Cap. II della monografia: O. Sacchi, Regime della terra e imposizione fondiaria nell’età dei
Gracchi. Testo e commento storico della legge agraria del
Seconda Università
di Napoli
La
normativa sul regime fondiario dei possedimenti in Italia. Terra dichiarata privata in conseguenza dell’attività
graccana, tipologia di terreni e regime del possesso privato
(commento
alle linee 1-10)
Sommario: 1. Le linee 1-10: descrizione e
precisazioni di ordine terminologico/lessicale. – 2. La nozione di ager
publicus populi Romani. – 3. Dalla nozione augurale
di ‘ager’ alla nozione laica di ‘ager
privatus’. – 4. Etimologia, valore giuridico
e affermazione del concetto politico di terra Italia. – 5. Le formule ager-locus,
ager-locus-aedificium: ‘ager non est terra’.
– 6. La clausola quod non
modus maior siet e la nozione di vetus possessor: commento alla
linea 2 (ma anche 13, 16, 17 e 21). – 7. L’attività
delle commissioni agrarie graccane: commento alle linee 3, 4 e 5.
– 8. Il sistema
di assegnazione viritano e delle colonie: il modus agri. – 9. La dissoluzione del modus
agri. – 10. Dall’alienazione
di una quota al trasferimento di un bene specifico. – 11. Il riferimento a urbs,
oppidum e vicus nella linea 5. – 12. Le clausole di
eccezione ‘extra eum agrum’ e ‘exceptum cavitumve
est nei divideretur’ delle linee 4 e 6 relative ai possedimenti
assegnati in base alla legislazione agraria di Caio Gracco del 122 a.C.
– 13. Lo status
giuridico dell’ager Campanus all’epoca della legge agraria.
– 14. I terreni e i
possedimenti iscritti in formas tabulasve: commento alla linea 7.
– 15. La nozione di
ager privatus della linea 8. – 16. La formula agri publici
privatique. – 17. La
nozione di uti frui habere possidere nella lex agraria del 111
a.C. – 18. La possessio
di beni immobili in Cicerone. – 19.
Dalla possessio dell’ager publicus al dominium quiritario. – 20. Un’ipotesi
sull’emersione dell’idea di dominium nei giuristi
dell’età cesariana. – Conclusione.
La sezione
dedicata ai possedimenti in territorio italico, che rappresenta anche in senso
quantitativo la parte più importante di tale legge, comincia con la
descrizione di un elenco di categorie di terreni (linee 1-7) che avevano
costituito l’oggetto della regolamentazione di Tiberio Gracco nel
La legge poi incarica i censori di iscrivere nei pubblici registri (censuique censendo) tutte le categorie di cespiti da questi precedentemente elencate (linee 7-8) e poi statuisce nel senso di assicurare il godimento ai possessori individuati e di garantire tale godimento contro ogni azione di magistrati, senato o chiunque altri (linee 9-10). Determinando quindi delle clausole di protezione.
In questa parte il legislatore si occupa dei seguenti tipi di possedimenti: i terreni che i veteres possessores avevano acquisito in base alla legislazione di Tiberio Gracco (a]grum locum sumpsit reliquitve) e che all’epoca di questa legge erano nei limiti quantitativi posti dal tribuno (linee 1-2). Poi le assegnazioni successive effettuate dalle commissioni agrarie (IIIvir sortitio ceivi Romano), secondo leggi o plebisciti (quoieique de eo agro loco ex lege plebeive sc[ito), entro determinati limiti (quod non modus maior siet) (linee 2-3)[2]. Inoltre, alcune categorie di terreni individuate come possedimenti avuti a titolo di scambio (commutati) (linee 3-4). Ancora, lotti di terreno costituenti l’oggetto delle assegnazioni delle commissioni agrarie graccane in città o villaggi (in urbe, oppido, vico) fuori di Roma (quod eius extra urbem Romam est) (linee 4-5). Infine, le assegnazioni di edifici o di cantieri edilizi (ager locus aedificium) fatte, delle commissioni agrarie rinvenibili nei pubblici registri (IIIvir dedit adsignavit reliquit inve formas tabulasve), ai vecchi o a nuovi possessori (omnis quei supra scriptu[s) (linee 6-7).
Le prime
dieci linee offrono spunti di riflessione molto interessanti. Vengono in
evidenza anzitutto le nozioni di ager publicus populi Romani[3] e
di terra Italia[4].
Segue l’impiego dell’endiadi ager(/agrum) locus
e della formula tripla ager(/agrum) locus aedificium per
designare i possedimenti fondiari. La clausola quod non modus maior siet è
un altro inciso chiaramente leggibile nel tratto epigrafico della linea 2 (quod
non modus maior siet, quam quantum unum hominem ex lege plebeive scito sibei
sumer[e relinquereve licuit) ed è da riferire alla
legislazione di Tiberio Gracco del
C’è poi anche una clausola di esenzione relativa ai possedimenti assegnati in base alla legislazione agraria di Caio Gracco quale si evince dal combinato disposto delle norme di cui alla linea 4 (reso con la clausola extra eum agrum) e alla linea 6, resa con la formula: lege plebive scito, quod C. Sempronius Ti. f. tr. pl. rogavit, exceptum cavitumve est nei divideretur.
Rileva poi, come abbiamo visto, un articolato riferimento all’attività delle commissioni agrarie graccane sotto vari profili. Il regime delle terre assegnate in lotti ai cittadini romani (linee 2-3); quello delle terre date in regime di scambio (linee 3-4); ovvero di quelle site in città o villaggi (linee 4-5). Viene regolamentato anche il regime delle porzioni di terreno comprensive di edifici o di cantieri in costruzione (linee 6-7). La qualificazione dello status giuridico dei cespiti fondiari privati individuati da tale legge si contrappone quindi in modo netto a quella dei cespiti definibili pubblici, perché questi sono stati dichiarati ager publicus populi Romani prima ancora che nella dogmatica giuridica comparisse la nozione di dominium ex iure Quiritium (linee 7-10)[6].
Più in
dettaglio vedremo che la legge apre con un’indicazione di status
dei possedimenti dichiarati ager publicus populi Romani nel
Alla linea 8 tutti i possedimenti elencati vengono dichiarati privati. In base alla linea 19, inoltre, si arguisce che una precedente legge potrebbe aver già dichiarato alcune categorie di terreni ager privatus. In base alle linee 16-17 si deduce che le assegnazioni graccane ai nuovi assegnatari sarebbero state gravate da una clausola di non alienazione, pur venendo considerate agri privati. Vedremo meglio questi aspetti nella parte dedicata al commento delle linee 11-24. Ad ogni modo, è possibile che i possedimenti dei veteres possessores fossero stati già dichiarati ager privatus da una legge precedente, e che la legge agraria de qua sia intervenuta per chiarire una situazione evidentemente diventata confusa[7].
Un’ultima considerazione riguarda il riferimento ai censori della linea 8. Questo potrebbe significare che le categorie di possedimenti fondiari dichiarati privati ed elencati in questa parte della legge riguardino esclusivamente i cittadini Romani (linea 3: ceivi Romano dedit adsignavit). A differenza di quanto invece accade nel secondo capitolo dove vedremo che il legislatore alle linee 20-22 si occupa probabilmente dei possedimenti di soggetti privi della cittadinanza romana[8].
Appena dopo la praescriptio, in apertura al testo di legge[9], si leggono abbastanza chiaramente alla linea 1 le seguenti parole: quei ager poplicus populi Romanei in terram Italiam P. Muucio L. Calpur[nio cos. fuit.
Viene subito enunciata la formula ager poplicus populi Romani in terram Italiam che sarà uno dei referenti principali dell’intero disposto normativo[10]. Nella parte dedicata alle terre comprese in territorio italico, tale formula descrittiva/qualificativa compare infatti sistematicamente (linee: 1, 4, 5, 13, 15, 21, 22, 27, 29, 33).
Per analizzare al meglio tale formula normativa ho scelto di procedere separando i vari termini della formula epigrafica cominciando dal doppio sintagma ager publicus populi Romani[11].
Il dato che mi pare significativo e che ritengo debba essere sottolineato fin d’ora è che in questo contesto la formula ager publicus sembra essere usata dal legislatore in modo tecnico proprio ad indicare l’appartenenza della terra alla res publica romana.
Alla nozione di ager publicus populi Romani e ai conseguenziali profili di rilievo storico, politico e giuridico di tale qualificazione ho già dedicato alcune pagine di approfondimento in altra sede[12].
Un aspetto
certamente di grande interesse posto dalla legge che stiamo commentando,
concerne tuttavia la possibilità di valutare in modo separato le due
espressioni ager poplicus e populi Romani. Mi pare giustificata
infatti un’ipotesi di lavoro che parta dall’idea che l’uso
congiunto, ripetuto e contestuale, di tali espressioni [(ager) publicus/populi
(Romani)] in un ambito tecnico possa essere valutato come indice di un
diverso impiego semantico delle parole. Forse, di per sé stesso,
rivelatore di una storia dei concetti sottesi alle parole stesse ed ai loro
significati. In altri termini penso che il legislatore del
Punto di
partenza può essere la legislazione agraria di Tiberio Gracco del
A parte il pregiudizio, diventato tralaticio nella speculazione degli storici dell’antichità e del diritto romano moderni, derivante dalla tesi di Mommsen[13] su un’equivalenza ‘Stato/popolo’, rimessa in discussione da studiosi successivi[14], ma tutto sommato quasi mai disapplicata, e naturalmente condizionata dall’idea hegeliana di uno ‘Stato di diritto’ come ente metastorico[15], ho già discusso le argomentazioni di carattere storico/giuridico che farebbero pensare ad una comparsa tarda (come consapevolezza qualificante) del concetto di ager publicus (inteso come effettività storico/giuridica) nel lessico istituzionale di Roma repubblicana. In senso storico non penso che si possa parlare correttamente (e propriamente) di ager publicus populi Romani prima dell’età graccana[16]. Qualsiasi anticipazione in tal senso sarebbe da dimostrare con dati di fonti attendibili alla mano[17]. Sciogliendo il significato etimologico di ciascun elemento costitutivo di questa formula, la cui giuridicità ovviamente è data in primo luogo dal contesto (un testo giuridico), si comprendono le ragioni storiche di tale affermazione.
A parte quanto già esposto in altra sede basti ribadire che, fatta eccezione per una notizia di Nonio relativa all’annalista Cassio Emina (come è noto di una generazione successiva a Catone), tutti gli scrittori antichi che parlano di ager publicus sono di età posteriore ai Gracchi[18]. Le indicazioni di Livio e Dionigi potrebbero quindi aver risentito sensibilmente dell’influenza di fonti dell’età graccana o di fonti che sono a questa immediatamente successiva.
Ad ogni buon
conto, l’espressione ager publicus, o suoi equivalenti, compare in
modo storicamente plausibile in fonti non anteriori dell’età annibalica.
Testimonianze di natura letteraria consentono,
è vero, di estendere il discorso sino all’età di Catone,
ma a parte la contiguità cronologica, inequivocabili attestazioni
epigrafiche fanno riferimento in modo costante sempre e soltanto
all’età dei Gracchi. La stessa nozione di ager occupatorius(/occupaticius)
[un’alternativa possibile almeno per spiegare la natura dei territori
conquistati al nemico a partire
dall’epoca in cui
Roma (ossia il populus=l’esercito[19]) comincerà la sua espansione verso l’Italia:
cioè dalla presa di Veio del
Non che l’ordinamento romano non contemplasse dei sistemi di qualificazione del territorio, ma il problema veniva risolto a livello sacrale con il sistema dei genera agrorum augurali di cui ci dà notizia Varrone nel cui elenco, neanche a dirlo, non figura la categoria di ager publicus. Del resto, non va dimenticato che nelle competenze dell’agrimensore antico vi era anche la consultazione degli auspici, che comprendeva anche la brontoscopica e l’ornitomantica[21]. Il fatto poi che dietro al rituale sacerdotale ci fosse l’aspetto molto pregnante dell’obbligo di pagare all’erario il prezzo dei sacrifici (piacula), secondo quanto attesta Gaio nel passo molto conosciuto dedicato alla legis actio per pignoris capionem, fa capire quale può essere stata la ragione di una così forte e radicata sopravvivenza dei riti sacerdotali fino ad età classica inoltrata[22]. La stessa nozione di ager privatus optuma lege che è contemplata dalla legge che stiamo commentando alla linea 28 (su cui ritorneremo nel terzo capitolo), se esprime un concetto analogo a quello espresso dalle fonti per indicare civitas optuma lege come una forma di cittadinanza esente da pesi di natura fiscale o sacrale, lascerebbe spazio per intendere anche una categoria di terreni esenti da pesi di ogni genere. Se vogliamo una sorta di laicizzazione anche questa. Ma questo è un tutto un altro discorso che sarà ripreso più avanti.
Guardando però soltanto un po’ più da vicino la teoria dei genera agrorum di Varrone (l.L. 5.5.33) possiamo facilmente renderci conto di come, in fondo, la ripartizione delle cinque categorie di ager rifletta in sé le tracce di un’evoluzione storica.
A parte la questione dell’ager Gabinus, che è comunque legata ad un’idea di spazio molto risalente, il primo confine ideologico ad essere superato nella mentalità dei Romani fu molto probabilmente quello (corrispondente alla nozione spaziale) di ager Romanus. Dalle nozioni di ager Romanus e Gabinus si passerà in seguito gradatamente a quelle di ager peregrinus (prima), di ager hosticus (poi), e di ager incertus (infine)[23]. La nozione di ager publicus affermatasi in età graccana, sembra avere invece origini diverse. Nel secolo degli Scipioni[24], la felice commistione di elementi culturali di matrice greca e italica aggregatasi intorno al gruppo di intellettuali gravitanti intorno a questa grande famiglia romana può forse aver determinato il gran salto di qualità per Roma che, da città egemone (prima) regionale (Lazio), e poi interregionale (penisola italica), diventò nel corso di due/tre generazioni una potenza mediterranea.
Il sintagma populi Romani esprime quindi una nozione diversa. È una categoria politico istituzionale che pare già intimamente legata alla nozione di res publica. Come è noto, questa nozione appare compiutamente teorizzata in Cicerone, ma non è difficile cogliere in essa l’influenza di pensiero delle argomentazioni degli intellettuali del Circolo degli Scipioni (de re p. 1.25.39: ‘Est igitur’, inquit Africanus, ‘res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus’). Essa sembra effettivamente una locuzione appartenente in modo più proprio alla cultura politico giuridica dell’età dei Gracchi[25].
La tradizione
riporta che
Ma ritorniamo
al testo della legge agraria del
Altrove[30] ho espresso dei dubbi anche in ordine all’attribuibilità ad epoca particolarmente risalente dell’indicazione (populo Romano Quiritibus reique publicae populi Romani Quiritium) rilevabile nel noto passo di Varrone relativo alle Tabulae Censoriae ed ai Commentaria Consularia a proposito delle convocazioni dei cittadini alle assemblee di questi magistrati[31].
In ogni modo,
fermo restando quanto ho esposto altrove sull’uso di populus nelle
fonti più antiche[32],
adesso mi interessava definire il senso del sintagma ager publicus per
chiarire ciò che potrebbe aver voluto intendere il legislatore del
Anzitutto,
ritengo si debba riconoscere al vocabolo ager un significato
prevalentemente economico[34].
Secondo Varrone (l.L. 5.6.34) il sostantivo ager avrebbe il
significato di ‘territorio da sfruttare economicamente’: ager
dictus in quam terram quid agebant, et unde quid agebant fructus causa.
Evidentemente la nozione di ‘ager’ per la mentalità
romana[35]
– a differenza di quanto lo stesso Varrone lascia intendere per il valore
semantico del corrispondente greco di tale vocabolo: ali<i> quod id
Graeci dicunt ¢grÒ<n>. Ut ager quo[d] agi
poterat, sic qua agi actus –, non era un concetto meramente
geografico, ma rispondeva a delle esigenze pratiche. Non vedo quindi
particolari motivi per non interpretare il vocabolo ‘ager’
impiegato nella legge che stiamo commentando alla stregua
dell’indicazione varroniana dato che il legislatore del
In secondo luogo, va considerato che etimologicamente il vocabolo poploe potrebbe derivare dall’etrusco puple nel significato di ‘atto alle armi’. Come spiega Carlo Battisti la differenza tra publicus e populus sarebbe da considerare una prerogativa endolatina[37]. In effetti il concetto espresso in latino con populus non pare corrispondere all’indoeuropeo teuta, ma piuttosto provenire da un termine di origine militare[38] rispecchiando, forse, lo ‘stato’: “in quanto esercito nella sua fase di ordinamento centuriato”[39]. In questo modo si può dire che gli studiosi di linguistica considerino ormai da più di mezzo secolo un dato acquisito riconoscere in pop(u)lus un prestito etrusco[40].
L’indicazione del doppio sintagma insieme alla nozione di terra Italia dimostra tuttavia quale fosse l’idea di territorio come espressione del dominio conquistato per la classe dirigente romana verso l’ultimo scorcio del secondo secolo a.C.
Spostando il discorso sul piano politico istituzionale credo che l’attestazione epigrafica della compresenza (come uso congiunto) del sintagma ager publicus con quello di terra Italia nel linguaggio giuridico di una lex della res publica, come stiamo riscontrando per la lex agraria del 111 sia la prova migliore che alla fine del secondo secolo a.C. il processo di formazione dell’autoconsapevolezza nella classe dirigente romana di aver acquistato una dimensione imperialistica si era compiuto. Forse fu questo uno dei lasciti più significativi del formidabile ‘secolo degli Scipioni’ al costituendo impero romano. La formula lessicale usata in questa legge quei ager poplicus populi Romanei in terra Italia contempla in una sola espressione ciascuno dei vari elementi che abbiamo visto comparire nelle fonti in un arco temporale che spazia dall’età di Catone, all’immediata epoca postgraccana. Segno che ormai il processo si era compiuto.
In due occasioni diverse ho approfondito il discorso del passaggio da una nozione augurale di ‘ager’ alla nozione di ‘ager publicus populi Romani’[41].
Lo scopo era
di dimostrare che il 211 e il
La cosa non deve sorprendere. Come spiega Dario Sabbatucci, in un saggio molto denso di suggestioni, nella interpretazione dei giurisiti antichi l’aggettivo ‘sacer’ conteneva in sé anche il significato di ‘publicus’[44]. In D. 1.8.6 (Marc. 3 inst.) leggiamo: Sacrae autem res sunt hae, quae publice consecratae sunt, non privatae. E ancora in D. 1.8.9 pr. (Ulp. 68 ad ed.): Sacra loca ea sunt quae publicae sunt dedicatae.
Attraverso
Gaio comprendiamo anche quale può essere il significato del ‘publice’
usato da Marciano: Gai. 2.5: Sed sacrum quidem hoc solum existimatur quod
ex auctoritate populi Romani consecratum est, veluti lege de ea re lata aut
senatusconsulto facto. Mi pare sia questo il quadro di riferimento
normativo e giuridico cui fare riferimento per descrivere la natura dei
provvedimenti emanati dal Senato romano in occasione della debellatio
del
Il principio
dell’identificazione tra sacrum e publicum, tipico della
cultura augurale potrebbe essere riconosciuto come effettivo anche nella lex
del
È del tutto lecito quindi pensare che i Romani nel disciplinare le norme della legge del 111 abbiano agito in uno spazio che non deve essere considerato propriamento quello dello ius civile in senso stretto. Una conferma indiretta viene da Isidoro che definisce lo ius gentium in questo modo: etym. 5.6.1: Ius gentium est sedium occupatio, aedificatio, munitio, bella, captivitates, servitutes, postliminia, foedera, pacis, indutiae, legatorum non violandorum religio, conubia inter alienigenas prohibita. Et inde ius gentium, quia eo iure omnes fere gentes utuntur. Come si vede l’erudito dell’epoca giustinianea include nel novero delle fattispecie iuris gentium anche l’occupatio e l’aedificatio[45]. Colpisce la presenza in questo catalogo di riferimenti come questi che potrebbero collegarsi direttamente all’occupatio dell’ager publicus e alla disciplina degli aedificia contemplata, come vedremo diffusamente nella legge del 111[46].
Si chiarisce quindi attraverso questo percorso tortuoso lo spazio di operatività entro cui può essersi mosso il legislatore del 111. Usando la doppia endiadi ager publicus populi Romani esso non si discosta dall’ortodossia giuridica perché abbiamo visto secondo Gaio e Marciano che, ancora quasi tre secoli più tardi, è sacrum(=‘publicum’) anche ciò che viene consacrato per autorità del popolo romano (quod ex auctoritate populi Romani consecratum est) con legge o senatoconsulto (veluti lege de ea re lata aut senatusconsulto facto). Si comprende però come può essersi perfezionato il processo di acquisizione dei territori conquistati gradatamente dalla res publica nei secoli centrali dell’età repubblicana. Una giusta commistione tra pieno rispetto delle regole giuridiche tradizionali e apertura verso una progressiva ‘laicizzazione’ (nel rapporto tra Roma e territorio) delle regole più antiche che nella legge del 111 trova il suo compimento.
La categoria di ‘ager privatus’ è forse la conseguenza più vistosa di questa sinergia tra il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’ in un quadro storico di profondo mutamento. L’ager privatus nel disposto normativo della legge del 111 appare come una categoria nuova (non nuovissima perché essa appartiene già al lessico di Catone) perché non rientra nell’elenco dei genera agrorum augurale ed è, per questa stessa ragione, una categoria ‘laica’ rispetto allo stesso ‘ager publicus’ che resta pur sempre permeato di una confluenza tra sacer e publicus nel senso appena prospettato (ager publicus populi Romani). L’ager privatus per essere tale non ha più bisogno di una consecratio deorum (come fu per il campus Stellatis e in negativo per i territori di Cartagine e Corinto), ma come dimostra la lex del 111, per trovare una sua ragione di essere nel contesto ordinamentale della res publica è sufficiente che una legge un plebiscito o un’altra fonte normativa equipollente lo qualifichino come tale. Sulle implicazioni di carattere più specifico in ordine alla categoria del dominium ex iure Quiritium torneremo più avanti[47].
Ritorniamo al
commento della legge del
Gli abitanti della penisola italiana erano anzitutto i cittadini romani e i loro alleati; oppure i latini. Tutti erano soggetti alla consuetudine di fornire soldati secondo la formula dei togati in terra italica: Romanus sociumve nominisve Latini, quibus ex formula togatorum[milites in terra Italia inperare solent[48].
Procediamo con ordine cominciando dall’etimologia dello stesso toponimo Italia.
Il racconto mitografico, ossia la mitopoiesi di tale termine, può cominciare con i famosissimi versi di Virgilio che descrivono Acate che per primo tra i marinai di Enea scorse l’Italia dal mare: Verg. Aen. 3.521: Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis,/ cum procul obscuros collis humilemque videmus/ Italiam. Italiam primus conclamat Achates,/ Italiam laeto socii clamore salutant.
Molto interessante (e altrettanto antica) è tuttavia la discussione sull’etimologia di questo appellativo. È noto il mito che spiega il nome Italia come la ‘terra dei vitelli’. Si tratta di una tradizione assai risalente facente capo ad Ellanico di Lesbo (vissuto nel V secolo a.C.) che riferisce di una favola antica raccontata da Ercole che attraversando l’Italia per portare in Grecia le mandrie tolte a Gerione (nel corso di una delle dodici mitiche fatiche), avrebbe perso un vitello. Nel cercarlo, il figlio di Alcmena e Zeus avrebbe appreso che il nome di quest’animale nella lingua indigena era vitulus. Di qui il nome dell’intera regione.
Grazie a Dionigi di Alicarnasso (che sembra tuttavia propendere per la versione eponimica), abbiamo un resoconto abbastaza dettagliato di tale filone mitologico[49]. Anche Tucidide (1.97) manifesta serie perplessità sull’esattezza del sistema cronologico di Ellanico di Lesbo ed inoltre, la versione eponimica riferita a sua volta anche da Antioco di Siracusa (FGH. 555 F5) ed Aristotele che vorrebbe il nome Italia derivare dal principe enotrio Italo[50], smentisce lo scrittore di Mitilene[51].
Effettivamente non hanno torto coloro che manifestano dei dubbi sul fatto che il toponimo Italia possa essere scientificamente spiegato ricorrendo soltanto alle paretimologie delle fonti appena ricordate. Già foneticamente Giovanni Semerano ha notato da ultimo che la i- di vitulus, è breve mentre quella di Italia è lunga. Effettivamente la scomparsa della V- iniziale torna effettivamente nella leggenda Viteliu delle monete osche battute durante la guerra sociale con il disegno del toro[52], laddove è chiara l’influenza di un’interferenza fonetica dei Greci dell’Italia meridionale[53], ed è altrettanto immediato il richiamo alla teofania taurina di Marte che coinvolge appunto gli Itali, qualche dubbio resta sulla possibilità di spiegare nel modo prospettato dalle fonti citate l’etimologia del termine Italia.
Come superare l’impasse? Proviamo a tirare le fila del discorso. Da tutta la congerie di spiegazioni sin qui raccolte si rileva anzitutto un filone etimologico di matrice sacrale che vorrebbe tale nome come ‘regione in cui esiste la vita’. Come dice lo pseudo Servio: alii Italiam a bubus quibus est Italia fertilis, ma in questo quadro si potrebbe porre anche la base giustificativa della paretimologia gelliana (terram Italiam de Graeco vocabulo appellatam scripserunt, quoniam boves Graeca vetere lingua ÞtaloÛ vocitati sint, quorum in Italia magna copia fuerit, bucetaque in ea terra gigni pascique solita conplurima).
In ogni caso il filone mitologico è molto nutrito. Abbiamo visto la versione che vorrebbe Italia come un derivato dal re augure dei Siculi Italus. Ma c’è la paretimologia greca legata al mito di Eracle e poi la preziosa testimonianza del commentatore di Servio (daniel) che dimostra quanto numerose siano le versioni del filone eziologico fondato sul meccanismo dell’eponimia: alii a rege Ligurum Italo, alii ab advena Molossio; alii a Corcyreo; alii a Veneris filio, rege Lucanorum; alii a quodam augure, qui cum Siculis in haec loca venerit quamque his regionem inauguraverit; plures atare tenari nepote desatura Minois. regis Cretensium, filia Italiam dictam. Una terza opzione, infine, da alcuni ritenuta di maggiore spessore scientifico e che è stata definita storico-filologica, vuole il nome Italia derivato dall’osco Víteliú=‘terra dei (guerrieri) vitelli’[54].
Un tratto che accomuna tutte queste versioni è il contesto sacrale in cui è facile riconoscere la matrice comune più risalente. Insieme ai fratres Aquilii sono ricordati all’epoca del re Tarquinio i fratres Vitelli e la gens Vitellia (Liv. 2.4.1). Una città (oppidum) dal nome Vitellia era a nord-est dei colli Albani (Liv. 2.39.4). Plinio riferisce del populus dei Vitellenses come di uno dei trenta popoli albani [n.h. 3.(9).68] e lo stesso imperatore Vitellio si vantava di discendere dalla dea Vitula che era festeggiata a Roma l’8 luglio (Suet. Vit. 1-2).
