Evo, estratto della «Rivista italiana per le Scienze giuridiche», XXIX, 1900, 1-2; Testi e documenti per la storia del diritto agrario in Sardegna, sotto la direzione di A. Era, Sassari 1938. Da prevalenti interessi di diritto positivo muovono, invece, gli interessanti contributi di E. Presutti, L’Amministrazione pubblica dell’agricoltura, in V.E. Orlando (a cura di), Primo trattato completo di Diritto amministrativo italiano, vol. V, Milano 1930 (I ed. 1900), 184-97 e di N. Angioi, L’istituto del barracellato in Sardegna sotto l’aspetto storico-giuridico-amministrativo, in «Studi economico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Cagliari», I, 1909, 47-119, ripubblicato con prefazione di G. Sorgia, Cagliari 1969. Cfr., inoltre, A. Bolasco, Il barracellato e le truppe miliziane in Sardegna, Sassari 1914.

 

[31] Cfr. in particolare i lavori di P.E. Guarnerio, Gli Statuti della repubblica sassarese, in «Archivio glottologico italiano», XIII, 1892, estr. Loescher, Torino 1892; La lingua della «Carta de Logu» secondo il manoscritto di Cagliari, in «Studi sassaresi», III, 1903-1904, fasc. 3, poi in Besta, Guarnerio, Carta de Logu de Arborea, cit., 69 ss.; I dialetti odierni di Sassari, della Gallura e della Corsica, in «Archivio glottologico italiano», XIV, 1892, 389. Cfr., inoltre, M.L. Wagner, La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua (1921), a cura di G. Paulis, Nuoro 1996, 66, 130.

 

[32] Cfr. Fra il passato e l’avvenire. Saggi storici sull’agricoltura sarda in onore di Antonio Segni, Padova 1965 e A. Boscolo (a cura di), Il feudalesimo in Sardegna, Cagliari 1967.

 

[33] Cfr. G. Todde, Il barracellato, in F. Manconi, G. Angioni (a cura di), Le opere e i giorni. Contadini e pastori nella Sardegna tradizionale, Consiglio regionale della Sardegna, Cagliari 1982, 89-96; e inoltre Id., Le fonti archivistiche per una ricerca sull’agricoltura in Sardegna, in «Archivio sardo del Movimento operaio contadino e autonomistico», 1976, 6-7, 61-83; Id., Storia di Nuoro e delle Barbagie, Cagliari 1991, 106-107, 148 ss. Cfr., inoltre, E. Tognotti, La prima «carta del barracello» a Massama nel novembre del 1788, in «Sardegna Autonomia», n.s. XIV, 1988, 4-5, 34-36. Risulta infine alquanto deludente (è in gran parte una sommaria riproposizione di testi normativi otto-novecenteschi già noti e pubblicati) e anche un po’ confusionario (vi si accredita un «arrivo nell’Isola della famiglia sabauda» nel 1720, 21) il volumetto di B. Porcheddu, I barracelli. Fondazione e legislazione, Sassari 2004.

 

[34] È indicativo il recente e pur cospicuo lavoro di S. Orunesu, Dalla scolca giudicale ai barracelli. Contributo a una storia agraria della Sardegna, Cagliari 2003, che si diffonde in un articolato commento e in una meticolosa ma formalistica rilettura comparata degli antichi testi normativi, inevitabilmente soffrendo della scarsa produttività di un filone di ricerca che ha ormai esaurito ogni sua potenzialità. Analoghe caratteristiche presenta l’articolo di E. Mura, Responsabilità e garanzie collettive nella legislazione statutaria sarda, in «Archivio storico e giuridico sardo di Sassari», n.s., 1996, 3, 61-65, con relativa appendice di fonti normative, 66-86.

 

[35] Sulla «teoria dei fattori storici» e sulla sua singolare incidenza nella storiografia giuridica sarda cfr. le penetranti considerazioni di E. Cortese, Appunti di storia giuridica sarda, Milano 1964, 119-27. La ricerca delle origini dei singoli fenomeni giuridici, «in anni in cui la diffusa mentalità positivistica influenzava anche chi non la faceva consapevolmente propria», si configurava, ha scritto Cortese, «quasi come una corsa all’individuazione di realtà cronologicamente anteriori che si qualificavano come “cause” di realtà cronologicamente posteriori, nella determinazione di un nesso governato, appunto, da un rigoroso principio di causalità arbitrariamente trasposto dal piano della logica su quello della vita» (ivi, 122).

 

[36] Cfr. U.G. Mondolfo, Recensione a N. Angioi, L’istituto del barracellato in Sardegna sotto l’aspetto storico-giuridico-amministrativo, in «Archivio storico sardo», V, 1909, 264-68. In realtà l’opera di Angioi era rimasta per Mondolfo «una dissertazione di laurea», i cui «difetti» andavano giudicati «con un po’ d’indulgenza», ma non «taciuti né attenuati». Sicché le sue puntuali e penetranti critiche si traducevano in un’implacabile stroncatura, che andava ad affiancarsi alle profonde riserve espresse da Arrigo Solmi nella succinta segnalazione del lavoro di Angioi apparsa nel numero precedente del periodico: cfr. A. Solmi, Recensione a N. Angioi, L’istituto del barracellato in Sardegna sotto l’aspetto storico giuridico, in «Archivio storico sardo», IV, 1908, 170-71.

