N. 4 – 2005 – Tradizione Romana

 

Penelope Filacchione

Pontificio Ateneo Salesiano di Roma (UPS)

 

Raffaello e il Simulacro di Roma.

Breve vita di un progetto ambizioso

 

 

«Tanti grandi antichi e tanta lunga età occorsero alla costruzione di Roma; tanti nemici e secoli occorsero a distruggerla.

 Ora Raffaello cerca e ritrova Roma in Roma: cercare è di uomo, ma ritrovare è di Dio».

Celio Calcagnini, 1520 (Epigramma in occasione della morte di Raffaello)

 

 

Roma, 1508: la città è in fermento. Giulio II, impegnato su ogni fronte per ristabilire con tutti i mezzi il primato della sua famiglia e del papato rispetto alle sempre più forti signorie d’Italia, si pone nei confronti dell’Urbe come un novello Augusto; interi quartieri vengono ammodernati, ridisegnate le strade, ricostruiti palazzi. Sembra anzi che ogni notabile legato alla curia voglia gareggiare con il papa nel progettare, rimodernare, ciascuno coinvolto nell’ansia generale di contribuire al disegno del pontefice guerriero. Ma nessun edificio potrà essere all’altezza della nuova fabbrica papale, il grandioso progetto che ridisegna i palazzi apostolici e che osa addirittura stravolgere la plurisecolare memoria di san Pietro: rinato Costantino, nuovo fondatore della Roma Cristiana, nulla sopravvive del vecchio nelle ambizioni di papa Giulio.

Quale luogo è più opportuno di Roma ad un giovane artista che voglia farsi strada nel mondo? E venticinque anni non sono pochi, per un artista dell’epoca. Tanti ne aveva Raffaello quando, forse per l’amicizia con Donato Bramante – così riferisce il Vasari[1] - , forse per i buoni uffici di Agostino Chigi[2], riesce finalmente salire sul carro dei tanti progetti papali. Un anno di lavoro e già nel 1509, scoperta la prima stanza del nuovo appartamento di Giulio II, Raffaello è artista acclamato: riceve dal papa un incarico ufficiale – Scriptor Brevium Apostolicorum, ruolo che era stato dell’Alberti e che richiedeva una buona cultura umanistica– e uno stipendio.

Negli anni seguenti Raffaello accumula commissioni, amicizie e sogni: tra tante conoscenze, il destino volle che a Roma incontrasse Baldassarre Castiglione. Di cinque anni più grande di Raffaello, era già avviato sulla strada della diplomazia: nel 1508 era al servizio del nuovo signore di Urbino che, guardacaso, era il nipote di Papa Giulio. Mentre l’astro di Raffaello saliva, Baldassarre frequentava le corti di Mantova, Urbino e Roma, intessendo amicizie e relazioni intellettuali tanto per il proprio piacere personale che per l’incarico che ricopriva. Concretezza ed entusiasmo, pragmatismo e capacità di sognare: forse queste somiglianze furono gli ingredienti dell’amicizia indissolubile che unì Raffaello e Baldassarre; probabilmente si erano già conosciuti nel 1506 ad Urbino, forse Raffaello si avvicinò al diplomatico per respirare un po’ di “aria di casa”, chissà…negli anni tra il 1510 e il 1513 ebbero comunque modo di incontrarsi più volte, uno stabile a Roma, impegnato com’era in commissioni sempre più copiose, l’altro in moto perpetuo tra le corti. Ciascuno dei due maestro del comportamento, oltre che del proprio mestiere.

Nel 1513, alla morte di Giulio II, una scelta prudente indusse il conclave ad eleggere un fiorentino: Leone X de’ Medici era rappresentante di una grande famiglia, ma estraneo alle dispute sorte tra i della Rovere e i Gonzaga attorno a Mantova, Bologna, Urbino.

L’elezione del nuovo papa introdusse un cambiamento anche nelle carriere di Raffaello e di Baldassarre Castiglione. L’artista, stranamente, pur lavorando moltissimo per conto delle corti italiane, non riceve nuove commissioni pontificie, tranne la conferma del completamento delle “Stanze”; la sua attività romana sembra piuttosto concentrarsi attorno agli incarichi pubblici ed agli studi eruditi.

Il suo amico Castiglione alla morte di papa Giulio aveva dovuto curare gli interessi del suo signore presso la Curia: nel 1514 il destino sembrava sorridere a Baldassarre, che aveva preso residenza ufficiale a Roma con l’incarico di rappresentare Francesco Maria, Duca di Urbino, in tutti i suoi incarichi di Prefetto di Roma e Capitano Generale dell’Esercito della Chiesa. In questo periodo felice consolidò la sua amicizia con Raffaello, Michelangelo e Pietro Bembo: la miglior prova della stima e dell’amicizia che lo legavano a Raffaello è nell’intensità del ritratto del Castiglione eseguito dal pittore nel 1514 e attualmente conservato al Museo del Louvre[3].

Ma già nel 1516 Francesco Maria cadde in disgrazia – fu spodestato da Urbino – e Baldassarre fu costretto a seguire il suo signore: l’esilio mantovano fu per lui l’occasione per sposarsi e per riallacciare i rapporti con la famiglia Gonzaga, ai quali era imparentato alla lontana per parte di madre, entrando al servizio del giovane marchese Federico. Un abile funambolo che, nell’infelice congiuntura degli eventi, riesce a districarsi rapidamente per non precipitare[4].