Senonché c’è da chiedersi con P. Catalano piuttosto come mai i Romani abbiano scelto di accogliere la forma grecizzata ‘Italia’ piuttosto che la versione osca Víteliú[55]. È molto interessante (anche se non risolutiva) la soluzione proposta da questo studioso per cui i Romani, scegliendo la versione greca, avrebbero conservato aspetti pregnanti del passato aggiungendovi una forza nuova[56]. La spiegazione appena prospettata, che trae origine da una giusta considerazione di K. Sittl per cui l’adozione di questo nome sarebbe stata determinata dalla diffusione a Roma della cultura della Magna Grecia nel terzo secolo a.C. e dall’educazione greca dei primi scrittori romani[57], è da condividere senz’altro. Fabio Pittore e le sue fonti dovevano conoscere probabilmente le ‘Cronache cumane’ di Iperoco e quindi dovevano conoscere i miti dell’epoca eraclea[58]. La rappresentazione iconografica del taurus che atterra la lupa durante la guerra sociale spiega poi perché i Romani non avrebbero potuto scegliere di adottare la versione osca[59].
Non sorprende quindi la notizia del tentativo di formazione in età tardo repubblicana di una comunità indipendente da Roma, con capitale Corfinium, chiamata appunto Viteliu (Italia)[60]. Sin qui si è ragionato ex post.
A questo punto vorrei cercare tracce per risalire ad un’epoca che sia anteriore alla stessa epoca eraclea. Dunque impostare un discorso ex ante.
Non è una questione facile. Anzitutto c’è da rilevare che dietro la paretimologia di stampo ellenistico c’è naturalmente il solito processo di trasposizione del mito in chiave metastorica. Insomma, dietro le ‘favolette’ dei logografi greci si può avvertire una precisa concezione geografica di Italia che non è difficile distinguere tra i vari autori. I concetti espressi con le parole ƒItlÛa, ƒItaliÅtai,ƒItalikoÛ, come ha evidenziato molto bene già Pierangelo Catalano[61], avevano infatti per i Greci un preciso valore etnico-politico, che restava limitato alla parte ellenizzata della penisola[62].
Nella stessa descrizione dionisiana (1.35) il principe enotrio che avrebbe dato il nome di Italia alla penisola lo avrebbe fatto limitandosi al territorio esteso tra il golfo di Squillace e quello di S. Eufemia. Tucidide, del resto, fa cominciare il suolo italico da Metaponto (7.33.4) ed Ecateo colloca in Italia Caulonia, Medma e Locri[63].
Ed allora, se è plausibile l’idea che i Romani abbiano adottato un concetto di Italia che potevano aver appreso dai Greci stanziati nella penisola italica (rispetto alla quale la versione osca attestata numismaticamente in forma Viteliu può essere considerata solo una variante), c’è da capire se è possibile individuare uno strato etimologico ancora più antico rispetto a questo. Certamente anteriori all’epoca eraclea sono le paretimologie di Italia che si riferiscono ai miti aborigeni eponimi come Italo, re Siculo (contemporaneo di Turno), ovvero Italo, re Ligure, o ancora, legati all’epoca saturnia di cui ancora Dionigi afferma di aver trovato tracce in età augustea nei libri sibillini (Dion. 1.34.5). Del resto sono note le allusioni in tale senso dell’Origo gentis Romanae e i riferimenti di questa alla saga virgiliana[64].
Gli esperti di archeologia linguistica sanno tuttavia che il nome più antico dell’isola d’Elba era Aithalia e questo dato certamente risale ad epoca più antica di quella eraclea. Le stesse fondazioni di Pitecusa e Cuma vanno inquadrate come presìdi Greci lungo la via del ferro verso l’occidente.
Il riferimento etimologico più risalente di Italia può essere allora il nome originario dell’isola d’Elba, Athalia, appunto. La versione latina del nome di quest’isola è Ilva, circostanza spiegabile con il dominio che vi avrebbero avuto i Liguri (Ilvates) forse prima ancora che gli Etruschi (richiamo il suggestivo riferimento di pseudo Servio al nome di un re di stirpe ligure: alii a rege Ligurum Italo) ne conquistassero il controllo. La parola greca AÞyalÛa o AÞyalÛn, ‘la fuligginosa’, è un chiaro riferimento all’attività metallurgica esercitata nell’isola. Un’attività che come suggerisce Strabone veniva poi perfezionata a Populonia, altra località etrusca su cui è dubbio se popolazioni liguri o corse abbiano esercitato un’influenza prima degli Etruschi[65].
Altra questione, anche se intimamente connessa al problema etimologico, è quella del valore giuridico (connesso con quello dell’affermazione del significato politico) del sintagma terra Italia nel testo della legge del 111. Anche qui dobbiamo fare i conti con una storia evolutiva che è tutt’altro che scontata. Perché, se è vero che troviamo in Livio per la prima volta l’espressione terra Italia riferita all’epoca della prima guerra punica (Liv. 25.7.4: donec hostis in terra Italia esset), il concetto giuridico e l’idea politica d’Italia, secondo la dottrina tradizionale, potrebbero essere sorti solo nel I secolo a.C., anche se però in base ad una serie di circostanze determinatesi nel II secolo a.C.
Procedendo ad un’analisi più attenta non è difficile, tuttavia, rendersi conto che già per la metà del terzo secolo a.C. si può parlare di una differenza sul piano religioso tra il territorio d’Italia e quello extra Italia. È stato dimostrato che già dalla metà del secondo secolo a.C. esisteva una differenza di carattere religioso tra il territorio italico e quello situato fuori da tali confini[66]. Su questa base Santo Mazzarino ha stabilito un collegamento diretto tra concetto e termine stesso di terra Italia e concetto e termine stesso di terra Etruria che segnava i confini (tular) di questa stessa terra. L’ambito spaziale sarebbe stato proprio quello della sfera di operatività del diritto, cioè lo ius Tuscorum che all’epoca si estendeva a tutta l’Italia [(Cato Orig. 67 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 350)]: paene omnis Italia quia in Tuscorum ivre paene omnis Italia fuerat[67].
Ad ogni buon
conto l’espressione terra Italia è usata in modo tecnico
nelle fonti giuridiche solo a partire dalla seconda metà del secondo
secolo a.C.[68].
L’espressione più antica pare quella della lex (Acilia?)
repetundarum del 123 o
Un’altra norma molto importante sul rapporto tra concetto giuridico di terra Italia e territorio per l’ordinamento romano riguarda l’impossibilità che il suolo non italico fosse oggetto di dominium ex iure Quiritium. La norma è riportata da Gaio ed è evidente che si tratta di una previsione tarda, riguardante il rapporto tra Stato, principe, popolo romano e territorio. A parte il fatto che un problema in generale di dominium ex iure Quiritium per l’età repubblicana sembra che non si possa porre, visto che questa categoria giuridica sembrerebbe essersi affermata tardi nel linguaggio dei giuristi e del legislatore romano, dal tenore delle parole di Gaio si ricava anche un’indicazione interessante. Vediamo il frammento: Gai. 2.7: Sed in provinciali solo placet plerisque, solum religiosum non fieri, quia in eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris, nos autem possessionem tantum vel usumfructum habere videmur. Sembrerebbe che per il diritto di Gaio la nozione di ager publicus e quella di dominium ex iure Quiritium siano incompatibili. Se vi è il primo, per le regole del diritto in ogni caso non vi può essere il secondo. Vedremo più avanti come la questione dei confini italici sia rilevante anche perché connessa con il modo stesso di considerare il territorio italico come provincia e come questo fatto sia rilevante ai fini della datazione della regola dell’inclusione delle terre in Italico solo nella categoria delle res mancipi e della norma stessa sulla non usucapibilità dei fondi in territorio provinciale.
Se guardiamo al concetto di terra Italia in senso politico possiamo risalire invece alla metà del IV secolo a.C. Infatti l’idea politica d’Italia[70], diversa dal concetto di ƒItalÛa dei Greci, sembrerebbe risalire, come abbiamo visto, alla fine del IV, inizi del III secolo a.C.[71].
Un altro
elemento va tuttavia ancora considerato. Esso riguarda la qualificazione
giuridica del territorio italico valutata da un punto di vista finora
trascurato. Vi abbiamo accennato prima. Nel modo di considerare il territorio
italico da parte del Senato romano si riscontra in effetti, fino ad una certa
epoca, dell’ambiguità. Questo fu spesso considerato in atti
ufficiali (attività decretale) come la provincia di un console o di
entrambi i consoli anche se coloro ai quali questa provincia fu assegnata
ebbero solo dei compiti militari. Anche questo dato è importante
perché contribuisce a chiarire quale poteva essere il significato del
sintagma terra Italia nel lessico del legislatore del
Abbiamo visto come la penisola italica nei decenni a cavallo tra la fine del terzo e l’inizio del secondo secolo a.C. si estendesse fino alle Alpi, mentre dopo il 200 furono mandate delle spedizioni in Gallia Cisalpina e in Liguria[72].
Fortunatamente la dinamica di questi eventi è documentata da Livio. Lo storico infatti descrive questo fenomeno con riferimento ai consoli del 201: (Cn. Cornelius Lentulus e P. Aelius Paetus). Liv. 30.40.12: Patres igitur iurati – ita enim convenerat – censuerunt uti consules provincias inter se compararent sortirenturve uter Italiam, uter classem navium quinquaginta haberet; del 194: (P. Cornelius Scipio Africanus e T. Sempronius Longus): Liv. 34.43.3: De provinciis cum relatum esset, senatus frequens in eam sententiam ibat ut, quoniam in Hispania et Macedonia debellatum foret, consulibus ambobus Italia provincia esset. [4] Scipio satis esse Italiae unum consulem censebat, alteri Macedoniam decernendam esse; e del 190: (L. Cornelius Scipio Asiaticus e C. Laelius). Liv. 37.1.7: Tum de consulum provinciis coeptum agi est; 37.1.10: ac prope omnes Scipioni Graeciam, Laelio Italiam decreverunt.
Riferendosi ai consoli del 171 lo storico poi contrappone la città di Roma al resto di Italia usando l’espressione terra Italia: 42.29.1: P. Licinio Crasso C. Cassio (n.d.r., Longino) consulibus non urbs tantum Roma nec terra Italia.
La stessa cosa è rilevabile per altre due coppie consolari. Quella del 169: (Q. Marcius Philippus e Cn. Servilius Caepio): Liv. 43.11.12: Consules designati ubi primum magistratum inissent, de Macedonia referre ad senatum iussi; destinataeque provinciae iis sunt Italia et Macedonia e quella del 168: (L. Aemilius Paullus e C. Licinius Crassus): Liv. 44.17.10: Consulum Aemilio Macedonia, Licinio Italia evenit.
J.W. Rich
inoltre ha notato a questo riguardo che il Senato non sempre formulasse i suoi
decreti semplicemente usando il nome ‘Italia’. Altre volte si vede
che esso menziona direttamente delle regioni come
Il dato molto interessante per noi è che, come attesta Sallustio, nel 111 l’Italia fu ancora considerata una provincia consolare: b.Iug. 27.3-4: Sed ubi senatus delicti conscientia populum timet, lege Sempronia provinciae futuris consulibus Numidia atque Italia decretae, consules declarati P. Scipio Nasica, L. Bestia Calpurnius; Calpurnio Numidia, Scipioni Italia obvenit[74].
Se questo
è vero, allora la regola della inclusione del fondo in Italico solo
nella categoria delle res mancipi e quella della non
riconoscibilità del dominium ex iure Quiritium in territorio
provinciale non possono che essere considerate come successive alla legge del
Le notizie relative al concetto di ‘Italia’ e di ‘terra Italia’ che abbiamo visto relative alla metà/fine del terzo secolo a.C. dimostrano che, in corrispondenza degli eventi bellici contro i Cartaginesi di Annibale, i Romani recepirono già in chiave giuridica il concetto politico, geografico ed etnico di Italia, non solo in rapporto ai foedera, ma anche in relazione alle norme di diritto augurale che rappresentano l’ambito di regolamentazione giuridica dello spazio normale per i Romani prima che si completasse il fenomeno della completa laicizzazione del diritto civile intorno alla fine del secondo, inizi del primo secolo a.C.[75].
La migliore
dimostrazione di ciò è nella notizia della fondazione da parte di
Cornelio Scipione (il futuro Africano Maggiore) della città di Italica
in Betica nel 206 o
La famosa regola per cui la proprietà individuale, ossia il dominium ex iure Quiritium, del cittadino romano era limitata al territorio italico non penso sia ancora ascrivibile a questa epoca, ma potrebbe risultare di circa un secolo più tarda e rappresentare proprio il momento in cui il concetto giuridico di terra Italia venne fatto corrispondere ad una nozione giuridica laica di proprietà[77].
Abbiamo visto che una prima differenziazione tra concetto di territorio italico e territorio extra Italiae potrebbe essere nata verso la metà del terzo secolo a.C. o anche prima (Ziolkowski), e che le prime attestazioni dell’espressione Italia in senso tecnico giuridico risalgono all’età di Catone [sono emblematiche le parole di Cato Orat. 142 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 352): Cumque Hannibal terram Italiam laceraret atque vexaret][78] e sono riportate copiosamente da Livio (ma non solo) all’età annibalica[79]. Inoltre si è potuto accertare che in questa fase il concetto giuridico di terra Italia riguardava forse ancora il diritto augurale.
Le
testimonianze epigrafiche del sintagma terra Italia che viene attestato
per la prima volta nella lex (Acilia?) repetundarum del
123 o
È interessante notare come insieme al termine dominium compaia in questo caso il vocabolo locum (dominium loci)[81].
Ha forse ragione invece Andrea Giardina quando nota che le entità che il legislatore menziona esplicitamente nella legge che si sta commentando sono solo il popolo romano e il nomen Latinum. Le altre etnie sono indicate ancora soltanto con il termine generico di peregrini[82].
Questo dato si coordina con l’altro ampiamente attestato dalle fonti relativo all’uso di considerare l’‘Italia’ come una provincia consolare di uno o di due consoli da parte del Senato. Abbiamo anche visto che questo uso cadde in progressiva desuetudine in epoca repubblicana, ma non prima della prima metà del primo secolo a.C. Tutto ciò non può che essere letto come indice del fatto che sia inapplicabile fino a questa epoca per definizione il concetto civilistico di dominium ex iure Quiritium e che per il Senato, e quindi anche per la classe al potere (a cui appartenevano i giuristi più noti), il territorio della penisola italica non poteva che essere considerato al modo antico, cioè come territorio ancora non romano nel senso giuridico/augurale del termine.
Allo stesso tempo, la valorizzazione del concetto politico di terra Italia che è un tema già presente nella cultura romana dell’epoca di Catone, dimostra che su un altro piano (il nuovo che avanza) si sia incominciato già a pensare del territorio italico anche come ager publicus in senso graccano (=‘territorio della res publica’) che è anche una chiave giuridica di lettura nuova.
Per quanto riguarda il legislatore del 111 credo che le fonti evidenziate prima sul modo di considerare l’Italia come provincia di uno o entrambi i consoli dimostrino che non si sia ancora determinata una differenza netta tra il territorio italico e quello di Africa e di Grecia nella mentalità dei giuristi romani.
Alla linea 2 troviamo incisa chiaramente leggibile l’endiadi ager(/agrum) locus. Si tratta di una costante che resterà tale per tutto il testo normativo (13, 20, 22, 23, 33, 44, 48, 49, 51, 52, 65, 66, 67, 75, 76, 80, 94), anche se già alla linea 7 appare come parte della formula ager locus aedificium che, tuttavia, si ripete molto di meno (7, 8, 9, 10, 12, 101).
Prima di procedere sarà bene chiarire il significato di tali espressioni perché non credo come J. Granet, che queste siano da considerare semplicemente come dei sinonimi[83].
Cominciamo
pertanto dal termine ager/agrum[84].
Anche l’impiego di questo vocabolo nel lessico delle fonti romane ha una
sua storia. Insieme all’aggettivo privatus, chiaramente in
contrapposizione al valore del sintagma ager publicus, esso è
già presente nel lessico catoniano: Cato Orat. 114
(Cugusi-Sblendorio Cugusi 356): Agrum quem vir habet, tollitur; 206
(Cugusi-Sblendorio Cugusi 420): Accessit ager, quem privatim habent,
Gallicus, Samnitis, Apulus, Bruttius. La prima previsione di ager
privatus [da *ag- =‘portare’
(morfema lessicale o tema) + ‘er’ (suffisso dei termini giuridici)]
diventerà stabile in modo definitivo, ossia ager optimo iure
cioè, in sostanza, il suo possesso non sarà più precario (almeno
nelle intenzioni del legislatore) solo con la legge agraria epigrafica del
Ma ‘ager’, come abbiamo visto, aveva anche il significato di unità di misura di sfruttamento economico: Varro l.L. 5.6.34: ager dictus in quam terram quid agebant, et unde quid agebant fructus causa; aliáiñ quod id Graeci dicunt Žgrñn. Ut ager quoádñ agi poterat, sic qua agi actus[85]. La qual cosa, a mio parere dimostra come tale nozione per la mentalità romana non fosse un concetto meramente geografico (ager=‘territorio’), ma rispondesse anche a delle esigenze pratiche (ager=‘unità economica’). Così anche Isidoro: etym. 15.13.7: Rura veteres incultos agros dicebant, id est silvas et pascua; agrum vero, qui colebatur.
Passiamo al termine aedificium[86]. Partendo da un dato piuttosto tardo leggiamo in Isidoro che esiste una relazione strettissima tra le parole aedificium e aedes. Per designare tutte le tipologie di edifici, gli antichi avrebbero usato il termine aedes: Isid. etym. 15.3.2: Omne aedificium antiqui aedem appellaverunt. Alii aedem ab edendo quiddam sumpsisse nomen existimant, dantes exemplum de Plauto (Poen. 529): ‘Si vocassem vos in aedem ad prandium. Hinc et aedificium, eo quod fuerit prius ad edendum factum’. Il dato non è di poco conto perché sappiamo da Cicerone che i giuristi, estendendo la regola dell’usucapione biennale dei fondi anche agli edifici, utilizzarono proprio tale termine.
Rivediamo questi due passi molto conosciuti: Cic. top. 4.23: Quoniam usus auctoritas fundi biennium est, sit etiam aedium. At in lege aedes non appellantur et sunt ceterarum rerum omnium quarum annus est usus e Cic. pro Caec. 19.54: Lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium; at utimur eodem iure in aedibus, quae in lege non appellantur.
Diversamente da Cicerone, Gaio conferma che nelle XII tavole era prevista la regola dell’usucapione annuale per i beni mobili e il termine biennale per i beni immobili, ma li qualifica come fundi e aedes: Gai. 2.42: Usucapio mobilium quidam rerum anno completur, fundi vero et aedium biennio; et ita lege XII tabularum cautum est[87].
Senza la
testimonianza di Cicerone penseremmo che i termini fundus e aedes
appartenessero al lessico del legislatore romano del V secolo e che questi li
usasse per specificare la categoria dei beni immobili. Invece, seguendo il
retore, dobbiamo escludere la presenza di aedes e attribuire al
linguaggio dei decemviri solo la parola fundus ed invece collocare nella
categoria delle cose mobili la dizione di ceterae res[88].
Alla luce di queste indicazioni si deve allora interpretare un’altra
norma famosa attribuita alle dodici tavole: Cic. de leg. 2.24.61: Duae
sunt praeterea leges de sepulchris, quarum altera privatorem aedificiis, altera
ipsis sepulchris cavet. Nam quod “rogum bustumve novum vetat propius
sexaginta pedes adigi aedes alienas invito domino”, incendium veretur
acerbum [vetat]. Come suggerisce il Serrao la norma riferita da Cicerone
dovrebbe riferirsi ai fondi rustici (anche se non si può escludere che
la norma potesse riferirsi proprio al problema della contiguità degli
edifici sotto il profilo della prevenzione degli incendi), stando a quanto
previsto dalla Tab. 10.1 sul divieto di seppellimento in urbe[89].
È tuttavia interessante notare l’uso di Cicerone dei due vocaboli aedificium
e aedes. Mi pare chiaro che il sintagma privatorem aedificiis,
riferito alle costruzioni private, sia usato in modo analogo (e quindi un
tecnicismo) a quello del legislatore del
Per l’impiego dell’espressione aedificium/aedificare nel significato di ‘costruzioni di tipo urbano in campagna’, oltre a quanto già evidenziato con la norma decemvirale in materia sepolcrale riportata da Cicerone, dobbiamo fare riferimento ad una testimonianza del de agri cultura di Catone:
Cato de agri c. 4.3.1: Ubi aetas accessit ad
annos XXXVI, tum aedificare oportet, si agrum consitum habeas. Ita aedificies,
ne villa fundum quaerat.
Questa fonte conferma l’ipotesi del Franciosi per il quale l’affermazione del termine aedes nel lessico dei giuristi romani presupporrebbe necessariamente il fenomeno dell’urbanesimo, tra la fine del terzo e gli inizi del secondo secolo a.C.[91].
Molto
più complesso è il problema legato all’uso del morfema locus
e delle sequenze lessicali ager-locus e ager-locus-aedificium
impiegate dal legislatore del
Qualcosa del genere, ma con vocaboli diversi, si trova già nel lungo testo della famosa precatio di Catone dove ritorna tre volte la formula fundum agrum terramque meam: in de agri c. 141.1,6 (fundum agrum terramque meam); in 141.2,8 (agrum terram fundumque meum) e in 141.3,6 (fundi terrae agrique mei lustrandi). È noto agli studiosi che anche in altre antiche preghiere si trovano spesso ripetizioni triple in funzione enfatica come ad esempio nel caso di precor veneror veniamque peto, o di metum formitudinem obliuionem, ovvero di fuga formidine terrore[93]. Si può fare l’esempio del carmen di evocatio di Cartagine ricordato da Macrobio[94] e lo stesso Gellio dice che Catone usava impiegare tre vocaboli dallo stesso significato per dare l’idea di una grande prosperità: Gell. 13.25.13: Item M.Cato in orationis principio, quam dixit in senatu pro Rhodiensibus, cum vellet res nimis prosperas dicere, tribus vocabulis idem sententibus dixit. Non credo però sia questo il caso.
Nel lessico dei giuristi dell’età classica sappiamo che ager, fundus e terra avevano dei significati ben precisi e diversi. In un frammento tratto dal 17 libro ad edictum di Ulpiano leggiamo ad esempio che (D. 50.16.27): Ager est locus, qui sine villa est. Ancora, in D. 50.16.60 (lib. 69 ad edictum), leggiamo che per i più: ‘Locus’ est non fundus, sed portio aliqua fundi: ‘fundus’ autem integrum aliquid est. et plerumque sine villa ‘locum’ accipimus. Mentre il giurista dell’età dei Severi dimostra di avere un’idea diversa: ceterum adeo opinio nostra et constitutio locum a fundo separat, ut et modicus locus possit fundus dici, si fundi animo eum habuimus. non etiam magnitudo locum a fundo separat, sed nostra affectio.
Attraverso
Ulpiano risaliamo, tuttavia, anche a Labeone dal quale deduciamo che il termine
locus si applicava di regola ai terreni rustici (anche se poteva essere
usato per indicare i praedia urbana) e che la nozione di fundus
veniva assimilata a ciò che noi potremmo definire oggi una
‘particella’ (sed fundus quidem suos habet fines):
D.50.16.60 pr. (Ulp. 69 ad ed.): ‘Locus’ est non
fundus, sed portio aliqua fundi: ‘fundus’ autem integrum aliquid
est. et plerumque sine villa ‘locum’ accipimus: ceterum adeo opinio
nostra et constitutio locum a fundo separata, ut et modicus locus possit fundus
dici, si fundi animo eum habuimus. non etiam magnitudo locum a fundo separat,
sed nostra affectio […] 1. Loci appellationem non solum ad
rustica. verum ad urbana quoque praedia pertinere Labeo scripsit. 2. Sed fundus quidem suos habet fines,
locus vero latere potest, quatenus determinetur et definiatur […].
Il locus, inoltre, come espressione di un possesso immobiliare, sembra che per Labeone riguardasse in genere estensioni di terreno senza confini (locus vero latere potest, quatenus determinetur et definiatur)[95]. Di qui l’espressione locupletes ampiamente usata nelle fonti della tarda repubblica/età augustea[96]. Viene in mente il sistema di misurazione dei lotti secondo il meccanismo del modus agri che era proprio un’estensione di terreno non delimitata da confini (una quantità nella centuria)[97].
Il quadro si chiude con Fiorentino, quasi contemporaneo di Gaio, il quale definisce il fundus come un’ager su cui c’era anche una costruzione. Mentre il locus, è considerato un terreno senza costruzione che si definiva ‘area’ in città e ager nelle campagne[98]:
D. 50.16.211 (Florent. 8 inst.):
‘Fundi’ appellatione omne aedificium et omnis ager continetur. sed
in usu urbana aedificia ‘aedes’, rustica ‘villae’
dicuntur. locus vero sine aedificio in urbe ‘area’, rure autem ‘ager’ appellatur. idemque ager cum aedificio
‘fundus’ dicitur.
Come si vede,
nella tradizione giuridica romana (a partire da Labeone), i vocaboli ager
e fundus presentano dei significati affatto diversi. Inoltre, si
può notare che nella costruzione dogmatica dei giuristi classici, mentre
il concetto di terra tende a scomparire, quello di locus sembra
assumere un ruolo sempre più centrale. Quest’ultima circostanza
forse dipende dal fatto che il legislatore del
La lustratio agri invece appartiene all’epoca di Catone Censore ed è un testo che come abbiamo visto si proietta nel passato (sempre se non vogliamo pensare ad un testo linguisticamente riadattato). Quindi il principale referente per noi non può essere che Varrone, il quale, fu allievo di Elio Stilone. Esperti entrambi come è noto anche di diritto augurale e, il secondo, autore di quegli Aeliana studia che rappresentano uno dei modi attraverso i quali l’antico sapere italico si trasmise nella scienza dei giuristi dell’ultimo secolo della repubblica[100].
Poiché
è molto probabile che Stilone abbia scritto anche un commento alle XII
tavole di poco successivo ai Tripertita (questo fatto è molto
interessante se confronta con il dato proposto da Mario Bretone per il quale il
commento alle XII tavole di Elio Stilone Preconiano sarebbe collocabile negli
anni tra il 117 e il
Ed allora potremmo spiegare l’assenza dei vocaboli domus e fundus nella legge che stiamo commentando, nel primo caso, per ragioni di ordine etimologico. L’aedificium è la costruzione, quindi un bene immobile; la domus, invece, è il luogo della famiglia, il luogo dove il pater familias è dominus, e dispiega tutta la sua autorità. Anche prima della trasformazione semantica di familia dall’antico significato di ascendenza italica come ‘gruppo di schiavi’ (famul=‘schiavo’ è un espressione osca)[103] a quello corrispondente moderno come persone unite da un legame che è insieme di sangue (cognatio) e giuridico (adgnatio). Più di tutto, in latino, la domus non è la ‘costruzione’, né un ‘edificio’; e non è neanche un ‘bene immobile’ per il linguaggio tecnico dei giuristi.
