N. 5 – 2006 – Contributi

 

Prefazione a Persona umana ed ordinamento giuridico di Antonio Pigliaru

 

Giovanni bianco

Università di Sassari

 

 

1. – L’opera che si introduce si colloca, nell’itinerario intellettuale di un complesso pensatore, quale fu Antonio Pigliaru, nel periodo delle opere giovanili dell’autore, in cui spiccano e lasciano un segno indelebile sia Persona umana ed ordinamento giuridico (del 1953)[1], sia le Considerazioni critiche su alcune posizioni del personalismo comunitario, saggio edito a Sassari nel 1950.

Tra le due monografie vi è un nesso forte ed indissolubile, essendo entrambe sviluppo della filosofia attualistica e gentiliana, che permeò il primo periodo dell’attività scientifica del Pigliaru, pensatore vivace ed in continua evoluzione, che approdò poi alla filosofia cristiana, storicista e personalista di Giuseppe Capograssi e, da ultimo, specie nell’incompiuto saggio su L’estinzione dello Stato, al marxismo gramsciano.

L’intento dell’opera in considerazione è chiaro sin dalle sue prime pagine: si parla,infatti, di concezione di «attualismo problematicista» nello studio della persona e del rapporto tra persona e ordinamento giuridico, richiamando quindi non solo Giovanni Gentile, ma anche l’Ugo Spirito de La persona (saggio del 1951, edito dal Giornale critico della filosofia italiana); si evidenzia[2] la distinzione tra “persona” e “individuo”, prendendo così subito le distanze da «le strette dell’individualismo empirico-naturalistico» e definendo il concetto di persona quale «profondo processo di più viva elevazione morale» (sul punto richiamando il pensiero del Battaglia); si conferma, inoltre, la critica sviluppata nell’opera del 1950 al personalismo comunitario e democratico francese di Mounier e Maritain, affermando che «la ricerca di un positivo umanesimo giuridico»[3] (p. 5), nello studio del rapporto tra persona ed ordinamento, deve mirare a «fondare un autentico umanesimo integrale», che non si esaurisce in «quello specificato, mettiamo, da un Maritain».

Pigliaru chiarisce subito che il concetto di persona cui la sua opera aderisce è quello di «persona come idea», «assai progredito» rispetto al «concetto comune» di persona, «che con evidenza immediata viene riconosciuto da tutti, e che si lega alla realtà del corpo umano», concetto che rientra nella «filosofia dell’idea», «che è sempre una filosofia “successiva”e perciò sempre più giustificata».

Quindi, come il filosofo aveva già scritto nella menzionata opera del 1950, si sostiene una teoria generale della persona, anche in senso giuridico, che intende differenziarsi fortemente dal personalismo comunitario di Mounier, che parlando, viceversa, di «persona come sfera di valori», unicità ideal-assiologica”, antecedente rispetto alla società, sottolineava l’importanza della «relazione interpersonale» nella “comunità”, nella storia reale degli uomini[4].

Pigliaru rifiuta a priori la correlazione tra “persona” e “comunità” in senso storicista e comunitarista, situa la sua indagine filosofica nell’alveo dell’attualismo gentiliano e nell’idea di storia in senso attualistico, come perenne farsi dell’atto puro, cioè dello Spirito, in particolar modo nelle tesi contenute nella Teoria generale dello Spirito come atto puro.

Infatti, la nozione di persona è da lui situata nella «vita immanente dello Spirito», come «atto puro», nello «Spirito come svolgimento» e «come attività creativa», da cui deriva «il mondo morale» della persona.

L’uomo come soggetto attivo dell’ordinamento giuridico e della società, secondo Antonio Pigliaru, coincide con una frase del problematicista Ugo Spirito, con «l’io che diventa idea, si assolutizza, cessa di essere io, si dissolve nel suo simbolo».

Di conseguenza, la persona è «vita operosa» che, nonostante ogni suo difetto, è «un monumentale edificio» che contribuisce alla «realizzazione del regno dello Spirito».

Perciò «il problema della persona» deve essere risolto «nell’ambito e nella direzione esclusiva della vita morale, cioè come interno svolgimento di vita spirituale che è continua, infinita e infinitamente doverosa ascensione»[5], nell’alveo di un’idea di persona come «struttura aperta» e non come «monade» (critica a Leibniz).

La tesi che sorregge l’intero impianto dell’opera,come suscritto, intende approfondire il legame tra persona ed ordinamento giuridico accogliendo la contrapposizione tra persona ed individuo, ma collocandola nella «ragioni dell’attualismo» e «nelle ragioni del problematicismo».

Sicchè, ad esempio, l’ “io” e gli “altri”, il “noi” e gli “altri”, sono in “relazione” e non in “irrelazione”, ma nella «dimensione della interiore dilatazione spirituale e del morale accrescimento secondo un assoluto dovere di vita», perché la «persona è uomo secondo l’interna legge del suo dover essere che è legge di ulteriorità».