Anche Raffaello nel 1514 raggiungeva le vette più alte della sua carriera: subentrò al Bramante come architetto della Fabbrica di san Pietro; ebbe allora il modo di conoscere dall’interno i meccanismi delle nuove costruzioni e, in particolare, lo scempio che si faceva dell’antico in nome di una nuova architettura che all’antico voleva ispirarsi. Le necessità del mestiere e le aspirazioni culturali avevano già portato l’Urbinate, come tanti altri artisti prima di lui, tra le rovine di Roma, nelle “grotte” della Domus Aurea, sulla via Appia, al Colosseo e nel Foro[5]. Disegnando e chiacchierando con amici e colleghi, in quelle scampagnate nella luce limpida della primavera romana, gettava il seme di un’idea: e se queste pietre tornassero a parlare? Quante di quelle pietre ignorate esprimevano in parole i sentimenti umani; quante testimoniavano di eventi cardine della storia antica…Una raccolta epigrafica poteva forse preservarne la memoria. Ma come unire ogni pietra all’edificio da cui proviene? Come legare l’edificio alla città? Come riportare la città alla storia?

Il 27 Agosto del 1515 Leone X firma un breve in cui Raffaello è nominato “Commissario alle Antichità”: l’incarico ha lo scopo preciso di impedire la distruzione dei marmi epigrafici. Difficile valutare quanta pressione dello stesso artista e dei suoi dotti amici sia dietro alla decisione del pontefice, e quanto invece sia derivata dalla sensibilità dello stesso papa, discendente da una famiglia di famosi collezionisti di antichità.

Raffaello sostituiva nell’incarico il defunto Frà Giocondo, ma l’artista era intenzionato a farne un uso concreto, a costo di abusare del proprio potere: un episodio è sintomatico dell’atteggiamento dell’Urbinate. Il notaio Pacifici, in un protocollo conservato all’Archivio di Stato di Roma[6], presenta le proteste di un tale Gabriele Rossi e dei Conservatori di Roma: il Rossi, abitante nel rione Pigna, possedeva delle statue antiche che aveva destinato per legato testamentario, in caso di assenza di eredi, al Palazzo dei Conservatori. Lo stesso notaio spiega nel documento come sia stato necessario rivolgersi al Papa perché Raffaello pretendeva, in virtù della sua nomina, di acquisire queste statue contro la volontà del defunto – nel frattempo - e delle autorità cittadine, per portarle nelle collezioni di sua competenza: la protezione papale si rendeva necessaria perché gli eredi temevano, tra l’altro, la violenza dell’artista!

L’epilogo della vicenda, ricostruita dal Lanciani[7], è la difesa papale delle pretese capitoline, ma il paradosso è evidente: da un lato si chiede al papa di intervenire presso il suo rappresentante e contro i suoi stessi interessi, dato che le collezioni di competenza di Raffaello erano quelle papali; dall’altro si accusa Raffaello di una violenza che mal si addice al dolce viso del gentiluomo e cortigiano che siamo abituati a conoscere.

Certo, Raffaello doveva essere esasperato: nei cinque anni in cui ricoprì il suo incarico, alle buone intenzioni seguirono ben poche azioni, sia per la confusione delle competenze in fatto di antichità e sia, soprattutto, per l’arbitraria applicazione delle norme circa il possesso delle stesse. Scorrere le pagine del Lanciani relative agli anni del Commissariato di Raffaello è sconcertante e sconfortante[8]: nel 1517 i Conservatori fanno trasportare in Campidoglio dal Quirinale due statue di divinità fluviali; il 15 luglio del 1518 lo stesso Leone X dona al minorenne Belisario Pini la Meta di Borgo[9], peraltro confiscata al precedente proprietario Cardinale Adriano di Corneto.

Ancora lo stesso papa, mentre Raffaello preparava il suo più ambizioso progetto di Commissario, il 4 settembre 1519 concedeva alle autorità di Tivoli 50 rubbie di sale all’anno in cambio del permesso di asportare 22.000 metri cubi di travertino, che costituivano un tratto di ben 4.600 metri della sostruzione della via Tiburtina romana: la pietra era necessaria per completare la costruzione della basilica di san Pietro!

D’altra parte nulla di strano, se già Sisto IV il 17 dicembre del 1471 autorizzava «gli architetti della Biblioteca Vaticana a eseguire scavi ovunque sia necessario per trovare la pietra necessaria al loro lavoro»[10]: tanto larga era questa concessione che lo stesso papa fu costretto, tre anni dopo, a precisare che sarebbero stati scomunicati coloro che avessero asportato marmi «dalle basiliche patriarcali e dalle altre chiese»[11].

Ripercorrere un istante quali fossero gli strumenti legali a disposizione di Raffaello per la “tutela” delle antichità può essere interessante ed istruttivo[12].

L’autorità a cui fare riferimento per le antichità di Roma è, naturalmente, quella pontificia, a cui si affiancano le magistrature capitoline; dato il lungo esilio avignonese dei pontefici, bisogna arrivare a Martino V (1417-1431) per trovare qualcuno che cerchi di ristabilire un po’ d’ordine tra le diverse competenze: il suo primo atto[13] riguardava le autorità capitoline e stabiliva  che i magistri viarum – i magistrati addetti al controllo delle strade di Roma, esistenti già dalla metà del XIII secolo  – dovevano anche impedire l’occupazione e lo sfruttamento sistematico degli edifici da parte degli artigiani, con particolare riferimento a quelli insediatisi nei ruderi della Cripta Balbi, del Teatro di Marcello e del Portico di Ottavia.