Il vocabolo fundus non c’è nella legge del 111 perché probabilmente all’epoca della lex del 111 esso serviva ancora a designare il terreno adibito alle colture arbicole (di qui la presenza nel lessico catoniano, se non vogliamo credere ad un riadattamento linguistico del lessico della lustratio agri in Cato de agri c. 141). A meno di credere ad Isidoro che propone un’improbabile paretimologia che afferma una coincidenza tra fundus e aedificium: etym. 15.13.4: Fundus dictus quod eo fundatur vel stabiliatur patrimonium. Fundus autem et urbanum aedificium et rusticum intellegendum est[104].
All’epoca di Fiorentino (circa 180 d.C.), il vocabolo fundus appare come termine giuridico ricomprensivo delle categorie di ager e di aedificium (‘Fundi’ appellatione omne aedificium et omnis ager continetur). Anzi, a seguire tale giurista, il fundus sembrerebbe proprio potersi definire come un ager con la costruzione. Già all’età di Gaio (poco prima, o poco dopo[105]) esso veniva utilizzato nel significato di un ager più l’aedificium. E questo forse spiega l’assenza di tale vocabolo nelle formule edittali riportate da Ulpiano in D. 43.27.1.7 (Ulp. 71 ad ed.) e D. 43.28.1 (Ulp. 71 ad ed.).
In ogni caso,
riferimenti epigrafici come quelli relativi al cd. fundus Aufidianus in
Tunisia settentrionale, a circa
A sua volta il locus (evidentemente una nozione mutuata dal lessico augurale ma recepita nel nuovo linguaggio dei giuristi laici) era considerato l’area di terreno in città e l’ager in campagna. In età severiana, infine, l’ager era considerato il locus senza la villa, ma nel linguaggio giuridico la differenza tra fundus e locus sfuma sensibilmente, come abbiamo visto.
Ed allora. In Varrone (l.L. 7.2.18) leggiamo che: ‘ager non est terra’ perché il concetto di ager era un concetto tecnico che derivava dal diritto augurale (Varro l.L. 5.5.33)[107]. Anche il concetto di terra, come dice Stilone, era conosciuto agli áuguri, ma veniva usato in un significato più generico anche se molto antico come attesta la forma senza la doppia (‘tera’): Varro l.L. 5.4.21: Terra dicta ab eo, ut Aelius scribit, quod teritur. Itaque tera in augurum libris scripta cum R uno. A proposito dell’ager invece, come abbiamo visto, leggiamo: l.L. 5.6.34: Ager dictus in quam terram quid agebant, et unde quid agebant fructus causa. Ed anche il fundus è descritto in Varro l.L. 5.6.37 già come una porzione di terreno produttiva di frutti, sia come un terreno adibito al pascolo (ager quod videbatur pecudum ac pecuniae esse fundamentum). Il vocabolo fundus sembra invece un terreno adibito alla coltivazione prevalentemente arbicola (fundus dictus, aut quod fundit quotquot annis multa). A questo punto mi pare difficile pensare che Catone abbia potuto usare la formula ‘agrum terram fundumque meum’ senza avere alcuna consapevolezza della diversità di significato di tali vocaboli. Questi tre termini della forma lustrale, del resto, dovrebbero essere rappresentativi di un epoca in cui il possesso dell’ager publicus era per definizione ancora precario e il complesso passaggio dal diritto augurale a quello laico nella riflessione dogmatica dei giuristi doveva essere appena agli inizi, invece il legislatore del 111 voleva consolidare le posizioni giuridiche dei possedimenti terrieri già fatti oggetto delle assegnazioni graccane o del Senato in sede di distribuzione dei territori conquistati.
Tirando le
somme, lo scarto di significato che si rileva nella terminologia dei giuristi
(da Sesto Elio a Q. Mucio, attraverso Catone Censore e la generazione di P.
Mucio e di Elio Stilone Preconiano) che trovano nuovi vocaboli per designare
fattispecie non precedentemente contemplate dal lessico giuridico dimostra
quanto radicale sia stata l’evoluzione del lessico giuridico nel corso
del II secolo a.C. Un esempio tra i tanti possibili è certamente la
sequenza semantica per designare il cespite immobiliare agricolo qualificato,
come abbiamo visto, come ager, fundus, terram nella lustratio
agri di Catone, salvo poi ad evolvere in ager, locus, aedificium
nella legge del
Terminate le digressioni che ho ritenuto necessarie per inquadrare nel loro tempo storico alcune espressioni molto significative usate dal legislatore del 111 torniamo al testo della legge.
La linea 2 reca, quasi integralmente leggibili, le seguenti parole: agrum locum sumpsit reliquit ve, quod non modus maior siet, quam quantum unum hominem ex lege plebeive sc(ito) sibei sumer[e. C’è l’indicazione alla terra ‘che qualcuno prese o mantenne per sé’ (sibei sumpsit reliquitve). La legge in questo caso consente che il possesso di questa terra sia conservato purché la quantità di terra posseduta non ecceda i limiti posti dalla legge o dal plebiscito (quod non modus maior siet).
Si pone immediatamente a questo riguardo un problema molto interessante. Nonostante si legga chiaramente l’indicazione dei veteres possessores solo nelle linee 13: e]xtraque eum agrum, quem vetus possesor ex lege plebeive; 17-18: quoi is ager vetere prove vetere possesore datus adsignatusve; e 21-22: agrum lo]cum publicum populi Romanei de sua possesione vetus possesor prove vetere possesor[e, non c’è dubbio che anche questa parte della legge faccia riferimento a questa categoria di possessori[108]. Chi sono dunque questi veteres possessores di terre appartenenti alla categoria più ampia dell’ager publicus populi Romani che la legge che stiamo commentando renderà ager privatus? Ed ancora, chi sono invece i pro vetere possessores che la legge stessa contrappone ai primi nelle linee 21-22, 16, 17 e 21?
Secondo il Mommsen sarebbero veteres possessores tutti coloro che nel passato fossero entrati in possesso di ager publicus in modo legale da quando questo fu possibile[109]. Invece per pro vetere possessore il maestro di Garding intende coloro che sarebbero entrati in possesso di terra senza poter dimostrare di averlo fatto in modo legale, ma comunque da molto tempo[110]. Mi pare pertinente l’accostamento con quanto dice Cicerone in de lege agr. 3.2.7: “ut quae optimo iure privata sunt”. Etiamne meliore quam paterna et avita? Questa fonte a mio avviso dimostra la considerazione che ricevevano nella mentalità dei giuristi (Cicerone non era un giurista ma conosceva i giuristi e il diritto molto bene e parlava in pubblico) dell’ultimo secolo della repubblica i possedimenti di terra (ager publicus) tramandati di padre in figlio per generazioni.
Andrew Lintott preferisce un’altra ricostruzione: pro vetere possessore potrebbe essere colui che le commissioni agrarie (in fase di riorganizzazione dei possedimenti) avrebbero persuaso a scambiare la terra posseduta originariamente con un nuovo possedimento a condizione che questo fosse tenuto agli stessi termini di come se questi lo avesse posseduto prima della legislazione di Tiberio Gracco[111].
Tutto sommato sono abbastanza deboli le critiche che il Crawford rivolge contro la ricostruzione del Mommsen. Lo studioso anglosassone per contestare la nozione di vetus possessor proposta dal grande storico tedesco cita tre noti passi di Cicerone, uno tratto dal secondo libro de lege agraria (de lege agr. 2.21.57: qui agrum Recentoricum possident, vetustate posessionis se, non iure, misericordia senatus, non agri condicione defendunt), un secondo dal de officiis (de off. 1.7.21: Sunt autem privata nulla natura, sed aut vetere occupatione, ut qui quondam in vacua venerunt, aut victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex quo fit, ut ager Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum; similisque est privatarum possessionum discriptio), un terzo dal de legibus (de leg. 1.21.55: quoniam usus capionem duodecim tabulae intra quinque pedes esse noluerun, depasci veterem possessionem Academiae ab hoc acuto homine non sinemus nec Mamilia lege singuli, sed e XII tres arbitri fines regemus). Il ragionamento dello studioso anglosassone è il seguente: la nozione di vetere/vetus possessio in base a Cicerone viene ritenuta fuori dal diritto (‘contrasting vetustate possessionis and iure’) perché il diritto romano contemplava l’usucapione biennale sui fondi, dunque la proposta del Mommsen sarebbe carente di legittimazione sul piano giuridico[112]. In altre parole una categoria di vecchi possessori non avrebbe senso se commisurata ad un termine maggiore dei due anni occorrenti per l’usucapione dei beni immobili (fundi).
L’autore
sembra però dimenticare che la lex agraria del 111 è
anteriore alla stessa nascita del retore (3 gennaio del
La ragione principale per cui dissento dall’opinione di M.H. Crawford è tuttavia la scarsa attenzione che questi riserva alla clausola f(undus) p(ossessoris) vet(eris) trovata sulla parte superiore di un cippo graccano di Rocca S. Felice[113]. Essa dimostra che all’epoca di Tiberio Gracco la categoria di vetus possessor aveva un significato molto importante (fu una delle categorie giuridiche applicate per disciplinare la controversa questione delle terre in ager Campanus? Un escamotage inventato dai giuristi esperti delle commissioni graccane per qualificare giuridicamente in qualche modo le situazioni pregresse?). In ogni caso ancora nella lex agraria epigrafica questo significato sembra aver conservato intatta tutta la sua importanza e sembra giustificare in pieno la ricostruzione del Mommsen[114].
Si diceva a proposito della ricostruzione del Mommsen che, in base alle linee 17 e 21, pro vetere possessore sarebbe stato colui, o la persona dalla quale, la sua richiesta deriva (avente causa), che non avrebbe potuto provare la legittimità del suo possesso, ma che poteva reclamare un possesso da tempo molto risalente. In secondo luogo, il sintagma stesso vetus possessor, così come si evincerebbe dalla linea 21, dimostrerebbe che le precedenti acquisizioni legittime di ager publicus sarebbero state dimenticate prima dell’approvazione di tale legge. Infine, in base alla linea 13, sembrerebbe che l’artefice di questa situazione sia stato Tiberio Gracco[115]. Allo stato delle fonti non si può pertanto non condividere la posizione del Crawford il quale in base alla lettera del dettato legislativo conclude nel senso di riconoscere nella menzione di vetus possessor una qualificazione giuridica. Sarebbe tale il ‘primo possessore legittimo’ e, molto probabilmente, pro vetere possessore il suo avente causa[116].
Quanto alla clausola quod non modus maior siet non pare si possa dubitare del fatto che questa vada riferita ai limiti legali della possessio dell’ager publicus ripristinati da Tiberio Gracco nonostante la lex Licinia Sextia o altra legge più recente risalente agli inizi del secondo secolo a.C.[117]. In effetti è del tutto plausibile che in questo caso il legislatore abbia sentito la necessità di distinguere, all’interno della categoria dei veteres possessores tra coloro che hanno sempre posseduto entro i limiti legali e coloro che sotto questo profilo mostrano di essere inadempienti. Condivido pertanto la considerazione di M.H. Crawford il quale, contrariamente a quanto sembrerebbe potersi evincere da Appiano (b.civ. 1.27.122), suggerisce che non tutti possedimenti di terra furono riconosciuti ed assegnati dalle commissioni agrarie quando la attività di queste commissioni cessò, ma solo quelle che rientravano nei limiti dei 500 iugeri pro capite più l’addizionale di 250 per ciascun figlio (fino ad un massimo di due)[118].
Un’ultima considerazione sulla espressione sibei sumpsit reliquitve, ossia alla terra ‘che qualcuno prese o mantenne per sé’. Una serie di indicazioni, nelle fonti epigrafiche e non, fornirebbero elementi per tradurre il verbo relinquere nel senso di ‘mantenere allo stato precedente/originario’. In tal senso deporrebbero le linee 7: Italia IIIvir dedit adsignavit reliquit e 81: ]e eum agrum locum, quem Xvirei, quei ex [lege] Livia factei createive fuerunt, Uticensibus reliquerunt adsignaverunt: ceterum della legge che stiamo esaminando; la linea 6 (relinquito) della lex Osca Tabulae Bantinae; e Cic. ad Att. 5.21.12: Scaptius rogat…ut rem sic relinquam[119].
La questione è connessa al disposto delle linee 16-17 che riguardano le garanzie poste dalla legge nei confronti degli originari possessori, i loro eredi ed aventi causa. Hinrichs e Johannsen inseriscono nella lacuna tra le linee 2 e 3 un riferimento all’attività delle commissioni commissioni triumvirali, cioè alle assegnazioni di terra fatte da questi magistrati[120]. Questo significherebbe che ogni assegnazione di pubblica terra eccedente il limite legale, che fosse fatta dopo, o non, dalle commisssioni triumvirali (la situazione descritta da Appiano in b.civ. 1.27.122 dopo la ‘seconda legge’) non sarebbe stata riconosciuta come titolo legittimo di possesso dalla legge epigrafica[121]. Lintott esclude tale possibilità in quanto la linea 16-17 non contempla una menzione relativa ai possessori di terra che sibei sumpsit reliquere e dunque limita la clausola di cui alla linea 16-17 alle sole situazioni di possessi di terra registrati dalle commissioni graccane[122].
La legge che
stiamo commentando contiene numerosi e precisi riferimenti alle commissioni
agrarie istituite dai Gracchi[123].
La prima menzione chiaramente distinguibile è nella linea 3 che riguarda
i terreni che queste hanno assegnato in lotti ai cittadini romani (quoieique
de eo agro loco ex lege plebeive sc(ito) IIIvir sortito ceivi Romano
dedit adsignavit)[124].
Segue un riferimento possibile alla linea
La dottrina
prevalente interpreta il significato della linea 3 ritenendo che il legislatore
del
Sul punto si registra tuttavia una forte corrente di opinione minoritaria che fa capo al Saumagne che invece tende a riconoscere in tale linea soltanto una categoria di terreni che le commissioni graccane avrebbero assegnato a sorte a dei cittadini romani.
In effetti, la presenza nella linea 3 della frase IIIvir sortito ceivi Romano dedit adsignavit costringe gli interpreti a considerare il metodo del sorteggio quale elemento distintivo per la qualificazione dei terreni contemplati in questa linea della legge. Ebbene per il Mommsen, che trascura le modalità di distribuzione delle terre viritim: “quomodo ager viritanus datus sit, ignoratur”[126], e riempie le lacune delle linee 19 e 20 nel senso che il legislatore avrebbe abolito il vectigal, giustifica l’apparente incongruenza di una norma che avrebbe eliminato il vectigal per terreni che non ne sarebbero stati assoggettati per definizione (dato che le terre coloniali sarebbero esenti da imposizione), affermando che la legge antigraccana avrebbe cercato di evitare la costituzione di nuove colonie proprio inserendo nel testo di legge questa categoria di terreni.
Per il Saumagne che, all’opposto, sostiene la tesi che il legislatore del 111 con le linee 19 e 20 avrebbe confermato il vectigal, la presenza di una categorie di terreni assegnati in sede di deduzione coloniaria alla linea 3 dà fastidio nel senso che l’ager coloniarius non avrebbe potuto essere assoggettato al vectigal. Ed allora esclude che alla linea 3 la frase ager sortitio civi datus possa riferirsi a terre coloniali. Afferma così che il legislatore alla linea 3 avrebbe inteso riferirsi a dei lotti di terreno assegnati dalle commissioni triumvirali a cittadini romani estratti a sorte. Pur se resi privati, tali possedimenti sarebbero tuttavia stati sottoposti comunque a vectigal. La presenza di terre rese private in aree coloniali contrasta infatti con la tesi di fondo dello studioso perché le terre delle colonie per definizione erano esentate dal vectigal. Contrasta però anche con la visione del Mommsen perché sarebbe altrettanto un’incongurenza del legislatore contemplare una categoria di terreni come quella dei lotti inseriti nelle aree coloniali e nello stesso tempo statuire una norma di abolizione del vectigal.
Il Saumagne giustifica l’incongruenza rilevando (forse con ragione) che la parte della legge agraria epigrafica dedicata ai possedimenti italici contempla circa 3.800 lettere delle quali almeno 2.000 sono andate perdute, mentre le restanti da sole non propongono un’interpretazione coerente[127]. Si capisce però che questa stessa argomentazione può essere utilizzata anche per avvalorare la tesi da lui avversata. La questione come si vede è molto complessa.
In effetti
l’attribuzione viritana di terra è attestata dalle fonti anche in
sede di deduzione coloniaria[128].
Cornelio Frontone – che Gellio riferisce di aver visto commentare
con competenza e amor antiquae orationis il tredicesimo libro degli Annales
di Claudio Quadrigario (13.29.3) –, afferma [ad ver. imp. (Naber
125)]: Gracchus …Carthaginem viritim dividebat. Dove è noto
che Caio Gracco fondò
Lo stesso si
può dire per la controversa proposta agraria di Spurius Maecilius
e Metilius tendente ad imporre un vectigal sui possedimenti dei
patrizi nel
Infine, lo stesso heredium, veniva distribuito viritim e veniva chiamato anche sors perché la distribuzione viritana era accompagnata da un sorteggio.
Nonostante l’acutezza e la forza argomentativa del Saumagne sul punto la tesi argomentativa della dottrina più recente pare più convincente.
Una volta fatta la centuriazione del territorio da dare e assegnare, la distribuzione di terra in lotti era comunque il modo usuale di procedere per le assegnazioni individuali da parte delle commissioni agrarie[131]. Va rilevato infatti che l’apparizione di assegnazioni in lotti di questo tipo alle linee 15-16 [Ager publicus populi Romanei, quei in Italia P. Mucio L. Calpurnio cos. fuit, eius agri IIIvir a(greis) d(andeis) a(dsignandeis) ex lege plebeive scito sortito qoui ceivi Romano dedit adsignevit] dove il legislatore si occupa delle concessioni fatte in via giudiziaria appena prima di un capitolo di legge relativo alle conferme giudiziarie relative ai possedimenti dei veteres e pro veteres possessores[132], dimostrerebbe che le assegnazioni di cui si parla alla linea 3 riguarderebbero proprio le deduzioni coloniarie fatte per la prima volta da Tiberio Gracco[133].
Più complesso, invece, è il problema interpretativo legato alla restituzione della linea 4. Un punto fermo mi pare sia quello indicato dal Lintott relativo alla presenza congiunta delle parole redditus connessa al sintagma datus adsignatus[134]. Ciò vuol dire che questa parte della legge si occupa in ogni caso di terre che in qualche modo sono assegnate da un’autorità. Questo dato va messo in relazione con la famosa notizia di Appiano in b.civ. 1.7.27, per il quale, parte dell’ager conquistato (occupatorius), poteva essere coltivato da chi volesse, purché autorizzato dallo Stato, attraverso un editto magistratuale (™pek»rutton). Questo a significare che già con le porzioni di ager conquistato c’era necessità di un provvedimento dello Stato[135].
Il De Martino contesta invece la restituzione di Mommsen che è quella riportata in corsivo nel testo della lex agraria epigrafica che ho trascritto nel capitolo precedente (quei agrum privatum in publicum commutavit, pro eo agro loco a IIIviro datus commutatus redditus est)[136] e preferisce seguire, non senza qualche riserva, la ricostruzione del Rudorff perché ritenuta più logica (de eo agro loco quei ager locus veteri possessori prove vetere contra ius ademptus, deinde a IIIviris causa denuo cognita redditus est)[137]. Afferma il De Martino che secondo la restituzione del Mommsen si avrebbe un’inutile ripetizione di quanto previsto nelle linee 23-24 (dove si parla della terra data in permuta in occasione della fondazione di una colonia) e 27-28 (dove si parla della terra privata scambiata con terra pubblica anche se questa terra privata era ager patritus) ed, inoltre, che alla linea 7 non si fa menzione né di ager redditus, né di ager commutatus[138].
In effetti il De Martino fonda la sua convinzione partendo dall’idea di ager commutatus formatasi in base alle linee 23-24 e 27-28 e che, ai sensi di quanto dispone la legge agraria epigrafica alla linea 27, fu dichiarata ager privatus: is ager locus do]mneis privatus ita, utei quoi optuma lege privatus est, esto. L’ager commutatus sarebbe il terreno avuto dalle commissioni agrarie in cambio di precedenti possedimenti: “…cioè i terreni dati in cambio di quelli in coloniam contributi, vale a dire tolti ai precedenti possessori, anche se non eccedevano i limiti legali, per rendere possibile le centuriatio nella deduzione di colonie. Ma se veniva commutato un fondo, che era in piena proprietà quiritaria, allora anche quello ricevuto in cambio era privatus optima lege, cioè anch’esso nella stessa condizione giuridica”[139]. Si tratta di una posizione discutibile almeno per quanto riguarda la possibilità che esistesse, se non all’età della lex agraria epigrafica, almeno a quella della riforma di Tiberio Gracco, una categoria di fondo posseduto a titolo di piena proprietà quiritaria.
Sull’argomento ritornerò ampiamente.
Restiamo
invece sulla linea che stiamo commentando. L’obiezione del De Martino
sembrerebbe di per sé corretta, ma nulla dice che alla linea 4 il
legislatore non abbia inteso riferirsi ad una categoria di ager
permutato (commutatus), o scambiato, diversa da quella prevista nelle
linee 23-24 e 27-
Possiamo
ricorrere ad Appiano che descrive molto bene il clima politico del
Appian. b. civ. 1.18.74 - 77: KaÜ
taxç
pl°yoV ·n
dikÇn
xalepÇn: ÷sh
gŒr
’llh
plhsi‹zousa
t»de
¤p¡prato
³
toÝV summ‹xoiV ¤pidi¹rhto,
diŒ
tò
t¯sde
m¡tron
¤jht‹zeto
‘pasa,
÷pvV te ¤p¡prato
kaÜ
÷pvV ¤pidi¹reto,
oìte
tŒ
sumbñlaia
oëte
tŒV klerouxÛaV ¦ti
¤xñntvn p‹ntvn: ‘
d¢
kaÜ
eêrÛsketo,
ŽmfÛloga
·n. [75] ƒAnametroum¡nhV te aêt°V oá
m¢n
¤k
pefuteum¡nhV kaÜ
¤paæleon
¤V cil¯n
metetÛyento,
oá
dƒ
¤j ¤nergÇn
¤V Žgròn
µ
lÛmnaV µ
t¡lmata,
oêd¢
t¯n
Žrk¯n
ÉV ¤pÜ
dorikt®toiV Žkrib°
pepoihm¡noi
t¯n
dianom®n.[76]KaÜ tò
k®rugma,
t¯n
Žn¡mhton
¤jerg‹zesyai
tòn
¤y¡lonta
prol¡gon,
¤p»re
polloçV tŒ
klerÛon
¤ktonoèntaV t¯n
¤kat¡raV öcin
sugx¡ai: xrñnoV te ¤pelyÆn
¤neñxmvse
p‹nta.[77] KaÜ tò
tÇn
plousÛvn ŒdÛkema
kaÛper
ön
m¡ga
dusepÛgnvstov
·n. KaÜ
oéd¢n
Žllƒ
µ
p‹ntvn Žn‹stasiV ¤gÛgneto
metaferom¡nvn
te kaÜ
metoikizom¡nvn ¤V Žllñtria[141].
Alla luce di questo racconto credo si comprenda agevolmente come mai le commissioni agrarie possano aver sentito la necessità di rimuovere alcuni possedimenti dai loro possessori e compensarli con altre terre in cambio; e, questo, non necessariamente in un quadro esclusivo di deduzione di colonie. A questo tipo di ager commutatus è dedicato esplicitamente il capitolo di cui alle linee 20-24 della legge. Mentre, le due previsioni relative ai terreni scambiati con le commissioni agrarie, che da privati diventano pubblici e che da pubblici diventano privati, cioè quelle previste alle linee 26-27, secondo Lintott sarebbero da riferire alle strade fabbricabili e a terreni che diventerebbero proprietà private a pieno titolo (optimo iure). Ritorneremo sul punto in sede di commento di queste linee[142].
Alla linea 5 leggiamo le seguenti parole: quisq]ue agri locei publicei in terra Italia, quod eius extra urbem Romam est, quod eius in urbe oppido vico est, quod eius IIIvir dedit adsignavit. Il riferimemento è dunque ancora relativo alle terre pubbliche fatte oggetto di assegnazioni dalle commisssioni agrarie all’epoca molto probabilmente di Caio Gracco e geograficamente ubicate extra urbem Romam. Laconico il commento di Crawford il quale al riguardo sottolinea soltanto che tale indicazione autorizzerebbe a dire che porzioni di ager publicus populi Romani potevano essere ubicate anche nel perimetro delle città[143]. In realtà dietro la breve indicazione di questo capitolo della legge si nasconde un problema molto grosso che è quello dell’estensione delle assegnazioni delle commissioni graccane anche ai non Romani, ossia ai Latini e ai soci italici.
Aderendo all’impostazione della Johannsen[144], A. Lintott esclude l’idea che la legge in questo caso stia parlando di assegnazioni ai non Romani adducendo come principale argomento il fatto che poco più avanti il legislatore statuirà nel senso di obbligare al censore romano di registrare questi possedimenti come terre private (linea 8). Sostiene, invece, che i non-Romani privi di ius commercium non avrebbero potuto possedere in proprietà terre di Roma[145].
Sebbene
questo argomento non mi sembri del tutto persuasivo perché si basa su
un’idea di proprietà privata della terra francamente inaccettabile
sul piano storico (l’esistenza o meno del ius commercium in ordine
al problema dell’organizzazione dell’ager publicus in
età graccana mi pare abbastanza marginale rispetto a quelli che dovevano
essere i moventi di natura ideologica e politica che potevano muovere le
fazioni in conflitto tra loro), mi suggestiona l’accostamento con
l’indicazione appianea di cui in b.civ. 1.7.26[146].
Effettivamente questo aggancio consentirebbe di includere nella previsione
della lex agraria epigrafica anche i terreni (colti ed incolti)
conquistati sin dall’epoca delle confische dei territori delle
popolazioni defenzionate contro Roma all’epoca della seconda guerra
punica (ager occupatorius?)[147]. Il Lintott commenta: “The
home territory of a Roman colony or municipium (as opposed ti land
leased by it from the Roman people, once it had been assigned, as in lines 31
ff) can hardly have remained public land of the Roman people, once it had been
assigned”[148].
Secondo il De
Martino si tratterebbe di assegnazioni fatte dalle commissioni graccane senza
sorteggio ai Latini e ai soci italici ed in effetti, in questo caso, non vedo
particolari ragioni per non seguire l’impostazione di questo grande
Maestro. Alla linea 3, come abbiamo visto, si parla di assegnazioni a cittadini
Romani (sortitio ceivi Romano) alla linea di cui stiamo occupando si
parla di assegnazioni extra urbem Romam e, soprattutto, senza sorteggio[149].
