N. 4 – 2005 – Tradizione Romana

 

RENATO DEL PONTE

Liceo ‘Leonardo da Vinci’

Villafranca in Lunigiana

 

Documenti sacerdotali in Veranio e Granio Flacco:

problemi lessicografici

 

 

Sommario: 1. Premesse. – 2. Veranio e gli Auspiciorum libri. – 3. Veranio e le Pontificales Quaestiones. – 4. Il caso delle Arbores felices. – 5. Granio Flacco.

 

1. – Premesse

 

Dato ormai per assodato che le prescrizioni riferibili ai libri sacerdotali, «come in genere quelle di diritto divino, conservate negli archivi sacerdotali, sono certo ciò che di più serio gli storici di Roma abbiano potuto conoscere per i primi secoli»[1], e come sia più che legittima la convinzione che «i sacerdoti-giuristi e gli antiquari degli ultimi secoli della repubblica, nel comporre le loro opere, abbiano attinto a materiali d’archivio di prim’ordine, proprio perché ancora in quel tempo si potevano leggere copie fedeli di documenti più antichi; i frammenti di quelle opere sono dunque da ritenere non solo degni di fede, ma di rilevante interesse per la soluzione dei problemi relativi a contenuti e termini dei libri e dei commentarii sacerdotali»[2], in questa sede sarà opportuno insistere sul rilevo da darsi al concetto di inalterabilità delle espressioni linguistiche e del lessico religioso come compito demandato innanzi tutto al collegio dei pontefici, ma anche di altre comunità sacerdotali.

Proprio perché sia rispettata la pax deorum, cioè il patto che si vuole stipulato alle origini tra i fondatori della Città e i loro dèi, quindi la saldezza della compagine statale che su tale patto si fonda, occorre vigilare non solo sulla rigorosa osservanza delle norme contenute nei testi sacri, ma anche sulla corretta pronunzia dei nomi e delle formule. Ne deriva la funzione precipua dei pontefici, gli unici che, secondo la tradizione, erano stati autorizzati a custodire le copie autentiche delle scritture sacre attribuite a re Numa e da questi consegnate al capostipite di tutti i pontefici, Numa Marcio, per la loro custodia e salvaguardia. E di certo, nei primi secoli della Città, essi furono anche gli attenti custodi ed esegeti del lessico attinente alle cose divine, in primis dei nomi autentici degli dèi, sia di quelli ereditati dai tempi antichi, sia di quelli che col passare del tempo il senato e l’apposito collegio dei Duumviri (poi Decemviri e infine Quindecemviri) Sacris Faciundis introducevano nello spazio e nel tempo sacro dell’Urbe.

Sarà stato forse per contrasto, anche indirettamente polemico, nei confronti dell’affievolito senso religioso del tempo o, forse, più semplicemente per il naturale progredire degli studi di carattere linguistico, fatto sta che ai tempi dell’antiquario Marco Terenzio Varrone e del pontefice massimo Caio Giulio Cesare era tornato assai vivo l’interesse e quindi attive le ricerche sul lessico pontificale[3]. Del resto, antiquari ed eruditi di primaria importanza per lo studio delle discipline giuridico-religiose, come Servio Sulpicio, Trebazio Testa e lo stesso Varrone (discepoli tutti di Elio Stilone), proprio in quanto appartenenti al circolo di Cesare, pontefice massimo, avevano certamente accesso agli archivi pontificali a scopo di studio e ricerca[4].

 

2. – Veranio e gli Auspiciorum Libri

 

Alla stessa epoca, se non allo stesso circolo, appartiene uno degli autori di cui ci occuperemo in questa occasione, Veranio, mentre l’altro Granio Flacco, di poco lo precede o è di una generazione precedente. Di Veranio (di cui è assolutamente incerto il prenome, Quintus, o il cognomen, Flaccus, che alcuni studiosi moderni gli attribuiscono, senza molto fondamento)[5], solo possiamo dire che nel I secolo a. C. scrisse due opere di rilevante interesse giuridico-religioso, gli Auspiciorum libri e le Pontificales Quaestiones, ben note tutte e due a Festo e la seconda a Macrobio. Se di quest’ultimo lavoro ci occuperemo con più ampiezza grazie ad un insieme relativamente abbondante di riferimenti, assai scarsi, e tuttavia di un certo rilievo, sono i frammenti pervenutici degli Auspiciorum libri. Ecco il primo:

 

Referri diem prodictam, id est anteferri, religiosum est, ut ait Veranius in eo, qui est auspiciorum de comitiis: idque exemplo conprobat L. Iuli et P. Licini censorum, qui id fecerint sine ullo decreto augurum, et ob id lustrum parum felix fuerit[6].

