N. 5 – 2006 – Memorie

 

Antonello Calore

Università di Brescia

 

Bellum Iustum tra etica e diritto[1]

 

 

Sommario: 1. L’idea di «guerra giusta» oggi. – 2. Una citazione di Hans Kelsen. – 3. Cicerone e la dottrina del bellum iustum. – 3.1. Le ‘fonti’ ciceroniane. – 4. Conclusione.

 

1.L’idea di «guerra giusta» oggi

 

Come intendere oggi l’espressione «guerra giusta»?

Se per ‘guerra’ possiamo ancora accettare una definizione classica quale «lotta armata tra due o più Stati o tra fazioni all’interno dello stesso Stato» (sebbene in tale definizione non rientrino i recenti fenomeni bellici del «terrorismo internazionale» e del «conflitto asimmetrico»), risulta invece più difficile definire l’aggettivo ‘giusto’. Dobbiamo intenderlo nell’accezione ‘etica’ di guerra contro il male per il trionfo del bene?

Nei recenti conflitti, che hanno visto coinvolto pesantemente l’Occidente europeo, come per esempio la Guerra del Golfo (1990-1991), le guerre nell’area balcanica (prima in Bosnia 1991-1995 e poi nel Kosovo 1999), la guerra in Afghanistan (2001-2002) e da ultimo in Iraq, il sintagma «guerra giusta» è stato utilizzato sia nel linguaggio dei media sia in quello scientifico.

Due esempi:

1) a proposito dell’azione bellica in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001, Oshama Bin Laden e gli ideologi dell’organizzazione terroristica Al Qaeda motivarono la resistenza armata all’attacco militare anglo-americano chiamando in causa la figura religiosa della jihad, la «guerra giusta», perché ‘santa’;

2) il politologo statunitense Michael Walzer ha teorizzato, criticando la riflessione giuridica, il ritorno al concetto di guerra giusta in un’ottica etico-morale: «la giustizia diventa una necessità militare»[2].

L’espressione «guerra giusta» è quindi decisamente presente nel linguaggio attuale, con la funzione di indicare nell’evento bellico uno strumento utile alla difesa di valori umani «universali e pregiuridici», uno strumento cioè che travalica quasi lo stesso principio di sovranità, «attributo naturale» degli Stati.

 

2.Una citazione di Hans Kelsen

 

E’ mia convinzione che non sia stato sempre così.

Già a partire dalla riflessione di Hans Kelsen, il concetto di «guerra giusta», messo in ombra dal positivismo ottocentesco, fu riutilizzato con l’intento di decidere sulla legittimità della guerra. La guerra cioè come sanzione del diritto internazionale[3] (si pensi al cap. IV della Carta delle Nazioni Unite relativo alla «Soluzione pacifica delle controversie» e in particolare all’art. 51). Una tesi questa, da cui prenderà le mosse l’idea del «pacifismo giuridico» di Norberto Bobbio[4].

Il punto interessante, in questa sede, è che la riflessione kelseniana richiama esplicitamente la teorizzazione romana sul bellum iustum. In una delle sue opere più importanti, General Theory of Law and State del 1945, Kelsen scrive: «neanche l’imperialismo romano ritenne di poter procedere senza un’ideologia che ne giustificasse le guerre come azioni lecite. Il diritto di guerra era quindi strettamente connesso con il cosiddetto ius fetiale. Venivano considerate ‘guerre giuste’ solo quelle guerre che fossero intraprese osservando le regole dello ius fetiale. Queste regole, a vero dire, avevano essenzialmente soltanto un carattere formale; ma Cicerone, che può essere considerato il filosofo del diritto rappresentativo di Roma antica, e che anche a questo riguardo esprime probabilmente solo l’opinione pubblica generalmente corrente, afferma che potevano essere ritenute azioni lecite soltanto quelle guerre che fossero intraprese per motivi di difesa o per motivi di vendetta»[5].

Il testo di Cicerone richiamato è De re publica 3.23.35 (che sarà esaminato più avanti) ed è citato a sostegno di un’interpretazione tutta ideologico-strategica della teorica del bellum iustum ciceroniana.