Per cui, inoltre, «un’anima si apre alla vita contraddicendosi di continuo», «come vita è incessante arricchimento di una coscienza sempre più comprensiva, che tutto inchiude in sé per quell’atto medesimo di autocoscienza, onde si ha coscienza e quindi uomo»[6].

Secondo siffatta direttrice teorica la “persona è atto”[7] e la concezione attualistica della persona significa che quest’ultima «si fa quel che pensa con l’atto stesso del pensarsi», così realizzando l’integrazione dell’io reale nel grado dell’universalità realizzata.

La concezione pigliariana della persona approda, quindi, ad una dialettica dell’ “io” e della “persona”, che si compie nell’immanenza dello Spirito come “atto puro”. Immanenza propria della filosofia gentiliana e, ad esempio, del Gentile de La riforma della dialettica hegeliana.

Trattasi di una filosofia fondata sul divenire, ma in cui il rapporto tra “oggetto” e “soggetto”, tra “Spirito” e “coscienza” (e tra “Spirito” ed “anima”) si compenetra, tende a farsi “consustanziale”.

In quest’orizzonte teoretico si porta, quindi, alle estreme conseguenze la posizione hegeliana sulla dialettica, che non è più intesa, come in Kant, una facoltà dell’uomo razionale, o, come in Aristotele, un sillogismo fondato su premesse non necessarie, ma soltanto verosimili; bensì è concepita come una legge della realtà in sé, una legge interna e necessaria, tanto del pensiero quanto della realtà, e quindi non un procedimento del pensiero esterno alla realtà ed al proprio oggetto.

La nozione di persona che si fa (ed è) autocoscienza ha, peraltro, profonde radici hegeliane.

Si ponga mente, ad esempio, alla nozione di “svolgimento”. Hegel scrive (lemma n. 442 della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) che «il progredire dello Spirito è svolgimento, in quanto la sua esistenza, il sapere, ha in sé stesso la determinatezza in sé e per sé, cioè la razionalità, come suo contenuto e scopo; onde l’attività del tradursi in atto…».

Ma lo “svolgimento” è sviluppo de «la ragione assolutamente infinita ed oggettiva, posta come concetto dello Spirito, è la realtà del sapere e dell’intelligenza», della “ragione” “infinita”, “libertà assoluta”, che perciò permea «l’anima finita», «determinata immediatamente o da natura» e “la coscienza”, «in quanto ha un oggetto».

Quindi «lo Spirito si è determinato come verità dell’anima e della coscienza» (Hegel, op. ult. cit., lemmi 440 e 441)

Queste tesi della filosofia hegeliana sono presenti nell’impianto dell’opera del Pigliaru, ma con le vesti della filosofia del Gentile e del suo mistico immanentismo che riformula la distinzione, presente in Hegel, tra “Spirito” ed “io”.

La persona è compimento di un processo, superamento dell’ «io-atomo», ma non solo come «sviluppo dialettico», ma come superamento dell’astrattezza insita in ogni opposizione. Purtuttavia, l’idea hegeliana di uno sviluppo dialettico non infinito, che tende al concreto, nel senso che rappresenta il compimento di un processo e l’unità degli opposti (la sintesi dopo la tesi e l’antitesi), diventa «infinita vita» dello Spirito, «atto-puro» che tutto permea, plasma e determina, un divenire continuo, un farsi necessario entro la coincidenza tra oggetto e soggetto nello Spirito.

Orbene, la persona come “autocoscienza”, che supera l’individuo come «singolarità chiusa» ed “empirica”[8], è “atto”, realizzazione di quel che è in “potenza” nell’individualità (questa distinzione è implicita nel discorso di Pigliaru e risente della lezione hegeliana e di come in Hegel fu presente e richiamata la distinzione della “Metafisica” di Aristotele tra “potenza” ed “atto”), e quindi integrazione dell’io reale nel grado dell’«universalità realizzata»[9], cioè nel divenire senza pausa dell’«attualità d’un volere che non urta più in limiti»[10].

 

2. – “Persona umana ed ordinamento giuridico” è un’opera in cui l’illustre autore, pur restando ancorato, come suscritto, alla filosofia gentiliana, si mostra, comunque, attento analista di fondamentali correnti di pensiero novecentesche.

Così l’attenzione prestata all’esistenzialista Paci[11], secondo Pigliaru teorico dell’esistenzialismo “situazionista” «come scuola non chiusa», «come dialogo incessante con il pensiero ed il mondo per trasformare il mondo»; il richiamo ad Esistenza e persona del Pareyson, del 1950[12], secondo cui «la persona può essere definita esaurientemente quando la si consideri come esistenza, come compito e come io»; il prezioso riferimento al Guido Calogero di Etica, diritto, politica [13], che ritiene la persona fondamento del dialogo e dimensione etica; la citazione di uno scritto del Gerratana del 1942 («Una nuova impostazione del problema della libertà»), che definisce la persona «come coscienza morale»[14].