 

Si fa qui riferimento alla 66a lustrazione della storia romana, operata dai censori Lucio Giulio Cesare e Publio Licinio Crasso nell’89 a. C. Tale brano non ci pare sia stato sinora adeguatamente approfondito da chi si è occupato di diritto augurale e noi ci limiteremo a segnalarne l’importanza sottolineandone, a nostro giudizio, non tanto l’ipotesi di un caso di conflitto di competenze fra collegio degli auguri e autorità censoria, quanto l’insistito rilievo posto su un esito “poco propizio” (parum felix, secondo un’espressione che meglio analizzeremo più avanti) di una cerimonia di lustrazione compiuta in anticipo sulla dies prodicta, cioè in antecedenza stabilita, e senza l’apposito decreto degli auguri.

Fare questo, dice Veranio, religiosum est. È intanto da notare che gli aggettivi religiosus e felix apparterrebbero ad un ambito lessicale pontificale e non augurale, per quanto tendenti nell’uso ad una connotazione meno specifica[7]. Una res, dice Elio Gallo, è “religiosa” in quanto a violarla si offendono gli dèi[8]. Se «resta il fatto che i censori avevano l’auspicium conferito dai comizi centuriati» e che l’esercitavano «per le loro attività»[9] – e si trattava di auspicia maxima – pare qui di capire che all’epoca (siamo nel pieno del bellum sociale e in un periodo di grandi turbolenze) in una certa qual desuetudine dovevano essere «cadute consultazioni magistratuali e augurali per certe attività», come giustamente rileva Catalano sulla scorta di alcune affermazioni di Cicerone[10].

 

Paludati in libris auguralibus significat, ut ait Veranius, armati, ornati. Omnia enim militaria ornamenta paludamenta dici[11].

 

Questa espressione presumibilmente ricavata da formule solenni di documenti dell’archivio del collegio degli auguri[12] si riferisce senza dubbio alla cerimonia di presa degli auspici prima della battaglia, di fronte all’esercito schierato, in cui i milites, come ha notato Catalano, «avevano una funzione intermedia fra quella di pubblicità e quella di controllo»[13].

Non mi soffermo sul terzo frammento riportatoci da Festo (silentio surgere) per l’annotazione di scarso rilievo che comporta[14], né su altre glosse di Festo che il solo Reitzenstein congettura essere derivate dagli Auspiciorum libri di Veranio[15].

 

3. – Veranio e le Pontificales Quaestiones

 

Di quest’opera ci sono noti i titoli di due capitoli: de supplicationibus e de verbis pontificalibus.

L’unico brano noto che si riferisca al de supplicationibus (contenente quindi l’analisi di determinati tipi di cerimonie pubbliche) è riportato da Macrobio (Sat., III.6.14):

 

Sed Veranius pontificalium eo libro quem fecit de supplicationibus ita ait: “Pinarius, qui novissimi comeso prandio venisset, cum iam manus pransores lavarent, praecepisse Herculem ne quid postea ipsi aut progenies ipsorum ex decima gustarent sacranda sibi sed ministrandi tantum modo causa, non ad epulas convenirent; quasi ministros ergo sacri custodes vocari”.

 

In quanto vi si analizza la presenza e la funzione della gens Pinaria al rito erculeo dell’Ara Maxima, questo passo è interessante per i risvolti mitici che offre[16] e per la considerazione che quel rito stesso, da gentilizio (cioè privato) che era, divenuto pubblico ai tempi di Appio Claudio Cieco, fosse quindi verosimilmente solo allora inserito nel formulario delle supplicationes pubbliche contenute nei libri pontificali.

Più ricco è l’apporto che Festo e Macrobio ci forniscono alla conoscenza del capitolo de verbis pontificalibus, contenente quindi una vera e propria esposizione inerente al lessico dei pontefici, il cui materiale sarà stato verosimilmente derivato studiando, nel loro archivio, quei libri e commentarii includenti i sacra privata et publica, le comprecationes deorum e gl’indigitamenta[17].

Delle sette espressioni sicuramente derivate dal de verbis pontificalibus, una si riferisce ad un verbo, due a sostantivi e quattro ad aggettivi del lessico sacro.

Sulla scorta di Quinto Fabio Pittore, non l’annalista, ma l’antiquario, che intorno al 130 a. C. scrisse un trattato De iure pontificio[18] - e che alcuni identificano con Quinto  Fabio Massimo Serviliano, pontefice e console nel 142 a. C.[19] – Veranio analizza l’esatto significato del verbo porricere (“offrire [agli dèi]”, non “gettare”):

 

Nam et ex disciplina haruspicum et ex praecepto pontificum verbum hoc sollemne sacrificantibus est; sicut Veranius ex primo libro Pictoris ita dissertationem huius verbi executus est: “Exta porriciunto, dis danto, in altaria aramve focumve eove quo exta dari debebunt”. “Porricere” ergo, non “proicere” proprium sacrificii verbum est, et quia dixit Veranius “in aram focumve eove quo exta dari debebunt”, nunc pro ara et foco mare accipiendum est cum sacrificium dis maris dicatur[20].