Non è questo il luogo per approfondire il pensiero di Kelsen; è invece opportuno chiedersi se la categoria elaborata da Cicerone appartenesse alla sfera della politica, caratterizzandosi così come concetto meta-giuridico.

 

3.Cicerone e la dottrina del bellum iustum

 

Prima di analizzare i testi ciceroniani relativi al bellum iustum, si rendono necessarie tre premesse:

1) il significato di bellum iustum che a me interessa rilevare nell’opera di Cicerone è attinente allo scenario ‘internazionale’ e non a quello ‘interno’, come la ‘guerra civile’. Il significato, quindi, su cui concentrerò l’attenzione è quello di “guerra giusta” in relazione ai conflitti armati tra i Romani e gli altri popoli inquadrandolo nella visuale della ‘giuridicizzazione’ (“Normativität”)[6] delle relazioni ‘internazionali’ romane, convinto – come sono – che i Romani avessero un sistema giuridico sovranazionale[7];

2) la seconda premessa, direttamente collegata alla prima, è la presenza nella cultura romana della concezione della guerra come «procedimento giuridico-religioso»[8]. Nello specifico, il bellum iustum indicava, in epoca romana arcaica, l’agire bellico secondo le regole dello ius belli conosciute e custodite dai Feziali;

3) Cicerone, per le molte pagine dedicate al tema della guerra, è non a torto considerato il teorico del bellum iustum. La dottrina, pur con importanti sfumature al suo interno (si pensi alla diversità tra Ziegler, Clavadetscher-Thürlemann da una parte e Hausmaninger e Ilari dall’altra), considera l’Arpinate l’ideatore del concetto di guerra ‘sostanzialmente’ giusta. Una conclusione questa che non condivido. Cicerone fu senz’altro un teorico del bellum iustum, ma la tesi che fu l’ideatore del fondamento etico della “guerra giusta” non mi convince. Per essere meno categorico, ritengo che sia possibile avanzare anche un’altra lettura del bellum iustum ciceroniano, diversa da quella dominante.

 

3.1.Le ‘fonti’ ciceroniane

 

Nell’opera di Cicerone si trova una corposa, anche se non sempre lineare[9], riflessione sul tema della guerra. In particolare, l’espressione bellum iustum, il suo contrario bellum iniustum et similia ricorrono in 16 loci dell’opera ciceroniana[10].

Qui interessano, in modo particolare, soltanto le citazioni presenti nei tre scritti filosofici De re publica, De legibus e De officiis, che tra l’altro, avendo carattere speculativo, meglio si prestano alla ricostruzione teorica del pensiero dell’autore.

Cominciamo con il De re publica, scritto nel 54 a.C., di cui ci sono pervenute in originale ampie sezioni del primo e del secondo libro e l’epilogo del sesto ed ultimo libro (il c.d. Somnium Scipionis). Il resto dell’opera, infatti, è andata perduta e può essere ricostruito grazie alle citazioni riportate più o meno fedelmente da autori antichi quali Nonio Marcello, Lattanzio e Agostino.

Sono due i passi del De re publica, in cui si parla esplicitamente di bellum iustum.

Sul primo (rep. 2.17.31), che appartiene alla parte dell’opera ritrovata nel 1820 dal cardinale Angelo Mai, ci soffermeremo subito. Sul secondo (rep. 3.23.35), trattandosi di un testo che ricostruiamo grazie ad una citazione di Isidoro di Siviglia ed essendo anche quello più importante per il nostro argomento, preferisco rinviare l’esame al termine dell’analisi di tutti gli altri passi sull’argomento. Si potrà così valutare meglio il suo apporto specifico rispetto all’insieme delle altre testimonianze.

Soffermiamoci, quindi, su rep. 2.17.31: Mortuo rege Pompilio Tullum Hostilium populus regem interrege rogante comitiis curiatis creavit, isque de imperio suo exemplo Pompili populum consuluit curiatim. Cuius excellens in re militari gloria magnaeque extiterunt res bellicae, fecitque idem et saepsit de manibus comitium et curiam constituitque ius, quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum, quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur.