Il successore, papa Eugenio IV (1431-1447), sembra più determinato: oltre ad emettere un breve relativo all’asportazione dei marmi dagli edifici antichi[14], il pontefice cerca di salvaguardare il Colosseo, ponendolo sotto la tutela dei frati del vicino convento di santa Maria Nova[15].

La BollaCum almam nostram urbem[16] di papa Pio II Piccolomini (1458-1464) è salutata come il primo reale provvedimento contro la demolizione e spoliazione dei ruderi: in realtà il Lanciani[17], che nella sua Storia degli Scavi si occupa anche dei diversi provvedimenti pontifici, nota come lo stesso papa non si faccia scrupoli di far asportare i marmi di Portico d’Ottavia per costruire il pulpito della vecchia basilica di san Pietro, poi demolito con tutto il resto dal cantiere di Giulio II di inizio Cinquecento. D’altra parte il disegno di Pio II era quello di riportare la città al suo antico splendore, e lo stesso intento permarrà anche nei suoi successori, come il “gran fabbricatore”, papa Sisto IV (1471-1484). Il primo atto di questo pontefice, subito dopo il suo insediamento, è la donazione dei bronzi antichi del Laterano al Campidoglio: la data del 1471 è ricordata come l’anno di nascita dei Musei Capitolini.

A questa azione fecero seguito la già citata bolla del 1474[18] e la bolla “Etsi de cunctarum” del 1476, che costituivano i più importanti strumenti legali a disposizione di Raffaello: gli atti – pubblicati rispettivamente negli Statuti della città e nel Bullarium Vaticano - sono interessanti perché individuano la doppia autorità del papa, ma rimane il fatto che le pietre per la costruzione del Museo Capitolino continuavano ad essere raccolte ovunque per Roma.

Questi pochi atti legislativi non possono essere definiti come reali provvedimenti di tutela: oltre che dalla loro episodicità, sono caratterizzati da una certa confusione nelle istituzioni preposte al controllo. Inoltre è evidente che si fa distinzione tra statue e frammenti, tra edifici vistosi come il Colosseo e ruderi: in sostanza, se le statue integre e i marmi in situ devono essere rispettati, nulla vieta di “raccogliere” pietre da destinare al riutilizzo o alle fornaci per la calce.

Il continuo ritrovamento di marmi antichi di pregio nelle “vigne” dei privati cittadini poneva anche il problema della proprietà delle statue e dei diritti dello scopritore: a proposito del Laocoonte del Vaticano, sappiamo che fu ritrovato nei primi giorni del 1506 da un certo Felice de Fredis. La statua fu subito riconosciuta come quella descritta da Plinio[19], quindi papa Giulio II la volle per il suo nuovo Cortile del Belvedere, pensato appositamente dal Bramante per contenere statue antiche: i collezionisti offrirono al de Fredis cifre astronomiche ma, pur di aggiudicarsela, il pontefice concesse allo scopritore una rendita perpetua sulla gabella d’ingresso di Porta san Giovanni. In seguito Leone X cercò di ritrattare, ma il de Fredis ovviamente non era disposto a rinunciare al vitalizio: finalmente nel 1515 i legali delle due parti si accordarono per un deposito di 2000 ducati da versarsi in due anni, trasformabili in una carica pubblica perpetua nel caso in cui la famiglia rinunciasse al denaro[20].

Era proprio per evitare simili dispute legali che normalmente le parti in causa stilavano degli atti preventivi: come riporta il Lanciani[21], il 24 febbraio 1493 «il dottore in legge Agostino di Martino concede licenza a Lorenzo Berti chierico fiorentino, di scavare nel canneto della propria vigna detta Schifanoia, a spese dello scavatore. I materiali da costruzione e le pietre e scaglie per fare la calce saranno del medesimo: un terzo degli oggetti d’arte e di valore sarà del proprietario»

In questa confusione di pretese e diritti, l’affidamento del Commissariato alle Belle Arti a Raffaello da parte di Leone X era una vera novità: per la prima volta si pensava ad una carica pubblica di carattere tecnico, in cui le competenze del titolare in fatto di arte antica fossero una condizione imprescindibile. Purtroppo, come abbiamo visto, nonostante il nostro artista prendesse la sua carica molto sul serio, all’istituzione del Commissariato non aveva fatto seguito alcun provvedimento legislativo, lasciando quindi che la carica fosse mutila nella sua capacità esecutiva.

Ritornando dunque a Raffaello, l’unico progetto che sembrava prendere forma nei primi anni del suo Commissariato era quello di una silloge epigrafica: il 30 novembre 1517 un breve papale accorda a Jacopo Mazochi il permesso di pubblicare entro sette anni la raccolta delle Epigrammata Antique Urbis. Compare così il nome di uno dei collaboratori di Raffaello.

Nei tre anni successivi, Raffaello concretizzò il suo progetto: la redazione di una grande pianta di Roma con la ricostruzione dei monumenti, divisa in tre fasi sulla scorta degli storici latini. Una pianta della città romulea, una della città serviana e una della città imperiale, divise in regioni secondo la topografia antica, con tavole dei singoli edifici, nozioni tecniche circa il rilevamento dei monumenti e commenti eruditi. Assieme al Mazochi per la parte epigrafica, Raffaello chiamò a collaborare al suo progetto Marco Fabio Calvo da Ravenna, filologo, per la compilazione delle piante, e Andrea Fulvio, come collaboratore topografico e per la descrizione delle “Antiquitates”.