 

Considerata la solennità del reiterato imperativo futuro, non c’è alcun dubbio che la formula derivi dai libri pontificali, dal momento che si precisa trattarsi di un verbum … sollemne sacrificantibus, derivato vuoi ex disciplina haruspicum, ma anche ex praecepto pontificum, “da precisa disposizione dei pontefici”. Una indicazione preziosa, questa, perché ci fa intravedere un ambito semantico sacrale comune all’ordo haruspicum e al collegium pontificum, cosa di cui non c’è da stupirsi, dal momento che gli aruspici, pur non confondendosi coi collegia e con le sodalitates, sono i depositari di una tecnica divinatoria particolare che esercitano nei sacra eseguiti Romano ritu: quindi non sottoposti ai Sacris Faciundis, custodi dei sacra peregrina, ma naturalmente soggetti alla sorveglianza dei pontefici. Ed è stato notato che «tutto il lessico della Haruspicina è latino e senza dubbio molto antico»[21].

In ogni caso, è questa una ulteriore e preziosa testimonianza dell’interesse rivolto dal collegio pontificale alla corretta interpretazione del significato di espressioni religiose tendenti col tempo a entrare in un’area semantica più generalizzata.

I due sostantivi appartenenti ai verba pontificalia analizzati da Veranio ci introducono, rispettivamente, nel mondo delle Vestali e in quello del Flamine maggiore:

 

Muries est, quemadmodum Veranius docet, ea quae fit ex sali sordido, in pila pisato, et in ollam fictilem coniecto, ibique operto gypsatoque et in furno percocto; cui virgines Vestales serra ferrea secto, et in seriam coniecto, quae est intus in aede Vestae in penu exteriore, aquam iugem, vel quamlibet, praeterquam quae per fistulas venit, addunt, atque ea demum in sacrificiis utuntur[22].

 

Offendices ait esse Titius nodos, quibus apex retineatur et remittatur. At Veranius coriola existimat, quae sint in loris apicis, quibus apex retineatur et remittatur, quae ab offendendo dicantur. Nam cum ad mentum perventum sit, offendit mentum[23].

 

È evidente, nel primo caso, che senza la preziosa indicazione di Veranio, riportataci da Festo, noi ignoreremmo le esatte caratteristiche del complesso procedimento di preparazione di un elemento essenziale per la celebrazione di molte cerimonie pubbliche (la salamoia per i sacrifici) e la funzione esercitatavi dalle vergini Vestali; mentre, nel secondo caso, apprendiamo particolari magari secondari, ma utili a ricostruire più esattamente almeno parte del pittoresco abbigliamento del Flamine Diale, vale a dire del suo veramente speciale copricapo che, come è noto, poteva deporre solo quando si sentiva in punto di morte.

È presumibile che anche qui Veranio abbia attinto al De iure pontificio di Fabio Pittore, dal momento che vi fa esplicito riferimento Aulo Gellio (X, 15) nella sua lunga e dettagliata descrizione delle cerimoniae impositae Flamini Diali multae, item castus multiplices.

Tre dei quattro aggettivi del lessico sacro discussi da Veranio concernono appellativi delle vittime da offrirsi nel corso di cerimonie pubbliche e private e pertanto offrono uno speciale interesse:

 

“Eximii” quoque in sacrificiis vocabulum non poeticum ™p…qeton, sed sacerdotale nomen est. Veranius enim in Pontificalibus Quaestionibus docet eximias dictas hostias quae ad sacrificium destinatae eximantur e grege, vel quod eximia specie quasi offerendae numinibus eligantur[24].

 

Prodiguae hostiae vocantur, ut ait Veranius, quae consumuntur; unde homines luxuriosi, prodigi[25].

 

Praesen<tanea> porca dicitur, ut ait Veranius, quae familiae purgandae causa Caereri immolatur, quod pars quaedam eius sacrificii fit in conspectu mortui eius, cuius funus instituitur[26].

 

Dunque, chiaro risulta l’esatto senso da darsi all’aggettivo eximius, non un semplice epiteto esornativo, bensì sacerdotale nomen, in quanto riferito a quelle vittime quae ad sacrificium destinatae eximantur, vengono cioè scelte dall’armento in virtù delle loro specifiche qualità come più adatte agli dèi.

E lo stesso può dirsi per la prodigalitas di certe vittime, che assume un significato obiettivamente positivo.