Siamo nel secondo libro e Cicerone ci offre uno squarcio dell’epoca regia.

Tullo Ostilio, succeduto al re Numa Pompilio, fu impegnato in imprese belliche facendosi promotore di un sistema di regole (ius) per iniziare la guerra, fondato sui rituali dello ius fetiale. Pertanto, ogni guerra, intrapresa senza essere denuntiata e indicta, doveva ritenersi iniusta e inpia.

Gli aspetti decisivi per la comprensione del “bellum iustum” sono:

– innanzi tutto il richiamo all’ordinamento feziale come elemento fondante della dichiarazione di guerra (i termini ‘iniustum e inpium’ erano propri delle antiche formule feziali usate nella dichiarazione di guerra);

– poi, l’individuazione del requisito del bellum iustum nelle azioni del denuntiare e dell’indicere; due verbi, questi, usati in senso tecnico[11].

Lo schema del “bellum iustum” risulta, quindi, strettamente legato allo ius fetiale circa l’indizione della guerra, consentendoci di concludere che il sintagma ‘bellum iustum’ indicava la guerra conforme al sistema giuridico.

Passiamo ora al De legibus (iniziato nel 52 a.C.). Nel terzo libro, Cicerone espone, con linguaggio solenne proprio del documento normativo, una serie di prescrizioni sulle funzioni dei magistrati romani, tra cui quella di condurre legalmente guerre giuste (duella iusta iuste gerunto) seguendo le indicazioni decretali del Senato e le deliberazioni del popolo: Imperia, potestates, legationes, quom senatus creverit populusve iusserit, ex urbe exeunto, duella iusta iuste gerunto, sociis parcunto, se et suos continento, populi <sui> gloriam augento, domum cum laude redento (3.3.9).

Sono due le annotazioni su cui è qui necessario richiamare l’attenzione.

La prima è che il vocabolo usato per indicare la guerra è quello arcaico di duellum[12] a dimostrazione dell’antichità dell’espressione.

La seconda è che i due termini, l’aggettivo iusta e l’avverbio iuste, rimandano al registro giuridico dell’esposizione ciceroniana, richiamando, rispettivamente, le regole del bellum iustum, prescritte dall’ordinamento romano (ruolo del Senato e del Comizio), e lo ius in bello (i criteri di comportamento durante e dopo la battaglia).

Le «guerre giuste» erano, quindi, in relazione all’attività dei magistrati (consoli) ed in sintonia con l’ordinamento giuridico (funzione del Senato e dell’Assemblea popolare).

Possiamo quindi concludere che nel passo del De legibus l’idea del bellum iustum è riconducibile al tipo di guerra conforme al diritto.

Fermiamoci sul testo del De officiis (redatto nel 44 a.C.), dove Cicerone dedica un ampio spazio alla riflessione sulla guerra, ricordando anche il concetto di bellum iustum.

Siamo nel primo libro e, al paragrafo 38, leggiamo che, quando si lotta per la supremazia (bellum de imperio) e si cerca la gloria con la guerra, debbono verificarsi quelle circostanze indicate in precedenza come “giuste” per le guerre: Cum vero de imperio decertatur belloque quaeritur gloria, causas omnino subesse tamen oportet easdem, quas dixi paulo ante iustas causas esse bellorum (1.12.38).

Ai fini della risoluzione del nostro problema, se cioè l’espressione ciceroniana “bellum iustum” debba intendersi in un’accezione etico-sostanziale oppure giuridico-procedurale, diventa dirimente stabilire se le iustae causae bellorum richiamate nel brano si riferiscono alla causa sostanziale, citata da Cicerone nel paragrafo 35[13], o alle regole giuridiche formali, riportate nel paragrafo 36[14].

La dottrina, abbagliata dal termine ‘causa’, ha ricondotto le «giuste cause delle guerre» al paragrafo 35, dove Cicerone scrive che la guerra è mezzo per raggiungere la pace.