Nel 1519 devono essere pronte le prime tavole ed ecco che il progetto ha una forma accettabile, tanto da sottoporlo all’attenzione pontificia; in quel mentre Baldassarre Castiglione era tornato a Roma per curare gli interessi di Federico Gonzaga e del duca di Urbino: vi sarebbe rimasto fino ad assistere alla morte dell’amico, prima di allontanarsi per la morte della moglie.

Educazione vuole che non ci si presenti dal papa a mani vuote, né che si trascuri la bella forma nel proporre un qualsivoglia progetto: ecco quindi una lunga lettera, ben 12 pagine, di parole eleganti ma ferme che chiedono l’approvazione papale per la prosecuzione del lavoro[22].

La lettera è un capolavoro di stile: «Ma perché ci doleremo noi de’ gotti, de vandali e d’altri perfidi nemici del nome latino, se quelli che, come padri e tutori, dovevano difendere queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno atteso con ogni studio lungamente a distrugerle e a spegnerle? Quanti pontefici, padre santo […] quanti – dico - pontefici hanno permesso le ruine e disfacimenti delli templi antichi delle statue, delli archi e altri edifici, gloria delli loro fondatori? Quanti hanno comportato che, solamente per pigliare terra pozzolana, si siano scavati i fondamenti, onde in poco tempo poi li edifici son venuti a terra? Quanta calcina si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi?».

All’appello accorato segue il progetto: «non è adunque difficile cognoscere quelli del tempo delli imperatori, li quali son li più excellenti e fatti con più bella maniera e magior spesa e arte di tutti gli altri. E questi soli noi intendiamo di dimostrare, né bisogna che nell’animo di alcuno nasca dubbio che, tra li edifici antiqui, li meno antichi fossero men belli o meno bene intesi, o d’altra maniera. Perché tutti erano di una ragione […]»[23].

E’ difficile resistere alla tentazione di riportare il testo integrale della lettera, tanto è coinvolgente e acuto nell’osservazione: dietro la storia dell’architettura tracciata brevemente da Raffaello allo scopo di convincere il papa, si nasconde un pensiero moderno, che osserva l’arco di Costantino considerandolo altrettanto valido dei monumenti precedenti. Non meno acuto è il progetto: non una, ma tre piante, corredate da disegni e commenti, che trasfigurino la statica realtà dei ruderi in una città vivente e in perenne trasformazione.

Moderno dunque il progetto, elegante la forma, stupefacenti i disegni: Celio Calcagnini narra che Leone X rimase tanto colpito da chiamare Raffaello «un Dio antico tornato sulla terra»; e non fu l’unico a vederli ed apprezzarli. Andrea Fulvio, già prima della morte dell’artista, scrive che Raffaello aveva disegnato con il pennello la divisione della città in Regioni[24]: «egli stendeva un libro siccome Tolomeo ha isteso il mondo, su gli edifici antichi di Roma, mostrando chiaramente le proporzioni, forme et ornamenti loro, che, averlo veduto, arìa scusato ad ognuno aver veduto Roma antica, et già aveva fornito la prima regione».

Raffaello muore nel 1520: è acclamato da ciascuno quale vero artefice del ritrovamento dell’antico, ma il progetto è interrotto, la lettera che lo accompagnava perduta, i disegni smembrati tra mille collezioni.

O così sembra.

Possibile mai, ci si chiede, che tra coloro che gli sono sopravvissuti, tra collaboratori, collezionisti, amici, nessuno abbia conservato traccia di un’opera tanto mirabile?

Sia per cultura personale che per preparare il lavoro, Raffaello eseguì dei disegni realmente conservati in quattro serie[25]: sculture e rilievi, pitture murali e grottesche, vedute di monumenti e rovine, profili e particolari architettonici; questi disegni costituiscono la traccia più diretta del lavoro dalla mano stessa dell’artista.

Anche Andrea Fulvio proseguì effettivamente il suo lavoro, muovendosi almeno in due direzioni: da un lato pubblicò le Antiquitates nel 1527[26] e la sua “Descrizione di Roma” nel 1545[27], dall’altra rimase in contatto con Marco Fabio Calvo per la pubblicazione del lavoro iniziato sotto la guida di Raffaello.

L’8 Giugno 1532 Fabrizio Peregrino, ambasciatore del Duca di Mantova a Roma, manda al suo signore «un disegno di Roma stampato hora di nuovo secondo che anticamente era edificata a tempo de li antichi romani»; a tale lettera ne segue una del 29 Giugno dello stesso anno in cui si annuncia che «fra pochi giorni se ne stamperà un’altra, pure di Roma, che fu di disegno di Raphael da Urbino, et bellissima cosa et molto copiosa»[28].

A questo annuncio segue effettivamente una pubblicazione della Antiquae Urbis Romae cum regionibus simulachrum, avvenuta proprio nel 1532[29]. Ma c’è qualcosa che non quadra.

Come noto, nel 1527 Roma fu devastata dal Sacco dei Lanzichenecchi; in quell’occasione la bottega di Marco Fabio Calvo fu incendiata e lo stesso proprietario sequestrato dai soldati che intendevano chiedere un riscatto ai familiari. Una volta verificato che la famiglia non aveva beni per pagare, i Lanzi malmenarono il povero Marco Fabio il quale, già anziano e di salute malferma, morì poco dopo in ospedale. Come è dunque possibile che abbia stampato nel 1532?