Quindi disposizioni di legge che molto probabilmente si riferiscono ai Latini e
agli Italici, in base alle quali tutte le facoltà riconosciute ai
cittadini Romani sull’ager publicus nel
Abbiamo visto che la linea 3 riguarda i terreni assegnati in lotti ai cittadini romani dalle commissioni agrarie: quoieique de eo agro loco ex lege plebeive sc(ito) IIIvir sortito ceivi Romano dedit adsignavit.
In effetti, prima dell’età dei Gracchi, le fonti registrano una serie di provvedimenti in materia agraria che sostanzialmente si riferiscono alla deduzione di colonie e ad assegnazioni viritane di terra pubblica[151]. Sia per le assegnazioni viritane (assegnazioni individuali, distribuzioni di terre ai veterani o ad altri beneficiari) che per quelle coloniarie (insediamenti territoriali di collettività agrarie coese) veniva seguita una procedura prestabilita che si modificò anche nel corso del tempo[152].
A questo riguardo si deve distinguere tra il sistema della conternatio mediante il quale si procedeva alle assegnazioni viritane e quello della decuriatio che per Weber sarebbe stato il sistema tipico delle deduzioni coloniarie[153]. Tra queste due forme di insediamento il legame era comunque molto stretto se si tiene conto di Tacito che in ann. 14.27.2-3 afferma che il successo delle deduzioni coloniarie più antiche era dovuto al fatto che in esse si procedeva all’insediamento di universae legiones, con i tribuni, i centurioni e i soldati di ciascun ordine. Secondo Tacito nella legione vi era un embrione di res publica, che una volta lasciate le armi, sarebbe stata pronta ad evolvere in una comunità vitale[154]. Il dato conferma indirettamente la giusta prospettiva di chi pensa ad una assimilazione tra il valore semantico originario di populus e l’esercito.
Entrambi sono descritti dalle fonti gromatiche. Il primo, la conternatio, appunto, era un meccanismo retto dal principio di base della uguaglianza formale degli assegnatari. Si estraevano a sorte tre coloni per ogni centuria. A sua volta, ogni centuria veniva divisa in tre lotti di eguale estensione ed alla fine della procedura ogni colono sceglieva il proprio lotto di terra[155]. Questo sistema, ritenuto più antico, avrebbe avuto come caratteristica il fatto che non si sarebbe proceduto ad una stima reale della qualità (valore) delle singole particelle.
Il procedimento tipico delle assegnazioni coloniarie era invece quello della decuriatio. Le commissioni raggruppavano i coloni in decuriae e formavano delle sortes di terra sufficienti per ognuna delle dieci assegnazioni. Tutte queste procedure, naturalmente, avvenivano per sorteggio. Sempre mediante estrazione a sorte, si attribuiva una sors a ciascuna decuria, e poi, entro la decuria stessa, per ogni colono veniva estratta una particella di terreno che veniva definita accepta[156].
Sulla diminuzione di ciascun lotto di terreno e sul criterio di assegnazione a ciascun colono, come è noto, c’è una vexata quaestio.
Secondo Weber le acceptae sarebbero state misurate ex ante, la qual cosa spiegherebbe il motivo per cui le parti assegnate avevano una diversa estensione. Le continuae possessiones infatti, all’occorrenza, sarebbero state assegnate dalle commissioni agrarie all’uopo deputate in compensazione ai percipientes[157]. Il Mommsen, come è noto, critica questa posizione evidenziando che l’idea di una stima ex ante delle particelle oggetto delle assegnazioni non sarebbe giustificata dalle fonti. Il principio dell’uguaglianza delle assegnazioni sarebbe stato infatti già assicurato dalla possibilità per tutti gli aventi diritto di avere accesso al sorteggio[158]. Al di là di questo aspetto tecnico del sistema di assegnazione coloniario, mi interessa sottolineare come per Weber, il sistema del sorteggio fosse espressione diretta di una preoccupazione di uguaglianza sostanziale che, a suo modo di pensare, avrebbe ispirato ab initio la disciplina delle organizzazioni agrarie antiche. Dietro questa considerazione vi era l’idea di Weber della sequenza evolutiva che caratterizzò la storia dei rapporti fondiari in Roma antica. Ma su questo aspetto dovremo ritornare.
Vorrei solo aggiungere che l’idea di Weber, che interpreta la distribuzione della terra ai coloni, ossia la divisione in centuriae senza individuazione dei singoli lotti, come dettata da un mero interesse dello Stato alla sola imposta patrimoniale (di qui la necessità dell’indicazione della sola misura dell’assegnazione), mi pare plausibile[159].
Da un punto
di vista storico, come punto di riferimento per considerare certamente avviato
il processo di centuriazione di Italia, possiamo prendere il
L’esistenza di un sistema di assegnazione del modus agri basato su un’idea astratta di quota e non sull’identificazione specifica di una particella di terreno dipende dal fatto che le prime assegnazioni coloniarie e viritane avvenivano mediante un’attribuzione pro capite o in sortem, cioè a misura e non a corpo[161].
Questo sistema, se presentava il vantaggio di rendere assolutamente fungibili tutti i lotti di terreno idea perfettamente coerente con il principio della indisponibilità delle res sacrae=publicae, aveva tuttavia dei limiti che nel corso del tempo ne avrebbero determinato la dissoluzione. La questione non è di poco conto perché, come già intuì Weber, le forze che portarono al superamento di questo sistema in materia di gestione dei rapporti agrari determinarono anche il superamento dell’antico sistema collettivistico (Haufenverfassung, letteralmente: ‘la costituzione del mucchio’) in favore della proprietà individuale[162].
Il problema è molto complesso e bisogna procedere quindi con ordine. Anzitutto, si deve capire il perché del modus agri e perché questo risultava legato ad un’idea di quota dato che, si deve ribadire, il modus agri era comunque una misura astratta. In altre parole, i magistrati della res publica non assegnavano terreni concretamente delimitati da confini certi e individuati, bensì delle quote che erano parte dell’intero territorio soggetto al provvedimento di assegnazione viritana o di deduzione coloniaria.
La cosa si può spiegare pensando che l’ager publicus populi Romani per definizione, almeno quello che costituì l’oggetto della lex Sempronia agraria, ma come vedremo anche quello che costituì l’oggetto delle assegnazioni viritane più antiche, era un territorio non suscettibile di appropriazione privata nelle forme definitive della proprietà così come viene intesa in senso moderno e dai giuristi romani dell’ultima repubblica con l’espressione dominium ex iure Quiritium. Questo non solo perché perché tale istituto non era probabilmente ancora emerso dal magma delle conoscenze guridiche più antiche, ma anche perché, in quanto pubblico (e quindi sacer), era anche sottratto al commercio privato.
Per la lex Sempronia agraria la natura del diritto dei vecchi possessori, non fu mai quella della proprietà privata, ma quella di un possesso irrevocabile (perpetuo) da parte della res publica purché rientrasse nei limiti imposti dalla legge[163].
Per quanto riguarda le assegnazioni viritane e in particolare la qualificazione giuridica della natura dei diritti acquistati dai beneficiari si possono citare due passi famosi, quasi contigui, tratti da un contesto omogeneo e molto autorevole. Il primo è una glossa di Festo in cui si dice che i ‘possedimenti’ erano i terreni pubblici e privati che, non in virtù di mancipatio, ma di ‘usus’ venivano posseduti e che chiunque li avesse occupati li avrebbe posseduti: Fest. sv. possessiones (L. 277,4): Possessiones appellantur agri late patentes publici privatique, quia non mancipatione, sed usu tenebantur, et ut quisque occupaverat, possidebat[164]. Il secondo è un altro luogo della glossa festina in cui è riportata la nota definizione del giurista (grammatico) Elio Gallo: Fest. sv. Possessio (L. 260,28): Possessio est, ut definit Gallus Aelius, usus quidam agri, aut aedifici, non ipse fundus aut ager. Secondo la definizione di Gallo, oggetto di possessio sarebbe stata non la cosa in senso fisico (fundus aut ager), ma l’usus, ossia la sua disposizione effettiva. Come afferma Mario Bretone (da cui ho parafrasato la traduzione di questo passo festino) una ennoia o una notio in senso stoico-ciceroniano[165].
Sul significato storico-giuridico di tale testimonianza ritornerò più avanti, quel che vorrei sottolineare fin d’ora è che in questa fonte, ogni forma di possesso di terra (agri late patentes publici privatique) o di bene immobile (quidam agri, aut aedifici, non ipse fundus aut ager), appare, da un lato, assolutamente svincolato dal rischio di una qualsiasi forma di usucapione acquisitiva, mentre dall’altro, risulta qualificato in senso astratto in modo del tutto simile al concetto di quota che c’è dietro il modus agri[166].
Si potrebbe
quindi riconoscere anche una corrispondenza teorico-dogmatica (quindi non solo
funzionale) tra il sistema del modus agri e quello della possessio
dell’ager publicus. Sugli aspetti di carattere dogmatico giuridico
relativi a tali fattispecie mi soffermerò in chiusura di questo
capitolo. Quanto alle ragioni della dissoluzione di questo sistema appare
persino intuitivo pensare che questo fenomeno è andato di pari passo (in
un rapporto di dissolvenza incrociata) con quello dell’affermazione nella
scienza giuridica romana di un concetto di proprietà individuale. Se si
considera che le varie misure del terreno erano quote assegnate mediante lex
o plebiscitum, quindi con atti autoritativi, il rischio di una
modificazione o di una revocabilità di queste, era sempre presente. Il
possesso, quale che fosse la sua fonte, era sempre una situazione di fatto pur
se riconosciuta dall’ordinamento giuridico. La complessa articolazione
della varie figure di possedimenti (assegnazioni viritane, coloniarie, agri
redditi, commutati, etc.), così come si evince dalla stessa
legge agraria del
Furono
probabilmente queste le motivazioni di fondo che spinsero il legislatore del
Di questo Max Weber fu certamente il primo a rendersene conto[170]. Lo studioso di Erfurt infatti giustamente individua nella regola dell’usucapione biennale estesa ai beni immobili (fundi e aedes) il meccanismo fondamentale che alla lunga garantirà l’armonizzazione della disciplina della proprietà alle aspettative sociali decisive per il successo della rivoluzione agraria dell’epoca graccana.
A questo punto si presenta un ostacolo di non poco momento con cui dover fare i conti, dato che per Weber, e d’altronde anche per la dottrina romanistica prevalente, la regola dell’usucapione biennale dei fondi e la sua estensione alle aedes, così come prospettata da Gaio, sarebbe stata introdotta dalle dodici tavole nella metà del quinto secolo a.C. Seguendo Gaio, Weber imposta la sua ricostruzione del passaggio in Roma antica da un sistema collettivistico della terra, alla proprietà individuale, proprio sul presupposto dell’introduzione decemvirale della norma sull’usucapibilità biennale dei beni immobili[171]. Condizionato quindi dalle notizie delle fonti giuridiche del secondo secolo d.C. che hanno anticipato tale regola all’età dei decemviri secondo un meccanismo già noto che è quello dell’incorporazione dell’interpretatio nel precetto decemvirale, riferendo alle dodici tavole la norma sull’usus biennale di tutte le res immobiles[172].
L’introduzione della regola sull’usucapione biennale dei beni immobili è interpretata da Weber (in modo assolutamente condivisibile) come l’elemento decisivo che portò a soluzione il contrasto tra alcune delle tesioni fondamentali esistenti nel diritto privato romano in materia di rapporti agrari (ma non solo): il conflitto tra mancipatio e traditio e quello tra la proprietà quiritaria e la cd. proprietà bonitaria[173]. Si diceva prima del meccanismo del sorteggio. Nel sistema romano di assegnazione della terra si sarebbe passati per Weber da una fase in cui si assegnavano solo delle quote di arativo e pascolo, dove l’esigenza preminente era fra l’altro quella di mantenere non frazionati i possedimenti fondiari per mantenere la posizione dell’erede nella tribù rustica individuata dalla dislocazione del fondo e dalla appartenenza alla classe di censo, ad un sistema detto di continuae possessiones, cioè basato sull’assegnazione di fondi compatti[174].
È questo il contesto in cui si sarebbe affermato il modus agri che era la quantità di terra (ossia, un certo numero di iugera all’interno della centuria) che i magistrati assegnavano a ciascun colono. Si trattava di una misura di terra in un territorio assegnato dallo Stato. Nelle formae veniva inscritta la misura del modus assegnata a ciscun colono ed era questo l’oggetto giuridico specifico del procedimento di assegnazione.
Una novità sostanziale per Weber sarebbe stata quella della possibilità di alienare il modus agri mediante mancipatio. Una possibilità certamente innovativa rispetto al principio dell’inalienabilità delle quote di arativo e di pascolo. A parte la testimonianza di Gaio che, ancorché tarda, è molto significativa: Gai. 2.29: Sed iura praediorum urbanorum in iure cedi tantum possunt; rusticorum vero etiam mancipari possunt. L’ipotesi è certamente plausibile se si pensa che le fonti, già per il terzo secolo a.C., dimostrano chiaramente un uso della mancipatio (si pensi ai negozi per aes et libram) in funzione astratta e non più solamente reale (come mero strumento di alienazione dei beni mobili). Mi limito a citare a questo riguardo il testamentum per aes et libram, la costituzione di dote, il negozio costitutivo di manus maritalis, etc. Così è perlomeno possibile pensare con Weber che la mancipatio dei fundi italici sarebbe diventato lo strumento più comodo per commerciare la terra a iugeri (come dimostrano anche le linee 45-47 della legge agraria epigrafica) in tutti quei casi fosse stato possibile alienare un fondo. Roma, dal canto suo, che era il luogo in cui venivano custodite le carte topografiche e i registri del censo, sarebbe diventata centro di un commercio fondiario senza eguali nella storia[175]. Storicamente il fenomeno dovette raggiungere il suo apice durante il II secolo a.C., una volta risolta la questione annibalica.
Weber pensava di provare il suo assunto in base al capitolo undicesimo del Digesto che titola si mensor falsum modum dixerit. In base ai testi ivi raccolti si evincerebbe che la terra veniva alienata a iugeri e che gli agrimensori erano chiamati a misurare un apezzamento corrispondente al modus agri indicato dai contraenti, che giova ripetere, era la misura concreta di un’ideale (penso alla propensione verso l’astratto tipica della scuola giuridica dei Mucii) partecipazione al possesso dei lotti coloniali[176]. L’ipotesi è scartata da Biagio Brugi per l’età classica, ma il discorso resta valido per l’epoca arcaica[177].
Si deve
convenire che anche questa ipotesi è molto suggestiva. In effetti la
legge agraria attesta che nel 111 il legislatore si pose anche il problema di
regolamentare la posizione di quei possessori, di quei titolari, di quegli
aventi diritto, che in ordine ad appezzamenti di terreno a vario titolo avuti
in assegnazione, ovvero acquistati mediante atti di alienazione inter vivos
o mortis causa, potevano avere dei problemi in ordine alla
titolarità o alla tutela delle proprie posizioni possessorie. Il legislatore
del
È evidente il legame con il termine arcaico mancipium ma non credo che da questo solo dato si possa dedurre che il legislatore del 111 nella linea di legge citata si riferisca ad una modalità negoziale realizzata mediante mancipatio. Facendo riferimento al frammento dell’epitome paolina del vocabolario di Festo che riporto in nota, dovremmo dedurre allora che l’emptio-venditio fosse una forma di mancipatio. Sarei più propenso a credere che invece l’uso di definire il pubblicano con un termine così pregnante sotto il profilo semantico derivi dal fatto che ormai la mancipatio come strumento negoziale aveva esaurito tutta la sua tipicità cusale per essersi invece trasformato in un modello utile a realizzare anche scopi diversificati in ragione di una sopraggiunta astrattezza causale riconosciuta peraltro come tale anche dai giuristi dell’età medio repubblicana. Fin qui il discorso potrebbe bastare, ma le voci di Festo su manceps (L. 137,12) e (L. 115,19), richiamano molto da vicino la definizione di fundus (L. 79,3) su cui ci siamo soffermati prima: Fundus quoque dicitur populus esse rei, quam alienat, hoc est auctor. Mi pare di poter dire che qualsiasi cosa fosse il fundus per il diritto romano arcaico, questo era perfettamente trasmissibile e negoziabile per i suoi titolari. Abbiamo altresì visto in Frontino (Lach. 29, 30=Thul. 13, 20) che il fundus era in origine un’unità fissa di terreno corrispondente a mezzo iugero e quindi corrispondente, nella misura equivalente dei bina iugera alla sors coloniale [1/2(fundus) x 4=2 iugera=actus=sors]. Curiosamente questa corrispondenza equivale alla misura agraria più risalente che conosciamo, ossia l’acnua etrusco (=bina iugera) e tutto questo corrisponde alla misura agraria più risalente che le fonti antiche riportano, ossia l’heredium. Le fonti quindi attestano una possibile corrispondenza tra il fundus arcaico e l’heredium. Sappiamo che l’heredium era la forma più antica di proprietà in un senso che può essere accostato a quello moderno. Una quantità (a questo punto si può dire) che era quanto meno trasmissibile iure ereditario e comunque difendibile processualmente [nelle forme dell’actio sacramenti in rem? In un primo momento come difesa di status (fundus=appartenenza alla comunità), come sostiene Max Weber?]. A far tempo dall’epoca delle conquiste coloniali si può ipotizzare che l’unità di misura delle assegnazioni viritane fosse stata concepita sull’esempio dell’heredium. Di qui la corrispondenza tra la misura dei bina iugera e della sors come unità di misura delle divisioni coloniali. La sors non aveva però la caratteristica di bene oggetto dell’antica hereditas in senso reale come l’heredium perché era pur sempre una forma di possesso (di ager publicus). In quanto assegnazione viritana poteva essere però commerciata, trasmessa ereditariamente e difesa processualmente (mediante, come abbiamo visto, la possibilità di esperire un’actio de modo e poi de loco)[179].
Tutto questo è un discorso che va approfondito in altra sede, non possiamo stupirci però se fundus è assente nella legge del 111 e se i giuristi romani dell’età classica trovarono così tante difficoltà nel definire il fundus in relazione all’ager, al locus e all’aedificium.
Ritorniamo al commento della legge che era arrivato alla linea 5. Aggiungerei a questo riguardo due ulteriori considerazioni.
La prima. Il
riferimento alla tricotomia urbs, oppidum e vicus per
descrivere le unità territoriali extra urbem Romam diverse dalle
colonie e i municipia di cui la legge si occupa più avanti,
evidenzia forse il modo di concepire la struttura del territorio italiano
all’epoca della legge agraria per la classe di governo a Roma[180].
Quanto meno siamo di fronte ad un riscontro molto significativo sul piano del
linguaggio tecnico giuridico (anche se nel caso di specie sarei propenso ad
interpretare quod eius in urbe oppido vico est della linea
Si può rilevare allora una consistenza del vicus come unità di suddivisione del territorio legata più ad una razionalizzazione dello stesso (frutto di mentalità giuridica? Ancora i Mucii?), piuttosto che un effetto naturale della presenza dello stesso in una circoscrizione territoriale inserita in un contesto territoriale dominato dal principio di uno ‘stato etnico’ o di tipo tribale arcaico. Una certa confusione terminologica nelle fonti che per indicare i rioni della città serviana (Roma quadrata), usano sia il termine pagus che il vicus; ovvero che registrano come festa attinente agli abitanti del vicus i Compitalia(= festa dei ‘crocicchi’) che erano all’incrocio delle linee di demarcazione dei campi – in cui si sacrificava una scrofa gravida (piena di grano), la porca precidanea, tutto questo sempre in occasione della nascita del nuovo grano –, si può forse spiegare pensando che queste fonti appartengono ad un’epoca in cui Augusto aveva già abolito il sistema dei pagi con l’istituzione dei vici, e quindi decretato la fine del pagus arcaico (o forse, sarebbe meglio dire, l’epoca in cui si completerà il processo di urbanizzazione e razionalizzazione del sistema territoriale italico). L’assenza del pagus nella legge agraria epigrafica forse consente di retrodatare tale fenomeno almeno alla fine del II secolo a.C. Forse le previsione della legge agraria può rappresentare il momento in cui il vicus arcaico prese il sopravvento sul pagus arcaico, in una società ormai definitivamente proiettata verso un’urbanizzazione massiccia.
E siamo alla seconda considerazione.
La legge agraria del 111, come è stato appena sottolineato, non menziona affatto il pagus, né si può pensare che questa previsione sia stata nascosta dalle lacune del testo[186]. La cosa non sorprende se si pensa che in un noto frammento ciceroniano si registra la stessa mancanza: Cic. de re p. 1.2.3: Equidem quem ad modum “urbes magnas atque inperiosas”, ut appellat Ennius, viculis et castellis praeferendas puto, sic eos, qui his urbibus consilio atque auctoritate praesunt, iis, qui omnis negotii publici expertes sint, longe duco sapientia ipsa esse anteponendos. La circostanza interessante è che Cicerone cita Ennio ed è possibile che l’endiadi viculis et castellis provenga dallo stesso testo enniano. Storicizzando la questione si può dire in senso generale che la cosa potrebbe spiegarsi perché quasi certamente il pagus dell’età monarchica di Roma non può essere in qualsiasi modo assimilato al pagus che rileva nelle fonti gromatiche e giuridiche del corpus giustinianeo. Probabilmente, all’epoca della legge agraria epigrafica, questa figura era stata già soppiantata dal vicus arcaico nei modi di strutturazione del territorio extra urbano, romano. Tutto ciò forse alimenta l’idea già presente in Pap. Oxy. 2088, 11 s. per cui Servio Tullio avrebbe radicalmente riformato il sistema di ripartizione territoriale sostituendo al sistema per pagos et gentes un meccanismo articolato in vici e tribù[187].
A ben vedere, la figura del pagus più antico che è presente copiosa nelle fonti annalistiche e non per l’età più antica di Roma, si configura come qualcosa che ‘preesiste’ ma che poi viene se non soppiantata, almeno affiancata, da un ‘altro’. Sembra evidenziarsi in altre parole una vocazione ‘quasi naturale’ di tale fattispecie rispetto ad una vocazione molto più tecnica (perché forse giuridicamente caratterizzata) del vicus (se guardiamo appunto all’epoca post arcaica o anche all’età augustea) o della tribù (se guardiamo all’epoca delle riforme serviane). In epoca domizianea il pagus sembra riemergere, ma solo in contrapposizione alla civitas come criterio residuale di qualificazione delle ripartizioni territoriali. Il contesto storico sociale però è profondamente mutato e in nessun caso assimilabile alla realtà arcaica (cioè fino al IV secolo a.C. circa)[188].
Il tratto caratteristico della storia del pagus (ossia di questo tipo di configurazione territoriale per tutta l’età repubblicana), almeno per l’ambiente di Roma, sembra essere stato quello di aver vissuto una tendenza involutiva almeno per l’età repubblicana[189]. Pur avendo un’origine antichissima (non avrebbero senso altrimenti i riferimenti di Dionigi e Plutarco in qualche caso addirittura all’età pre-monarchica di Roma), sembrerebbe che tale fattispecie abbia perso progressivamente importanza rispetto ad altre forme di ripartizione territoriale[190]. La qual cosa non per una decadenza della fattispecie in sé, quanto per l’affermazione di altre forme di insediamento territoriale più moderne ed evidentemente funzionali al sistema di insediamento romano via via che si è venuto estendendo a tutta la penisola. In questo quadro la vocazione del pagus arcaico, quale forma di insediamento territoriale delle genti italiche mi pare acquisti la sua dimensione più autentica.
La definizione dell’abitante del pagus come di un abitante di pianura, pur significativamente sostenibile, già per l’ultimo secolo della repubblica appare superata invece a fronte di attestazioni come quelle relative ad un pagus Montanus (CIL. 6.3823=FIRA. 1.272) o ad un pagus Ianiculensis (CIL. 6.2219). Non credo si possa contestare l’affermazione di Remo Martini per cui queste indicazioni toponomastiche si spiegherebbero per la zona di Roma con il fatto che si tratta di insediamenti successivi rispetto alla maggioranza dei pagi più antichi.
Se questo è vero allora già per l’epoca del SC. de pago Montano la dicotomia potrebbe considerarsi storicamente superata. E siamo forse al secondo vero punto di svolta per la storia del pagus come modello di insediamento territoriale per l’epoca repubblicana. Qui viene in aiuto un frammento di Livio.
Nel testo di
una delibera senatoria del
Da ciò si deducono delle conseguenze a mio parere significative e che credo meritino di essere sottolineate anche in questa sede.
Il modello
arcaico del pagus può essere venuto in conflitto con il sistema
di ripartizione territoriale delle colonie dei fora e dei conciliabula
ed era a questo certamente preesistente. Dico questo perché condivido
l’impostazione di F. De Martino per il quale nel corso del tempo la
fondazione della città, la deduzione di colonie e l’ordinamento
territoriale avrebbero tolto al pagus (arcaico?) ogni rilievo[191].
Quindi la dicotomia pagus/milites forse è espressione di una
realtà già tarda. Potrebbe infatti legarsi al sistema di
insediamento romano per colonie. Secondo uno schema che potrebbe essere
così semplificato. Da un lato gli abitanti del pagus (=pagani),
dall’altro i coloni (=milites). Dovremmo essere quindi almeno in
un’epoca successiva alla prima limitatio di Terracina del
Probabilmente
al di là degli aspetti forse eminentemente terminologici credo che la
differenza tra pagi e vici sia tutto sommato evidente.
L’abitante del pagus abita per definizione (nell’ottica
delle fonti romane) in un luogo di pianura perché nessuna fonte lo
definisce ‘montano’ ed è altresì chiaro che con tale
espressione si poteva fare riferimento ad agglomerati sparsi anche di notevole
dimensione. La presenza di insediamenti territoriali ‘per pagi’ nel
Sannio, inoltre fa pensare che la realtà descritta dalle fonti
antiquarie per Roma non sia generalizzabile[193].