Appaiono anche di estremo interesse la citazione del Bobbio[15], sia di due scritti camerti del 1938 e del  1939, sia delle Lezioni di filosofia del diritto del 1941, contributi che sottolineano come la persona sia «centro autonomo e cosciente di atti sociali”, sia “fine a se stesso» e «non… strumento per raggiungere un fine», «sintesi vivente di individualità e socialità»; ed altre ottime citazioni, tra cui quelle delle opere del Del Vecchio, del Cesarini-Sforza e del Guzzo, tutte tese a dimostrare il «concreto valore» della personalità e la sua libertà “iperfenomica” e “morale”.

Emerge, dunque, un’intelaiatura culturale aperta, aggiornata, “in movimento” e non staticamente ripiegata sulla filosofia del Gentile, che pure sempre ritorna e si pone come “idea-guida” dell’intero scritto, arricchita dal problematicismo spiritiano.

Traspare, a ben vedere, quell’intellettuale non dogmatico ed originale che il Pigliaru diede prova di essere, anche grazie ad una forte capacità di connettere sistematicamente autori e culture in apparenza distanti nella sua trama discorsiva ed entro il complesso delle tesi filosofiche sostenute.

Così, ad esempio, nel parlare della persona come «consapevolezza critica di sé» ed «autocoscienza della coscienza» cita il Sommario di pedagogia di Giovanni Gentile. Ma per spiegare «il farsi» della persona nell’impegno morale, come «assoluto dovere di vita»[16] e sottrazione dell’uomo «alla propria empirica particolarità»[17], ricorda il pensiero del cattolico De Lubac, la nozione di «partecipazione come amore e amore come partecipazione» e le tesi del neotomista Cornelio Fabro, teorico della «partecipazione come espansione interiore» (in uno scritto del 1950 su “La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino”).

Come non ricordare, poi, la critica del “sociologismo”, ripiegato sulla «positività del fatto», ma incapace di valorizzare la natura trascendente della persona[18] e la necessità di una «riforma integrale della sociologia stessa», affinchè essa assuma dignità speculativa e filosofica e sappia incentrare la sua attenzione sulla «persona spirituale  come concreto centro di atti» (al riguardo richiamando gli scritti del Bobbio sul tema, editi tra il 1934 ed il 1941 ed il personalismo dello Scheler sviluppato nell’opera Der formalismus in der Etik und die materiale Wertethik).

Ordunque, la qualificazione morale della persona si coglie altresì nel richiamo al Bergson de Les deux sources de la morale et de la religion (1932)[19], nella critica della «société close» e nella definizione della «société ouverte» che «est celle qui embrasserait en principe l’humanitè entière».

La parte dell’opera sulla nozione di persona si chiude  con un riferimento alla persona come «norma sui», che accetta consapevolmente i doveri dell’esistenza come moralità ed è conscia della connessione che sussiste tra diritti e doveri; e questo non solo da un punto di vista morale, ma secondo il diritto, perché il «problema della persona» «si presenta più facilmente individuabile ed approssimabile…sul piano del problema dell’ordinamento giuridico»[20].

In questo senso la persona è «principio di una organizzazione sistematica» e supera l’“io-monade” ed il “male” che il “solipsismo” può generare. Qui mi torna in mente, si consenta la divagazione letteraria, il Gonzalo del Gadda de “La cognizione del dolore”, che dialogando con il dottor Higueroa su questi temi, parla del «male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi», della «non-vita».

 

3. – Pigliaru ritiene quindi che l’esame della «realtà della persona stessa» impone di affrontare la «problematica propria della vita critica ed etica dell’ordinamento giuridico»[21], che significa anche studio della «società temporale» ed a questo apposito tema  dedica il secondo capitolo dell’opera che si introduce, che reca come titolo “L’ordinamento giuridico”.

La questione di che cosa sia l’ordinamento giuridico è fondamentale per capire la necessaria “relativizzazione” nell’ordinamento giuridico della persona umana, che vive in comunità ed è oggettivamente limitata dalle norme giuridiche di cui si compone l’ordinamento giuridico medesimo. Il diritto ha «validità relativa», è «realtà viva e quotidiana» (p. 59) e per capire funzioni, struttura e finalità di un ordinamento giuridico occorre sdoppiare il quesito «che cosa è un ordinamento giuridico?» in «da che cosa è?» ed in «a che cosa è un ordinamento giuridico?»[22].

Ora, l’insigne autore propende per una «considerazione non finalistica ma strumentale dell’ordinamento giuridico» stesso, sul punto richiamando sia l’affermazione del Messineo, per cui l’ordinamento giuridico ha «carattere meramente strumentale» «non è fine a sé stesso, bensì mezzo»; sia il pensiero del Cesarini-Sforza, che sottolinea come l’ordinamento giuridico, come ordinamento legislativo, si stacca «dal libero, mutevole e fuggevole valore soggettivo»; sia una molto interessante tesi del Goldschmidt, «che pone il diritto, prodotto della cultura, come prodotto per la cultura di una comunità»[23].

Pigliaru parla di ordinamento giuridico «nel vivo del suo processo critico, aperto e non chiuso»[24], «situato tra essere e dover essere», tra “l’essere” come «mera esistenzialità» ed il «dover essere» come «giudizio di valore». Quest’ultimo argomento impone pure un’indagine strutturale sul concetto di società ed un’indagine fenomenologica dell’esperienza giuridica[25].