In ogni caso da quell’anno, e per diversi secoli, si considerò l’opera del 1532 come la realizzazione parziale del progetto di Raffaello a cura di Marco Fabio Calvo.

Ma tralasciamo per il momento questo episodio e passiamo ad un’altra questione, non meno ingarbugliata; ambedue le vicende ci riporteranno comunque a tempi più vicini ai nostri.

Nel 1733 gli editori fratelli Volpi pubblicarono una lettera conservata nell’archivio della famiglia Maffei[30]: si tratta appunto delle dodici pagine da cui ho estratto alcuni passi, che sembrano quindi pertinenti al progetto di Raffaello, ma i Volpi attribuiscono la lettera a Baldassar Castiglione. Ne nasce presto una disputa condotta tra chi vede nello stile i riflessi dell’eloquio dell’umanista diplomatico – che peraltro aveva più o meno velatamente citato il progetto di Raffaello nel Cortegiano[31] – e chi invece individua nel testo riferimenti più adatti alla biografia di Raffaello, non ultimo l’accenno ad una lunga permanenza a Roma, che effettivamente non si adatta al Castiglione. Il testo è chiaramente attribuito a Raffaello sia da Pietro Odescalchi che da Pietro Ercole Visconti[32].

Nel 1918 il grande storico dell’arte Adolfo Venturi cerca di chiarire la vicenda: segnala una versione leggermente diversa della lettera, legata all’interno di un piccolo codice della Biblioteca di Monaco, che contiene una Volgarizzazione di Vitruvio curata da Marco Fabio Calvo[33]. In breve, Venturi si convince che il testo di Monaco sia la versione più simile all’originale concepito da Raffaello e che il testo Maffei sia invece la versione ingentilita della stessa lettera, sulla quale Castiglione avrebbe lavorato per poterla presentare a Leone X[34].

Il giallo si risolse nel 1951, quando Vittore Cian ebbe modo di pubblicare una bozza della lettera trovata nell’archivio della famiglia Castiglione a Mantova[35]: molto semplicemente Raffaello avrebbe abbozzato la lettera per poi passarla al suo amico e maestro di stile, il quale le diede appunto la forma ufficiale che conosciamo per farne l’introduzione al lavoro che Raffaello presentava al papa.

Ecco dunque svelato il “mistero della lettera scomparsa”: ma il testo cosa accompagnava?

La stessa domanda se la pose il Lanciani, che per primo individuò l’incongruità cronologica tra la vita di Marco Calvo e la pubblicazione della sua opera. La lettera di Raffaello-Castiglione conteneva numerose allusioni all’opera e, prima della morte dell’artista, il Michiel diceva che Raffaello ne aveva già fornita la prima regione[36]. Stando alla descrizione del Michiel la pianta doveva essere concepita come un libro, con almeno 14 tavole per le diverse regioni augustee più un’altra serie di tavole per le altre piante di epoche diverse e per le ricostruzioni dei monumenti. Il Lanciani congetturava, giustamente, che un’opera tanto celebre non poteva essere passata come una meteora: infondo anche la pianta di Roma del Bufalini[37] è stata ricomposta mettendo insieme tavole ristampate in data differente; era possibile compiere un’operazione del genere per la pianta di Raffaello?

Accingendosi alla colossale opera di censimento delle carte della Biblioteca Nazionale di Roma (allora Vittorio Emanuele) il Lanciani[38] si imbatté finalmente in una edizione di Marco Fabio Calvo, contenente un testo stampato nel febbraio 1527 e delle tavole di Roma, dette Simulachrum, stampate nel mese di aprile dello stesso anno[39]. Questo esemplare è appunto l’unico stampato da Marco Fabio Calvo prima della sua morte: di questo era però rimasta la matrice di bosso, un po’ danneggiata dall’incendio della bottega ma ancora utilizzabile, mentre erano saltati i caratteri mobili che componevano titoli e didascalie.

Dalle ceneri – è il caso di dirlo – della prima stampa esce una nuova serie, curata da Fabio Ravennate e con dedica a papa Clemente VII, pubblicata nel 1532[40]: è l’opera a cui si riferisce Peregrino nelle sue lettere al duca di Mantova. Raffaello non ha quindi mai pubblicato nulla ma, appunto, solo disegnato per i suoi collaboratori. Le congetture di Lanciani, sulla base dei documenti da lui ritrovati, finiscono qui: si tratta comunque di molto, considerando che gli mancava un passo fondamentale ricostruito solo 60 anni più tardi.

Nel 1964 è uscita un’opera singolare: si tratta della riproduzione anastatica curata da R. Peliti, editore e stampatore, dell’antica pianta di Roma di F. Calvo del 1532[41]. La pianta è quella contenuta  in un codice della Biblioteca Angelica, che l’editore ha avuto occasione di studiare e che ha deciso di riprodurre fedelmente, con l’aggiunta di una breve introduzione editoriale: con questa edizione si conclude finalmente il “giallo” durato esattamente 432 anni. Nonostante il titolo del frontespizio, che attribuisce l’opera a M. Fabio Calvo e a Tolomeo Egnazio di Foro Semproni xilografo, il codice contiene una nota esplicativa: la stampa è dovuta a Valerio Dorico – che ha ricomposto le matrici rovinate – su incarico affidatogli dall’erede e nipote Timoteo Fabio Calvo, quasi omonimo dello zio. Il lavoro è stato eseguito nel 1532. E’ stata questa quasi totale omonimia, assieme alle lettere e ai documenti antichi, a creare confusione: chi osservava il codice, prevenuto dal conoscerne la storia, non notava la dissonanza tra le date della vita di Marco Fabio e quella di pubblicazione, non accorgendosi che in realtà il codice stesso costituiva un tributo del nipote allo zio morto tanto sventuratamente. Che si tratti di ciò che resta del progetto di Raffaello lo confermano diversi dati: la somiglianza delle carte del codice dell’Angelica con quelle pubblicate nel codice del 1527 ritrovato dal Lanciani; la differenza dei caratteri, ricomposti invece interamente dopo il sacco del 1527; il nome di Marco Fabio Calvo, che Raffaello stesso aveva scelto come suo collaboratore.