 

[37] Il collegamento tra l’istituto barracellare e l’«ordinamento della pubblica sicurezza presso i Franchi» era stato riproposto di recente, fra l’altro in una sede prestigiosa, da Enrico Presutti, che nel suo contributo al Trattato di diritto amministrativo diretto da Vittorio Emanuele Orlando aveva approfonditamente analizzato i due importanti regolamenti del 14 luglio 1898 con i quali il governo italiano, in base alla legge per la Sardegna del 2 agosto 1897, aveva ridisegnato la normativa per la repressione dell’abigeato e per il rilancio delle compagnie barracellari nell’isola. In particolare l’autorevole giurista, riflettendo sull’«interesse artificialmente creato nei barracelli al mantenimento della pubblica sicurezza», affermava che non era difficile «trovare analogie presso i popoli primitivi», ricordando che presso i franchi gli uomini liberi di ciascuna centena o distretto erano chiamati a «impedire gli attentati contro la vita e la proprietà, e nel caso non riuscissero ad assicurare il reo alla giustizia erano tenuti al risarcimento dei danni» (Presutti, L’Amministrazione pubblica dell’agricoltura, cit., 197).

 

[38] «Solo è da osservare – aggiungeva – che questi giurati, sebbene costituiti in chida [squadra], presentano semplicemente, a quel che pare, una forma di responsabilità individuale, non collettiva, e credo che in Sardegna non si abbia la vera forma di responsabilità solidale fra i componenti la società barracellare se non negli ultimi secoli del dominio spagnuolo, cioè proprio al sorgere dell’istituto del barracellato» (Angioi, L’istituto del barracellato, cit., 14).

 

[39] Mondolfo, Recensione, cit., 266.

 

[40] Il lavoro di Angioi fu opportunamente ripubblicato nel 1969 con una brevissima prefazione di Giancarlo Sorgia che si limitava a elogiare la serietà dello studio, senza dar conto delle critiche che ad esso erano state mosse e senza avvertire il lettore dei limiti storiografici e metodologici della ricerca, i cui risultati erano già assai datati.

 

[41] Cfr. P. Quesada Pilo, Dissertationum quotidianarum iuris in tribunalibus Turritanis controversi, tomus primus, Neapoli 1662, 285-86.

 

[42] ASC, Antico Archivio Regio (d’ora in poi AAR), Parlamenti, vol. 163, c. 819v.

 

[43] «Attes accau moltes voltes – si legge nella petizione – als barons y heretats menar molta gente per pendre lladres [...] se ha vist, y his veu, dit Fisch real haver tentat fer instances contra alguns barons per haver menat algun numero de gent de deu o doze per pendre lladres, seu alias, cullir alguns drets de dits barons, que perço placia a Vostra Magestad abolir y llevar dita pragmatica». Dexart, Capitula sive acta Curiarum Regni Sardinae, cit., lib. I, tit. VII, cap. IV, 230-31. Cfr. inoltre la «Pragmatica serenissimi regis Ioannis, quae cum decreto istius capituli reiecta depraecatione in contrarium, observari iubetur», 231-32; i provvedimenti regi sulla «Crida general» fatta pubblicare dal viceré il 31 ottobre 1561, 262-67, e le decretazioni regie sui capitoli oggetto del contrasto fra il viceré e il braccio militare, 267 ss. Sulle milizie cfr. A. Mattone, Le istituzioni militari, in M. Guidetti (a cura di), Storia dei sardi e della Sardegna, vol. III, L’età moderna dagli aragonesi alla fine del dominio spagnolo, Milano 1989, 99-107.

 

[44] Archivo de la Corona de Aragón (d’ora in poi ACA), Cancilleria Sardiniae, reg. 4332, c. 138v. Sulle caratteristiche del banditismo nella Sardegna del Cinquecento cfr. J. Day, Per lo studio del banditismo sardo nei secoli XIV-XVII, in «Quaderni sardi di Storia», 1985-86, 5, ora in Uomini e terre nella Sardegna coloniale. XII-XVIII secolo, Torino 1987, 245-68, in particolare 247-49.

 

[45] Cfr. G. Olla Repetto, Mezzi di lotta contro la criminalità nella Sardegna spagnola, in «Rivista sarda di criminologia», IV, 1988, 2, 493-94.

 

[46] Archivio di Stato di Sassari (d’ora in poi ASS), Archivio storico del Comune di Sassari, busta 6, fasc. 11 (Libro di ordinazioni comunali diverse, 1596-97), c. 6. Cfr. inoltre E. Costa, Sassari, vol. II, t. III, Sassari 1972 (ed. or. 1938), 255-56.

 

[47] Qui il riferimento è probabilmente alle norme dello ius commune: cfr. Cortese, Appunti di storia giuridica, cit., 127-29. Cfr. inoltre il bel lavoro di F. Sini, “Comente comandat sa lege”. Diritto romano nella «Carta de Logu» d’Arborea, Torino 1997, e ora Id., Influssi del diritto romano sulla «Carta de Logu» di Arborea, in I. Birocchi, A. Mattone (a cura di), La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, cit., 50 ss.

 

[48] Cfr. A. Mattone, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo e G. Doneddu, La Nurra. Microstoria di un territorio, in A. Mattone, M. Tangheroni (a cura di), Gli Statuti Sassaresi. Economia, società e istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell’Età moderna, Cagliari 1996, 409-490, 393-406.

 

[49] ASS, Archivio storico del Comune di Sassari, b. 6, fasc. 11, c. 8. La nota apposta a margine della convenzione precisava inoltre che il saldo delle somme dovute al capitano sarebbe stato pagato solo dopo che questi avesse soddisfatto ogni fondata richiesta di risarcimento dei danni.