Il carattere agricolo e nel contempo infero della dea Cerere è dimostrato poi nel passo di Veranio sul sacrificio della porca praesentanea, da immolarsi da parte dei famigliari in presenza del cadavere ancora caldo di un loro congiunto. In tal caso è evidente come l’espressione sia ricavata dai libri dei pontefici in quella parte che regolava il diritto funerario della religione privata, cioè il necessario rito propiziatorio in onore di Cerere.

Cosa che, in un certo modo, è confermata da Aulo Gellio, laddove, citando il quinto libro del de pontificio iure di Ateio Capitone, parla della porca praecidanea offerta a Cerere nei tempi più antichi per tutte quelle trasgressioni e omissioni che qualcuno avesse potuto commettere nei doveri di pietà verso i morti[27].

 

4. – Il caso delle Arbores Felices

 

Data la sua specifica importanza nella pratica religiosa, mi soffermerò particolarmente sull’ultimo aggettivo pertinente al lessico pontificale di cui fa parola Veranio in riferimento alle piante: felix.

 

Sciendum quod ficus alba ex felicibus sit arboribus, contra nigra ex infelicibus. Docent nos utrumque pontifices. Ait enim Veranius de verbis pontificalibus: “Felices arbores putantur esse quercus, aesculus, ilex, suberies, fagus, corylus, sorbus, ficus alba, pirus, malus, vitis, prunus, cornus, lotus”[28].

 

Occorre innanzitutto chiarire il significato del termine felix e del suo contrario infelix. Spesso si vede tradotto felix con “fruttifero” e infelix con “sterile”, traduzione che di per sé non sarebbe del tutto inesatta se non la si intendesse per lo più in senso esclusivamente materiale. Se consideriamo come certi grandi personaggi e condottieri della storia romana fossero definiti felices, ad esempio Silla (Sulla felix), o come la Felicitas, accanto alla Fortuna, potesse essere considerata “compagna” di molti generali e imperatori, a partire da Cesare, potremo avvicinarci al senso reale dell’espressione. Può essere considerato felix il grande condottiero che pare avere superato i limiti della condizione umana grazie alle sue imprese eccezionali: dunque è felix colui che è “favorito dalla sorte”, il “baciato dalla fortuna” proprio perché egli ha avuto dalla sua parte le forze divine.

E tuttavia non è questo il significato definitivo che dovremo dare a felix. In realtà questi personaggi si possono definire felices perché tutto ciò che è connesso alla loro persona, sin dalla nascita, si potrebbe dire, deve necessariamente cadere “sotto buoni auspici”.

La loro felicitas è un dato di fatto auspicale che viene semplicemente riconosciuto: da Giove in persona, come nel caso di Romolo, o dal senato, come nel caso di Ottaviano, che da quello sarà definito Augustus.

Così, tornando alla dottrina pontificale trattante la botanica sacra, Veranio chiarisce quali siano ritenuti gli arbores felices, gli “alberi di buon augurio”. Non stupisce di trovare, fra le quattordici specie indicate, ben quattro varietà di quercia (rovere e leccio, sacri anche a Virbio, la divinità dimorante nel nemus Aricinum[29], sughera e ischio – o eschio ed eschia, oggi chiamato più comunemente farnia) e la vite: alberi strettamente legali al dio padre supremo, Giove. Inoltre il loto (che è il loto italico, pianta terrestre e legnosa, da non confondersi col loto indiano, caro all’iconografia delle religioni orientali) era pianta gradita a Romolo ed un esemplare, ritenuto aequaeva Urbi, “contemporaneo alla città” (Plinio, XVI.236), si innalzava nei pressi del santuario romuleo del Volcanal.

Infine è da supporre che il cornus, il corniolo, fosse pianta sacra a Marte, considerato che un giavellotto fatto con quel legno dalla punta indurita dal fuoco era scagliato da uno dei Feziali in territorio nemico come dichiarazione formale di guerra, equivalendo al furor Martis che vi penetrava devastatore. Anche per questo motivo, per il fatto di essere utilizzato nella fustigazione preliminare dei parricidi, il corniolo non doveva assolutamente essere ritenuto arbor infelix, come a torto hanno ritenuto alcuni autori moderni[30].

All’elenco di Veranio va certamente aggiunta un’altra pianta, quella dell’olivo, dal momento che un suo frammento, la virga olaginea, sormontava l’apex del Flamine Diale, fissato all’estremità con un filum di lana e tenuto fermo dalle offendices che già Veranio ci ha descritto in precedenza.

Sempre il Flamine Diale, come è noto, presiedeva all’inaugurazione della vendemmia e tagliava, quindi, il primo tralcio di vite nell’intervallo del sacrificio a Giove e sempre lui doveva far seppellire i propri capelli e le unghie recise sotto la protezione di una arbor felix[31]. Tutti questi particolari, uniti a quello, essenziale, che il rinnovamento del fuoco il 1° marzo, nel tempio di Vesta da parte delle vergini Vestali e in ogni casa da parte dei privati, poteva avvenire per mezzo dello sfregamento di legni esclusivamente provenienti da arbores felices, ci fa comprendere come la condizione di felicitas di quelle essenze arboree, il loro essere “di buon augurio”, derivava loro dal trovarsi sotto la tutela degli dèi celesti o superi ed in particolare dal padre celeste Iuppiter.