Così si conclude il nostro piccolo “mistero della lettera scomparsa”, che nel suo epilogo costituisce un omaggio alle intuizioni di Rodolfo Lanciani e di Adolfo Venturi i quali, come si addice ai veri studiosi, cercarono la sostanza oltre la forma.

La forma a dire il vero può sembrare deludente: le piante, nella loro rozza semplicità, costituiscono più un affascinante souvenir d’epoca che un’opera d’arte.

Ma la vera opera d’arte sta nella concezione del progetto: Raffaello era arrivato a pensare una pianta in fasi della città di Roma; di più, aveva compreso la necessità di documentare lo stato dei monumenti dandone al contempo la ricostruzione.

E’ vero che il progetto non includeva fasi di sviluppo urbano successive ad Augusto, ma in questo Raffaello è figlio del suo tempo: cerca di individuare i momenti salienti della città scegliendoli sulla base degli storici antichi, un po’ come se si trattasse della scena di un teatro in cui si cambiano d’improvviso le scenografie per inserirvi eventi diversi.

L’occhio di Raffaello è quello di un uomo del Rinascimento, che ricuce tra le rovine di Roma le tre unità aristoteliche della Storia, ma la sua intuizione è stata il primo seme di un lavoro attualissimo: quello di ricomporre, tra studio delle testimonianze, salvaguardia dei beni artistici e dialogo tra discipline, il quadro in continua evoluzione di una città vivente[42].

 

 

 



 

[1] G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architetti, a cura di R. Bettarini e P. Barocchi, Firenze-Verona 1976, Testo, vol. IV, 165-176.

 

[2] A proposito dei rapporti con Agostino Chigi e della data della Galatea della Farnesina, cfr. C. Strinati, Raffaello, in Dossier Art n. 97, 27-28; I luoghi di Raffaello, catalogo della mostra, Roma 1983.

 

[3] S. Ferino-Padgen, Raffaello, catalogo completo dei dipinti, Firenze 1989.

 

[4] Per la cronologia di Baldassar Castiglione cfr. Baldassarre Castiglione, Il Libro del Cortegiano. Introduzione di Amedeo Quondam, Milano 1981.

 

[5] Secondo il Vasari, lo stesso Raffaello nel 1510 era stato arbitro nella gara per una copia in bronzo della statua del Laocoonte, ritrovata nella Domus Aurea nel 1506; A. Venturi, Il gruppo del Laocoonte e Raffaello, in Archivio storico dell’arte, II (1889), 97-112. In una sua lettera del 3 Aprile 1516 Pietro Bembo informa il Cardinal Bibbiena di una gita a Tivoli in programma per il giorno successivo con Raffaello, Baldassar Castiglione ed altri umanisti; Pietro Bembo, Lettere, edizione critica a cura di E. Trani, Bologna 1990, vol. 2, 114.

 

[6] Roma, Archivio di Stato, Protocollo 1187, c. 112.

 

[7] R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno alle collezioni romane di antichità, Roma 1902, vol. I, 166, 176. Raffaello dovrà accontentarsi di rappresentare le statue – una Diana Efesina e un “sacrificio di un toro” – nelle Logge Vaticane, anche perché l’antico proprietario delle medesime era imparentato con le più nobili famiglie romane e il papa era chiamato a difendere le libertà cittadine.

 

[8] Per la storia degli scavi durante i cinque anni del Commissariato di “Raffaele”, cfr. R. Lanciani, op. cit. nota 7., vol. I, 166-195.

 

[9] Questo era il nome correntemente attribuito dal medioevo ad un sepolcro romano di forma piramidale, simile alla superstite piramide di Porta San Paolo: l’edificio fu poi distrutto nel corso delle sistemazioni dei borghi durante il Rinascimento.

 

[10] Il breve di Sisto IV autorizza esplicitamente gli architetti e muratori della biblioteca vaticana a scavare (effondere) ovunque per procurarsi le pietre necessarie. Cfr. E. Muntz - P. Fabre, La bibliotheque du Vatican au 15. siecle : contributions pour servir a l'historie de l'humanisme d'apres des documents inedits, avec un inventaire de la bibliotheque grecque de Nicolas 5., liste alphabetiques, et une table des auteurs et des matieres, Parigi 1887 (ripr. anastatica Amsterdam 1970), tomo III, 15.