 

[50] Ivi, c. 16. Le altre registrazioni riguardano: due bandi dati il 27 luglio e il 18 agosto per rendere pubblici i termini entro i quali i proprietari danneggiati avrebbero dovuto presentare, rispettivamente, la denuncia del furto al veguer e la richiesta di risarcimento ai consiglieri civici; e due brevi annotazioni contabili su alcune quote raccolte e pagate ai barracelli (cc. 16v, 17r, 19r, 20v).

 

[51] Sulla responsabilità collettiva cfr. L. Zdekauer, Un caso di garanzia per danni patrimoniali nelle origini del Comune, in «Rivista italiana per le Scienze giuridiche», XXVII, 1899, 1, 40-57; e inoltre J.M. Carbasse, La responsabilité des communautés en cas de «méfaits clandestins» dans les coutumes du Midi de la France, in Diritto comune e diritti locali nella storia dell’Europa. Atti del convegno di Varenna, 12-15 giugno 1979, Milano 1980, 139-52.

 

[52] Cfr. A. Era, Ordinanze e deliberazioni del Consiglio civico di Alghero in materia agraria (1582-1649), in Testi e documenti, cit., 403-404, 434-36.

 

[53] Ivi, 403. Nella deliberazione del 1619 si precisava inoltre che i barracelli avrebbero dovuto operare con una squadra di sei uomini nel periodo estivo-autunnale e soltanto con due per la restante parte dell’anno.

 

[54] Mondolfo, Responsabilità e garanzia, cit., 14. Fra gli «speciali corpi» istituiti per la prevenzione e la repressione dei delitti dovevano annoverarsi, secondo Mondolfo, oltre ai giurati anche i barracelli, «sebbene questi [...], più che una funzione di vera sicurezza pubblica, compiessero e compiano – considerava finemente lo storico del diritto – una funzione di tutela dei patrimoni privati e dai privati avessero ed abbiano appunto la loro retribuzione. Quando poi le leggi comminavano una multa e sancivano una responsabilità pecuniaria dei giurati (e dei barracelli) per quei delitti di cui non avessero saputo scoprire l’autore e ottener quindi il risarcimento, esse miravano appunto a render i giurati (e i barracelli) direttamente interessati a compiere quelle funzioni a cui erano delegati» (ivi, 16). Assai opportunamente Mondolfo sottolineava, inoltre, le peculiarità e la «diversa natura giuridica della norma contenuta nel cap. I, 79», presente in molti altri statuti comunali della penisola, che stabiliva che i danni causati «per manu de homine o de focu a sas domos dessa vingnas, ortos i molinos» ubicati nel territorio di Sassari dovevano essere risarciti dal Comune in base alla semplice dichiarazione giurata del danneggiato entro un mese dalla denunzia. «Nel cap. I, 79 – commentava Mondolfo – non c’è evidentemente una misura di ordine poliziesco, ma d’ordine economico: non è sancito un dovere dei cittadini, ma un diritto al quale corrisponde naturalmente un’obbligazione legale del Comune» (ivi, 17).

 

[55] Cfr. Quesada Pilo, Dissertationum quotidianarum, cit., 285-86. Sulla figura e sull’opera di Quesada Pilo cfr. P. Tola, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, vol. III, Torino 1837, ad vocem.

 

[56] Sulla contea d’Oliva e sul ducato di Gandía e sulla loro unione nella casata dei Borja cfr. J. Sendra Molió, La città e il ducato di Gandía, in «Quaderni bolotanesi», XXIX, 2003, 111-38, e inoltre Id., Els comtes d’Oliva a Sardenya, Oliva 1998. Per un quadro delle caratteristiche e della distribuzione dei feudi nella Sardegna del Seicento, cfr. B. Anatra, Economia sarda e commercio mediterraneo nel Basso Medioevo e nell’Età moderna, in M. Guidetti (a cura di), Storia dei sardi e della Sardegna, vol. III, L’Età moderna. Dagli Aragonesi alla fine del dominio spagnolo, Milano 1989, 190-216; G.G. Ortu, Villaggio e poteri signorili in Sardegna, Roma-Bari 1996, 291-95, 259-60; F. Floris, Feudi e feudatari in Sardegna, vol. I, Cagliari 1996, 151-338; R. Pinna, Atlante dei feudi in Sardegna. Il periodo spagnolo, 1479-1700, Cagliari 1999, 106-24.

 

[57] Cfr. la lettera di Salvador Sini al duca di Gandía, Cagliari 30 aprile 1642, conservata in Archivo Histórico Nacional (d’ora in poi AHN), Casa de Osuna, leg. 604, n. 2/49, ora tradotta e pubblicata da I. Bussa, Pratica della vendetta e amministrazione feudale negli stati sardi di Oliva (1642), in «Quaderni bolotanesi», XX, 1994, 335-80, in particolare 364-65. Sebbene la lettera non chiarisca se i barracelli fossero tenuti al risarcimento dei danni, l’accusa secondo cui i fondi della compagnia erano serviti a «riempire le borse di alcune terze persone» sembra alludere a un uso distorto e interessato del sistema degli indennizzi. L’obbligo di rifondere i danni non era invece previsto per la compagnia di venti uomini e un capitano costituita pochi anni prima, nel 1635, dal reggitore Francisco Joan Navarro, con il compito di perlustrare le campagne, prevenire i furti, catturare i ricercati e sorvegliare il bestiame. Si trattava di un corpo unico per tutto il territorio del feudo, chiamato a operare alle dipendenze del reggitore e mantenuto a spese dei vassalli, che a questo scopo dovevano versare un contributo mensile: cfr. Id., Ordine pubblico, gestione finanziaria e ripopolamento negli stati sardi di Oliva (1635), in «Quaderni bolotanesi», XVIII, 1992, 363-70, 404-405.