L’abitante del vicus è colui che risulta invece insediato
in un territorio strutturato anzitutto secondo una scansione viaria (strigatio
e scamnatio? centuriazione romana?), ma tale impostazione sembra
riferibile principalmente alla realtà della tarda repubblica, del
principato e dell’età classica. In questo quadro, al di là
del vicus augusteo (sulle cui origini e sulla cui natura non credo si
possano avere dubbi dato che la concordanza di Dione Cassio e Svetonio mi pare
abbastanza convincente) chiaramente nato in epoca successiva, si potrebbe
pensare che dal punto di vista della storia degli insediamenti territoriali,
alla più risalente dicotomia pagani/montani si sia sovrapposta quella
più recente di abitante del pagus/abitante del vicus, non
prima delle prime colonizzazioni caratterizzate, come è noto, dalla
linea di centuriazione della limitatio romana. Penso questo
ricollegandomi alla dicotomia (secondo questa chiave di lettura non più
tanto misteriosa) tra i pagani (=appartenenti al pagus) e i milites
(appartenenti alla centuria) che potrebbe riflettere come detto
un’ulteriore livello di sovrapposizione tra la dimensione del pagus
arcaico e la realtà successiva della centuriazione romana (dies a quo:
Terracina nel
Così
il vicus potrebbe costituire una novità alternativa (ma
perfettamente integrata) rispetto all’urbs o all’oppidum,
come attesta la lex agraria del
Ritornando alla notizia di Livio sulla necessità di reclutare soldati in pagi, fora e conciliabula, il secolo di distanza forse esprime la misura dell’evoluzione della struttura del territorio nella penisola italiana in rapporto con l’espansione territoriale romana, mentre la ragione per cui nel testo della legge agraria non compare una menzione del pagus si spiega probabilmente per due motivi principali. Primo. Perché urbs, oppidum e vicus, pur nelle loro diversità, sono sempre delle forme di insediamento territoriale che esprimono un organizzazione strutturale urbanizzata: l’oppidum (centro fortificato) e il vicus (insediamento territoriale o villaggio di tipo sub urbano), insomma, dipendono dall’urbs nella rete di strutturazione del territorio. Secondo. Il pagus non è una forma di insediamento territoriale strutturata in modo urbanizzato, ma per definizione è un insediamento sparso[195].
La clausola di eccezione ‘extra eum agrum’ è una clausola che si intuisce chiaramente presente già nella linea 4 (extra eum agrum, quei ager ex lege…) e che si costruisce nella sua interezza in base al confronto con la linea 6: lege plebive scito, quod C. Sempronius Ti. f. tr. pl. rog(avit), exceptum cavitumve est nei divideretur. La dottrina prevalente interpreta questa clausola come una chiara allusione a delle categorie di possedimenti dell’ager publicus populi Romani che sarebbero state escluse dalla legislazione graccana. Forse Caio Gracco fu più attento del fratello a specificare le varie categorie di possedimenti esclusi dalla legge di riforma. Il Crawford elenca i casi seguenti: l’ager censorius, questorius, compascuus, l’ager in trientabulis e l’alpeggio[196]; le terre cedute alle colonie e ai municipi Così A. Burdese, Studi sull’ager publicus 92 s.[197]; forse le terre cedute ai Latini e agli italici[198]; l’ager Campanus nella sua totalità[199].
L’idea di riferire i possedimenti compresi in agro Campano a quest’ultima categoria di terreni, che sarebbero stati esclusi dalla legislazione graccana cui si sarebbe riferita la clausola extra eum agrum di cui ci stiamo occupando, fu formulata per la prima volta del Mommsen in base a due famosissimi passi di Cicerone[200]:
Cic. de lege agr. 2.29.81:
Maiores nostri non solum id, quod de Campanis ceperant, non imminuerunt, verum
etiam, quod ei tenebant, quibus adimi iure non poterat, coemerunt. Qua de causa
nec duo Gracchi, qui de plebis Romanae commodis plurimum cogitaverunt, nec L.
Sulla, qui omnia sine ulla religione, quibus voluit, est dilargitus, agrum
Campanum attingere ausus est.
Cic. de lege agr. 1.7.21: qui
ager ipse per sese et Sullanae dominationi et Gracchorum largitioni
restitisset.
La questione è stata nuovamente approfondita grazie ad una ricerca condotta prevalentemente su questi temi da un gruppo di lavoro della Seconda Università di Napoli (a cui io stesso ho partecipato). I risultati, recentemente pubblicati, dimostrano che in senso conforme ai due testi appena citati di Cicerone, l’ager Campanus sembrerebbe essere stato effettivamente escluso dall’attività delle commissioni graccane[201].
Non è possibile pertanto seguire Andrew Lintott nella misura in cui sembra dare maggiore credito a quella parte della dottrina facente capo al De Martino che ritiene le affermazioni di Cicerone discutibili[202]. Né si può dare credito all’ipotesi di una fondazione di una colonia a Capua da parte di Caio Gracco (così come del resto da parte di Silla). L’intervento graccano nell’ager Campanus ebbe carattere ricognitivo e fu compiuto molto probabilmente soltanto a fini restitutori[203].
Un punto su cui la storiografia contemporanea pone giustamente molta attenzione riguarda il ritrovamento di numerosi cippi graccani, dei quali, uno ritrovato a S. Angelo in Formis (quindi in agro Campano[204]) sembrerebbe effettivamente provare che l’ager Campanus non fu escluso dalla legislazione graccana. Inoltre, i risultati di una famosa ricerca del gruppo di Besançon (Chouquer et alii) sembrebbero suggestivamente alludere ad una centuriazione dell’ager Campanus anteriore all’età di Cesare, ossia proprio all’età dei Gracchi[205].
A parte le argomentazioni addotte da Gennaro Franciosi sul cippo graccano di S. Angelo in Formis (effettivamente dalla natura meramente restitutoria), quanto riferisce Lintott sul combinato disposto di queste due notizie fa effettivamente riflettere sull’effettiva sorte dell’ager Campanus all’epoca delle riforme graccane[206].
Le
testimonianze epigrafiche più significative di cui disponiamo e che in
qualche modo possono essere ricondotte alla centuriazione dell’ager
Campanus e all’attività dei Gracchi riguardano la zona di S.
Angelo in Formis, molto ricca di ritrovamenti (dal punto di vista dei cippi
terminali), dove sono stati trovati due cippi anepigrafi pertinenti al
territorio dei praedia Dianae Tifatinae, ritenuti esterni alla
centuriazione dell’ager Campanus, e attribuiti quindi a Silla, ed
altri cinque termini inscritti dell’età di Vespasiano (
È facile comprendere quindi che le più antiche attestazioni epigrafiche di centuriazione dell’ager Campanus riguardano l’epoca graccana. Mentre per cominciare a trovare una corrispondenza tra le notizie delle fonti letterarie e quelle dei ritrovamenti epigrafici si dovrà attendere l’epoca sillana e poi, in massima parte, la deduzione coloniaria di Cesare.
La dottrina
prevalente, a cominciare dal Mommsen, ritiene l’intervento graccano
nell’ager Campanus meramente restitutorio (cioè in funzione
di limitazione e terminazione, ma non di assegnazione), e credo che di questo
non si possa dubitare stando alla sigla III VIR A I A inscritta sul cippo
più importante (dal punto di vista epigrafico) di S. Angelo in Formis (triumviri
agris iudicandis adsignandis) e anche in termini graccani scoperti in
altre sedi[209].
In testimonianze epigrafiche rinvenibili nella lex Bantina (l.
15), de repetundae (ll. 13,16,22) ed agraria del
Dunque il cippo graccano di S. Angelo in Formis aveva principalmente una funzione ricognitivo/restitutoria (limitazione e terminazione) e, probabilmente, solo in via del tutto eventuale, assegnatoria. Il fatto però che sia l’unico termine giunto fino a noi di un’intera centuriazione e che sia stato piantato a ridosso del tempio di Diana Tifatina lascia pensare che l’assegnazione avesse riguardato una particolare parte del territorio legata alle vicende delle terre del tempio di Diana[211].
Rivediamone il dettaglio. CIL. 1.552: C SeMPRonius ti f grac/ AP CLAVDIVS C F POLC/ P LICINIVS P F CRAS/ III VIR A I A. Sul vertice della colonna reca incisa la dicitura sciolta K(itra) K(ardinem) undecimo, S(inistra) D(ecumanum) primum.
Questo cippo però non è fortunatamente l’unico termine graccano rinvenuto in Italia meridionale. Esistono altri sette termini già noti (uno nei pressi dell’antica Suessula, uno a Sicigliano degli Alburni, tre in provincia Apuliae presso Aeclanum, due in Lucania a Sala Consilina e Atena Lucana)[212]. Vale la pena di ricordare ancora brevemente i più significativi.
Cominciamo da un cippo terminale, rinvenuto in agro Salano, che è simile a quello di S. Angelo in Formis: CIL. 1. 642(=553): AP CLAVD/ P LICINIVS/ III VIR A I A. Sul vertice della colonna vi è inciso soltanto il riferimento al K(ardo)V. Lo stesso si può dire sul termine graccano rinvenuto nel campus Atinas, nella valle del fiume Tanagro, tra Atena Lucana e Sala Consilina. Il cippo graccano reca la seguente dicitura: CIL. 1. 639: C. SEMPRONIVS TI F/ AP CLAVDIVS C F/ P LICINIVS P F/ III VIR A I A. Anche qui compare, come per il cippo di S. Angelo in Formis, un’indicazione gromatica. Certamente leggibile è l’indicazione relativa al cardine: K(ardo) VII. La particolarità è spiegata considerando che il termine fosse collocato sul decumano massimo che in quel tratto corrispondeva alla via Popilia. Era dunque inutile fornire indicazione sul decumano, potendo bastare solo quella del cardine[213].
Nell’antico agro di Suessula, nei pressi di Capo di Conca (Arienzo), è stato ritrovato invece il cippo seguente: CIL. 1.641(=1504): C SEMPRONIVS ti F/ AP CLAVDIVS C f/ P LICINIVS P F/ III VIR (132/131 a.C.). Qui siamo appena oltre il margine sud orientale dell’ager Campanus, la mancanza di indicazioni gromatiche si può spiegare con il fatto che si tratta di un cippo (purtroppo) tronco, tuttavia è interessante rilevare l’attestazione di un cippo terminale anche in questa zona. Dato che la griglia di centuriazione (dell’ager Campanus) non può arrivare sin qui, la testimonianza dimostra che l’intervento graccano in questa zona non toccò questo territorio in senso stretto[214].
Abbiamo forse elementi già sufficienti per provare a tirare delle prime conclusioni[215]. Credo anzitutto di poter escludere che le commissioni graccane fecero la centuriatio dell’ager Campanus. Lo dimostra il fatto che l’indicazione terminale non è uguale in tutti i casi ma si adegua invece alla situazione dei luoghi. Il termine di S. Angelo in Formis non è infatti l’unico ad interessare la zona dell’ager Campanus (c’è il termine anepigrafe di Trentola e quello di Suessula, seppure quest’ultimo fuori dall’ager Campanus in senso stretto), tuttavia è l’unico che reca un’indicazione gromatica completa (cardo e decumano). Questo può significare che la commissione graccana impiantò il termine su una griglia di centuriazione già esistente[216]. Il che dovrebbe far riflettere gli studiosi del gruppo di Besaçon. L’indicazione sul vertice della colonna [K(itra) K(ardinem) undecimo, S(inistra) D(ecumanum) primum.] starebbe a dimostrarlo e, come ha già giustamente sottolineato il Mommsen, questo fatto può spiegarsi solo come un riferimento ad una forma agri già esistente[217]. Questo dato è molto importante per l’economia del nostro discorso perché potrebbe essere l’argomento decisivo per spostare la data della prima centuriazione dell’ager Campanus in epoca pregraccana[218].
Se quindi, in base a questa breve disamina, siamo in grado di escludere che le indicazioni su una presunta centuriazione dell’ager Campanus fatta dai Gracchi siano in qualche modo fondate; e se questo fatto, messo in relazione al cippo di S. Angelo in Formis e agli altri anepigrafi, non dimostra che l’ager Campanus fosse compreso nella lgislazione graccana, poco fondamento sembra avere anche la suggestiva soluzione proposta da quegli autori che tentano di conciliare un presunto intervento legislativo di Tiberio Gracco (argomentato in base al ritrovamento del cippo di S. Angelo in Formis) con la clausola contemplata nella lex agraria. Secondo questa ipotesi, Tiberio Gracco avrebbe pensato di redistribuire i terreni dell’ager Campanus, ma il fratello avrebbe deliberatamente escluso questi dalla sua legge di riforma perché intenzionato a fondare una colonia a Capua[219]. L’obiezione di Andrew Lintott sembra però su questo punto decisiva; la clausola di esenzione di cui stiamo discutendo, alla linea 22, sembrerebbe fare esplicito riferimento proprio a dei terreni assegnati in occasione di fondazioni coloniarie[220]. Con riferimento al cippo del Tifata il pensiero corre subito alla testimonianza di Liv. 32.7.3 (sub Tifatis Capuae agrum vendiderunt). Le commissioni graccane potrebbero essere intervenute per ristabilire i confini esatti delle ‘vendite’ cui fa riferimento lo storico patavino[221].
In
realtà per risolvere la questione bisogna aver presente quale fu la
sorte dell’ager Campanus dall’epoca della deditio del
In linea generale occorre dire che la politica di Roma nei confronti delle città italiche con cui veniva a che fare era quella di lasciare quanto più forte possibile in vigore il sistema di organizzazione civile e amministrativa vigente. Questa forse la ragione per cui si hanno notizie per Capua di magistrature autoctone (meddices) e della rilevanza di strutture insediative particolari (come il pagus) anche in fase di romanizzazione avanzata. Vedremo che lo stesso si potrà dire per il territorio africano in cui la presenza romana si caratterizza per una particolare tolleranza di strutture autoctone e modelli di insediamento preesistenti, purché bilanciata da un interesse di tipo politico o economico.
Fatta questa
precisazione, i fatti per noi rilevanti relativi alla ripartizione del
territorio capuano si svolgono tutti nel quindicennio che va dal 209 al
Il senso giuridico di tali avvenimenti riguarda molto da vicino il modo di intendere il sistema di organizzazione agrario usato dai Romani in età medio repubblicana[227]. I terreni conferiti ai cittadini erano fatti oggetto di censimento e ricavati in base ad una tecnica di misurazione che le fonti chiamano ager divisus et assignatus per limites in centuriis[228]. Non c’è dubbio che a partire da questo momento, proprio la prima regolamentazione agraria del Senato di Roma dimostra che ciascuna delle parti di ager Campanus che era stata assegnata dai Romani era diventata ager publicus(/ager vectigalis). Lo dimostra la disposizione della linea 7-8 relativa all’obbligo per i censori di iscrivere in pubblici registri tutte le categorie di cespiti[229].
Al di
là di questi limiti, i titolari erano liberi di gestire con la massima
libertà la porzione (quota) di ager publicus loro assegnata. Sono
quindi da considerare tecnicamente dei possessores (possibile tutela
processuale attraverso la controversia de modo ovvero de loco)
quindi, di fatto, veri e propri proprietari, anche se in senso giuridico
soltanto possessori. Le assegnazioni coloniarie dovevano avvenire in modo che
tutti i beneficiari ricevessero parti uguali. Di qui la necessità di
procedere ad una stima della qualità del terreno che veniva suddiviso in
parti disuguali, per poi costituire quote di eguale valore da assegnare
mediante sortitio[230].
Dovrebbero rientrare in tale categoria di ripartizione territoriale tutte le
assegnazioni di colonie relative al periodo che stiamo studiando. Gli esempi da
fare sarebbero numerosi: Cales, Suessa e Sinuessa alla
fine del quarto secolo a.C. La deduzione delle cinque colonie in oram
maritimae del
Una parte dell’ager publicus populi Romani, non destinata all’occupazione, era invece riservata all’affitto e faceva parte quindi della categoria di terreni definiti dal Weber ‘di minor diritto’.
In questi
casi (terre concesse in affitto ereditario, con imposizione di oneri viari,
terreni da assoggettare ad imposta) i censori procedevano ad una ripartizione per
scamna et strigas[232].
Dovrebbero rientrare in tale categoria l’assegnazione censoria del
Erano fuori
dalla categoria dei terreni cd. di minor diritto, e quindi dal sistema di
vendita censoria, i terreni non imponibili e quelli soggetti ad imposizione
secondo il sistema del modus[233].
Si tratta delle antiche porzioni di terreno dette trientabula e
dell’ager quaestorius. In particolare lo Stato ricorreva a
quest’ultimo sistema di ripartizione territoriale quando aveva bisogno di
denaro. I terreni venivano gravati da un canone di ricognizione (perché
serviva a provare il diritto di appartenenza allo Stato) e ceduti come garanzia
a creditori o a finanzieri con facoltà di riscatto. Non sembra che tali
terreni venissero ripartiti con il sistema della limitatio. Per il
periodo storico che stiamo studiando questo tipo di ripartizione territoriale
dovrebbe corrispondere a quella fatta nel
Un’ulteriore
forma di misurazione della terra che probabilmente fu adottata in questa fase
storica per l’ager Campanus fu l’ager per extremitatem
mensura comprehensus. I censori (?) rilevavano e trascrivevano soltanto i
confini esterni di una zona le cui porzioni di territorio venivano lasciate o
assegnate a comunità in cambio di stipendium, ovvero nel caso in
cui l’assegnazione riguardasse dei possedimenti templari (ad es. i
terreni del tempio di Diana sub Tifata monte)[235].
La vendita censoria cui allude Livio dovrebbe riguardare proprio questa parte
di ager Campanus (Liv. 32.7.3: sub Tifatis Capuae agrum vendiderunt)[236].
Le vendite di Flacco del
Nonostante
gli sforzi considerevoli del Senato romano di cui sono una chiara testimonianza
gli eventi narrati dalle fonti, la situazione del territorio di Capua ancora
all’epoca del consolato di Cicerone (
Mi pare che in base a quanto esposto finora sia alquanto difficile sostenere che le commissioni graccane possano essere intervenute in qualche modo per regolamentare in tutto o in parte terreni dell’ager Campanus. Tutto lascerebbe supporre che Tiberio Gracco e poi suo fratello abbiano fatto le loro riforme, magari tenendo presente la situazione dell’ager Campanus, ma quasi certamente lasciando fuori dalle loro regolamentazioni i terreni posti in agro Campano. Tutto ciò a supporto della tesi del Mommsen che in fondo dava credito alle testimonianze di Cicerone delle quali abbiamo visto che non ci sono seri motivi per dubitare[240]. Questo significa anche che, se le leggi dei Gracchi riguardarono soltanto le terre appartenenti all’ager publicus populi Romani non formalmente distribuite, assegnate o assoggettate a vendite/locazioni censorie, cioè gli agri occupatorii secondo l’ottica dei gromatici e di Appiano[241], allora non ci sarebbe stato bisogno da parte di Caio Gracco di esentare esplicitamente l’ager Campanus dalle sue riforme; se è vero che, come abbiamo visto, una buona parte dell’ager Campanus fu fatto oggetto di esplicite assegnazioni censorie[242].
Evidentemente
la soluzione più semplice è proprio quella che vuole l’ager
Campanus escluso dalle riforme graccane relative alle assegnazioni di
terre. Per usare le parole di
Lintott: “The fact that the ager Campanus was not in fact
redistributed in this period into long-term holdings, which eventually became
private, is the strongest argument that il must have been specifically exempted
by C. Gracchus and hence also by this law”[243].
Secondo M.H. Crawford, Tiberio Gracco avrebbe evitato di intervenire
nell’ager Campanus e Caio Gracco avrebbe specificato più in
dettaglio le categorie di legge escluse dalla disciplina della sua legge[244].
A mio parere si potrebbe rilevare invece una continuità tra
l’attività del Senato in ordine alla gestione dell’ager
Campanus e quella di Tiberio e poi Caio Gracco. Non dimentichiamo che
già il console Postumio tentò di intervenire con l’aiuto
del tribuno Lucrezio nel
Proseguiamo con il commento. In dettaglio, la linea 7 contempla i terreni assegnati dalle commissioni graccane che avessero anche la caratteristica di essere dei terreni edificati (agri locei aedificiei) e iscritti in una forma censuale: i]n terra…Italia IIIvir dedit adsignavit reliquit inve formas tabulasve retulit referive iusit: ager locus aedificium omnis quei supra scriptu[s est[245]. Analogo riferimento alla forma del censo si rinviene più avanti alle linee 78: idque in formas publicas facito ute[i referatur i(ta) u(tei) e r(e) p(ublica) f(ide)]q(ue) e(i) e(sse) v(idebitur). IIvir, quei ex h. l. factus creatusve erit, is facito in diebus CCL proxsumeis, quibus h. [l.] populus plebesve iuserit (formas publicas) e 80: quod eius ex h. l. in [f]ormam publicam rellatum (formam publicam). È evidente che siamo di fronte ad un riferimento preciso alla forma agri di cui un precedente illustre è dato dalla forma agri di P. Cornelio Lentulo mediante la quale è molto probabile che l’ager Campanus sia diventato legalmente (e per la prima volta) ager publicus populi Romani[246]. Intendo dire che la redazione di una forma agri (forse la stessa centuriazione dell’ager Campanus oggi ancora visibile) e l’omologazione di tale documento nel tempio della Libertà (che dall’età imperiale era il deposito delle tabulae censoriae) sono elementi forse sufficienti per affermare che in quest’occasione l’intero ager Campanus fu trasformato in modo ‘istituzionale’ (con atto pubblico di un organo costituzionale dello Stato romano), da terreno ‘confiscato’=ager publicatus, in ager publicus populi Romani.
L’atrium Libertatis era il luogo in cui venivano depositate le tabulae censoriae[247]. Famosa è l’accusa di Cicerone a Servilio Rullo di aver manomesso le tavole dei censori per trovare la lista delle Italiae possessiones[248]. Con riferimento all’ager Campanus operazioni di vendita censoria (o questoria) che possono aver dato luogo alla redazione di tavole possessorie come quelle menzionate dalla legge possono essere state quelle compiute nel 209, 205, 198, 194, 174 (a Calatia). Ed anche la ‘vendita’ tentata dal tribuno Lucrezio in seguito alla ricognizione di Postumio del 172, che per parte della tradizione annalistica avrebbe dovuto rientrare in questa categoria (Liv. 42.19.1: M. Lucretius tribunus plebis promulgavit, ut agrum Campanum censores fruendum locarent).
Un altro precedente famoso, ma vedi i riferimenti dei gromatici[249], è dato dalla forma di Aurasio[250].
La notizia di
Granio Liciniano per cui in atrium Libertatis venivano conservate
le leggi relative alle operazioni catastali romane (formamque agrorum in aes
incisam ad Libertatis fixam reliquit)[251]
trova una conferma in Catone il quale, in Fest. sv. Probrum (L. 277,10),
afferma: lex fixa in atrio Libertatis cum multis. Non so se il
riferimento dell’oratore all’incendio che avrebbe distrutto la
legge sullo stupro della vestale, come altre, proprio in atrium Libertatis
possa riguardare (e quindi aver coinvolto) anche la forma agri di
Lentulo (Cato 74, fragm. 199: lex fixa in atrio Libertatis cum multis alis
legibus incendio consumpta est). Questo spiegherebbe il mancato
ritrovamento della catastazione di Lentulo, ma si dovrebbe provare che
l’incendio di cui riferisce Catone sia stato successivo al
Un’ultima
annotazione su questo tema va fatta pensando che secondo la tradizione il
tempio della Libertà sarebbe stato fondato da Tiberio Sempronio Gracco
padre intorno al
Come si vede, anche su questa versione dei fatti in ordine ad un aspetto molto particolare della storia agraria romana ritorna in modo puntuale l’ombra dei Gracchi.
Il
riferimento del legislatore del
Le linee 8-10 chiudono la prima parte della sezione della legge agraria epigrafica dedicata alle terre e ai possedimenti ager publicus populi Romani in terram Italiam. Tutte le categorie di cespiti fondiari elencate sin qui ai sensi di questa legge, vengono dichiarate ager privatus[253]. Lo si deduce chiaramente dalle prime parole leggibili della linea 8: utei ceterorum locorum agrorum aedificiorum privatorum est, esto[254]. Si stabilisce altresì con la stessa linea un obbligo per i censori di curarne l’iscrizione nelle tavole del censo: Censor que queicomque erit fa[c]ito, utei is ager locus aedificium, quei e[x hace lege privatus factus est, ita, utei ceteri agri loca aedificia privati, in censum referatur, …deque eo agro loco aed]ificio eum, quoium[is ager locus aedificium erit, eadem profiterei iubeto, quae de cetereis agreis); ed inoltre viene sancito il divieto assoluto, anche di fronte a provvedimenti del senato: linea 9: loceis aedificieis quoium eorum quisque est profiterei iusserit…]est. Neive quis facito, quo, quoius eum agrum locum aedificium possesionem ex lege plebeive scit[o ess]e oportet oportebitve, eum agrum l[ocum aedificium possesionem minus oetatur fruatur habeat possideatque…n]eive quis de ea re ad sen[atum referto); o di magistrati, di turbarne il godimento: linea 10: nevie pro magistratu inpe]riove sententiam deicito neive ferto, quo quis eorum, quoium eum agrum locum aedificium posse[sio]nem ex lege plebeive scito esse oport[et oportebitve…eum agrum locum aedificium possesionem minus oetatur fruatur habeat possid]eatque quove possesio invito, mor[tuove eo heredibus eius inviteis auferatur.
Il riferimento all’iscrizione da parte dei censori nelle tavole censuarie è importante perché forse questa norma pone fine alla vexata quaestio della redistribuzione nelle classi di censo dei vecchi possessori e anche dei nuovi beneficiari delle riforme graccane. In dottrina infatti non vi è chi non abbia visto in questo uno dei caratteri precipui dell’intera legge che stiamo commentando[255]. Ma su tale punto ritorneremo nel prossimo capitolo commentando le linee 15 e 17.
La trasformazione di questi possedimenti in ager privatus è però un dato che non può essere revocato in dubbio. A parte il riferimento della linea 8 che è inequivocabile, anche in altri due luoghi della legge lo si legge altrettanto chiaramente a proposito della volontà del legislatore di trasformare i piccoli possedimenti abusivi di 30 iugeri (colendi causa) in ager privatus. Alla linea 14: in eum agrum agri iugra non amplius XXX possidebit habebitve: [i]s ager privatus esto; e a proposito delle terre (esenti da tributo?) menzionate alla linea 19: to exve h. l. privatum factum est erit ve[256].
Quale può essere una ricostruzione attendibile dell’etimologia di privatus? Va detto anzitutto che tale nozione di ager era già nota a Catone che parla esplicitamente di acquisizioni di ager privatus in Orat. 79 fragm. 206: Accessit ager, quem privatim habent, Gallicus, Samnitis, Apulus, Bruttius. Invero tale accezione sembra pienamente in uso all’epoca di Catone dato che troviamo conferma dell’uso di tale vocabolo nel senso di ‘singolo’, di ‘cittadino’ in contrapposizione di ciò che è invece esprime una carica pubblica, in Plauto: Capt. 166: hic qualis imperator nunc privatus est e ancora di più, in senso più maturo in Cic. de leg. 3.19.43: Deinde de promulgatione, de singulis rebus agendis, de privatis magistratibusve auduendis[257]. Il dato trova conferma anche nel tardo Isidoro: etym. 9.4.30: Privati sunt exstranei ab officiis publicis. Est enim nomen magistratum habenti contrarium, et dict privati quod sint ab officiis curiae absoluti.