La riprova a contrario ci è fornita dall’affermazione esplicita di un altro autore di epoca cesariana e di probabile origine etrusca, Tarquizio Prisco, che tradusse in latino dall’etrusco un’opera importante sull’interpretazione dei prodigi: quel De ostentario[32], che doveva avere avuto molto successo se ancora nel IV secolo d.C. inoltrato, all’epoca dell’imperatore Giuliano, veniva pubblicamente consultata[33].

Nella parte dedicata ai “prodigi degli alberi” (de ostentario arborario) egli afferma:

 

Arbores quae inferum deorum avertentiumque in tutela sunt, eas infelices nominant: alaternum, sanguinem, filicem, ficum atrum, quaeque bacam nigram nigrosque fructus ferunt; itemque acrifolium, pirum selvaticum, pruscum rubrum, sentesque, quibus portenta prodigiaque mala comburi iubere oportet[34].

 

Dunque, gli arbores infelices o di “cattivo augurio” sono quelli sotto la tutela degli dei inferi e di quelli “allontanatori dei mali”. Questa espressione – deorum avertentium – oltre a riportarci a quel misterioso deus Averruncus (il verbo averrunco è termine tecnico pontificale) di cui parla Varrone[35], ci fa capire come la loro connotazione relativamente negativa, dovuta al legame con la sfera infera, sia peraltro compensata dalla possibilità di stornare, appunto, cose od oggetti funesti tramite il fuoco della loro legna. Il caso di Veranio e di Tarquizio Prisco ci rimanda nuovamente (lo abbiamo visto col verbo porricere) ad un’area semantica comune al collegio pontificale e all’ordo haruspicum.

 

5. – Granio Flacco

 

Granio Flacco (da non confondersi con Granio Liciniano, vissuto all’epoca degli Antonini) fu un giurista ed antiquario più o meno contemporaneo a Veranio se, a quanto pare, dedicò il suo De indigitamentis a quel Lucio Giulio Cesare che fu console nel 90 a.C. ed autore di un trattato sull’arte augurale, il De Auspiciis[36], anche se c’è chi pensa si tratti dell’omonimo Lucio Giulio Cesare, fratello di Gaio Giulio Cesare Strabone, e che fu console nel 64 a. C.[37]. A Granio si deve pure un commento alle leges regiae o ius Papirianum, che concernevano per lo più il diritto pontificale e il rituale.

In genere, dagli antichi, come Macrobio (Sat., I.18.4), o dai pochi moderni che ne hanno accennato, il nome di Granio Flacco è associato, per la sua autorevolezza in materia giuridico-religiosa, a quello di Varrone[38], il che ci rafforza nella convinzione che anch’egli, come Veranio, avesse forse fatto parte dello stesso circolo che si richiamava ad Elio Stilone come maestro, come proverebbe anche il riferimento che troveremo in una citazione di Arnobio. Per A. Pastorino, addirittura, la restaurazione religiosa operata da Augusto sarebbe in gran parte stata delineata «sulle tracce delle ricerche erudite di Granio Flacco e di Terenzio Varrone»[39].

Al De indigitamentis possiamo attribuire tre frammenti trasmessici da Macrobio, Censorino e Arnobio.

 

Haec quae de Apolline diximus possunt etiam de Libero dicta existimari. (…) Unde et Apollini et Libero patri in eodem monte res divina celebratur. Quod cum et Varro et Granius Flaccus adfirment, etiam Euripides…[40].

 

Eundem esse Genium et Larem multi veteres memoriae prodiderunt, in quis etiam Granius Flaccus in libro quem ad Caesarem de indigitamentis scriptum reliquit[41].

 

Novensiles – Granius Musas putat consensum accomodans Aelio[42].

 

In tutti questi casi si tratta di identificazioni e confronti fra entità divine di differente natura, come nel caso del Lar (familiaris) e del Genius (qui Granio probabilmente confutava una interpretazione popolare priva di fondamento teologico) o, come nel caso di Apollo|Dionisio|Padre Libero e dei Novensiles|Musae, di interpretationes di nomi divini e della specificazione di epiteti e funzioni diverse delle divinità, che doveva essere chiarita negli indigitamenta dei pontefici[43].