Si afferma che «l’ordinamento giuridico costituisce il momento massimamente positivo della società civile», «è l’insieme delle norme e degli istituti mediante i quali la società civile si costituisce come società»[26]; e che la società non è «un semplice rapporto fra gli individui … ma un’entità», «un’unità concreta… ed effettivamente costituita ”(S. Romano).

La relazione tra società ed ordinamento giuridico determina «la società ordinata e concreta» in cui il diritto positivo e vigente, strutturato in ordinamento giuridico, è strumento e fine di «un’attività complessa»[27], «prodotto di un’attività ordinante in quanto attività ordinante» e “fine” per la realizzazione della società quale «una unità di struttura che è appunto unità d’ordine».

La “valorazione” della società come «unità di struttura» e come «unità di valore» per il tramite dell’ordinamento giuridico consente di superare la «situazione originaria» del vivere umano sprovvisto di «positiva coerenza», della «società preesistente all’ordinamento».

La «società civile» diventa così «società positiva»[28], è un valore «preso nel vivo del suo processo storico» ed essa sorge per il tramite dell’ordinamento giuridico, che «come funzione implica la sua posizione in un ritmo di attività produttiva» e «come funzione l’ordinamento è attività di posizione: c’è in quanto è stato posto in un processo d’attività e per un processo d’attività, che è quel processo stesso di produzione  giuridica che è produzione di quelle norme e di quegli istituti in cui si realizza positivamente l’ordinamento giuridico nella molteplicità dei suoi istituti».

Perciò, «l’ordinamento anche in quanto ordinato all’ordine è ordinante».

Pigliaru parla anche di ordinamento giuridico come «attività necessaria», che «non è persona nell’essere», ma «produttività della persona»[29], così «coincidendo riflessivamente con la società», suo «soggetto attivo», di cui costituisce “l’oggetto”.

Il discorso dell’illustre autore è, dunque, incentrato sul problema dell’unità della società, di cui l’ordinamento giuridico rappresenta «l’unità d’ordine», problema che risolve richiamando la teoria della società di Giacomo Leopardi[30], ed in particolare quel passo dello “Zibaldone” in cui è scritto che «il ben comune di un corpo o società non si può ottenere se non per la cospirazione di tutti i membri di lei a questo fine».

Ora, il bene comune è il «principio dell’unità», «la ragione della società», «il valore giustificante della società in quanto tale». Società dunque come «nuova e superiore unità» (Del Vecchio), o come «comunità delle persone», «dove gli uomini non si trovano più come strumenti di un fine, ma come fini a sé stessi» (Bobbio); o, infine, come «associazione umana con soci giuridicamente eguali», tutelati dal «diritto sociale puro», «fondamento razionale della società» (Rosmini)[31].

Il rapporto tra società ed ordinamento giuridico è espresso in termini di funzione algebrica e, grazie al diritto positivo e strutturato, la società diventa «ordinata al bene comune in quanto unità»[32].

In tal modo, «il problema della moltitudine situazionale», della «società solo materialiter», si risolve con «il ritmo produttivo della persona»[33], che determina «il processo di attività costitutiva» della società stessa, anche attraverso la disciplina dei rapporti interpersonali per il tramite dei rapporti giuridici.

Al riguardo, Pigliaru si interroga sulle caratteristiche essenziali dell’ordinamento giuridico, individuandole nell’«unità dell’ordinamento senza la quale l’ordinamento non è ordinamento», nella sua “funzionalità” alla società «in quanto fondata sul principio dell’unità», «al quale l’ordinamento è propriamente  funzionale per il suo carattere istitutivo», “costitutivo”.

Ora, ben si individua la necessità di uno studio «non intellettualistico» di diritto e società, si coglie la questione fondamentale della teoria del pluralismo giuridico che riconosce una «pluralità di organizzazioni sociali ciascuna come assoluta e perfetta in sé stessa» e conseguenzialmente «l’affermazione di una pluralità di ordinamenti»[34].

Pigliaru sul tema richiama il «pluralismo critico» di Gurvitch e la tesi per cui lo Stato è «uno dei possibili ordinamenti giuridici, entro cui l’uomo svolge la sua vita sociale, e precisamente l’ordinamento giuridico della società politica».

La matrice gentiliana del pensiero dell’autore emerge anche in una certa diffidenza verso le teorie del Gurvitch, perché «la tesi del pluralismo giuridico» «non manca alla fine di rilevarsi» “contraddittoria”, perché «finisce sempre con il riaffermare l’unità organica e necessaria dell’ordinamento proclamato autentico» (quello statale), «riaffermando questa unità nell’unità degli ordinamenti sottostanti, ciascuno in sé e per sé considerato». Ciononostante, emergono interessanti osservazioni volte a valorizzare gli elementi positivi della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici e dell’istituzionalismo, di cui fu in Italia massimo interprete Santi Romano. Ad esempio, la sottolineatura del valore positivo dell’attività ordinante di ogni ordinamento rispetto a qualsiasi «pluralità meramente situazionale»[35].