Non è stato, però, valutato appieno il contenuto del paragrafo 36, cui – a mio parere – rimanda espressamente l’espressione paulo ante del paragrafo 38. Nel paragrafo 36, Cicerone sottolineava come la legittimità della guerra fosse sancita dal diritto feziale del popolo romano, con il che nessuna guerra sarebbe legittima se non fosse condotta per chiedere riparazione, o precedentemente denunciata e dichiarata. Si aveva, quindi, bellum iustum rispettando le regole fissate dall’antico diritto dei feziali e cioè quando si agiva per res repetere ovvero quando la guerra fosse prima annunciata e poi dichiarata.

Personalmente propendo per la logica intrinseca al testo, per cui le causae del paragrafo 38 sono da ricondurre alle regole richiamate al paragrafo 36. A confortare la conclusione raggiunta, ricordiamo che il termine ‘causa’ nel linguaggio dei giuristi romani, ma anche in quello ciceroniano[15], aveva anche l’accezione di ‘fondamento giuridico’ dell’azione e che pertanto l’espressione iusta causa, nella cultura dell’epoca, poteva avere il significato precipuo di requisito dell’agire prescritto dall’ordinamento (essere cioè conforme a ius).

Le «giuste cause» della guerra sono dunque quelle previste dal diritto.

Tutti i testi di Cicerone, relativi al bellum iustum, presi in considerazione, sono riconducibili alla concezione della «guerra giusta» come guerra conforme al diritto.

Resta un solo testo da analizzare.

Si tratta di un frammento del De re publica (3.23.35) che, a differenza di quello già preso in considerazione (2.17.31), appartiene all’opera andata perduta e viene ricostruito grazie ad una citazione di Isidoro di Siviglia. L’erudito cristiano della fine del VI secolo, trattando il tema delle guerre (de bellis), individuava quattro tipi di guerra: Quattuor autem sunt genera bellorum: id est iustum, iniustum, civile, et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex praedicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa. Iniustum bellum est quod de furore, non de legitima ratione initur.

Subito dopo la definizione del bellum iustum lo scrittore richiamava un passaggio del De re publica di Cicerone: De quo in Republica Cicero dicit: «Illa iniusta bella sunt, quae sunt sine causa suscepta. Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam bellum geri iustum nullum potest». Et hoc idem Tullius parvis interiectis subdidit: «Nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi dictum, nisi de repetitis rebus».

La citazione, con l’eccezione delle frasi che riporto in grassetto, è ricondotta dalla dottrina integralmente al De re publica di Cicerone: 3,23,35. Sarebbero così tre le frasi autentiche dell’Arpinate, con i seguenti contenuti:

a) si avvisa che sono «guerre ingiuste» quelle intraprese senza una “causa”;

b) poi si dice che le guerre giuste sono soltanto quelle intraprese per vendicare un torto subìto (ulciscendi) ovvero per ricacciare indietro i nemici (propulsandorum hostium);

c) infine si afferma il principio che non si può avere «guerra giusta» qualora questa non sia stata annunziata, dichiarata e finalizzata alla riparazione.

Va da sé che, mentre il contenuto dell’ultima frase è riconducibile alla tradizione feziale dell’indictio belli[16] (ben conosciuta da Cicerone[17]), l’individuazione della portata morale della giustificazione della guerra, la giustizia cioè come fine ultimo (“causa”) della guerra (esplicitata nella seconda frase), rappresenta una novità nell’elaborazione romana del bellum iustum[18].

Cicerone è informato della ‘causa finale’ di stampo aristotelico riferita alla guerra, come si evince da off. 1.11.35 dove il termine causa è riferito al fine della guerra di raggiungere la pace, ma non è collegato in alcun modo con il “bellum iustum”.

Solo nel passo del De re publica appena citato riscontriamo un rapporto inequivocabile tra iusta causa, estranea agli schemi giuridici, e bellum iustum. Tant’è che la dottrina, basandosi su tale testo, ha sostenuto la tesi di un Cicerone teorico della «guerra giusta» dal punto di vista ‘sostanziale’, fuori cioè dalle regole del diritto (cfr. Kelsen).