 

[58] Sul banditismo sardo nei decenni centrali del Seicento cfr. B. Anatra, Dall’unificazione aragonese ai Savoia, in Anatra, Day, Scaraffia, La Sardegna medievale e moderna, cit., 576-84; Day, Per lo studio del banditismo sardo, cit., 249-68 e Id., Banditisme social et société pastorale en Sardaigne, in Les marginaux et les exclus dans l’histoire, Paris 1979, ora in Id., Uomini e terre, cit., 269-90; G. Sorgia, La Sardegna spagnola, Sassari 1982, 139-46; cfr. inoltre A.M. Graziani, «Comme des oiseaux à la campagne». Banditisme, état et société dans la Corse du XVIIª siècle, in Banditisme et violence sociale dans les sociétés méditeranéennes. Actes de colloque de Bastia, 27-29 mai 1993, numero monografico di «Études corses», XXI, 1993, 77-89 e M. Ardit, Violencia i justícia en el marquesat de Llombai (segles XIII-XVIII), in «Estudis», 28, 2002, 113-35.

 

[59] Sulle ripercussioni della grande peste mediterranea in Sardegna cfr. G. Serri, Il censimento dei fuochi sardi del 1655, in «Archivio sardo del Movimento operaio contadino e autonomistico», 1981, 14-16, 289-310; B. Anatra, I fasti della morte barocca tra epidemia e carestia, in «Incontri meridionali», 1977, 4, 117-42; e soprattutto F. Manconi, Castigo de Dios. La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma 1994, 350-97.

 

[60] Carta del marques de Castel Rodrigo, virrey de Cerdeña, acerca la renovación de los barracheles, que se han introducido en aquel Reyno para guarda de los campos, Sassari, 12 aprile 1661, c. 2, in ACA, Consejo de Aragón, leg. 1069.

 

[61] Cfr. ASC, AAR, H. 40, cc. 243-244v. Sul governo del viceré Francisco de Moura y Corte Real, marchese di Castel Rodrigo, cfr. J. Mateu Ibars, Los virreyes de Cerdeña. Fuentes para su estudio, vol. II, Cedam, Padova 1967, 95-101; Anatra, Dall’unificazione aragonese, cit., 579-80; A. Mattone, Le istituzioni militari, in Guidetti (a cura di), Storia dei sardi, cit., 91-92. Sull’impegno del viceré nella lotta alla criminalità cfr., inoltre, la vivace cronaca composta negli anni Settanta del Seicento da J. Aleo, Storia cronologica e veridica dell’isola e Regno di Sardegna dall’anno 1637 all’anno 1672, saggio introduttivo, traduzione e cura di F. Manconi, Nuoro 1998, 231-40, che però non fa alcun riferimento all’istituzione dei «soldados de campaña».

 

[62] Carta del marques de Castel Rodrigo, cit., c. 3. Sulla nascita di una compagnia barracellare a Ozieri nel 1656 e sull’istituzione, pochi anni dopo, nel 1660, di un distaccamento fisso di truppe regie nello stesso capoluogo del Monteacuto cfr. F. Amadu, F. Marongiu, Ozieri, Cagliari 1976, 37 ss.

 

[63] «Ha parecido encargar y mandaros, como lo hágo – ordinava il sovrano – que siendo en esta conformidad se escuse así a estos vassallos como a los demás del Reyno de la carga referida, y lo deseis correr como se ha acostumbrado y me lo representa y suplica el marques» (Carta reale del 31 ottobre 1660, in ACA, Consejo de Aragón, leg. 1069). Su Francisco Carlos de Borja, marchese di Lombay, e sui feudi sardi della contea di Oliva nei decenni centrali del Seicento cfr. I. Bussa, I registri delle riscossioni e delle spese di don Geronimo Sossa, reggitore degli stati sardi di Oliva (1636-1659), in «Quaderni bolotanesi», XIX, 1993, 263-370, e Id., Ordine pubblico, cit., 356-61. Sui feudi valenzani cfr. J. Casey, El Reyno de Valencia en el siglo XVII, Madrid 1983 (I ed. Cambridge University Press, Cambridge 1973), 104-57, e inoltre F. Pons Fuster, Aspectos económico-sociales del contado de Oliva (1500-1700), Valencia 1981.

 

[64] Memoriales presentados en nombre de los marqueses de Orani, Lombay y Quirra, condes de Sedilo, Monteleone y Bonorva, y demás titulos y varones del Reyno de Cerdeña, Madrid 28 luglio 1661, in ACA, Consejo de Aragón, leg. 1069. Fatta eccezione per gli immensi possessi del marchese di Quirra, ubicati nel meridione dell’isola, i feudi di cui erano titolari gli altri cinque sottoscrittori dei memoriali occupavano la gran parte della Sardegna centro-settentrionale. Tra i loro possessi spiccavano le vaste incontrade dell’Anglona, di Osilo, del Monteacuto e del Marghine appartenenti al conte d’Oliva; le signorie di Nuoro, di Bitti, di Orani e della Gallura occidentale di cui era titolare il marchese di Orani; la contea di Sedilo e le signorie di Austis, di Bonvehì (Mara e Padria) e di Parte Barigadu Jossu (Allai, Busachi, Fordongianus) del conte di Sedilo; le terre di Bonorva e di Semestene e quelle di Monteleone Roccadoria, di Romana e di Villanova Monteleone, appartenenti rispettivamente ai conti di Bonorva e di Monteleone. Poco più tardi, nel settembre 1661, anche il marchese di Villacidro, signore della Planargia di Bosa (e dei suoi sette villaggi nella Sardegna centro-occidentale: Magomadas, Modolo, Sagama, Sindia, Suni, Tinnura, Tresnuraghes), invocava l’esonero dei suoi vassalli dalle nuove contribuzioni e il ritiro dei «soldados de campaña» dalle sue terre.