Quindi, se l’ordinamento giuridico, ed in particolar modo quello statale, è “ordinante”, ciò non significa che si debba pervenire ad una sorta di «unità negatrice della situazionale molteplicità degli ordinamenti sottostanti»[36].

Pigliaru parla perciò di «sistemazione integrale del diritto sociale» e del fine dell’ordinamento giuridico quale «unità positiva dei suoi momenti».

L’autore, peraltro, entro la disamina delle dottrine sull’ordinamento giuridico, dedica particolare attenzione sia all’istituzionalismo che al normativismo.

Della prima concezione della scienza giuridica sottolinea l’importanza innovativa rispetto al normativismo classico[37], perché rigetta la «radicale risoluzione del concetto del diritto in un’entità puramente logica in senso tutto formale e facilmente degenerante in astratto formalismo quale è la norma giuridica», e sostiene la necessità «di mettere in evidenza qualche altro aspetto del diritto, più fondamentale, e soprattutto antecedente», «onde quella valorizzazione e quella estensione della nozione di istituzione che infine, al massimo dello svolgimento, metterà capo alla detta affermazione di equivalenza tra istituzione e ordinamento giuridico che ben dovrebbe, di contro all’insufficienza del normativismo e alla sua astrattezza, porre in essere una definizione massimamente concreta del diritto».

Ora, si ritiene con puntualità che quest’orientamento di pensiero connette il diritto e la nozione di ordinamento giuridico a tre fattori basilari: al concetto di società; all’idea di ordine sociale; alla concezione del diritto come «organizzazione, struttura» che «costituisce come unità» la «posizione della stessa società in cui si svolge».

Purtuttavia, si sviluppano puntuali e non sempre condivisibili critiche alla dottrina dell’istituzione.

E’ fondata la confutazione dell’equazione, cara a Santi Romano, secondo cui «ogni ordinamento giuridico è un’istituzione e viceversa ogni istituzione è un ordinamento giuridico»[38], perché trattasi di un’«equazione proclamata necessaria ed assoluta, epperò, in quanto posta come immediata, estremamente pericolosa in quanto legittimante, sul piano dell’istituzione, ogni istituzione in quanto istituita, e come tale, immediatamente affermante la detta equazione».

Ed anche perché, ed il rilievo è nostro, non può ridursi la realtà effettuale, sociale di un’istituzione come «corpo sociale unitario» al solo ordinamento, esistendo istituzioni altamente complesse ed articolate, tra cui anzitutto lo Stato, unica istituzione sovrana, per cui è preferibile sostenere che «ogni istituzione ha un ordinamento giuridico».

Appare, viceversa, riduttiva della portata innovativa della teoria in questione, il ridurla al suo «valore propriamente interpretativo» della concretezza dell’istituzione «in quanto fatto, processo chiuso e meglio accessibile anche alla tecnica del normativismo», «integrato però nella definizione della norma giuridica come norma istituzionale». Ma ciò è il portato dell’impostazione attualistica dell’autore che sempre emerge. Per cui, anziché radicare sin in fondo il rapporto diritto-istituzione nella società pluralista, si situa quest’ultimo nesso «in rapporto come di inattuale ad attuale», «per non dire addirittura in rapporto di astratto a concreto, e viceversa», «rapporto di identità», «di reciprocità e contemporaneità massima» che da “astratto” diventa “concreto”, «in quella vera ed autentica concretezza che è la concretezza dell’atto», che è un incontrovertibile momento di «reductio ad unitatem» in divenire. L’autore ribadisce, altresì, la sua diffidenza verso la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, corollario dell’istituzionalismo, sottolineando la «contraddittorietà della nozione di ordinamento giuridico pluralistico», perché «coerentemente svolta, sul piano massimamente pluralistico, dovrebbe implicare quella massima irrelatività di istituzione a istituzione, come di ordinamento a ordinamento, che mal s’accorda con ogni ulteriore svolgimento relazionale»[39].

Orbene, a nostro avviso nelle società pluralistiche avanzate e complesse, nella realtà della storia colta nel suo momento fattuale, l’ “interazione” tra i corpi sociali, le istituzioni, è inevitabile e necessaria.

Pigliaru, all’incontrario,pur entro un’analisi accorta, si mostra intento a dover riaffermare «una progressiva risoluzione delle istituzioni secondo il ritmo produttivo di quell’unità»,  che è “l’atto” ed «una incontrovertibile esigenza d’ordine».

Insomma: lo scenario della dialettica tra i gruppi sociali reali e la storia dei fatti viene necessariamente sussunta nell’orbita della concezione attualistica e monistica.

Ciononostante, l’indagine dell’autore si mostra attenta alla «dialettica delle istituzioni di fatto» e particolarmente interessante nella valorizzazione dell’istituzionalismo romaniano, quale concezione del fenomeno giuridico che persegue «la riduzione all’unità del molteplice sociale, altrimenti discorde nella sua particolarità»[40], che afferma «il carattere istituzionale della norma giuridica»[41].