È mia convinzione che tale conclusione sia azzardata, non soltanto perché questo sarebbe l’unico testo (per giunta non pervenutoci direttamente) in cui Cicerone parla esplicitamente di cause sostanzialmente giuste, ma anche perché la scrittura non è poi così lineare. Nutro, infatti, forti dubbi sulla paternità ciceroniana della frase «Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam bellum geri iustum nullum potest».

Al riguardo, mi convincono le argomentazioni avanzate di recente da Luigi Loreto[19]:

- l’incongruenza tra la frase incriminata e quella immediatamente successiva di Isidoro «Et hoc idem Tullius…». Se infatti la spiegazione introdotta dal ‘nam’ fosse di Cicerone, non si spiegherebbe la necessità di riaffermare subito dopo «lo stesso Cicerone aggiunge poco più avanti», che invece avrebbe una sua ragion d’essere se il ‘nam’ introducesse un commento di Isidoro;

- la duplice contraddittorietà. Quella “interna” circa lo sfasamento tra le cause sostanziali («ulciscendi aut propulsandorum hostium») e le cause formali della procedura feziale («nisi denuntiatum, nisi dictum, nisi de repetitis rebus»); e quella “esterna” relativa al rapporto confliggente con l’altro testo del De re publica 2.17.31, dove il bellum iustum è identificato in via esclusiva con quello denuntiatum e indictum. Anche qui l’antinomia si supererebbe con l’attribuzione delle cause sostanziali ad Isidoro.

A tali osservazioni si deve ancora aggiungere che:

- la tecnica di citazione di Isidoro conferma che anche in altri loci l’erudito cristiano stravolge a propri fini la segnalazione altrui. Come quando in un altro passo delle Etymologiae (18.1.7), per sostenere il proprio punto di vista sulla distinzione tra bellum e tumultus manipola il testo originale delle Filippiche (8.3) di Cicerone[20];

- tutta lelaborazione ciceroniana sulla guerra giusta riconduce al principio tradizionalistico delle regole giuridiche dell’indictio belli, fissate in principio dallo ius fetiale[21];

- il termine ‘causa’ – come già rilevato a proposito del De officiis[22] – nel linguaggio dei giuristi romani e in Cicerone ha anche l’accezione di ‘fondamento giuridico dell’azione’ e quindi l’espressione «iusta causa» può essere intesa nel significato di requisito dell’azione prescritto dall’ordinamento.

In conclusione, la frase originale del De re publica doveva risultare pressappoco così: «Illa iniusta bella sunt, quae sunt sine causa suscepta. Nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi dictum, nisi de repetitis rebus», escerpendo «Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam bellum geri iustum nullum potest», che deve ricondursi alla penna di Isidoro[23].

 

4.Conclusione

 

Ritengo che l’obiettivo di Cicerone fu di armonizzare l’idea del bellum iustum con la nuova realtà delle guerre transmarine, muovendo dal sistema dell’indictio belli feziale.

Il disegno ciceroniano si muove, cioè, nell’ottica di una visione giuridica della guerra.

Sono consapevole che, nelle guerre di espansione nel Mediterraneo, Roma non sempre rispettò le modalità proprie del bellum iustum. Sono però altrettanto convinto che Cicerone ci abbia tramandato, come tutta la tradizione romana, un modello normativo cui rifarsi per il controllo della vis decertandi.

Un cambiamento strutturale si registrò con Sant’Agostino il quale, nel tentativo di giustificare la presenza della guerra nella città degli uomini, chiamò in causa la volontà divina, introducendo così la causa eziologica della guerra[24].

 

 



 

[1] Il presente saggio è destinato agli Scritti per Luigi Labruna. Riproduco il testo della comunicazione tenuta al IV Convegno internazionale «Diritto pubblico e privato: l’esperienza plurisecolare dello sviluppo del diritto europeo» (Ivanovo-Suzdal’-Mosca, 25-30 giugno 2006) con l’aggiunta di brevi note bibliografiche.

 

[2] La citazione è tratta da M. Walzer, La libertà e i suoi nemici, Roma-Bari 2003, 79. Dello stesso autore vedi già Just and Un just Wars (1970), trad. it. Guerre giuste e ingiuste, Napoli 1980.