 

[65] Memoriales presentados, cit., c. 1.

 

[66] Secondo la denuncia dei baroni, i tributi imposti a ciascun abitante erano di un capo di bestiame, o quattro ducati, per ogni cinquanta vacche, cavalli o maiali posseduti; uno ogni cento per gli ovini e i caprini; due reali per ogni asino e quattro reali per ogni cavallo; uno starello e mezzo di grano per ogni giogo di buoi; quattro reali per ogni orto e una carica di vino per ogni vigna: «y por no poder supportar carga tan pesada, muchos de los ganaderos – dichiaravano i baroni – han vendido sus ganados, los labradores han destituydo sus labransas, viñas y huertas, y se han salido del Reyno, porque solo se ha utilizado el Marques de esta contribución, sin haver pagado los daños que han sucedido a los particulares, ni a los capitanes de campaña por haverles dado este exercicio en castigo de sus delictos» (Memoriales presentados, cit., cc. 1v-2).

 

[67] Di qui la specifica richiesta della revoca delle disposizioni e del pronto ristabilimento della situazione quo ante: «Supplican a Vuestra Magestad – dichiaravano i sottoscrittori del memoriale – [...] que se deroghe lo que por dicho marques de Castel Rodrigo se ha ordenado sobre este particular, y que los regidores y consultores de los supplicantes y demas feudatarios hagan y determinen las causas criminales y suelten los presos, en su caso, como y en la forma que les esta concedido por reales privilegios, y se ha estilado y observado siempre» (Memoriales presentados, cit., c. 3v).

 

[68] Carta del marques de Castel Rodrigo, cit., c. 6. Così il viceré difendeva orgogliosamente le proprie disposizioni, che a suo avviso consentivano di eliminare gli abusi senza violare i privilegi dei baroni, ai quali in definitiva «no se le negava el conocimiento de la causa».

 

[69] Ivi, c. 1v.

 

[70] Ivi, c. 8v. Ai donativi e ai patti che il marchese di Lombay era riuscito a strappare ai suoi vassalli tra il 1660 e il 1661 faceva ancora riferimento un’interessante relazione settecentesca sugli Stati sardi di Oliva: cfr. I. Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli stati di Oliva (1769). Il principato di Anglona e la contea di Osilo e Coghinas, in «Quaderni bolotanesi», XII, 1986, 323-24.

 

[71] Cfr. Consulta sobre lo que supplican los titulos y varones del Reyno de Cerdeña en orden a la introdución de los barracheles, Madrid, 22 agosto 1661, in ACA, Consejo de Aragón, leg. 1069.

 

[72] Sull’altro versante, i consiglieri che insieme al vicecancelliere sostennero la linea maggioritaria erano quattro: il catalano José Romeu de Ferrer, il valenzano Pedro de Villacampa e gli aragonesi Luis de Exea y Talayero e José Pueyo y Mendez. Sulla composizione del Consiglio d’Aragona e sulle sue funzioni in materia di governo nei decenni centrali del Seicento, cfr. il bel lavoro di J. Arrieta Alberdi, El Consejo Supremo de la Corona de Aragón (1494-1707), Zaragoza 1994, 153-206, 335-505. Il reggente sardo Giorgio di Castelví, attento difensore degli interessi baronali, era stato chiamato a far parte del Consiglio d’Aragona nel 1650, al termine di una lusinghiera carriera militare nelle Fiandre e a Napoli, compensata con il posto che era stato del primo reggente provinciale Francisco de Vico. Legato da vincoli di sangue ad alcuni dei principali esponenti dell’aristocrazia sarda, fu il punto di riferimento, presso la corte madrilena, di quella nobiltà isolana che puntava a condizionare il sovrano e a imbrigliare il potere viceregio attraverso un sistematico rilancio del pattismo cetuale, ma fu bruscamente destituito dalla carica nel 1668, accusato di voler proteggere il fratello Iacopo Artaldo, marchese di Cea, principale imputato della congiura culminata nell’omicidio del viceré di Sardegna, marchese di Camarassa. Cfr. B. Anatra, Castelví Agostino, Castelví Giorgio e Castelví Iacopo Artaldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXII, Roma 1979, 21-26.

 

[73] Nòmina de los daños han sucedido en las villas de la Encontrada de Monte Agudo durante el tiempo han exercido el oficio los soldados de campaña nombrados por el señor virrey, presidente y capitán general, marques de Castel Rodrigo, los quales daños han sucedido durante el triennio y no son pagados, Ozieri, 20 marzo 1661, in ACA, Consejo de Aragón, leg. 1069. Il prospetto, certificato dal notaio del Monteacuto Giovanni Michele Cossu, elencava separatamente i dati relativi ai villaggi di Buddusò, Oschiri, Nulvi, Alà, Osidda, Berchidda, Ozieri, Pattada e Bantine: fra le perdite più consistenti erano segnalate 401 vacche a Buddusò, 201 a Oschiri e 570 tra «vaccas y buyes sin domados» a Pattada e Bantine.