Quanto alla teoria normativistica dell’ordinamento giuridico e del diritto, le critiche dell’autore al Kelsen, oltre che condivise e convincenti, sono esaustive.

Si richiamano puntualmente[42] le «Impressioni su Kelsen tradotto» del Capograssi del 1953, si sottolinea l’ipostatizzazione del diritto come inteso dal Kelsen, derivante da un’astratta , ipotetica e presupposta “Grundnorm” e da una rigida separazione  tra il “Sein” ed il “Sollen”, tra “l’essere” ed “il dover essere”nella dottrina normativistica pura.

Scrive opportunamente Pigliaru che secondo questa teoria «norma giuridica è» «categoria espressione di quel dover essere (das Sollen), con cui si rappresenta , nell’economia di una scienza pura, il diritto positivo in contrapposizione al principio di causalità (das Mussen), che è espressione della legge di causalità come legge naturale».

Il diritto secondo il Kelsen si risolve in un astratto dover essere scisso dalla realtà effettuale e dalla storia, si risolve nella “pura forma” (e quindi adattabile ad ogni regime politico) ed è, di conseguenza, come ritiene il Pigliaru, una «concezione meramente formalistica della norma stessa», «affatto adiafora al variare del contenuto»[43].

Teoria che ricorda il cavaliere inesistente di Italo Calvino, l’Agilulfo, paladino del re, cavaliere senza corpo, fatto solo della sua bianca e splendente armatura, per il quale nulla ha senso se non assolvere minuziosamente i compiti della vita militare, privo di “vera identità” al di fuori della sua corazza.

Fuor di metafora: l’esanguità della dottrina kelseniana non rende in alcun modo ragione alla forza storica del diritto ed alla sua genesi sociale, posta in risalto in un recente e interessante libro di Paolo Grossi[44], peraltro intriso di un incondivisibile e radicale antistatalismo, in cui si legge che «il diritto non è scritto in un paesaggio fisico che attende ancora un inserimento umano, è scritto nella storia, grande o minuta», «il diritto è infatti dimensione intersoggettiva, è relazione fra più soggetti (pochi o molti), si contrassegna per una sua essenziale socialità».

Pigliaru è ben consapevole di quest’ultima questione, scrivendo, ad esempio, con riguardo al sempre attuale tema della “crisi del diritto”, che «nell’ordine del pensiero giuridico più progredito…tutto l’apparato dogmatico del formalismo puro» manifesta «la sua contraddittorietà, e non la sua mera insufficienza», per causa «del ritmo problematico del mondo moderno». E cerca, con argomentazioni sempre ricche di spunti e citazioni di S. Paolo e di Blondel, di superare i limiti del normativismo puro attraverso una sintesi tra questa dottrina e quella volontaristica, nell’unione attualistica di «pensiero e volere», affinché la volontà che pone in essere la norma produca l’inventio rationis e la ratio legis, senza cadere nella fragilità «di un volontarismo immediato e puramente velleitario»[45].

Si legge che «senza una effettiva partecipazione volontaria il pensiero non è in effetti che una mera astrazione, affatto incapace di assolvere a quel suo compito fondamentale del pensiero in quanto attività costitutiva»[46], e che «giuridica è la norma intesa alla realizzazione di un ordine positivo adeguato storicamente»[47].

Dunque, la ratio è norma in quanto riferita all’azione, in quanto riferita alla «volontà dell’agente»[48] e «l’ordinamento giuridico, come insieme di norme, non è solo il portato di una moltiplicazione» «ma volizione simultanea di quelle norme»[49].

Purtuttavia, l’autore che si apre «all’urgere della realtà storica» cerca, in ogni sua argomentazione, di ricondurre le sue tesi alla filosofia dell’atto di Giovanni Gentile e con la confutazione del normativismo intellettualistico e del normativismo statalistico riafferma che «la volontà dello Stato è diritto» e che «lo Stato è volere comune ed universale».

Peraltro, se da un lato il Nostro critica «l’irrigidimento dogmatico dello Stato etico»[50] e lo “statolatrismo”, dall’altro richiama a più riprese proprio Gentile, che sia nella “Genesi e struttura della società”, sia nella “Filosofia del diritto”, riprende ed accetta la dottrina dello Stato di Hegel.

Si legge, infatti, ed ad esempio, nell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che «lo Stato è sostanza etica consapevole in sé» (lemma 535), che «l’essenza dello Stato è l’universale in sé e per sé» (lemma 537), che «lo Stato , in quanto spirito vivente, è … totalità organizzata».(lemma 539). Gentile richiama questa dottrina ne I fondamenti della filosofia del diritto, riprende la definizione hegeliana richiamata, contenuta anche nel lemma n. 257 dell’ultima edizione della Filosofia del diritto di Hegel, scrivendo che lo Stato «è sostanza etica consapevole di sé» e che «spetta ad Hegel nella storia del pensiero il merito di aver costruito, o come altri direbbe, di aver scoperto, il concetto di Stato»[51].