Nel V secolo a.C. Apollo, in qualità di Medicus (“Guaritore”) aveva fatto il suo ingresso nei culti ufficiali. Nel 433 era stato votato il suo tempio in occasione di un’epidemia e dedicato nel 431 dal console Gneo Giulio Mentone  in pratis Flaminiis[44]: l’epoca stessa a cui dovrebbe risalire l’indigitazione apollinea delle vergini Vestali riferita da Macrobio: ita indigitant: “Apollo Medice, Apollo Pean[45].

Dal momento che pare abusivo ritenere il culto romano di Apollo risalente all’età monarchica[46], se non altro perché si sa come non fosse compreso negli antichissimi indigitamenta attribuiti a Numa Pompilio[47], ne deriva che quei formulari di nomi divini che erano gli indigitamenta dovevano essere continuamente aggiornati dai pontefici, bene attenti alla trascrizione precisa dei nomi, da pronunciarsi con estrema esattezza. In effetti, nel caso specifico, Aperta – e non Apollo – pare venisse chiamato il dio in epoca arcaica, prima della sua omologazione ufficiale[48].

Più oscuro il confronto fra Musae e Novensiles, dal momento che di queste ultime entità collettive, invocate dopo i Lares e prima degli Indigetes nella celebre formula della devotio riportata da Livio (VIII.9.6), ben poco si sa allo stato attuale degli studi, tanto più che sin dai tempi di Livio Andronico le Musae erano state identificate alle Camenae, Casmenae o Carmenae della tradizione indigena (cfr. Ennio, Ann. 2 V; Varr., L.L., VII.3.26).

Si tratta in ogni modo di una specifica categoria di indigitamenta: elenchi di epiteti con cui una divinità poteva essere invocata per una determinata funzione e/o in un momento particolare e il cui elenco era presente probabilmente non solo negli archivi dei pontefici, ma anche di altre comunità sacerdotali.

All’abbigliamento delle sacerdotesse ci riconduce questo frammento di Granio Flacco dal suo commento allo ius Papirianum:

 

Ricae et riculae vocantur parva ricinia ut palliola ad usum capitis facta. Gran<ius> quidem ait esse muliebre cingulum capitis, quo pro vitta flaminica redimiatur[49].

 

La rica era, cioè, una sorta di scialletto che ricopriva, con funzione di benda sacerdotale, il capo della Flaminica, la moglie del Flamine Diale, nel corso delle molteplici cerimonie a cui era addetta.

Di maggiore interesse un altro brano, ricavato da Macrobio, se il nome dell’autore, incerto nella tradizione manoscritta[50], è da riconoscersi in Granio, come vuole il Willis, curatore dell’edizione Teubner dei Saturnalia:

 

“Prius itaque et Tuscos aeneo vomere uti cum conderentur urbes solitos, in Tageticis eorum sacris invenio et in Sabinis ex aere cultros quibus sacerdotes tonderentur”[51].

 

Passo importante perché confermerebbe l’origine etrusca dei rituali di fondazione delle città – e quindi di Roma, secondo la tradizione concorde (Catone, Varrone, Livio, Dionigi, Plutarco, Servio, Giovanni Lido) – con un aratro dal vomere rigorosamente di bronzo, il cui uso risale quindi ad un’epoca protostorica.

D’altronde, il divieto rituale dell’uso del ferro, in piena epoca storica, è ben attestato in più di un documento sacerdotale romano: ad esempio nel rituale dei Fratelli Arvali presso il santuario di Dea Dia al quinto miglio della Via Campana[52].

In definitiva, e non soffermandoci su pochi altri brani di scarsa rilevanza[53] o di incerta attribuzione[54], anche quello di Granio Flacco, dopo Veranio, appare come un apporto rilevante non solo ai fini dello studio del lessico sacro, ma per una migliore determinazione di certi settori dei libri dei collegi sacerdotali, in ispecie di quelli dei pontefici. Scarsi frammenti, per la verità, recuperati dal naufragio di una imponente documentazione di natura giuridico-religiosa, ancora in buona parte accessibile nella tarda antichità, ma andata irrimediabilmente perduta al tramonto di quel mondo.

 

 



 

[1] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, 108-109 (qui il riferimento è ai Libri degli auguri).

 

[2] F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, 168-169.

 

[3] In riferimento al diritto augurale, P. CATALANO (op. cit., 108) ne spiega l’interesse nel primo secolo a. C. per «l’incidenza che aveva nella lotta politica», non in contrasto «con il disinteresse che sempre più si faceva strada, nonostante gli sforzi di alcuni, per l’aspetto più propriamente tecnico-divinatorio».

 

[4] Cfr. F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, Firenze 1968, 79-80; F. SINI, op. cit., 97, 123 e n. 39.

 

[5] Cfr. F. SINI, op. cit., 130, n. 66, che cita R. REITZENSTEIN, Verrianische Forschungen, Breslau 1887, 47, n. 1; F.P. BREMER, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II, 1, Leipzig 1896, 5 ss.; M. SCHANZ-C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, München 19354 (rist. an. 1959), 600.