 

[74] Consulta sobre lo que supplican, cit., c. 7. In realtà ai despoblados e ai saltus destinati al pascolo erano estese le disposizioni sulla presunta responsabilità dei pastori degli ovili vicini, che la Carta de Logu e le regie prammatiche prevedevano per i danni causati da ignoti nella vidazzone e nel prado: cfr. Carta de Logu, cit., capp. CXVIII e CXLVIII, e Leyes y pragmáticas, cit., tit. XXXXIV, cap. 15 («Daños de panes pague el medado ò cuyli mas vezino»). Sul controllo dei saltus e sulla responsabilità dei titolari dei cuilis cfr. le acute considerazioni di G.G. Ortu, Il paese sul crinale. Gruppi di eredità e formazione della proprietà (Burcei, 1655-1865), Cagliari 2000, 37-40.

 

[75] «Y assí os encargo y mando – scriveva il sovrano al viceré – deis las ordenes necessarias, y que convengan, para que de aqui adelante se les dexa obrar libremente usando de su jurisdición, y que ni los barracheles, ni otras perçonas reciban información sino en los casos que el nombre de los delitos se la excluya» (Carta reale, Madrid, 31 agosto 1661, in ACA, Consejo de Aragón, leg. 1069).

 

[76] Consulta sobre lo que supplican el marques de Lombay y el marques de Orani, Madrid, 2 novembre 1662, in ACA, Consejo de Aragón, leg. 1069. Il Consiglio d’Aragona lasciava tuttavia aperto il problema di fondo, e sul nodo del «modo y forma que se ha de tener en la custodia y guarda de los ganados y frutos» sollecitava al viceré e alla Reale Udienza un’apposita relazione che permettesse di valutare se fosse più efficace «la introdución de los [soldados de campaña] o el modo con que antes se solian governar segun las leyes y constumbre de aquel Reyno».

 

[77] Cfr. Anatra, Dall’unificazione aragonese, cit., 625 ss.; Id., Corona e ceti privilegiati nella Sardegna spagnola, in B. Anatra, R. Puddu, G. Serri, Problemi di storia della Sardegna spagnola, Cagliari 1975, 111-13; Id., Istituzioni e società in Sardegna e nella Corona d’Aragona (secc. XIV-XVII). El arbitrio de su libertad, Cagliari 1997, passim.

 

[78] Los procuradores del estado y ducado de Mandas, marquesados de Quirra, Orani, Villasor, Laconi, Albis, Montemayor, Monteleon, Soleminis, contados de Sedilo, Oliva, Villamar, Bonorva, Montalvo y diversas encontradas del Reino de Cerdeña, suplican el virrey y capitán general de dicho Reino, s.d. (ma 1675), in AHN, Casa de Osuna, leg. 1010. Cfr. inoltre il Pregón sobre la buena administración de la justicia, estirpación de los delitos y castigo de delincuentes, Cagliari, 7 agosto 1675, cit. in Mateu Ibars, Los virreyes de Cerdeña, cit., 139-40. Sul disordine politico e amministrativo degli Stati sardi d’Oliva negli anni successivi alla crisi del Parlamento Camarassa cfr. B. Anatra, Banditi e ribelli nella Sardegna di fine Seicento, Cagliari 2002, 12-23.

 

[79] ASC, Reale Udienza, classe IV, 75/14, Pregone del duca di Monteleone, Cagliari, 6 luglio 1688, c. 70.

 

[80] Cfr. R. Di Tucci, La proprietà fondiaria in Sardegna, Ledda, Cagliari 1928, 127 sgg.; G. Murgia, Una fonte per lo studio della società feudale nella Sardegna moderna. I «Capitoli di Grazia» di Villasor, estratto da «Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari», n.s., vol. V, 1981, 107-45 e Id., Comunità e baroni. La Sardegna spagnola (secoli XV-XVII), Roma 2000, 80 ss. Sul nuovo protagonismo delle comunità rurali nel Seicento cfr. Birocchi, Capra, L’istituzione dei Consigli comunitativi in Sardegna, cit., 142-43; G.G. Ortu, Il corpo umano e il corpo naturale. Costruzione dello spazio agrario e pretese sulla terra nella Sardegna medievale e moderna, in «Quaderni storici», XXXIII, 1992, 81, 677-79. Basterebbe soffermarsi sulle veementi denunce degli abusi perpetrati negli Stati sardi del duca di Gandía e di Oliva, contenute nella relazione che il procuratore Salvador Sini aveva inviato, nel 1606, al feudatario spagnolo, all’indomani dell’arrendamento del feudo, per rendersi conto delle mutevoli realtà che potevano celarsi sotto l’apparente continuità degli istituti e degli ordinamenti rurali arborensi. Cfr. I. Bussa, Il volto demoniaco del potere. L’amministrazione del feudo sardo di Oliva agli inizi del 1600, in «Quaderni bolotanesi», XVI, 1990, 487-555.

 

[81] Si riferiscono agli anni 1673 e 1676 le annotazioni relative ad alcuni capi bovini «iscrittos a magadita» o «pro seguridade» contenute nel Libro dell’amministrazione del bestiame appartenente alla Chiesa di Santa Maria di Bonorva (1665-1679), cc. 36 e 62 [la numerazione è nostra]. Non figurano invece versamenti a favore dei barracelli nelle scritture contabili relative al patrimonio ovino. Anche nel Libro di amministrazione della Chiesa di S. Antonio, cappellania di Bonorva (1689-1706), mentre risultano puntualmente i pagamenti effettuati alla compagnia barracellare per la custodia dei seminati e dei buoi da lavoro, non figurano invece registrazioni di versamenti per la custodia del bestiame rude: si può supporre che a quel tempo la compagnia barracellare di Bonorva mentre assicurava la vigilanza per i terreni della vidazzone e per il bestiame manso, non assumeva nessuna responsabilità per gli ovini e i bovini che pascolavano nei salti. Su entrambi i registri, conservati nei locali della sacrestia della Chiesa parrocchiale di Bonorva, cfr. F.G. Mura, Per una storia della pastorizia in età moderna. Il caso della contea di Bonorva, tesi di laurea, relatore P. Sanna, Università degli studi di Sassari, Facoltà di Scienze politiche, a.a. 1992-93, 40-43, 70-71. Certamente le compagnie barracellari continuarono a operare, anche negli ultimi decenni del Seicento, in diversi villaggi degli Stati d’Oliva. Se ne ha una testimonianza, per esempio, a Pattada dove nel 1678 i soprusi e i maneggi dei barracelli suscitarono una gravissima serie di conflitti a fuoco e di vendette con sei morti e numerosi feriti: cfr. F. Amadu, Pattada dalla preistoria all’Ottocento, Ozieri 1996, 52-53.