L’aggettivo rinvia alla nozione di privus[258]. Abbiamo su questo il vocabolario festino (nella versione epitomata di Paolo) che alla voce Privos privasque rende in modo bicipite, e sostanzialmente confermando l’impressione che si ricava dalle fonti appena citate, un’accezione ambivalente del termine: Paul.-Fest. sv. Privos privasque (L. 252,20): Privos privasque antiqui dicebant pro singulis. Ob quam causam et privata dicuntur, quae uniuscuiusque sint; hinc et privilegium et privatus; dicimus tamen et privatum, cui quid est ademptum.
Come si vede il vocabolo privus venne usato dagli antiqui per indicare i singoli individui (antiqui dicebant pro singulis). Di qui si dicevano ‘private’ anche le cose che appartenevano ad un singolo individuo, quindi non al gruppo inteso come gens o famiglia (ob quam causam et privata dicuntur, quae uniuscuiusque sint). Da questo termine derivano anche le espressioni ‘privilegio’ e ‘privato’ (hinc et privilegium et privatus)[259]. Come si vede la definizione dell’epitome paolina si chiude in modo ambiguo perché privatus è (dicimus tamen et privatum) anche cui quid est ademptum. Quindi, da un lato ciò che è del singolo, dall’altro ciò che è ‘sottratto’: come due facce della stessa medaglia. Il dato trova conferma già in Plauto (Poen. 775: ut eo me privent atque inter se dividant) e Cesare b.civ. 3.90.3: rem publicam alterutro exercitu privare. Nel senso di ‘privarsi la vita’ si può citare ad esempio Tac. ann. 4.30.2.
Un valore semantico di privatus come di qualcosa che esprime il senso di una ‘proprietà privata’ si evidenzia particolarmente, ed in modo chiaro, solo con fonti del principato. Indicativo è Ovidio fasti 5.286: vindice servabat nullo sua publica volgus,/ iamque in privato pascere inertis erat. Poi ci sono Livio (2.24.7: ex tota urbe proripientium se ex privato; 30.44.11: nunc quia tributum ex privato conferendum est) e Seneca in cui l’espressione per privatum è usata nel senso metaforico di ‘attraversare la proprietà’ di un singolo: Sen. epist. 89.20: Inlustrium fluminum per privatum decursus est et amnes magni magnarumque gentium termini usque ad ostium a fonte vestri sunt.
Appare chiaro
che quindi l’uso del vocabolo privatus in forma tecnica da parte
del legislatore del 111 presuppone una solida esperienza culturale alle spalle.
A questo punto penso sia interessante guardare più da vicino la teoria
di Dario Sabbatucci sulla doppia opposizione tra sacer/profanus e publicus
privatus laddove è chiaro che l’evidenza terminologica del testo
di legge che stiamo commentando dimostra che nel
Come si arriva a questo? Secondo Sabbatucci prima ancora che vigesse un sistema giuridico sociale qualificato dalla doppia endiadi ‘sacer/profanus’-‘publicus/privatus’ la nozione di riferimento era quella del nomen Romanum perché con esso si designava, nella mentalità arcaica, le nationes e le gentes da un punto di vista prevalentemente genetico. Ebbene, in questa fase, ogni comunità farebbe parte di un fanum individuato dal dio e a cui esso appartiene. Il nomen Romanum, a sua volta risulta suddiviso, in tanti nomina, le gentes appunto[260].
Rilevo che
nel testo della legge agraria del 111 troviamo con riferimento al territorio
italico indicazioni etniche come Latini e peregrini e non altro
(linee 29, 31). Sotto il profilo territoriale a questa situazione corrisponde
il regime dell’ager Romanus non ancora distinto in ager
publicus e in ager privatus[261].
Le unità territoriali sono poste sotto la giurisdizione di singoli fana.
La terra e i prodotti sono quindi del fanum. Per usare i prodotti della
terra è necessario allora deporne una parte, la decuma, a
vantaggio appunto del fanum. Va svolta insomma un’attività
che in linguaggio tecnico arcaico è detta pro fano. Quello che
resta è a vantaggio del singolo (privus) che ha compiuto il rito
della profanatio (cioè l’offerta primiziale, o della decima
al fanum). Una volta compiuta la profanatio, cioè
l’offerta, quello che resta è nello stesso tempo privatus e
profanus. Nel caso di una raccolta di grano non c’è
differenza tra la parte offerta e la parte restante perché
l’oggetto della profanatio è tutto il raccolto
dell’annata. Tutto questo trova una sua spiegazione nel fatto che il fine
ultimo della profanatio è di ‘rendere libero dal sacro’,
cioè di rendere profano ciò che in condizioni storico,
politico-sociali mutate diventa privatus, proprio perché, ed in
quanto, non più publicus. È chiaro che nel contesto
normativo della legge del 111 l’ager privatus è ciò
che non è più publicus. Se il significato originario di publicus
è populus=‘esercito’ è altrettanto chiaro che
l’ager privatus è la stessa terra ‘sottratta al publicus’
e data ai singoli (viritim). Quindi nasce come espressione di qualcosa
che non è più publicus, prima di diventare ‘pro
singulis’[262].
Anche in considerazione di tutto questo credo sia difficile riconoscere subito
alla nozione di ager privatus una qualificazione giuridica di
proprietà. Ciò che viene assegnato, riconosciuto o concesso uti
singulis non è detto che lo sia per sempre. Fuori dai casi tecnici
delle locazioni censorie e/o delle vendite questorie la preoccupazione del
legislatore, ancora nel
In chiave giuridica viene affrontato dalle stesse fonti romane la contrapposizione sacer/publicus[263]. In un frammento notissimo delle Institutiones di Marciano D. 1.8.6, libro tertio, si legge che sono sacre le cose che sono state consacrate pubblicamente, ma non le private (sacrae autem res sunt hae, quae publice consecratae sunt, non privatae). Sappiamo però a cosa si riferisce il giurista quando afferma: si quis ergo privatim sibi sacrum constituerit, sacrum non est, sed profanum. Non entro nel merito della definizione di Ulpiano (D. 1.8.9, Ulp. 68 ad ed.) perché siamo in un contesto ormai distante dal tempo di cui ci stiamo occupando: Sacra loca ea sunt, quae publice sunt dedicata, sive in civitate sint sive in agro. Sciendum est locum publicum tunc sacrum fieri posse, cum princeps eum dedicavit vel dedicandi dedit potestatem.
Gaio, da parte sua, in Inst. 2.5 dice che è ritenuto sacro solo ciò che è stato consacrato per iniziativa (ex auctoritate) del popolo romano, sia mediante legge che mediante senatoconsulto (lege de ea re lata). Considerato il valore dei decreta senatoriali e delle leggi e dei plebiscita all’epoca della legge del 111 si può dire che la definizione gaiana sia ancora applicabile per il contesto di cui ci stiamo occupando e che la doppia endiadi esprima in sé il passaggio dalla condizione più antica a quella più recente. Una doppia endiadi che naturalmente trova la sua giustificazione nelle fonti: Hor. Ars poet. 394: Fuit haec sapientia quondam/publica privatis secernere, sacra profanis. E ancora di più Cicerone che per stigmatizzare le malefatte di Verre dice che costui non rispettò nulla: neque privati, neque publici, neque profani neque sacri (de signis 4.1.2).
Sempre Cicerone però contrappone publicus e privatus: Cic. Verr. 5.136: tibi privata navis oneraria maxima publice est aedificata. Ma in un frammento delle Verrine che trovo molto significativo fa anche una distinzione ulteriore tra diritto pubblico, privato e civile: Cic. Brut. 214: Nullum ille poetam noverat, nullum legerat oratorem, nullam memoriam antiquitatis conlegerat; non publicum ius, non privatum et civile cognoverat. Questo vuol dire che l’ipotesi di una fattispecie particolare di ager privatus distinta dal mero possesso e dal dominium ex iure Quiritium prospettata da Saumagne e poi da Leandro Zancan, troverebbe una sua giustificazione nelle fonti.
Su questo
punto specifico ritorneremo, adesso è possibile fare un’ultima considerazione
sulla natura giuridica dell’ager privatus identificato dal
legislatore del
Per
concludere su quanto considerato finora si può dire che la
qualificazione dei lotti di terreno fatta dal legislatore del 111 come di ager
privatus (ma anche le posizioni di coloro che si videro assegnare dei lotti
di terreno all’epoca di Catone e poi, dobbiamo presumere, in ragione
della disciplina delle leges Semproniae agrariae) abbia un significato
preciso e che non può essere revocato in dubbio. Sul piano politico,
religioso, sociale, ma soprattutto giuridico, la categoria dell’ager
privatus ha quindi valore come espressione di qualcosa che è
contrapposto a publicus, nel significato di ‘qualcosa che è
sottratto’ (come dice l’epitome paolina: dicimus tamen et
privatum, cui quid est ademptum) e, nello stesso tempo, che è
‘riservato al singolo’. Tutt’altro che estemporanea la
configurazione di tale forma di appartenenza nelle forme del possesso, se si
pensa che dietro la riforma di Tiberio Gracco vi fu P. Mucio e, dietro il
legislatore del
Andiamo adesso al dettaglio della legge. Gli editori si sono posti anzitutto il problema di capire se tale legge è stata la prima a dichiarare private le categorie di terreni elencate[264].
Secondo Max Kaser delle categorie di possedimenti contemplati alle linee 1-7 alcune sarebbero state già dichiarate private prima della promulgazione della legge[268]. In effetti, anche se non risulta che Tiberio Gracco abbia dichiarato tali i provvedimenti che furono oggetto delle sue assegnazioni, esistono attestazioni in tal senso che sono già chiare in Catone con riferimento al territorio della Gallia Cisalpina, del Sannio, dell’Apulia e dei Bruzzi [Cato Orat. 79,206: Accessit ager, quem privatim habent, Gallicus, Samnitis, Apulus, Bruttius].
Si pone allora il problema di valutare la questione dovendo ammettere che, ancorché privati, alcuni provvedimenti avrebbero potuto subire delle limitazioni di diritto pubblico (per usare un’espressione moderna) come la sottoposizione ad un canone (vectigal o decima) o ad un vincolo di legge (inalienabilità)[269].
Andrew
Lintott invece ritiene che la legge agraria non avrebbe confermato la natura di
agri privati a quei possedimenti dichiarati tali da leggi recenti, ma
avrebbe bensì disposto nel senso che soltanto le terre rese pubbliche
nel
Non meno
importante è l’espressione uti, frui, habere possidere, forse
già usata nella linea 9: eum agrum l[ocum aedificium
possesionem minus oetatur fruatur habeat possideatque per effetto della
ricostruzione fatta in base al testo della linea 11: ei oetantur fruantur
habeant po[ssideantque. Un impiego di tale formula si riscontra
anche nella lex Antonia de Termessibus del
L’importanza di questo riferimento da questo punto di vista è quindi rimarchevole. Se la lex agraria epigrafica (in cui, come abbiamo visto, il sintagma ager publicus compare insieme a quello di terra Italia), non parla ancora in termini espliciti di proprietà (dominium ex iure Quiritium), ma usa piuttosto perifrasi come questa che stiamo commentando, ossia uti frui habere possidere, vuol dire che siamo ancora lontani dallo schema giuridico della proprietà che i giuristi successivi qualificheranno come dominium ex iure Quiritium.
Inoltre c’è la questione dei veteres possessores. Abbiamo visto chi può essere stato considerato come tale dal legislatore del 111. Indipendentemente dal fatto che si tratti dei beneficiari delle commissioni di Tiberio Gracco, ovvero di altri, l’esistenza di questa categoria di titolari di terra dimostra l’impossibilità di applicare il regime dell’usucapione sulle res immobiles di cui parla Gaio in 2.42: Usucapio mobilium quidem rerum anno completur, fundi vero et aedium biennio; et ita lege XII tabularum cautum est sui possedimenti che furono oggetto delle riforme agrarie.
Questo dato trova conferma nella regola generale per cui l’ager publicus era escluso dall’applicabilità del regime di acquisto della proprietà immobiliare mediante usucapione e questo fatto si deduce da Front. 2. de contr. agr. (Lach. 55,1): neque ullo modo abalienari posse a re publica e D. 41.3.9 (Gai. 4 ad ed. prov.): Usucapionem recipiunt maxime res corporales, exceptis rebus sacris, sanctis, publicis populi Romani… Regola, a sua volta, che spiega la stessa testimonianza di Gaio sulle res extra patrimonium e, tra queste, sulle res publicae: Gai. 2.10: Hae autem quae humani iuris sunt, aut publicae sunt aut privatae. 11. Quae publicae sunt, nullius videntur in bonis esse; ipsius enim universitatis esse creduntur[273]. Sull’altro versante, gli agri dati, adsignati o ricevuti in sortes potevano anche essere negoziati, altrimenti non si spiegherebbe la norma sulla non alienabilità dei lotti posta da Tiberio Gracco di cui parla Appiano[274]. E abbiamo anche visto che al di là delle vendite in senso tecnico, cioè le locazioni censorie o questorie, nel testo della legge del 111 si riscontra frequentemente un uso del verbo emere coniugato in terza persona. Inoltre, a parte l’uso della parola manceps corroborato dalla spiegazione festina, c’è anche Gaio che attesta un uso specifico della mancipatio nelle alienazioni immobiliari.
Si potrebbe ritenere quindi che lo schema negoziale della mancipatio venisse applicato anche nella compravendita di cespiti immobiliari sia nella forma del modus che in quella del locus e questo fatto non era condizionato dalla natura giuridica del bene oggetto di trasferimento. Del resto, tanto per fare un solo esempio tra i tanti possibili, la coëmptio matrimonii causa veniva usata come strumento per la costituzione della manus maritalis e questo però non vuol dire che le donne venissero vendute o passassero nella proprietà del coëmptionator[275]. Tutto ciò mi pare che porti elementi di supporto all’idea che l’ager publicus populi Romani durante l’età repubblicana seguì un percorso autonomo ed anche che non è possibile chiarire la sua dimensione giuridica attraverso le norme sulla proprietà dell’età classica.
Passiamo adesso ad analizzare più da vicino la teoria della cd. privata possessio che è stata formulata dal Saumagne (ma ripresa e integrata da Leandro Zancan[276]) proprio sulla scorta delle indicazioni di questa prima parte della legge agraria del 111 (ritornerò su tale argomento occupandomi delle questioni relative al vectigal nel secondo capitolo, nella parte di commento alle linee 19-20)[277]. Essa in sostanza distingue, all’interno della categoria dei terreni che il legislatore del 111 dichiara privati, una categoria di ager privatus, puro e semplice, da un’altra categoria di ager privatus optimo iure[278]. Lo Zancan in aggiunta rileva che il legislatore del 111 alla linea 19 preciserebbe: ex lege plebeive scito exve hac lege[279].
Esisterebbero quindi due categorie di terreni.
Una prima, costituita da quei possedimenti che il legislatore del 111 si sarebbe soltanto limitato a confermare come privati, essendo stata tale qualificazione già precedentemente conferita ex lege plebeive scito[280]. Lo proverebbero la formula usata ex lege plebeivescito (non quindi ex hac lege) e il sintagma oportet oportebitve. Apparterrebbero a questa categoria di terreni anche i terreni relicti dei veteres possessores e quelli assegnati dai triumviri, così come nella proposta di legge di Rullo, e così come per i possedimenti e le assegnazioni sillane[281]. La seconda sarebbe costituita invece da quei possedimenti che la legge del 111 avrebbe trasformato in privati (linee 11-14: privatum est eritve), ossia probabilmente quelli assegnati dai triumviri ai viasii vicani e le occupazioni posteriori alla lex Sempronia non superiori ai trenta iugeri (trientabula)[282].
Non considerando i terreni viasii vicani perché, per quello che vedremo, è forse preferibile l’impostazione del Mommsen per cui i viasii vicani sarebbero rimasti ager publicus, rimarrebbe ad integrare la categoria degli agri privati ex hac lege solo quella dei trientabula.
A sostegno della teoria del Saumagne testè enunciata c’è anche la teoria del Rudorff a proposito dell’ager publicus privatusque costruita in base a Fest. sv. Possessiones (L. 277,4): Possessiones appellantur agri late patentes publici privatique, qui[a] non mancipatione, sed usu tenebantur, et ut quisque occupaverat, possidebat[283]. L’ager privatus vectigalisque sarebbe una tipologia di posedimento fondiario dalla qualificazione giuridica mista. Reso privato dall’autorità, ma assoggettato (o assoggettabile) al vectigal e che i privati non mancipatione sed usu tenebatur[284]. Di qui M. Kaser è giunto inoltre ad affermare che già Tiberio Gracco avrebbe dato questa categoria di terreni ai suoi nuovi assegnatari in possesso perpetuo[285].
Si comprende facilmente quindi come la questione già di per sé complessa, lo diventi ancor più considerando che in materia giochino almeno due pregiudizi molto condizionanti. Il primo è che l’ager privatus non possa essere soggetto a vectigal perché assimilato (secondo pregiudizio) al dominium ex iure Quiritium. Non stupisce allora se la dottrina (dal Mommsen in poi) si sia concentrata sulla questione del vectigal come se questo potesse valere come principale referente per qualificare guridicamente il possesso di terra in età tardo repubblicana. Vedremo più avanti che questa posizione potrà essere rivista.
In questa prospettiva va letta la formula agri publici privatique riportata da Festo e ripresa da Isidoro di Siviglia in etym. 15.13.3. È molto discusso se questa indichi due categorie di agri ovvero uno solo, ossia l’ager publicus occupato e posseduto dai privati[286]. È sempre il problema della difficoltà di considerare la categoria dell’ager privatus come categoria di possesso di un privato cittadino gravato da un peso, per effetto del pregiudizio di voler assimilare a tutti i costi l’ager privatus al dominium ex iure Quiritium.
Feliciano Serrao esclude che il sintagma publicus privatique si possa riferire a due categorie diverse di agri, ed esclude altresì errori di copisti incolti o ‘completomani’. Richiamandosi ad Isidoro, lascia piuttosto la questione insoluta ritenendo sufficiente il richiamo al frammento di Festo sui modi di acquisto della possessio dell’ager publicus derivante dalla loro occupatio in base alla possibilità o alla speranza di coltivarli[287].
Anche se Isidoro si fosse ispirato a Festo e non indipendentemente dal glossografo su fonti gromatiche [non vedo infatti come si possa dubitare di una stretta relazione tra le due fonti. In Festo leggiamo: (L. 277,4): Possessiones appellantur agri late patentes publici privatique, qui[a] non mancipatione, sed usu tenebantur, et ut quisque occupaverat, possidebat. In Isidoro: etym. 15.13.3: Possessiones sunt agri late patentes publici privatique, quos initio non mancipatione, sed quisque ut potuit occupavit atque possedit; unde et nuncupati], la sostanza del discorso non cambierebbe. Si deve pensare ad una fase della storia evolutiva delle figure di possesso fondiario in cui gli agri publici privatique erano tenuti usu sed non mancipatione. Erano cioè fuori dalle regole del ius civile che disciplinava la proprietà sulle res mobiles.
Prima della
legge del
Il problema però è reso ancora più complesso per lo stato lacunoso di questa fonte che non consente di sciogliere in modo definitivo alcuni punti nodali dell’intero discorso come il rapporto tra l’ager privatus e l’ager publicus e il rapporto tra il primo e il dominium ex iure Quiritium. Ma il quadro generale di riferimento è sufficientemente chiaro. Le regole relative alla posizione del possessore; ad una tutela interdittale concessa a chi possedesse nec vi, nec clam, nec precario (linea 18); l’uso di uti, frui, habere, possidere (linee 32, 40, 41, 42, 81, 91); espressioni tipo ager privatus (linee 4, 8, 12, 14, 19, 23, 27, 63, 80) e ager privatus vectigalisque (linee 49, 66); il riferimento alle operazioni di vendita solo nella forma della vendita censoria (linee 63, 74, 85, 87, 89); la considerazione della posizione dei veteres possessores che evidentemente non avevano usucapito i loro fondi (linee 2, 13, 16, 17, 21); sono tutti elementi che fanno pensare al regime fondiario della lex del 111 come ad un regime di ‘possesso’, e non di ‘proprietà’ nelle forme del dominium ex iure Quiritium.
In questa chiave, la formula agri publici privatique, riportata da Festo alla voce possessiones (L. 277,4) e ripresa da Isidoro di Siviglia in etym. 15.13.3 a cui si accennava sopra, forse non è il dato di riferimento migliore per comprendere il regime giuridico della legge del 111. Condivido su questo punto la ricostruzione del Falcone che collega tale fonte alla tradizione gromatica e la riferisce all’antico criterio occupatorio[288]. Bisognerà invece concentrare l’attenzione specialmente sull’altra glossa festina cui si faceva riferimento prima, il frammento del giurista-grammatico Elio Gallo, perché a mio avviso è intorno a questa testimonianza che ruota tutto il problema della natura giuridica della possessio dei terreni della res publica all’epoca della legge che stiamo studiando.
Prima di passare ad esaminare più in dettaglio il problema della natura della possessio contemplata dal legislatore del 111, dobbiamo però riconoscere sulla natura dell’ager privatus una prima evidenza che viene dettata immediatamente dalle fonti. In ogni caso, non è possibile parlare di ager privatus in mancanza di una fonte normativa (occupatio, legge o plebiscito, atto negoziale privato o di organo della res publica) che qualifichi qualsiasi porzione di terreno come tale, da quando questo fu possibile (publicatio + adsignatio a qualsiasi titolo)[289].
Con la legge
agraria del
Sull’ager privatus optima lege e l’ager privatus vectigalisque ritornerò più avanti. È tuttavia in questo quadro che si colloca la famosissima definizione festina di possessio (L. 260,28 ss.) già incontrata prima da cui si evince con chiarezza che giuristi come Elio Gallo qualificarono la posizione del titolare del bene immobile in termini non ‘materiali’. Riferendo cioè il titolo giuridico della possessio all’uso del bene, ma non al bene stesso. Ritorniamo su questa fonte valutando in questo caso anche aspetti relativi alla migliore ricostruzione letterale del testo[290]:
Fest. sv. Possessio (L. 260,28):
Possessio est, ut definit Gallus Aelius, usus quidam agri, aut aedifici, non
ipse fundus aut ager[291].
Non enim possessio est áin iisñ[292] rebus quae tangi possunt ánequeñ[293] qui dicit se possidere, áis suam remñ[294] potest dicere. Itaque in legitimis actionibus nemo ex
áex his quiñ[295] possessionem suam vocare audet, sed ad interdictum
venit, ut praetor his verbis utatur: “Uti nunc possidetis eum fundum quo
de agitur, quod nec vi nec clam nec precario alter ab altero possidetis, ita
possideatis, avdersus ea vim fieri veto”.
Come si vede, secondo Elio Gallo si possederebbe il diritto, e non il bene (Possessio est, ut definit Gallus Aelius, usus quidam agri, aut aedifici, non ipse fundus aut ager. Non enim possessio est in iis rebus quae tangi possunt neque qui dicit se possidere, his vere is suam rem potest dicere). È un discorso analogo a quanto detto sopra sul rapporto tra modus agri e possessio loci[296].
Si deve a Giuseppe Falcone se questo notissimo lemma è stato sottoposto di nuovo ad un attento vaglio critico[297]. Secondo lo studioso palermitano la definizione eliana si discosterebbe da un modo improprio (‘traslato’) di qualificare la possessio, in voga alla fine del secondo/inizio primo secolo a.C.[298], consistente in una concezione ‘materialistica’ della possessio immobiliare per cui il possidere si identificava non più soltanto con l’uso (uti frui), ma con il bene stesso: habere possidere del fundus o dell’ager (nell’ottica della legge agraria nell’habere possidere dell’ager locus o aedificium)[299].
A questo punto mi chiedo perché il giurista dell’ultimo secolo della repubblica avrebbe dovuto rivendicare: “il corretto significato giuridico del vocabolo contro un uso improprio generalizzato?”[300]. Un uso che, a parte il dettato della legge agraria, addirittura riscontriamo solidamente attestato nella tradizione giuridica (e non isolatamente, ma lungo tutto l’arco dell’esperienza giuridica romana), come dimostrano i riferimenti puntuali, per altro, dello stesso Falcone agli excerpta di Giavoleno Prisco in D. 50.16.115 (Iav. 4 epist.) e di Paolo in D. 41.2.1 pr. (Paul. 54 ad ed.) che a sua volta cita Labeone e Nerva. Senza contare i giustinianei che, come dimostra la presenza stessa di questi brani nel Digesto, hanno voluto conservare la testimonianza di questa tradizione.
Rileggiamo allora questi indagatissimi frammenti:
D. 50.16.115 (Iav. 4 epist.):
Quaestio est, fundus a possessione vel agro vel praedio quid distet.
‘fundus’ est omne, quidquid solo tenetur. ‘ager’ est,
si species fundi ad usum hominis comparatur. ‘possessio’ ab agro
iuris proprietate distat; quidquid enim adprehendimus, cuius proprietas ad nos
non pertinet aut nec potest pertinere, hoc possessionem appellamus: possessio
ergo usus, ager proprietas loci est. ‘praedium’ utriusque supra scriptae
generale nomen est: nam et ager et possessio huius appellationis species sunt.
Su questo testo di Giavoleno la critica è divisa tra coloro che, ritenendo il frammento sostanzialmente genuino, vi colgono un nesso con la definizione di Elio Gallo (nel senso che il giurista di età flavia avrebbe con la frase ‘possessio ergo usus, ager proprietas loci est inteso rifarsi proprio alla definizione del giurista repubblicano); e coloro che invece, valutando questo passo corrotto[301], pensano che in ogni caso Giavoleno si sia distaccato dalla definizione di Elio Gallo, e comunque che questi sia portatore di una nozione ‘materiale’ di possessio[302].
D. 41.2.1 pr. (Paul. 54 ad
ed.): Possessio appellata est, ut et Labeo ait, a sedibus quasi positio,
quia naturaliter tenetur ab eo qui ei insistit, quam Graeci katok®n dicunt. Dominiumque rerum ex naturali possessione
coepisse Nerva filius ait eiusque rei vestigium remanere in his, quae terra
mari caeloque capiuntur: nam haec protinus eorum fiunt, qui primi possessionem
eorum adprehenderint.
Questo secondo passo, in cui i giuristi chiamati in causa vertono sul dominium e la possessio in rapporto al concetto di proprietà, è stato finemente interpretato rilevando che Paolo e Labeone, discutendo evidentemente della nuova rappresentazione della possessio come strutturalmente costituita da corpus e animus, nella prima parte (evidentemente di introduzione storica), abbiano in realtà fatto riferimento all’antica concezione della possessio, proprio per contrapporla a quella più moderna che si andava affermando al tempo del principato[303]. Ho voluto riportare di nuovo questa testimonianza perché in qualche modo il suo contenuto è legato all’idea di una concezione ‘materiale’, o ‘traslata’ (o ‘reale’) della possessio repubblicana. Ebbene, di fronte a testimonianze autorevoli come queste (della legge del 111 ci occuperemo subito), ma soprattutto in mancanza di altre ulteriori attestazioni di segno diverso, sarei più cauto nel definire il modo di qualificare le possessiones in senso non conforme a quello di Elio Gallo come ‘improprio’, ‘traslato’ o ‘atecnico’[304].