 

[6] Fest., p. 366 L. Cfr. FUNAIOLI 430, 1.

 

[7] Cfr. P. CATALANO, op. cit., 283-284 e n. 152 (per il caso di religiosus).

 

[8] Cit. in Fest., p. 348 L. (s. v. religiosus). Si veda in merito anche R. DEL PONTE, Santità delle mura e sanzione divina, in ID., La Città degli dèi, Genova 2003, 94-96.

 

[9] Cfr. P. CATALANO, op. cit., 363 (nota 31) e 484.

 

[10] Ibidem, 108. Vedi Cic., de nat. deor. 2.3.9 e de div. 1.15.28.

 

[11] FEST., 291, 1 L. (cfr. FUNAIOLI 430, 2).     

 

[12] Cfr. F. SINI, op. cit., 102.

 

[13] P. CATALANO, op. cit., 245 e n. 123.

 

[14] Vedi Fest., 474 L. (e anche 476, 32).

 

[15] Cfr. R. REITZENSTEIN, Verr. Forsch., cit., 47, n. 1. Il riferimento è alle glosse: manalis fons, manes di, minora templa, peremne, puls.

 

[16] Mi è capitato di sostenere che i «collegi sacerdotali non furono tanto i depositari di tradizioni mitiche o dogmatiche, quanto i fedeli conservatori di antichissime norme di culto» (Dèi e Miti italici, Genova 19983, 28), ma il caso del culto e del mito di Ercole presso l’Ara Maxima è del tutto speciale e probabilmente vi ha influito precocemente un elemento non italico.

 

[17] Seguo la ripartizione, che mi pare corretta, offerta da G.B. PIGHI, La preghiera romana, in AA.VV., La preghiera, Roma 1967, 575-576.

 

[18] Ibidem, 579.

 

[19] De iure pontificio, I, fr. 4 Peter.

 

[20] Macr., Sat. III.2.3-4 (cfr. FUNAIOLI 432, 9). È da precisare che in questo brano Macrobio fa parlare Vettio Agorio Pretestato sul diritto pontificale in Virgilio, cioè la massima autorità in materia nel IV secolo d. C.

 

[21] G.B. PIGHI, La religione romana, Torino 1967, 52.

 

[22] FEST., 125 L. (cfr. FUNAIOLI 431, 6).

 

[23] Fest., 222 L. (cfr. FUNAIOLI 432, 7).

 

[24] Macr., Sat., III.5.6 (cfr. FUNAIOLI 431, 4).

 

[25] Fest., 296 L. (cfr. FUNAIOLI 433, 11).

 

[26] Fest., 298 L. (cfr. FUNAIOLI 432, 10).

 

[27] Gell., IV.6.8. Vedi anche Fest., 250 L. Manifestamente Ateio Capitone, che a sua volta cita il pontefice massimo Tiberio Coruncanio (III secolo a. C.), deriva dai decreta dell’archivio pontificale. Cfr. R. DEL PONTE, La religione dei Romani, Milano 1992, 238. Per la problematica connessa alle feriae praecidaneae v. anche P. CATALANO, Contibuti ..., cit., 352-353.

 

[28] Macr., Sat., III.20.2 (cfr. FUNAIOLI 430, 3).

 

[29] Cfr. R. DEL PONTE, Dei e Miti italici, Genova 19983, 190. Sull’importanza e il significato della quercia nella tradizione romana, cfr. ID., La Religione dei Romani, cit., 18-19.

 

[30] Cfr. M. BAISTROCCHI, Il Tevere sacro: acque risanatorie e purificatrici, in Ignis, I, n.s., 2 (dicembre 1990), 170; A. CARANDINI, La nascita di Roma, Torino 1997, 401, n. 56.

 

[31] Se in latino le piante sono di genere femminile vi è un valido motivo di fondo. Se infatti oggi il genere grammaticale è immotivato, in origine fu determinato da una personificazione o divinizzazione di cose che a noi paiono inanimate (come l’acqua e il fuoco) o di fenomeni naturali (come il tuono, la pioggia, il giorno e la notte). Se dunque all’acqua o al fuoco, intesi come esseri e creature viventi, si attribuiva un sesso, si può ben intendere come la terra (Tellus), madre degli animali e delle piante, custode dei semi e del segreto del loro sviluppo, non sia mai stata concepita di genere maschile in nessuna delle lingue indoeuropee. Così in latino il nome degli alberi era femminile in quanto creature che producono, mentre i frutti sono neutri (per lo stesso motivo in tedesco e in greco antico i bambini molto piccoli sono ritenuti di genere neutro). Malus, pirus, ad es., sono femminili, ma neutri sono i loro frutti (malum, pirum). Il che ci permette forse di giungere ad una considerazione di un certo peso: che nel mondo romano anche la specificazione del sesso avesse, almeno in origine, un esplicito valore giuridico-religioso (avvertibile nella nota formula rituale sive mas sive femina).