 

[11] La bolla “Cum provida Sanctorum patrum decrete” del 7 aprile 1474 contro i devastatori di chiese, dirute o meno, recita testualmente: Ad nostrum pervenit auditum quod nonnulli iniquitatis filii de patriarcalibus et aliis ecclesiis et basilicis porphyreticos marmoreos et alios lapides abstulerunt hactenus, et in dies auferre, eosque ad diversa loca per se vel alios asportare praesumunt. La pena è la scomunica maggiore, ma il documento tace dei monumenti classici. Il testo è pubblicato nella raccolta Statuta almae Urbis Romae auctoritate s.d.n.d. Gregorii papae XIII pont. max. a Senatu, populoq. Rom. reformata, et edita, Roma 1580, parte II, 34-35. Da ora in poi, dove reperibili sono segnalati i codici identificativi dell’ICCU: in questo caso CNCE 33961.

 

[12] Una ricostruzione rigorosa della legislazione di tutela delle antichità di Roma tra la fine del Medioevo e il Rinascimento risulta ancora piuttosto disagevole: se infatti Roma, stante anche la sua vocazione all’antico, è la prima città a dotarsi di strumenti legali per la salvaguardia dei monumenti, è pur vero che la sovrapposizione degli interessi capitolini e pontifici provoca la dispersione dei testi legislativi in raccolte diverse, curate ora da una e ora dall’altra autorità. Gli stessi atti pontifici sono resi pubblici di volta in volta come le bolle papali o come statuti cittadini, a seconda dei destinatari delle leggi e soprattutto dell’identità di coloro che devono farle rispettare. Per maggiori riferimenti a queste problematiche cfr. A. Lanconelli, Manoscritti statutari romani. Contributo per una bibliografia delle fonti statutarie dell’età medioevale, in M. Miglio (a cura di), Scrittura biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento, Atti del 2° seminario 6-8 maggio 1982, Città del Vaticano 1983, 305-321. L’articolo contiene tra l’altro una preziosa appendice con un repertorio dei diversi statuti, divisi per competenze e con le indicazioni delle biblioteche che li posseggono attualmente. L’autrice fa riferimento anche agli atti dei notai apostolici e della curia minore, poiché, nel corso del XV secolo, con la riorganizzazione della Curia romana si assiste allo sviluppo di una complessità burocratica sconosciuta in precedenza. V. anche C. Chelazzi (a cura di), Catalogo della raccolta di Statuti, consuetudini, leggi, decreti, ordini e privilegi dei comuni, delle associazioni e degli enti locali italiani dal Medioevo alla fine del secolo XVIII, Roma 1963, VI, 143-206.

 

[13] Bolla “Et si in cunctarum”, 30 marzo 1425. C. Scaccia Scarafoni, L’antico statuto dei “magistri stratarum” ed altri documenti relativi a quella magistratura, in Archivio della Società Romana di Storia Patria, 1927 (50), 239-308.

 

[14] 29 marzo 1436, in Bullarium Vaticano, vol. II, p.89.

 

[15] Anno 1439. Ciò sembra confermato da un documento riportato nel Liber brevium Martini V, Eugenii IV, et aliorum esistente nell’Archivio Vaticano, armadio XXXIX, tomo VII c. 341, n. 319. D’altra parte questa stessa opera di tutela è disconosciuta da Niccolò V, che il 5 settembre 1451 appalta l’incarico di mandare alle fornaci da calce dei cantieri papali i travertini del Colosseo. Cfr. Lanciani, op. cit. nota 7, vol. I, p. 53; E. Muntz - P. Fabre, op. cit. nota 10, vol. I, 107.

 

[16] Statuta Urbis Romae, op. cit. nota 11, appendice 33; A. Theiner, Codex diplomaticus dominii temporalis S. Sedis: recueil de documents pour servir a l'histoire du Gouvernement temporeil des Etats du Saint-Siege, Città del Vaticano 1861, Tomo III, 422; E. Muntz, La Bibliotheque du Vatican au 16. siecle. Notes et documents avec publication des inventaires de la Vaticane et du Chateau Saint-Ange sous Paul 3., ed un appendice contenant l'inventaire des manuscrits renvoyes d'Avignon a Rome en 1566, avec un index des principaux personnages mentionnees, Parigi 1886, Tomo 1, 352.

 

[17] Lanciani, op. cit. nota 7, vol. I, pag. 69.

 

[18] cfr. nota 11.

 

[19] Per la storia del rinvenimento e gli studi attorno a questa celebre statua, cfr. F. Haskell - N. Penny, L’antico nella storia del gusto. La seduzione della scultura classica 1500-1900, Torino 1984, 337-343.

 

[20] La storia è riportata interamente dal Lanciani, op. cit. nota 7, vol. I, 139-140: lo studioso ha esaminato l’atto, redatto dal notaio Ambrogio Teodosio da Ferentino e conservato nell’Archivio Storico Capitolino prot. XXII, c. 115.

 

[21] Lanciani, op. cit. nota 7, vol. I, 89. L’atto è redatto davanti al notaio Egidio da Fonte, Archivio Storico Capitolino, prot. 591 c. 8.

 

[22] Circa la data della lettera esistono delle discordanze tra gli studiosi: personalmente preferisco adottare la data del 1519 sia perché è quella più comunemente accettata, sia perché attorno a questa data si concentrano le testimonianze degli umanisti attorno al progetto di Raffaello; credo che la sua risonanza sia stata troppo forte per pensare ad un silenzio di due o tre anni. Come vedremo oltre, è comunque necessario che la lettera sia stata scritta in un periodo in cui Castiglione si trovava a Roma. Per le diverse questioni cfr. F.P. Di Teodoro, Raffaello, Baldassar Castiglione e la lettera a Leone X: con l’aggiunta di due saggi raffaelleschi, San Giorgio di Piano, 2003.