Insomma: la dignità morale dello Stato, posta a fondamento dell’eticità dello Stato stesso, fa emergere alcune aporie della dottrina dello Stato e della filosofia dell’attualismo – il farsi dell’atto puro ed il suo divenire sono assorbiti, comunque, da uno «statocentrismo ingombrante» –, che Pigliaru sembra voler superare appellandosi «alla vita critica», «alla critica dell’irrigidimento dello Stato etico» quale «aspetto inautentico»[52].

Ma il limite resta l’adesione incondizionata ad «un volere universale e comune» che è lo Stato, unica fonte del diritto e delle norme positive e, quindi, la negazione di un diritto della società extrastatale.

Di conseguenza, «l’intrinseca eticità del diritto»[53] si svolge «nella concreta ed universale positività dello Stato» ed entro «i doveri morali»[54], in virtù del «principio etico determinante»[55], (sul tema è richiamato il pensiero del Del Vecchio), che determina la «rigorosa immanenza dell’etico al giuridico»[56], da cui Pigliaru ricava la ridefinizione del dover essere inteso come «immanente eticità»[57], criticando la definizione kelseniana e formalistica di esso.

Dover essere che, secondo il Nostro, è «attività di rettificazione» del soggetto, «nel continuo riferimento del soggetto al proprio dover essere», «affermazione del voluto nella sua piena e positiva attualità»[58].

Da questa ridefinizione del dover essere deriva «la natura pedagogica dell’ordinamento giuridico, istitutivo di rapporti giuridici concreti, regolati concretamente per l’intervento attivo della norma».

 

4. – Da tali conclusioni muove la terza parte dell’opera sul rapporto tra persona e ordinamento.

L’autore non cerca tanto il «prevalere di un termine sull’altro»[59], quanto una giustificazione della realtà dell’ordinamento giuridico, quale «attività intesa di nuovo a realizzare l’ordine necessario allo sviluppo della persona»[60].

Quindi, l’autore parla di ordinamento «in quanto positiva posizione di ordine» e di persona come soggetto che rinuncia ad essere «principio dell’ordine», che si realizza «nell’ordine» e rinuncia «ad assumersi come ordine»[61].

L’ordinamento giuridico è, peraltro, focalizzato nel vivo «del processo stesso dello Spirito, o della civiltà, come processo connesso a processo, e cioè processo costitutivo della persona e dello stesso ordinamento»[62], e questo allo scopo di superare la «permanente crisi della persona» e la «permanente crisi dell’ordinamento»[63].

«Processo costitutivo» che deve realizzare «il fare in quanto dovere» e superare «il nulla», «il momento critico per eccellenza, se con ciò si voglia anche intendere una estrema ed assoluta libertà, la mancanza di ogni determinazione, ovvero la crisi di ogni determinato».

Sul concetto di “nulla” Pigliaru richiama un pensiero di Leonardo da Vinci, secondo cui il nulla è «il silenzio tra le parole e preferibilmente a petto delle parole da dire e , per quanto è possibile, non ancora pensate».

Questa definizione, peraltro, lascia intravedere una relazione tra il “nulla” e l’“essere” colta nel “divenire”e fa tornare in mente una nota definizione del “nulla” di Hegel (lemma n. 87 della Dottrina dell’essere,nella Scienza della logica), secondo cui «l’essere puro è poi l’astrazione pura, quindi l’assolutamente negativo che, preso anch’esso nella sua immediatezza, è il nulla», il quale nella sua stessa immediatezza «è anche la stessa cosa dell’essere. La verità dell’essere, come quella del nulla, è quindi la loro unità, e questa unità è il divenire» (Hegel, op.ult.cit., lemma n. 88).

Ora, l’autore ritiene opportunamente che il “nulla” si supera con “il fare” e con “l’opera” della persona «in quanto valore», che colma «un deficit situazionale» ed è il «fine dell’ordinamento» a cui quest’ultimo deve rispetto[64].

La “persona valore” è l’antitesi della «qualificazione retorica della persona»[65], intellettualistica, che stacca il soggetto dagli altri e dal mondo, perché è collocata entro «la posizione della vita come amore» del problematicista Ugo Spirito e nella nozione di «attribuzione di responsabilità», quale «atteggiamento morale di assoluta partecipazione di sé a sé» «ma in quanto al prossimo proprio» per «la conquista del prossimo»[66].

Perciò, “la persona valore” «è uomo in quanto dovere», che non può violare i limiti che deve incontrare nei rapporti con gli altri uomini, altrimenti violando, e l’osservazione è nostra, la c.d. “norma della misura” (la platonica “misura del giusto”), così realizzando la hybris.

Questo si consegue attraverso un processo di perfezionamento dell’uomo, nel tendere al «possesso effettivo e totale dell’uomo nell’ordine di tutto che per l’uomo sia effettivamente e moralmente umano»[67].

Pigliaru spiega tale ultima tesi richiamando l’idealista cristiano Girolamo Savonarola[68], che contrappone ai realisti Machiavelli e Guicciardini, perché la renovatio hominis è prodotta dalla renovatio civitatis. L’uomo è situato nella città , e come già ricordava Aristotele «il problema pedagogico dell’uomo deve essere affrontato in relazione alla vita e alle esigenze della polis»[69], perché «non bisogna credere che ogni cittadino sia padrone di sé, ma invece che tutti appartengono alla città, essendo ciascuno parte della città».