 

[82] Todde, Il barracellato, cit., 89.

 

[83] Cfr. i pregoni del viceré conte de Atalaya, Cagliari, 13 ottobre 1715 e 1º settembre 1716, in ASC, Reale Udienza, classe IV, 75/21, cc. 31-37 e 98-102.

 

[84] Per i testi degli statuti cfr. Archivio storico del Comune di Alghero (d’ora in poi ASCA), busta 827 e reg. 394.

 

[85] Capitols y pactes que se han de guardar y observar per lo capità y barrachels desta ciutat de Alguer lo present ayn 1711, in ASCA, reg. 394, f. 4v.

 

[86] Capitols de barrincheleria estabilits de observarse per los barranchels de la Ciutat de Alguer aprovats y manat observar per lo excelentisim senor abat Doria del Maro, virrey y capità general lo present ayn 1737, in ASCA, busta 827, fasc. 9, f. 2v.

 

[87] Registre dels capitols dels barranchellos del any 1684 y 85, in ASCA, busta 847, fasc. 24, f. 1.

 

[88] Ivi, f. 2.

 

[89] Cfr. Capitols y pactes que se han de guardar y observar per espas de sinch ayns en lo que son obligats servir de capitá de barranchels [...], los quals observarà lo present ayn 1724 lo dit noble Carrion y los barranchels, in ASCA, reg. 394, ff. 1v-2r.

 

[90] Cfr. Loddo Canepa, Relazione della visita del viceré, cit., 137. «De la misma manera se establece – recitavano i patti per la barracelleria di Alghero del 1783 – que seran exemptos de servir de barrancheles [...] los pedrargius que estuviere en attual exercisio [...] sirviendo [...] para la guarda de los panes y lugares vedados, en cuyo oficio trabajaron la mayor parte del año, como del henero en que se nombran, hasta el dia primero de agosto, en que se nombran los barrancheles» (Capitulos que deve observar la barranchelaria de la ciudad de Alguer, 1783, in ASCA, busta 791, fasc. 179, ff. 3r e v).

 

[91] Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., cc. 552v-553r. Sull’affermazione del baracellato tra Sei e Settecento, cfr. Ortu, Villaggio e poteri signorili, cit., 157 ss. e 272 ss.

 

[92] Ivi, cc. 553r-553v. «Iurisdictio igitur prati maioris – spiegava ancora Carta Deidda – pratorum vingitur ambitu, intraque satorum fines clauditur [...]. Prati nomen comune est vineto, quod vinearum pratum dicitur, cap. 135 et 146 Cartae Localis et pasco domitis destinato» (ibid.).

 

[93] Cfr. P. Sanna Lecca, Editti, pregoni ed altri provvedimenti emanati pel Regno di Sardegna doppoiché passò sotto la dominazione della Real casa di Savoia sino all’anno 1774, Cagliari 1775, 122, 143-44. Cfr. inoltre le Istruzioni generali a tutti li censori del Regno [...] emanate d’ordine di S.E. il signor viceré [...] des Hayes in data 10 luglio 1771, Cagliari 1771, 19-21 e 44-49 (una sorta di piccolo testo unico delle «diverse leggi agrarie del Regno» predisposto dal censore generale Giuseppe Cossu e poi fatto ritirare dal ministro Bogino), in cui i riferimenti alle attività dei padrargios e dei barracelli si confermano marginali: cfr. ASC, Atti amministrativi e governativi, vol. 6, n. 315. Sui criteri per la determinazione del compenso dovuto ai barracelli per la custodia del Monte granatico e dei terreni seminati con la «roadia» cfr. le interessanti considerazioni di Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., cc. 552r-552v: «Salarium hoc moribus locorum diversimode praefinitur; quandoque solidi unius pro libra est iusti rei valoris, per peritos vel per denuntiantem ipsum stabilendi; neque enim eadem est ratio totius ac partis; quippe aequum minime sit eundem barracellis solarium constituere pro mille ac pro decem vel centum; dum maiorem ergo periculum, sollecitudinemve in se suscipiunt, maiori digni sunt praemio, ut innui cap. 1, n. 50, et segg., ubi naturam contractus inter barracellos et universitatem initi, declaravimus, quod scilicet operarum sit locationis». Si tratta inoltre della evidente conferma della insostenibilità della classificazione delle convenzioni barracellari fra i contratti di assicurazione e della loro riconducibilità invece alla locatio operarum: ma il tema meriterebbe un apposito approfondimento.

 

[94] Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., c. 494v.