 

[3] Cfr. H. Kelsen, Teoria generale dello Stato (1945), trad. it., 1984, 340 ss.; Id., La dottrina pura del diritto (1960), trad. it., Torino 1975, 352 ss.; Id., Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale: contributo per una dottrina pura del diritto (1920), trad. it., Milano 1989, 387 ss.

 

[4] Cfr. N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace3, Bologna 1991, 75-90, 113-118,138-146; Id., Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Venezia 1991.

 

[5] H. Kelsen, Teoria generale dello Stato, cit., 340.

 

[6] Per riprendere uno spunto di D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronztafel von Alcántara, München 1989, 118.

 

[7] Sul tema vedi, per tutti, P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, 30-48.

 

[8] Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, Napoli 19732, 49 e 50.

 

[9] Cfr. I. Lana, L’idea della pace nell’antichità, Firenze 1991, dove l’oscillazione ciceroniana tra uno stato di pace e/o uno di guerra sarebbe da ricondurre alla «situazione politica nella quale Cicerone si trova nel momento in cui assume le diverse posizioni» (58).

 

[10] Questi gli scritti, ordinati cronologicamente: inv. 2.23.70; div. in Caec. 62; Catil. 2.1.1; Sest. 22.50; prov. 4; rep. 2.17.31; 3.23.35; leg. 3.3.9; Att. 7.14.3; 9.19.1; 10.4.3; Deiot. 5.13; off. 1.11.36; fam. 6.6.5; Phil. 11.14.37; 13.17.35

 

[11] Dove il verbo ‘denuntiare’ sta ad indicare la dichiarazione solenne, fatta dall’ambasciatore romano designato; il verbo ‘indicere’ rinvia alla seconda parte della procedura feziale successiva alla clarigatio (cfr. sul punto A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, Milano 2003, 115-122).

 

[12] Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, s.v. ‘bellum’, Paris 1967: passaggio dall’antica forma ‘duellum’ alla più recente ‘bellum’.

 

[13] Cic., off. 1.11.35: Quare suscipienda quidem bella sunt ob eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur.

 

[14] Cic., off. 11.36: Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali populi Romani iure perscripta est: ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit et indictum.

 

[15] Cfr. per tutti Cic., Quinct. 36.

 

[16] Vedi Liv. 1.32.6-14 (su cui mi permetto di rinviare al mio Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, cit., 43-106).

 

[17] Cfr. Cic., off. 1.11,36 e rep. 2.17.31.

 

[18] Non così per la cultura greca, dove Aristotele (Pol. 7.1333b37-1334a10) aveva elaborato il concetto di guerra moralmente e politicamente giusta in tre soli casi: per non cadere nella servitù altrui, per esercitare un’egemonia nell’interesse degli assoggettati, per ridurre in schiavitù i barbari perché schiavi per natura (I. Lana, L’idea della pace nell’antichità, Firenze 1991, 39 e 173; per una visione approfondita del tema cfr. V. Ilari, Guerra e diritto nel mondo antico, I, Milano 1980, 220-235).

 

[19] L. Loreto, Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci, Napoli 2001, 27-33.

 

[20] Vedi M. Morandini, Tra Angelo Mai e Isidoro di Siviglia, il ‘bellum iustum’ nel “De re publica” di Cicerone, in A. Valvo - G. Manzoni (a cura di), Analecta Brixiana, Milano 2004, 155-170.

 

[21] Per un’analisi di tutte le testimonianze ciceroniane relative al bellum iustum rinvio al mio Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, cit., 107 ss.

 

[22] Vedi la nt. 16.

 

[23] È comunque doveroso segnalare che la totalità delle edizioni critiche del De re publica (Teubner, Les Belles Lettres, Loeb, UTET) riportano il passo attribuendo la frase a Cicerone. Unica eccezione la I edizione (1822) curata da Angelo Mai, dopo il ritrovamento di una parte dell’opera nel palinsesto vaticano.

 

[24] Aug., Civ. 7.30; Id. Quaestiones in Heptateucum 6.10; Id. Contra Faustum 22; Id. Ep. 189.