 

[23] Si riporta il testo così come appare nell’articolo di A. Giuliano, Quanta Roma fuit. La percezione visiva di Roma antica, in Roma Veduta. Disegni e stampe panoramiche della città dal XV al XIX secolo, catalogo della mostra, Roma 2000, 23-24. Cfr. anche Baldassarre Castiglione, Le lettere, (a cura di) G. la Rocca, Milano 1978, vol. I, 531-542.

 

[24] Il testo della lettera di Fulvio è riportato nel diario di Marin Sanudo, edito la prima volta da Jacopo Morelli: J. Morelli, Notizie delle opere del disegno nella prima metà del secolo XVI, Bassano 1800, 210. Il testo è stato poi ripreso da P. Odescalchi, Istoria del ritrovamento delle spoglie di Raffaello, Roma 1836 (2a edizione), e da P.E. Visconti, Lettera di Raffaello a Papa Leone X, Roma 1840.

 

[25] J. Shearman, Raphael, Rome, and the Codex Escurialensis, in Master Drawings. A quarterly journal, New York 1977 (XV), 107-146; C.L. Frommel - S. Ray - M. Tafuri, Raffaello architetto, Milano 1984. Circa gli interessi archeologici di Raffaello vedi anche A. Bartoli, Raffaello archeologo e topografo di Roma antica. Nel Quarto Centenario di Raffaello, Roma 1920; V. Mariani, Raffaello e il mondo classico, in Studi Romani, VII, 2, 1959, 162-172.

 

[26] A. Fulvio, Antiquitates urbis per Andream Fulvium antiquarium. Ro. Nuperimme aeditae, Roma 1527 circa. (CNCE 19990).

 

[27] Il titolo completo della dotta raccolta è: A. Fulvio, Andrete Fulvii Sabinii antiquarii. De urbis antiquitatibus libri quinque. Item. De urbis eiusdem laudibus oratio In populi Ro. laudem elegia. De Romuli & Remi expositione egloga quae cuncta, mendis omnibus quibus prior editio squalebat: nuper escussa acrepurgata. Indice copiosissimo ordinatissimoque repposito. Roma 1545. (CNCE 19994).

 

[28] Il testo della lettera è riportato dal Lanciani: R. Lanciani, La pianta di Roma antica e i disegni archeologici di Raffaello Sanzio, in Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei – Classe di Scienze morali, storiche e  filologiche, Serie V, vol. III, Roma 1894, 781-804.

 

[29] CNCE 008607

 

[30] G. Antonio Volpi - G. Volpi, Opere volgari e latine del conte Baldessar Castiglione. Novellamente raccolte, ordinate, ricorrette ed illustrate, come nella seguente lettera può vedersi, da Gio. Antonio e Gaetano Volpi, Padova 1733.

 

[31] Op. cit. nota 4, 103-104.

 

[32] Op. cit., nota 24.

 

[33] L’opera di volgarizzazione di Vitruvio era necessaria a Raffaello per poter procedere nel suo lavoro di ricostruzione delle piante di Roma: il lavoro del Calvo iniziato «in casa di Raffaello» precedeva infatti la prima edizione a stampa in volgare del De Architectura vitruviano, uscita nel 1521, un anno dopo la morte dell’artista. Dell’opera del Calvo si conservano due manoscritti alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (ms. it. 37; ms. it. 37a) il primo dei quali contiene, oltre alla versione della lettera a Leone X, alcune annotazioni di mano di Raffaello.

 

[34] A. Venturi, La lettera di Raffaello a Leone X sulla pianta di Roma antica, in L’Arte. Rivista dell’Arte Medievale e Moderna e d’Arte Decorativa, XXI, 1918, 57-65.

 

[35] V. Cian, Un illustre Nunzio Pontificio del Rinascimento: Baldassar Castiglione, in Studi e Testi, 156, Città del Vaticano 1951.

 

[36] Cfr. Lanciani, op. cit. nota 28.

 

[37] La pianta di Roma di Leonardo Bufalini: da un esemplare a penna già conservato in Cuneo riprodotto per cura del Ministero della Pubblica Istruzione, Roma 1879.

 

[38] R. Lanciani, op. cit. nota 28.

 

[39] CNCE 008606

 

[40] Cfr. nota 29. La copia del codice, confrontato dal Lanciani con quello indicato alla nota 39, è conservata presso la Biblioteca Angelica di Roma. Approfitto di questa nota per ringraziare il personale della biblioteca, che mi ha gentilmente aiutato nelle ricerche, fornendomi i chiarimenti fondamentali per il completamento del lavoro e permettendomi di riprodurre alcune tavole pubblicate ad illustrazione di questo articolo.

 

[41] Marco Fabio Calvo, Antiquae Urbis Romae cum regionibus simulachrum, stampa anastatica curata da R. Peliti sull’originale della Biblioteca Angelica, Roma 1964.

 

[42] A lavoro ormai completato è uscito un articolo che dà notizia del ritrovamento di un codice della Biblioteca Ambrosiana di Milano (III St. F XI 10): si tratta della “seconda edizione” – ma in realtà terza – del Simulachrum, dedicata da Giovanni Battista Cavalieri a papa Clemente VIII nel 1592. Ciò a riprova dell’importanza che i contemporanei attribuirono all’iniziativa di Raffaello. Cfr. G. Petrella, La Roma di Raffaello e di Calvo, in Il Domenicale, 29 gennaio 2005.