 

[95] Cfr. Loddo Canepa, Relazione della visita del viceré, cit., 306. Un’efficace e assidua politica di protezione e controllo delle compagnie baracellari fu in particolare dispiegata alla fine degli anni Settanta dal viceré conte Lascaris: cfr. M. Lepori, Dalla Spagna ai Savoia. Ceti e corona nella Sardegna del Settecento, Roma 2003, 172-75. Un’interessante esperienza di ripresa della tradizione barracellare in un piccolo villaggio della Sardegna meridionale è analizzata da G. Murgia, Dalla restaurazione piemontese alla fine del ‘Regnum Sardiniae’, in Villamar. Una comunità e la sua storia, a cura di G. Murgia, Dolianova (CA) 1993, 225-31. Per un’utile comparazione con un’esperienza ottocentesca cfr. I. Bussa, La compagnia barracellare di Bolotana nel 1840-41, in «Quaderni bolotanesi», XV, 1989, 499-574.

 

[96] Cfr. F. Loddo Canepa, Una relazione del conte di Sindia sullo stato attuale e sui miglioramenti da apportare alla Sardegna (1794?), in «Studi sardi», XII-XIII, 1952-54, parte II, 396-97. I barracelli, denunciava ancora il conte di Sindia, «altro non curano che ricavar qualche lucro dal mercenario loro servizio: in fatti è notorio che abbattendosi in qualche ladro, non cercano che esigere con una qualche ricompensa il danno che loro avrebbe cagionato dal derubamento occorso senza darne neppur avviso al Tribunale, e molto meno alla parte offesa, alla quale per non soddisfarla si cercano detti pretesti, e ragioni, e lo fanno litigare con eccepire, che non registrò in tempo, che il salario non venne pagato come viene portato da’ loro capitoli, e mille altre sottigliezze» (ivi, 398). Sulla relazione cfr. l’articolato giudizio di I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-1796), Torino 1992, 92-93, e inoltre L. Carta (a cura di), L’attività degli Stamenti nella «Sarda Rivoluzione» (1793-1799), Cagliari 2000, vol. I, 103-105, 647-48, 650-92. Su Antonio Ignazio Paliaccio cfr. ad vocem V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari 1966.

 

[97] Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cit., cc. 100-100v. Per questo motivo, spiegava il giurista cagliaritano, nei capitoli di corte era stato stabilito che l’amministrazione viceregia fosse regolarmente informata della cattura e dell’uccisione dei capi di bestiame sorpresi su terreni vietati al pascolo. Ma l’assennata disposizione non era fatta osservare e si tratterebbe di grave incuria, commentava Carta Deidda, «nisi supponamus, quod fiscales exteri patrios mores ignorant» (ibid.).

 

[98] «Molti con maggior facondia ragionarono – osservava Marongio, in garbata polemica con Gemelli, di cui peraltro si considerava discepolo – della fecondità della Sardegna, e quasi tutti parlando della agricoltura, all’ozio, poltroneria e poca pratica di lavorar la terra, ne attribuirono la decadenza. Io all’opposto [...] ben diversa ne considero la causa, e questa estirpata dal possente braccio di Vostra Eccellenza nel giro di pochi anni saremo nel fortunato caso di vedere il rifiorimento di sì nobil arte e l’accrescimento della pubblica e privata ricchezza [...]. Atteso ben bene l’attuale stato del Regno [...] non v’è chi non assicuri che il furto, il ladroneccio cotanto frequente nell’isola, sia la ria e capital sorgente di tanto male» (Archivio Simon Guillot, Alghero, cart. N, fasc. 396, Progetto sul miglioramento della sarda agricoltura proposto nella riforma de’ barracellati dal nobile don Diego Marongio, 1-2). La prima parte del passo soprariportato era in realtà una vera e propria, seppur nascosta, autocitazione, che riprendeva un’intera frase della lettera con cui lo stesso Marongio circa dieci anni prima, nel dicembre del 1779, aveva inoltrato al viceré Lascaris una sua interessante memoria su diversi problemi del mondo agricolo sardo, dalla scarsa custodia dei seminativi agli abusi ai danni degli agricoltori, dalle difficoltà incontrate nello sviluppo dei Monti frumentari al peso dei tributi e delle prestazioni feudali: cfr. G. Murgia, Insinuazioni sul rifiorimento della sarda agricoltura, in «Archivio sardo del Movimento operaio contadino e autonomistico», 17-19, 1982, 205-26. Su Marongio cfr. inoltre I. Birocchi, Il «Regnum Sardiniae» dalla cessione ai Savoia alla «fusione perfetta», in Guidetti (a cura di), Storia dei sardi, cit., vol. IV, 185-87, e Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari, cit., 279-80.

 

[99] Ivi, 4.

 

[100] Ivi, 5.

 

[101] Ivi, 11.

 

[102] Cfr. Carta Deidda, Tractatus de barracellis, cc. 21r e v, 33r e v, e passim.

 

[103] Cfr. Capitoli della nuova centuria di Sassari, essendo capitani li signori don Giorgio Scardaccio, avvocato Gioachino Mundula, notaio Francesco Manca e Pietro Manca Sequi per gli anni 1794-95 e 1795-96, in ASC, Regia Segreteria di Stato e di Guerra, s. II, vol. 1923. Sulle figure di Scardaccio e Mundula cfr. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari, cit., 317-21, 453-55. Cfr. inoltre A. Mattone, P. Sanna, La «crisi politica » del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali (1793-96), in A.M. Rao (a cura di), Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, Roma 1999, 37-70.

 

[104] Capitoli della nuova centuria, cit., n. 30. «Resta permesso ai suddetti volontari di campagna – precisava un successivo capitolo – l’entrare nei possessi di qualunque genere nell’esercizio di loro impiego» (ivi, n. 40).