 

[32] Cit. in Macr., Sat., III.20.3. Esempi di ostentaria arboraria sono in Plinio, XVII.38.

 

[33] Cfr. Amm. Marc. XXV.27, circa la consultazione ex Tarquitianis libris in titulo “de rebus divinis” da parte degli aruspici prima della battaglia fatale che in Persia avrebbe causato la morte dello stesso Giuliano proprio per non averne seguito le indicazioni.

 

[34] Macr., Sat., III.20.3 (Tarquitius autem Priscus in “ostentario arborario” sic ait:…). Un’altra citazione di Tarquizio Prisco in Macrobio (III.7.2) concerne il prodigio di un insolito mutamento di colore del vello dei montoni, presagio della felicitas di un imperator. Cfr. in merito J. CARCOPINO, Virgile et le mystère de la IVe Eglogue, Paris 1943, 66-68. Per Tarquizio Prisco, vedi C. THULIN, Scriptorum disciplinae Etruscae fragmenta, Berlin 1906 (fr. 5).

 

[35] Cfr. VARR., L.L., VII.102: Apud Pacuvium: “Di monerint meliora atque amentiam averruncassint <tuam”. Ab> avertendo averruncare, ut deus qui in eis rebus praeest Averruncus. Itaque ab eo precari solent, ut pericula avertat. Per il verbo cfr. anche Cic., Att., 9.21.1 (Di averruncent ...) e Paul. (Fest.), 511.15, che si rifà certamente a Varrone. Forse Averruncus può annoverarsi fra gli dei funzionali elencati negli indigitamenta dei pontefici.

 

[36] È il parere di G.B. PIGHI, La preghiera, cit., 577 e ID., La religione romana, cit., 46. Cfr. Macr., Sat., I.16.29 e Cens., die nat., III.2.

 

[37] Così ritiene N. MARINONE, commento a I Saturnali di Macrobio, Torino 19772, 236, nota 24.

 

[38] Cfr. G.B. PIGHI, La preghiera, cit.: «Degli indigitamenta si possiede una sola definizione, che io credo si debba accettare, perché risale a Varrone; e Varrone disponeva non solo dei testi, ma anche di una trattazione speciale, contenuta nel libro de indigitamentis di Granio Flacco» e ID., La religione romana, cit.: «La definizione di Servio viene per più mani da Varrone, che s’era fondato, tra l’altro, sul libro de indigitamentis di Granio Flacco».

 

[39] A. PASTORINO, La Religione Romana, Milano 1973, 63.

 

[40] Macr., Sat., I.18.1-4 (anche qui parla Vettio Agorio Pretestato).

 

[41] Cens., De die natali, III.2.

 

[42] Arnob., Adv. Nat., 38.1. Si veda anche 31.1 (sulla identificazione operata da Aristotele fra Luna e Minerva, sempre sulla scorta di Granio Flacco).

 

[43] Sull’argomento cfr. i miei lavori: Aspetti del lessico pontificale: gli “indigitamenta”, in Ius Antiquum-Drevnee Pravo (Mosca) 5, 1999, 154-160; La Religione dei Romani, cit., 78-87.

 

[44] Cfr. G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica, Milano 1977, 383.

 

[45] Macr., Sat., I.17.15.

 

[46] Cfr. G. DUMÉZIL, op. cit., 384.

 

[47] Vedi Arnob., Adv. Nat., 2.73: doctorum in litteris continetur Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire.

 

[48] Cfr. G. PERUZZI, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, 49, che riporta in nota 88 un passo di Festo (21, 1-2 L.): Aperta idem Apollo vocabatur, quia patente cortina responsa ab eo dentur.

 

[49] Fest., 342 L. (cfr. FUNAIOLI 434, 2).

 

[50] Altri commentatori (così N. Marinone per l’edizione UTET) preferiscono leggervi il nome di Carminio, grammatico studioso di antichità ben noto a Servio.

 

[51] Macr., Sat., V.19.13.

 

[52] Ho ritenuto, in altra sede, che tale rituale possa risalire, nelle sue linee essenziali, ai primi tempi della monarchia. Cfr. R. DEL PONTE, La Città degli dèi, Genova 2003, 107-110 (vedi 110, n. 151).

 

[53] Ad esempio quello concernente la pellix (Dig. 50, 16, 144; FUNAIOLI 434, 1).

 

[54] Si veda, ad es., il brano riportato da Macrobio (Sat., III.11.5-6) e ritenuto dal solo Willis di Granio Flacco. Vedi anche Fest., 236 L., s.v. peremptalia fulgura (FUNAIOLI 434, 4).