Il problema del “farsi” della persona si pone, dunque, nelle istituzioni dello Stato e nella società organizzata ed esiste una correlatività tra «il processo dell’ordinamento» e la «produttività della persona», perché l’ordinamento giuridico è «funzione della persona» e «momento stesso onde la persona si costituisce come tale»[70].

In ultima istanza, la persona come valore è connessa all’ordinamento come funzione ed è situata nella polis, perché il suo «aprirsi al prossimo» deve «accedere alla socialità», superando il piano del “mio” che vige tra «individualità chiuse e particolari»[71] per la «riforma integrale e morale», come «riforma interiore», che la persona stessa deve conseguire.

Da ciò, secondo l’autore, deriva la necessità dei doveri morali e sociali della persona, il superamento del potere (anche come «potere privato»), definito «esercizio esclusivo e assoluto del proprio particolare»[72], come «assoluto potere», «libertà meramente situazionale»[73], nella «riforma morale del contratto» ed in un nuovo «patto sociale».

Pigliaru sul punto insiste sul «superamento del potere» come «limite chiuso della propria particolarità», per sostenere «la moralità della persona»[74] ed affermare che «la funzione positiva dell’ordinamento» si realizza nel superamento dell’errata idea della «persona come potere» e dell’ordinamento «posto in essere alla tutela od all’ordine del potere, anziché all’affermazione vigorosa ed essenziale del dovere»[75].

Il diritto è inteso perciò quale «processo di personificazione della persona come dovere».

Nell’epilogo dell’opera si legge che «la valutazione critica unitaria dell’esperienza giuridica comune e quotidiana» impone «la più esatta valutazione morale delle manifestazioni oggettive della vita del diritto stesso», affinchè quest’ultimo possa essere strumento «per la soluzione effettiva dei problemi che sono alla radice delle fondamentali esigenze di un ordine più all’altezza dell’uomo e della società propria dell’uomo»[76].

Frase che, pur entro il persistere di una concezione del rapporto persona-ordinamento incentrata sui “doveri morali” e non anche sui “diritti fondamentali” e su una consistente influenza, come suscritto, della filosofia dell’atto puro e dello Stato etico e del problematicismo, arricchiti però dall’umanesimo cristiano e paolino e da molteplici riferimenti culturali, sintetizza uno degli argomenti più attuali dell’opera – il diritto è nella storia ed è un mezzo e non un fine – e colloca il travagliato pensiero dell’autore oltre il solco delle sue prime adesioni ideali e culturali.

 

 



 

[1] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953.

 

[2] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 5. Si deve precisare che tutte le citazioni dell’opera di Pigliaru faranno necessariamente riferimento all’edizione del 1953.

 

[3] A.Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 5.

 

[4] Vedi E. Mounier, Che cos’è il personalismo?, ed. it., Torino 1948, 17 ss., 29 ss.

 

[5] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 18.

 

[6] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 26.

 

[7] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 29.

 

[8] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 52.

 

[9] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 29.

 

[10] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 34.

 

[11] A.Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 47 nt. 18.

 

[12] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 10.

 

[13] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 8.

 

[14] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 9.

 

[15] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 7-8 e 42-43.

 

[16] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 35.

 

[17] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 37.

 

[18] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 42 nt. 17.

 

[19] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 50 nt. 19.

 

[20] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 55.

 

[21] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 57.

 

[22] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 59.

 

[23] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 62-63.

 

[24] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 65.

 

[25] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 67; cfr. op. cit., 66.

 

[26] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 68.

 

[27] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 69.

 

[28] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 70.

 

[29] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 72-73.

 

[30] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 76.

 

[31] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 79.

 

[32] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 80.

 

[33] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 83.

 

[34] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 85.

 

[35] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 86.

 

[36] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 90.

 

[37] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 91.

 

[38] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 93.

 

[39] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 95.

 

[40] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 96.

 

[41] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 97.

 

[42] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 98.

 

[43] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 107.

 

[44] P. Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2003, 12.

 

[45] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 106.

 

[46] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 109.

 

[47] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 112.

 

[48] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 112.

 

[49] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 113.

 

[50] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 115 nt. 24.

 

[51] G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze, 1955, 108.

 

[52] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 115 nt. 24.

 

[53] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 117.

 

[54] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 116.

 

[55] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 118.

 

[56] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 119.

 

[57] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 112.

 

[58] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 125.

 

[59] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 133.

 

[60] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 135.

 

[61] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 136-137.

 

[62] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 139-140.

 

[63] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 138.

 

[64] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 145.

 

[65] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 150.

 

[66] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 151-152.

 

[67] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 157.

 

[68] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 162.

 

[69] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 162 nt. 20.

 

[70] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 164.

 

[71] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 169.

 

[72] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 173.

 

[73] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 172.

 

[74] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 174.

 

[75] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 178.

 

[76] A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico cit., 182.