Leggendo in modo non pregiudiziale le parti della legge agraria in cui si distingue chiaramente il termine possessio si ricava infatti un’impressione diversa.
I frammenti sono: l. 10: agrum locum aedificium posse[sio]nem ex lege plebeive scito esse oport[et; 16: ve]tere possesionem dedit adsignavit reddidit; 18: ex possesione vi eiectus est, quod eius is quei eiectus est possederit, quod neque vi neque clam neque precario possederit ab eo, quei eum ea possesione vi eiec[erit; 21: agrum loc]um publicum populi Romanei de sua possesione vetus possesor prove vetere possesor[e dedit, 92: quem agrum possesionemve quoiusve agri possesionisve superficium q(uaestor) pr(aetor)ve pu[blice vendiderit…o]b eum agrum locum possesione[m agrive superfic]ium scripturam pecoris, 93: is ager ex s(enatus) c(onsulto) datus adsignatus est, ei agrei, quei s(upra) s(criptei) s(unt), possesionesque, ea omnia eorum h[ominum…dum magistratus quo de] ea re in ious aditum erit.
Vediamo
più da vicino. Si è detto che nella legge del 111 si rileverebbe
un impiego del termine possessio in senso ‘materiale’ e che
Elio Gallo avrebbe tratto spunto per la sua precisazione anche da questo
dettato legislativo. Sin qui la documentatissima e convincente disamina di
Giusepe Falcone fornisce elementi utili per convincersi che Elio Gallo abbia
scritto la sua opera forse proprio intorno al
Escluderei anzitutto qualsiasi atteggiamento generalizzante e vedrei caso per caso. Il riferimento, ad esempio, della linea 16 al trinomio dare adsignare reddere in relazione ad ‘ager’, ‘locum’, ‘aedificium’ è stato giudicato in effetti espressione di un significato ‘materiale’[305]. In questo caso si tratta però di vecchi possessi (vetere possessionem) che si sono consolidati nel tempo e dunque di situazioni in ogni caso atipiche di possesso. Lo stesso si deve dire della linea 21.
Quanto alla possessio della linea 9, che Max Kaser ha definito apertis verbis come ‘proprietà privata’, qui siamo in tema di ager privatus, fatto tale da questa legge, con riferimento ai terreni assegnati con le leggi graccane[306]. Lo stesso si può dire della possessio della linea 10 (che ha titolo nella legge o in un plebiscito) e delle possessiones di agri scriptuarii della linea 92.
Sull’interpretazione di tali fattispecie concordo con Giuseppe Falcone. Siamo effettivamente di fronte a delle forme atipiche di possesso, dove il confine con l’idea della proprietà è molto sottile. La stessa formula lessicale uti frui habere possidere riassume le varie posizioni giuridiche in cui potevano venirsi a trovare i titolari di ager ai sensi di questa legge[307].
Ma il
problema riguarda la questione stessa della natura dell’ager privatus
che è il nostro tema probandi. Se volessimo ragionare ex post
potremmo dire con Gaio (2.40) che questa forma di possessio materiale
fosse l’unica forma di dominium ex iure Quiritium conosciuta
presso i Romani (apud peregrinos quidem unum esse dominium ita ut <aut> dominus
quisque sit, aut dominus non intellegatur) prima della
‘divisione’ nel ‘doppio dominio’. Uno storico del
diritto dovrebbe tuttavia ragionare ex ante, e allora non resta che
pensare all’attestazione di una forma di appartenenza come l’habere
già per il
Tanto è vero che, nel caso della linea 18, dove c’è l’interdictum unde vi: sei quis eorum, quorum age]r s(upra) s(criptus) est, ex possesione vi eiectus est, quod eius is quei eiectus est possederit, quod neque vi neque clam neque precario possederit ab eo, quei eum ea possesione vi eiec[erit; e in quello della linea 93 dove, insieme all’ager datus adsignatus ex s(enatus) c(onsulto), agli agri quei s(upra) s(criptei) s(unt), il legislatore contempla delle figure di possessio in senso lato (si tratta della regolamentazione di ipotesi concernenti una chiamata in causa davanti al magistrato: de]ea re in ious aditum erit. Mi pare evidente che in tutti questi casi si possa parlare di possessio nel senso più proprio del termine. Questa considerazione a mio avviso dovrebbe far cadere definitivamente il ragionamento per cui il tenore del testo legislativo che stiamo commentando sarebbe relativo esclusivamente ad una nozione di possessio in senso ‘materiale’[309].
La definizione di Elio Gallo potrebbe allora essere spiegata come una testimonianza ulteriore del processo di riflessione e di ripensamento del diritto (e quindi dei termini giuridici), che fu una tendenza tipica dei giuristi dell’età ciceroniana[310]. Talvolta questi studiosi intervenivano anche in senso critico nei confronti di scelte normative che avrebbero potuto apparire discutibili sul piano dell’ortodossia giuridica (in questo Falcone non ha torto, la causa Curiana e le polemiche che questa suscitò dimostrano che in quegli anni la disputa scientifica era molto accesa). Del resto, Elio Gallo (se proprio non vogliamo considerarlo un giurista) non fu l’unico esperto di grammatica che discusse anche di diritto e che tentò di applicare alla metodologia giuridica anche le nuove correnti interpretative provenienti dalla Grecia. Mi pare che dei pochi frammenti superstiti di questo autore non si possa negare un suo impegno anche nell’analisi dei vocaboli e un’attenzione anche ad un approccio etimologico nello studio del diritto[311].
Forse la definizione di Elio Gallo rappresenta effettivamente la fine di un’epoca nel senso che dimostra che i giuristi Romani avevano cominciato a distinguere tra il fatto di possedere e il diritto di possedere. La qual cosa effettivamente è un presupposto per riconoscere la differenza tra possesso e proprietà[312].
Non è possibile affrontare in questa sede un problema di così ampia portata, tuttavia ritengo che l’interpretazione più fedele al dettato normativo della legge agraria sia quella che riconosce in tale legge una considerazione ‘tecnica’ (si pensi anche al modus agri delle assegnazioni coloniarie) della figura giuridica della ‘possessio’ ed insieme una decisa tendenza a spingere questa posizione verso una connotazione più ‘reale’ o ‘materiale’ di tale rapporto. Anzi, direi di più (e lo vedremo poco più avanti) per questa contaminazione, forse consistente in una (ri)lettura in senso materiale (patrimonialistico) della possessio dell’ager publicus, potrebbe aver influito un pensiero consapevole e proveniente da una delle scuole giuridiche più attive (quella dei Mucii Scaevola?) durante l’epoca di passaggio tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. Esperti del ius praediatorum dell’epoca immediatamente post graccana potrebbero aver sentito infatti la necessità di adottare questa figura di possessio che effettivamente non sembra conforme alla più alta tradizione giuridica romana, dando così una risposta concreta anche alla soluzione di un grave problema politico.
Si potrebbe allora ribaltare il modo di affrontare la questione. Piuttosto che riconoscere nel legislatore del 111; in Cicerone in più occasioni; e poi, in seguito, in Giavoleno Prisco e nel giurista Paolo (che a sua volta riprende Labeone) un modo impreciso di interpretare la figura della possessio dei beni immobili, considerando come corretto solo il modo di Elio Gallo, si potrebbe pensare che tutte queste fonti siano invece l’attestazione di una fase molto particolare della storia di tale istituto e della storia dell’intero sistema di gestione del patrimonio fondiario della res publica.
L’idea del Serrao di qualificare la fattispecie di possessio prevista dal legislatore del 111 come una forma di possesso tout court, abbiamo visto che non si giustifica appieno di fronte ad un più analitico esame del dettato normativo e lo stesso Falcone, commentando il frammento di Paolo, non esclude che questi avrebbe potuto riferirsi ad un’epoca in cui la possessio non era ancora separata dalla proprietà che è la condizione tipica, si potrebbe dire, ancora vigente nel sistema giuridico dell’età della legge agraria[313].
Rileggiamo allora alcuni noti frammenti dell’opera ciceroniana per verificare se è possibile stabilire una continuità anche tra la nozione di possessio contemplata nella legge del 111 e l’uso di tale termine nel lessico di Cicerone. Se così fosse, l’ipotesi di considerare il disposto normativo della legge agraria come espressione di un deliberato e cosciente modo di qualificare le forme di appartenenza fondiaria dell’epoca ne risulterebbe rafforzata.
Per questa breve ricognizione possiamo prendere le mosse dal de lege agraria in cui il tema del possesso/proprietà fondiaria è ovviamente particolarmente trattato[314]:
Cic. de
lege agr. 3.2.7: Quid ergo ait Marianus tribunus plebis, qui non Sullanos
in invidiam rapit? “QUI
POST MARIUM ET CARBONEM CONSULES AGRI, AEDIFICIA, LACUS, STAGNA, LOCA,
POSSESSIONES” – caelum et mare praetermisit, cetera complexus est –
“PUBLICE DATA,
ASSIGNATA, VENDITA, CONCESSA SUNT (a quo, Rulle? post Marium et Carbonem consules quis
adsignavit, quis dedit, quis concessit praeter Sullam? –, “EA OMNIA EO IURE SINT” (quo iure? labefactat
videlicet nescio quid. Nimium acer, nimium vehemens tribunus plebis Sullana rescindit),
“UT QUAE OPTIMO IURE
PRIVATA SUNT”. Etiamne meliore quam paterna et avita? Meliore. [8] At hoc Valeria lex non dicit, Corneliae
leges non saciunt, Sulla ipse non postulat. Si isti agri parte aliquam iuris,
aliquam similitudinem propriae possessionis, aliquam spem diuturnitas
attingunt, nemo est tam impudens istorum, quin agi secum praeclare arbitretur. Tu vero, Rulle, quid
quaeris? Quod habent, ut habeant? Quis vetat? Ut privatum sit? Sed ita latum
est. Ut meliore iure tui soceri fundus Hirpinus sit sive ager Hirpinus –
torum enim possidet – quam meus paternus avitusque fundus Arpinas? Id enim caves?
Come si vede,
in questa testimonianza si rileva un uso della dicotomia ager privatus/ager
privatus optimo iure basato sull’imposizione o meno di pesi da parte
dello ‘Stato’. Qui si legge che la categoria dei beni paterna et
avita era delle più tutelate (Etiamne meliore quam paterna et
avita? Meliore). La dimensione giuridica resta però, come nella
legge del
Ma proseguiamo nella lettura.
Al paragrafo 9, troviamo ancora un’interessante serie di considerazioni sulla natura giuridica delle varie categorie di praedia contemplate nel progetto di legge di Rullo[316]. Anzi, in questo caso l’Arpinate assume addirittura un tono isagogico: Cic. de lege agr. 3.2.9: Optimo enim iure ea sunt profecto praedia, quae optima condicione sunt. Libera meliore iure sunt quam serva; capite hoc omnia, quae serviebant, non servient. Soluta meliore in causa sunt quam obligata; eodem capita subsignata omnia, si modo Sullana sunt, liberantur. Immunia commodiore condicione sunt quam illa, quae pensitant; ego Tusculanis pro aqua Crabra vectigal pendam, quia mancipio fundum accepi; si a Sulla mihi datus esset, Rulli lege non penderem.
In questa circostanza Cicerone sta commentando una clausola della rogatio di Rullo in base alla quale tutti i terreni gravati da ipoteca rientranti nella manovra agraria di Silla sarebbero stati liberati (eodem capita subsignata omnia, si modo Sullana sunt, liberantur). Appare chiaro però che i praedia optimo iure fossero i terreni non gravati da alcun peso (Optimo enim iure ea sunt profecto praedia, quae optima condicione sunt) e che tra i pesi rilevanti vi fosse anche la sottoposizione a vectigal (ego Tusculanis pro aqua Crabra vectigal pendam, quia mancipio fundum accepi; si a Sulla mihi datus esset, Rulli lege non penderem).
Il fatto che
Cicerone stia parlando dei terreni confiscati da Silla è importante
perché poco più avanti lo stesso prenderà chiaramente
posizione ancora sulla natura giuridica di questi possedimenti[317].
Da un lato, vi sono i terreni quae sunt data, donata, concessa, vendita;
dall’altro, quelli solamente posseduti (possessa). Il riferimento
è quindi alla legittimazione di situazioni di mero possesso che furono
conseguenza della publicatio sillana. Anche in questo caso l’ager
privatus appare qualificato però come un terreno posseduto con
titolo legittimo (dato, donato, concesso, venduto), e non come una piena
proprietà. Di questi terreni, Cicerone accusa Rullo di voler fare dei
possessi legittimi (His cavet, hos defendit, hos privatos facit). Il
promotore di questa legge tanto avversata avrebbe voluto garantire quindi il
possesso di coloro che occupavano possessi illegittimi soltanto in virtù
del potere conferitogli dal consenso popolare (hos, inquam, agros, quos
Sulla nemini dedit Rullus non vobis adsignare vult, sed eis condonare, qui
possident) anche a costo di agire in difformità rispetto alla norma,
e quindi violando le regole vigenti in materia di possesso fondiario. La fonte
che stiamo citando è del
Vediamo adesso un frammento della pro Flacco (31.79-80) dove troviamo descritta ancora la situazione giuridica di titolari di possedimenti fondiari. Il contesto del discorso è naturalmente ancora fazioso, ma il linguaggio del retore è sempre quello di un conoscitore profondo del lessico giuridico:
Cic. pro Flacc. 31.79: At haec
praedia etiam in censu dedicavisti. Mitto quod aliena, mitto quod possessa per
vim, mitto quod convicta ab Apollonidensibus, mitto quod a Pergamenis
repudiata, mitto etiam quod a nostris magistratibus in integrum restituta,
mitto quod nullo iure neque re neque possessione tua; [80] illud quaero, sine
ista praedia censui censendo, habeant ius civile, sint necne sint mancipi,
subsignari apud aerarium aut apud censorem possint. In qua tribu denique ista
praedia censuisti? Commisisti, si tempus aliquod gravius accidisset, ut ex
isdem praediis et Apollonide et Romae imperatum esset tributum. Verum esto,
gloriosus fuisti, voluisti magnum agri modum censeri, et eius agri qui dividi
plebi Romanae non potest.
La
testimonianza si riferisce come è noto alla difesa che Cicerone assunse
nell’ottobre del
La differenza rispetto alla lezione di Elio Gallo in Festo (L. 260,28) questa volta però è rimarchevole. Nella definizione lessicografica il possessore detiene un ‘diritto all’uso’ (uti frui) di un bene concreto (usus quidam agri aut aedifici); ma non è titolare del diritto (habere possidere) sul bene concreto (non ipse fundus aut ager). Nei casi della pro Flacco, contrapposta alla titolarità giuridica qualificata come ‘possessione’, c’è invece ‘re’ (nel de lege agraria avevamo letto di un fondo in agro Tuscolano ripetto al quale Cicerone aveva usato le parole quia mancipio fundum accepi)[319].
La maggiore
caratterizzazione di questa qualificazione giuridica del possesso di terra che si
riscontra nella testimonianza appena esaminata si spiega probabilmente
perché l’actio Publiciana all’epoca della pro
Flacco era già stata introdotta[320].
Era quindi stata già riconosciuta quella che Gaio più tardi
definirà come una ‘forma di proprietà’ (in bonis
habere pretorio) contrapposta al dominium ex iure Quiritium (Gaio in
1.54 e 2.40), ed era, se questo è vero, anche possibile esperire
un’actio ficticia in alternativa alla rei vindicatio[321]. Sarebbe stato possibile quindi ottenere
una tutela reale rispetto alla titolarità di un bene immobile anche
fuori dai casi dell’azionabilità dell’interdetto uti
possidetis (naturalmente accogliendo la tesi accolta in storiografia che
colloca l’introduzione dell’actio Publiciana nel
Pur riservandomi di tornare con maggiore approfondimento su questo argomento in altra sede, le conseguenze che si traggono dalla lettura della legge agraria insieme ai noti passi di Cicerone appena esaminati suggeriscono una serie di riflessioni che non è possibile evitare[323].
Anzitutto, per valutare la questione nella sua più esatta cornice storica è preferibile non adottare lo schema tradizionale proposto da storiografia anche autorevole sulla ripartizione della proprietà in quattro tipologie specifiche (proprietà ex iure Quiritium, proprietà pretoria, proprietà provinciale, proprietà peregrina)[324]. Ha certamente senso invece seguire la prospettiva di Gaio (2.40) e distinguere tra una fase in cui la proprietà (dominium) era una sola come presso gli stranieri [apud peregrinos quidem unum esse dominium (…). Quo iure etiam populus Romanus olim utebatur] e quando invece questa sarà frazionata in due posizioni giuridiche distinte (il cd. duplex dominium)[325].
Sarebbe
giusto però chiedersi quanto senso storico abbia una ricostruzione che
non tenga conto del fatto che prima dell’introduzione dell’actio
Publiciana (e della possibilità di esperire l’exceptio
rei venditae et traditae) non è possibile pensare ad
un’effettiva frantumazione di tale posizione giuridica nel senso
prospettato da Gaio[326].
Il testo della legge agraria che stiamo studiando dimostra infatti che la
categoria del dominium ex iure Quiritium era estranea al sistema
giuridico (e forse anche al modo stesso di pensare) del legislatore del
È sul
piano processuale, che si rileva il vero tratto differenziale (rispetto alla
concezione che vede l’uti frui habere possidere del legislatore
del 111 come forma di proprietà) di tale istituto. L’ager
privatus, nella legge che stiamo studiando, è una situazione
giuridica ancora sprovvista di adeguata tutela. La previsione della linea 18,
infatti, dimostra che l’actio Publiciana non era stata ancora
introdotta durante il primo secolo a.C. o, quanto meno, che la nostra legge
(che è stata definita forse non a torto come una lex de magistratibus[328])
non contemplasse questa possibilità[329].
Tanto è vero che alle linee 33-39 il legislatore sembra aver predisposto
la possibilità che in caso di controversia sulla titolarità
dell’ager si dovessero adire delle magistrature superiori. Andrew
Lintott fa risalire l’introduzione di tale regola giuridica alla ribellione
di Scipione Emiliano del
C’è tuttavia un’altra considerazione da fare. Poiché la natura giuridica e sostanziale della figura dell’ager privatus in età repubblicana è quella della possessio (lo dimostra la legge agraria: uti frui habere possidere) e sappiamo che in origine questa riguardava soltanto i beni immobili, mi pare altresì corretto, come ha fatto del resto per prima Francesca Bozza, impostare la questione delle origini di tale istituto nel diritto romano nell’ambito della possessio dell’ager publicus. In altre parole, valutare la comparsa della figura del dominium ex iure Quiritium sui beni immobili, bisogna ragionare in termini di passaggio dalla possessio dell’ager publicus al dominium quiritario[331].
Si può dire allora che la storia della proprietà immobiliare in diritto romano repubblicano (a parte l’heredium) cominci con la storia della nozione di ager publicus che non aveva alcuna rilevanza per il diritto augurale (che pure era stato redatto da augures publici): Varro l.L. 5.5.33: Ut nostri augures publici disserunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus; né compare nel famoso elenco di Frontino che usa anche il giovane Weber per cominciare il suo trattato di storia agraria romana: Front. de agr. qual. (Lach. 1,1-5=Thul. 1): Agrorum qualitates sunt tres; una agri divisi et adsignati, altera mensura per extremitatem conprehensi, tertia arcifinii qui nulla mensura continetur. È un dato di fatto confermato dalle fonti che, fino all’epoca di Catone Censore, l’agro conquistato iure belli entrasse a far parte ancora, solo, ed esclusivamente dell’ager Romanus[332].
All’inizio del secondo secolo a.C. si rileva invece una svolta significativa perché il latino pop(u)lus sembra aver cominciato ad assumere il significato di ‘appartenente alla comunità’ in un valore semantico opposto a privatus (non più quindi populus=‘esercito’[333]) come chiaramente si legge, fra l’altro, anche in una frase del SC de bacchanalibus: FIRA. 1.241,15: neve in poplicod neve in/preiuatod neue exstrad urbem sacra quisquam fecise velet.
Questo fatto è indice di un cambiamento epocale ed è in questo quadro che collocherei (dies post quem) l’emersione della categoria di dominium ex iure Quiritium nella dottrina di alcuni giuristi romani dell’età cesariana. Sempre che abbia ragione la dottrina prevalente nel ritenere che l’espressione dominium loci di Alfeno Varo in D. 8.3.30 sia genuina[334].
L’affermazione tarda del dominium ex iure Quiritium potrebbe rappresentare allora l’esito finale di un lungo processo su cui potrebbe aver influito prima l’ingresso dei fundi nella categoria delle res mancipi[335], poi l’estensione della regola dell’usucapibilità biennale del fundus[336] alle aedes in età piuttosto tarda (ne riferisce ovviamente Cicerone in top. 4.23 e in pro Caec. 19.54)[337].
L’ultima fase di questa evoluzione potrebbe essere stata, infine, l’affermazione della traditio sulla mancipatio, quale strumento per alienare (e come modo di acquisto per) i beni immobili, che innestò un processo di trasformazione il cui esito sarà segnato, come sappaiamo, dalla comparsa dell’actio Publiciana in età cesariana (68/67 a.C.) e che risolverà, come abbiamo già detto, anche il problema di riconoscere adeguata tutela processuale all’habere possidere dei beni immobili[338].
Ma allora in questo quadro come si possono collocare la figura del dominium ex iure Quiritium e il problema della sua emersione nell’ordinamento giuridico romano?
Per un’innovazione così radicale nel pensiero giuridico, come quella che porterà i giuristi romani ad accettare la duplicazione delle figure di dominium (Gai. 1.54: duplex sit dominium) che come abbiamo sinteticamente visto si era ormai consolidata nei fatti e nella prassi giudiziaria, dobbiamo pensare a qualcosa di molto profondo e significativo[339]. Bisogna forse cercare tracce di qualcosa che può aver influito persino nella trasformazione di una coscienza giuridica[340].
In questa direzione un ruolo non secondario potrebbe essere stato svolto dalla dottrina politica di Panezio di Rodi, l’esponente di maggiore prestigio del pensiero filosofico della media stoa, all’epoca dell’Africano Minore[341]. Un fatto possibile perché si inserisce in un quadro molto più ampio di feconda trasformazione del pensiero giuridico romano per effetto dell’assimilazione della metodologia filosofica delle scuole ellenistiche nelle scuole di diritto a Roma (che trasformarono la riflessione dei giuristi da pratica forense ad ars iuris civilis)[342].
Possiamo
rilevare infatti un legame strettissimo tra il pensiero di tale filosofo, la
riflessione giuridica di Cicerone e la concezione della proprietà privata
degli immobili nel diritto romano. Nel suo ultimo anno di vita
(quindi per l’ultima volta) Cicerone affronta, infatti, di nuovo il tema
della proprietà fondiaria. Questa volta il taglio non è
più quello che abbiamo riscontrato in altre occasioni (come appunto nel de
lege agraria del
Nel 45/44 a.C. il retore/filosofo si occupa nel primo libro del de officiis proprio del concetto di proprietà privata. Il dato interessante è che il frammento che ci interessa potrebbe essere stato tratto direttamente dall’opera maggiore di Panezio di Rodi, Sul dovere morale (PerÜ toè kay®kontow), andata perduta[345]:
Cic. de off. 1.7.21: Sunt autem privata
nulla natura, sed aut vetere occupatione, ut qui quondam in vacua venerunt, aut
victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex
quo fit, ut ager Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum;
similisque est privatarum possessionum discriptio. Ex quo, quia suum cuiusque fit
eorum, quae natura fuerant communia, quod cuique obtigit, id quisque teneat; e
quo si quis sibi appetet, violabit ius humanae societatis.
La cosa che
colpisce di più è che il catalogo (e il linguaggio usato per la
descrizione) delle posizioni di appartenenza fondiaria
descritto in questo passo
non si discosta molto, anzi sembra corrispondere ancora (ed esattamente),
all’assetto normativo della legge del
Come si vede,
ancora nel
La differenza rilevante tuttavia è che Cicerone, anche quando parla di possessio, si riferisce a qualcosa che è parte del patrimonio personale del suo titolare ed esprime questo concetto alludendo chiaramente alla sua consistenza patrimoniale[348]. Insomma, come abbiamo visto anche prima, ad una forma di possessio che è ‘materiale’ e non più meramente ‘astratta’ come nella concezione di Elio Gallo in Fest. (L. 260,28)[349].
La cosa si può spiegare se si pensa che i giuristi romani, per arrivare ad una concezione astratta del concetto di dominium, dovettero maturare prima un’idea patrimonialistica del meum esse (che sappiamo nascere come prerogativa dal carattere eminentemente potestativo)[350]. Quest’ultimo, considerato non più espressione di una potestas indifferenziata, ma di un valore patrimoniale. Ritengo che questo sia un passaggio fondamentale per comprendere in termini esatti l’importanza della trasformazione che determinerà nel mondo giuridico romano l’affermazione del dominium ex iure Quiritium (dopo la frantumazione del concetto unitario di proprietà)[351].
Si tratta, per altro, di una caratterizzazione che potrebbe essere ascritta proprio all’elaborazione concettuale della scuola muciana[352].
Tanto è vero che, proprio un contemporaneo di Cicerone, Q. Mucio il pontefice massimo, si distinguerà per essere stato uno dei maggiori promotori di tale concezione in fase di rinnovamento del ius civile più antico. Mi riferisco ovviamente alla celeberrima versione del frammento decemvirale della Tab. 5.4 (uti legassit suae rei) che in questo discorso assume naturalmente un rilievo paradigmatico[353].
La
realtà descritta dal legislatore del 111 e da Cicerone, ma che, come
abbiamo visto, ritroviamo inequivocabilmente anche nei discorsi di
ricostruzione storico antiquaria della letteratura giuridica successiva
può quindi non essere vista semplicemente come espressione di una
degenerazione, ma probabilmente essa fu effetto di una sofisticatissima
elaborazione del pensiero giuridico dell’età graccana. La
conseguenza di una profonda riflessione in funzione di un nuovo che si stava
determinando[354].
Fa riflettere molto la notizia di Plutarco per cui P. Mucio fu uno dei
consulenti giuridici di Tiberio Gracco per la prima lex Sempronia: Plut.
T. Gracc. 9.1: “Comunque egli (n.d.r., Tiberio Gracco) non
preparò da solo la legge, ma si avvalse dei consigli dei cittadini
più eminenti per virtù e considerazione, fra i quali erano il
pontefice massimo Crasso [n.d.r., Licinio Crasso Muciano (console nel
Torniamo allora alla nozione di proprietà. Il pensiero [in ordine al problema dell’emersione del concetto di proprietà fondiaria (nel senso di dominium ex iure Quiritium) affiancata all’in bonis habere pretorio (come forma di appartenenza dell’ager publicus in senso patrimoniale)] va subito, ovviamente, all’espressione dominium riferita al fondo di terra come cespite immobiliare forse presente in un passo di Alfeno Varo [D. 8.3.30 (Paul. 4 epit. Alfeni dig.)][358].
Nella ricostruzione di Lenel questo notissimo passo è collocato al n. 61 e si tratta del caso più tipico di esposizione di un responsum, giustificato da una necessità pratica[359]. Ebbene, in questo frammento, la doppia locuzione dominium loci, sul presupposto condiviso dalla storiografia prevalente della genuinità del termine dominium[360], è stata giustamente vista come un hapax legomenon, dato che non abbiamo testimonianze di altri giuristi coevi o anteriori in cui si ritrovi un’espressione analoga[361].
La
supposizione è rafforzata (insieme ad altre considerazioni di carattere
più generale) dal fatto che il legislatore del
Ed allora, se crediamo che Cicerone abbia utilizzato in Cic. de off. 1.7.21 del materiale paneziano, e non vedo come si possano superare, fra l’altro, le testimonianze di Gellio (13.28.1-4) e Plinio (praef. 22)[363], dobbiamo riconoscere che attraverso Cicerone è possibile stabilire un legame molto stretto anche tra la nozione di proprietà privata (come dominium immobiliare), la cultura stoica (della corrente più conservatrice), e il diritto romano dell’epoca scipionico/cesariana[364]. La cosa non sorprende se si pensa alla cd. ‘svolta ellenistica’ di giuristi come Ofilio, Trebazio e Aquilio Gallo, o allo stoicismo di Catone Uticense[365]. Del resto, risale a questo periodo anche lo sforzo dei giuristi di collegare l’actio aquae pluviae arcendae con l’actio negatoria[366].
Sulle modalità specifiche di tale passaggio e sul rapporto tra cultura giuridica romana e cultura filosofica ellenistica devo rinviare ad altra sede[367].
Il dato interessante, su cui credo valga la pena di fermarsi a riflettere, è che l’essenza dogmatica delle nozioni di res publica e di sovranità popolare che abbiamo visto enunciare da Cicerone, paiono basarsi sullo stesso principio dell’utilità che abbiamo anche visto poco sopra essere il fondamento teorico su cui i giuristi romani costruirono la base dogmatica della dicotomia publicus/privatus[368]. La stessa formula dell’actio Publiciana prevede, non a caso, la considerazione della bona fides: si quis id quod bona fide emit nondum usucaptum petet iudicium dabo[369]. Si può allora stabilire un legame diretto tra il tema dell’origine della proprietà e quello del fondamento dogmatico della nozione di dominium ex iure Quiritium ed affermare che entrambi abbiano tratto origine da uno dei filoni di costruzione concettuale filosofica che furono attivi nel circolo scipionico. Se poi una considerazione in chiave oggettiva (dominium) di tale istituto sia da ascrivere già al pensiero della scuola serviana ovvero, piuttosto, ad epoca più tarda, è questo un problema che esula dal tema di questa ricerca.
È arrivato il momento di concludere. Se il paradigma di riferimento per il legislatore del 111 fu la res publica con la gestione dei territori conquistati e di quelli regolamentati dalle riforme graccane, non dovette risultare di immediata rilevanza strategica (sul piano politico) porsi il problema dell’utilità, cioè dell’uti frui, e quindi di procedere ad una qualificazione della titolarità della situazione giuridica che veniva a determinarsi per effetto delle assegnazioni di particelle di questo territorio o in seguito al riconoscimento delle situazioni pregresse[370].
Il legislatore del 111 forse non si pose il problema di qualificare nel migliore modo possibile, rispetto al sistema esistente, la posizione dei titolari delle assegnazioni di terra (buona parte dei quali risultavano già possessori o aventi diritto a vario titolo).
Questo perché il solo interesse in gioco era quello della res publica in una fase storica in cui la necessità principale era di trovare una soluzione alla crisi graccana in difesa del nuovo modello economico basato su un intreccio di risorse costituito dalla disponibilità di terra, di manodopera schiavistica e di enormi liquidità di denaro. Tutto questo determinato dal circuito guerra-sfruttamento-appalti-profitti-(nuova) guerra che viene gestito dagli organi di governo in nuovi circuiti di mercato[371].
Per i Romani dell’epoca medio/tardo repubblicana, ma si dovrebbe dire per la classe aristocratica-colta al potere (di cui facevano parte anche i giuristi), dovette risultare sufficiente riconoscere nell’ambito di una categoria di evidenza pubblica così importante come l’ager publicus la possibilità che si potesse essere titolari di una porzione di tale territorio a vario titolo spettante al privato (ager privatus) e che questa potesse concretizzarsi in una privazione (‘privatizzazione’, appunto) dietro però il pagamento in compensazione di un corrispettivo in denaro (vectigal o scriptura) ovvero dell’assunzione di un vincolo legale avente ad oggetto prestazioni di altra natura (linee 7, 8, 14, 19, 23, 33, 80: privatum esse, privatum facere). Le fonti, infatti, come abbiamo visto, battono sempre sui problemi del precario e della revocabilità ex lege per i beneficiari, che erano dei problemi riguardanti principalmente l’effettività delle prescrizioni normative[372].
Sul problema della nozione di possesso enunciata da Elio Gallo in Fest. (L. 260,28) e sul rapporto di tale nozione con la concezione effettiva di tale legge, in estrema sintesi, vedrei almeno quattro elementi per considerare le tipologie di appartenenza della legge agraria del 111 come tutt’altro che improprie sul piano della tecnica giuridica rispetto alla soluzione proposta da Elio Gallo.
Primo. Il dato quantitativo. Se leggi della res publica (come appunto la legge de quo), fonti letterarie (Cicerone) e giuridiche (Giavoleno, Paolo, Labeone) dimostrano di avere avuto una considerazione della possessio in un senso ‘materiale’, mentre il solo Elio Gallo, si fece portatore di una concezione diversa, è forse preferibile pensare che l’uso corrente sia stato quello individuabile nelle fonti più numerose, piuttosto che il contrario.
Secondo.
L’autorevolezza della lex agraria del 111 come fonte giuridica. Il
redattore materiale del testo della legge del 111 si potè avvalere della
consulenza di uomini esperti del diritto del livello di Q. Mucio augure
(console nel
Terzo. La continuità del linguaggio giuridico. Abbiamo visto come Cicerone e le fonti giuridiche parlino della possessio di terreni, sia in senso proprio, che in senso ‘traslato’. E lo fanno nell’arco di svariati decenni usando sempre lo stesso linguaggio che è lo stesso della legge agraria. La qual cosa, come indice di una continuità nel linguaggio giuridico dell’ultimo secolo della repubblica, non dovrebbe in nessun caso descriversi come espressione di un uso improprio.
Quarto. Il taglio stesso dell’opera eliana. La tendenza a specificare il significato esatto delle parole, di cui ovviamente in campo giuridico il De verborum quae ad ius [civile][373] pertinent, significatione di Elio Gallo costituisce uno degli esempi più autorevoli, può non essere visto necessariamente come indizio di una volontà di intervenire di fronte ad una degenerazione nell’uso del linguaggio tecnico-giuridico delle fonti ufficiali della res publica dell’epoca a cavallo tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. Questa tendenza può, molto più semplicemente, essere valutata come espressione specifica in un quadro tendenziale più generale, che vide coinvolti anche altri personaggi di altissimo prestigio come Sesto Elio, Aulo Acilio, Elio Stilone e Varrone (questi ultimi furono anche frequentati da Cicerone, Servio Sulpicio Rufo e Q. Mucio il pontefice). Tutti impegnati in una riforma del lessico giuridico e nell’applicazione delle nuove metodologie applicative provenienti dalla Grecia (gli studi etimologico/linguistici).
Si capisce
allora la ratio che può aver motivato la volontà di creare
una nozione come quella di dominium ex iure Quiritum nelle scuole
giuridiche di influenza serviana se il dominium loci di Alfeno Varo
è genuino. Lo scopo potrebbe essere stato quello di sostituire
l’aggettivo ‘privato’ (sempre espressione di un qualcosa di
relativo con spiccata propensione al profilo patrimoniale), con una nozione
giuridica (corrispondente a ciò che nelle lingue moderne sarà
reso con il sostantivo ‘proprietà’ e nel latino classico e
tardo classico con dominium e proprietas) che riuscisse a
soddisfare l’aspirazione all’assoluto dei titolari di ager
privatus all’indomani delle definitive attribuzioni di terra
dell’età di Cesare. Un processo che fu avviato già
(ovviamente con scopi di ben altro genere) da Tiberio Gracco, ma che
sarà reso irreversibile come si spera di aver dimostrato proprio con la
legge agraria del
[6] Cfr.
L. Solidoro Maruotti, ‘Proprietà
assoluta’ e ‘proprietà relativa’ nella storia
giuridica europea, in Drevnee pravo-Ius Antiquum 2(14) (Mosca 2004)
7-50 che ribadisce a p. 17 ancora la mancanza nel II secolo a.C. di vocaboli
atti a esprimere compiutamente un’idea astratta della signoria giuridica
su una cosa, cioè un’idea astratta di proprietà. La parola dominium,
che rappresenta per l’autrice la conquista dell’astratto, sarebbe
comparsa solo nel I secolo a.C. ad opera di Alfeno Varo (D. 8.3.30) o del suo
maestro Servio Sulpicio Rufo, senza escludere però la possibilità
che l’autore dell’espressione dominium loci riferita ad una
questione di servitù prediali sia stato il giurista Paolo. Già
così però G. Franciosi,
Usucapio pro herede. Contributo allo studio dell’antica hereditas
(Napoli 1965) 183 ss. e nt. 149; Id., Studi sulle servitù prediali
(Napoli 1967) p. 19 ss. e nt. 63; 22 e nt. 71 riprendendo R. Monier, La date d’apparition
du dominium et de la distinction juridique des res en corporales et
incorporales, in St. Solazzi (1948) 357 ss.; G. Pugliese, Res corporales, res
incorporales e il problema del diritto soggettivo, in RISG. 5 (1951)
252; M. Lauria, Usus, in St.
Arangio Ruiz 4 (1953) 493; M. Bretone,
La nozione romana di usufrutto, 1 (Napoli 1962) 23. Così L. Capogrossi Colognesi, La struttura
della proprietà e la formazione dei iura praediorum in età
repubblicana 1 (Roma 1969) 71 ss.; 96 ss.;
[8] Cfr. A. Lintott, Judicial reform 213. Sul problema del possesso di ager publicus da parte di cittadini non Romani privi di ius commercii v. J.S. Richardson, The Ownership of Italian Land. Tiberius Gracchus and the Italians, in JRS. 70 (1980) 6 ss.
[9] Della praescriptio con cui si apre il testo legislativo è rimasto leggibile ben poco: [tr(ibuni) pl(ebei) plebem ioure rogavit plebesque ioure scivit in a(nte) d(iem)… Tribus…princi]pium fuit, pro tribu Q. Fabius Q. f. primus scivit. La dottrina prevalente ritiene che la lacuna sia colmabile facendo riferimento ad una precedente approvazione assembleare (tribù). Secondo la testimonianza di Appian. b.civ. 1.27.121-123 sarebbe stato un plebiscito. Sul significato di ‘sciscere’ quale attività tribunizia si v. W. Liebenam, sv. Comitia, in PW. 4.1 (Stuttgart-Weimar 1900) coll. 679,54-715,18, in part. 707; E. Kornemann, sv. Concilium, in PW. 4.1 (Stuttgart-Weimar 1900) coll. 801, 17-830,32, in part. 802. Su tutto si v. K. Johannsen, Die lex agraria 184 s.
[10]
Analisi più approfondita in O. Sacchi, La nozione di ager
publicus populi Romani nella lex agraria del
[11] Sul cumulo dei vocaboli nella produzione legislativa tardorepubblicana cfr. E. Sandys, Latin Epigraphy. An Introduction ti the study of Latin Inscriptions2 (Cambridge 1927) 37; J. Marouzeau, Sur deux aspects de la langue du droit, in Mél. Levy-Bruhl (1959) 435 ss.; J.B. Hofmann-A. Szantyr, Lateinische Syntax, in Handbuch der Altertumswissenschaft II.2.2 (München 1965) 303; H. Honsell, Der gesetzesstil in der römischen Antike, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino 4 (Napoli 1984) 1659 ss.; A. Lintott, Judicial reform 59 ss.
[12] Mi
riferisco a O. Sacchi, L’ager
Campanus antiquus. Fattori di trasformazione e profili di storia giuridica del
territorio 149 ss.; Id., Spunti per un’archeologia giuridica del
linguaggio. Suggestioni ancestrali e terminologia giuridica nella lustratio
agri in Cato de agri c.
[13] Th. Mommsen,
Römisches Staatsrecht [I, II.1, III.1 (Leipzig3 1887, Tübingen
1952)] I.21 ss., 22 e nt. 2; III.300 ss. Sulla derivazione del concetto
mommseniano di ‘Staat’ dalla filosofia hegeliana v. A. Heuss, Theodor Mommsen und das 19. Jahrhundert (Kiel 1956) 22 ss.; A. Wucher, Theodor Mommsen. Geschichtschreibung und Politik
(Göttingen 1956) 157 ss.; P. Catalano,
Populus Romanus Quirites (Torino 1974) 41 ss.; 45, nt. 21.
[14] Cfr. A. Ormanni, Saggi sul ‘regolamento interno’ del Senato romano (Milano 1971) 52 ss., 63 e passim. Sulla concezione di ‘Stato’ nella dottrina giuridica tedesca all’inizio del XIX secolo cfr. R. Hohen, Der Individualistische Staatsbegriff und die juristische Staatsperson (Berlin 1935) 204 ss. Su tutto P. Catalano, Populus Romanus Quirites 41 ss. e passim. Cfr. anche L. Capogrossi Colognesi, Eduard Meyer e le origini dello stato, in Modelli di stato e di famiglia nella storiografia dell’8002 (Roma 1994) 279 ss.
[15] Un
importante tentativo di storicizzare il concetto di ‘Stato’
è in F. Engels, Der
Ursprung der familie, des Privateigenthums und des Staats (Zürich
1884) 72[= L’origine della famiglia della proprietà privata e
dello stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan3 (Milano 1970)
(Introduzione e note di Fausto Codino e tr. it. di Dante Della Testa)] che vede
sorgere lo Stato (‘Staat’ in senso hegeliano-mommseniano) non nella
comunità romana arcaica bensì nel periodo etrusco, con le riforme
di Servio Tullio. Si cfr. P. Catalano,
Populus Romanus Quirites 80. Lucida impostazione in tale autore che
parlando della democrazia ateniese afferma [Der Ursprung 73=L’origine
137]: “al posto dell’effettivo ‘popolo in armi’ che
proteggeva se stesso, con le sue gentes, fratrie e tribù,
subentrava un ‘potere pubblico’ armato, al servizio di queste
autorità statali, potere da adoperarsi anche contro il popolo”.
Afferma Catalano (p. 80) che secondo Engels la ‘Verfassung’
serviana sarebbe stata costituita [Der Ursprung 93=L’origine
158]: “da quella parte di cittadinanza che doveva prestare servizio
militare, di fronte non soltanto agli schiavi, ma anche ai cosiddetti proletari
esclusi dal servizio militare e dal portare armi”. Importante la
sottolineatura di Catalano (p. 80) per cui: “lo Engels parte da una
interpretazione delle fonti, comune al Niebuhr e al Marx, secondo cui originariamente
il populus Romanus non comprendeva la plebs”. È
chiara l’allusione alla comunità delle gentes che nel
pensiero engelsiano assume una forma definita con la descrizione degli elementi
della ‘costituzione gentilizia’ che G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche.
Contributo allo studio della famiglia romana6 (Napoli 1999) 291 ss. e
passim. Per avere un’idea sintetica del pensiero di Engels sul passaggio
dal sistema per gentes ad uno di tipo statale sono significative le seguenti
parole [Der Urpspung 93=L’origine 158]: “Così
anche a Roma, già prima della soppressione della cosiddetta monarchia,
fu distrutto l’antico ordinamento sociale fondato su vincoli di sangue
personali, al suo posto subentrò una nuova, reale costituzione dello
Stato, fondata sulla divisione territoriale e sulla diversità di
censo”. Senonché lo stesso studioso si mostra perplesso sulla
storicità della cronologia tradizionale in ordine alla data della
riforma del censo di Servio Tullio. Prima così descrive la riforma [L’origine
157 s.]: “La nuova costituzione attribuita al rex Servio Tullio e
poggiante su modelli greci e specialmente su Solone, creò una assemblea
popolare che, senza distinzione, includeva o escludeva popolo e plebe, a
seconda che prestavano o no servizio militare” che pensa di posporre; poi
così conclude in nota [L’origine 157, nt. 1]: “Il
sesto re di Roma, che secondo la tradizione regnò dal 578 al
[16] E. Hermon,
Habiter et partager les terres avant les Gracques (Rome 2001) 289 ss.,
293 e passim, afferma [ma già in E. Hermon,
La souveraineté populaire: “la loi et l’aher publicus au
début de
[17] Feliciano Serrao, che ha dedicato molti studi al tema della questione agraria in Roma repubblicana, non sembra immune da questa pregiudiziale quando dà la sua definizione di ager publicus [Diritto privato economia e società nella storia di Roma. 1. Prima parte2 (Napoli 1999) 378]: “Col termine ager publicus è da intendere, in contrapposto all’ager privatus e all’ager gentilicius (nella misura in cui non è stato diviso tra i patres familias di ciascuna gens), tutto l’ager che al sorgere della comunità cittadina non apparteneva collettivamente ad alcuna delle gentes fondatrici della città, né a singoli patres delle familiae proprio iure, ma venne occupato direttamente dalla comunità cittadina, nonché tutto l’ager che man mano veniva conquistato e confiscato (ademptus) ai popoli vinti, ossia tutto l’ager captus o captivus. Esso è publicus in quanto è di piena appartenenza del populus Romanus”.
[18] Mi
sono occupato in extenso del problema in O. Sacchi, La nozione di ager publicus populi Romani nella
legge agraria del
[19] Colpisce come, nonostante questa famosa intuizione momseniana fosse stata già recepita dalla dottrina romanistica specializzata, non vi sia stata data ad essa l’attenzione che avrebbe meritato. Mi riferisco alla nota tesi di L. Zancan, Ager publicus. Ricerche di storia e di diritto romano (Padova 1935) 6 ss. sulla natura originaria dell’ager publicus come di territorio del ‘popolo in armi’ sulla base della connessione etimologica di populus nel suo originario significato di ‘armati’, ‘popolo in armi’. Si v. sul punto O. Sacchi, Spunti per un’archeologia giuridica del linguaggio 97 s.
[20] Riferisco testualmente una recente presa di posizione sul problema della natura dell’ager publicus in età anteriore alla conquista di Capua. A. Ziolkowski, Storia di Roma (Milano 2000) 46 sul problema dell’ager gentilizio afferma: “Prima della presa di Veio nel 396, la prima grande conquista territoriale di Roma dopo la cacciata dei re, non si vede dove sarebbe stato quel presunto ager publicus. In altre parole, le contese attorno all’ager publicus sarebbero una delle tante proiezioni anacronistiche da parte degli scrittori tardo repubblicani della realtà dei loro tempi. Il potere delle gentes si sarebbe fondato esclusivamente sulla terra di loro proprietà”. Al riguardo mette conto di sottolineare la distinzione di Weber tra un ager occupaticius [in base a Fest. sv. Occupaticius áagerñ (L. 193,25), ricostruito da Lindsay 1913 così: occupaticius áager is esse dicitur qui desitusñ a cultoribus freáquentari propriis ab aliis est occupañri coeptus, ora però ricostruito in base a Paul.-Fest. sv. Occupaticius ager (L. 193,8): dicitur, qui desertus a cultoribus propriis ab aliis occupatur] ritenuto più antico e riguardante i possessi derivanti dal diritto di dissodare il terreno incolto, e un ager occupatorius, più recente, corrispondente ad una occupazione di terra consentita solo dietro pagamento di canone. Cfr. M. Weber, RAG., 126 s., nt. 8, 8a, 9=MWG., I-2 213 ss., ntt. 8, 8a e 9=SAR., 205 s., ntt. 10, 11 e 12. Weber [AV., 144=GASW., 197=SES., 253 s.] viene ispirato da un’interpretazione di Appian. b.civ. 1.7.27 di Otto Karlowa, Römische Rechtsgeschichte 1 (Leipzig 1885) 94 ss. che tuttavia non fa una distinzione esplicita. Cfr. R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 81, nt. 23. Sulla doppia nozione di ager occupaticius/occupatorius nelle fonti gromatiche v. con bibl. ivi G. Falcone, Sull’origine dell’interdetto uti possidetis 190 ss., e nt. 161; O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 226, nt. 10.
[21] V. sul punto S. Curletto, La norma e il suo rovescio. Coppie di opposti nel mondo religioso romano (Genova 1990) 28 ss.
[22] Gai. 4.28: Lege autem introducta est pignoris capio velut lege XII tabularum adversus eum, qui hostiam emisset, nec pretium redderet; item adversus eum, qui mercedem non redderet pro eo iumento, quod quis ideo locasset, ut inde pecuniam acceptam in dapem, id est in sacrificium, inpenderet.
[23] La nozione di ager peregrinus va intesa insieme a quella di ager hosticus. Secondo la testimonianza di Varrone era tale l’ager extra Romanum et Gabinum che veniva conquistato in guerra (peregrinus ager pacatus=‘pacato’, ‘pacificato’), ovvero qui neque Romanus, neque hostilius habetur. Si sarebbe trattato secondo Varrone del territorio che per primo sarebbe stato annesso a quello romano (eo [quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur). Sulla nozione di ager peregrinus è interessante notare che Varrone definisca questo tipo di territorio come il primo da cui i Romani avessero iniziato la loro espansione (eo [quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur), distinguendolo peraltro da quello Gabino solo per la sua peculiarità dal punto di vista del diritto augurale (ab reliquo discretus) dato che, a detta dello stesso scrittore reatino, sia per l’ager Romanus che per quello Gabinus l’osservazione degli auspicia avverrebbe nello stesso modo (qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his serváañntur auspicia).
[24] Le
vicende della gens Cornelia [per i Cornelii in generale v. F. Münzer, sv. Cornelius 4.2
(Stuttgart 1901) col. 1249,12] e di alcuni tra i rami familiari più
importanti di questo gruppo gentilizio (Scipioni, Sullae, Cinnae, Cethegi)
attraversano emblematicamente la storia di Roma nei secoli centrali
dell’era repubblicana, dalla fine della seconda guerra punica (
[25] Fra gli altri, v. sul punto ora L. Perelli, I Gracchi (Roma 1993) 144 ss. e passim. Cfr. con bibl. O. Sacchi, La nozione di ager publicus populi Romani 32 ss.
[26] La biblioteca di Apellicone di Teo fu portata a Roma da Silla dopo il saccheggio di Atene nell’86 a.C. Plut. Syll. 26. Sul punto C. Callmer, Antike Bibliotheken, in Opuscola archaeologica 3 (Lund-Leipzig 1944); L. Canfora, La biblioteca scomparsa (Palermo 1986) 59-63; P. Fedeli, Biblioteche pubbliche e private a Roma e nel mondo romano, in G. Cavallo (cur.), Le biblioteche nel mondo antico e medievale (Roma-Bari 1988) F. Pensando, Libri e biblioteche (Roma 1994) 7-94; C.A. Viano (cur.), Aristotele, Politica (Milano 2002) 10.
[27] Cfr. Cic. de re p. 1.9.14. Questo
personaggio morì nel
[28] Sulle fonti del de re publica di Cicerone v., con riferimenti specifici al problema, ampia disamina in F. Cancelli (cur.), Marco Tullio Cicerone, Lo Stato (Milano 1979) 15 ss. e passim. Secondo O. Hirschfeld, Zu Cicero’s Briefen, in Hermes 5 (1871) 298 ss. l’uso corrente sarebbe stato nel senso dei termini invertiti. Sulla differenza di pensiero tra la concezione dello ‘Stato’ di Aristotele e quella di Cicerone che sarebbe stata influenzata da quella di Panezio v. M. Pohlenz, L’ideale di vita attiva secondo Panezio nel de officiis di Cicerone [Brescia (tr. it. M. Bellincioni) 1970] 50: “È la stessa differenza che riscontriamo nella definizione dello stato. Aristotele, da filosofo, si limita ad accertare che lo stato è la società perfetta, atta a promuovere la vita buona (1252 b 27), mentre per Panezio (Cic. rep. 1,39 e 41; off. 2,73) esso è la società fondata sull’eguaglianza dei diritti e mirante all’utilità comune”.
[29]
Così per il primo caso (populus Romanus Quirites) i riferimenti
di Gellio alla captio delle vestali: Gell. 1.12.14: sacerdotem
Vestalem facere pro populo Romano Quiritibus; ovvero alla conceptio
dei Compitalia: Gell. 10.24.3: Dienoni populo Romano Quiritibus;
i riferimenti nelle precationes nei ludi secolari [Comm. ludorum
saec. quintorum 92 e passim. Cfr. I.B. Pighi,
De ludis saecularibus populi Romani Quiritium (Milano 1941) 108 ss.; 140
ss.] o in atti dei Fratres Arvales che, anche se testimonianze
epigrafiche risalgono all’epoca del Principato [CIL. 6.2025,20 (36 d.C.);
CIL. 6.2064,20; 41 s. (86 d.C.)], sono poco affidanti almeno per l’epoca
più antica nella loro formulazione letterale. Dello stesso avviso
è il Catalano per quanto riguarda la seconda formula (populus Romanus
Quiritium) riportata da Livio per l’indictio belli (Liv.
1.32.11-13) o la devotio (Liv. 8.9.6) che lo studioso ritiene frutto di
un ammodernamento dei testi ufficiali. Cfr. P. Catalano, Populus Romanus Quirites 98. Penso siano da
considerare alla stessa stregua anche le espressioni riportate in Liv. 1.32.6 (rerum
repetitio); 1.36.11 (pater patratus); 8.9.4 (a proposito di devotio);
29.27.1-5; 5.21.2-3 (ipotesi di evocatio). Il discorso per
l’indicazione riportata da Macr. sat. 3.9.6-13 è diverso
perché se è vero che questi può aver preso
l’espressione dal V libro Rerum reconditarum di Sereno Sammonico
(morto nel 212 d.C.), a sua volta tratta da un’opera di un certo Furio,
forse il console del
[31]
Varro l.L. 6.9.86-88. Vale qui lo stesso discorso fatto
sull’attendibilità di Livio e Gellio. Anche Varrone appartiene,
come gli altri autori citati, ad un epoca in cui la storia più antica di
Roma era stata già ‘riscritta’. Inoltre, sembrerebbe che la
forma populus sia stata preceduta da popolus (CIL. 1.2.582,14)
come mostra la sequenza riscontrabile nelle leges Bantia, repetundarum
e la sententia Minuciorum rispetto alle indicazioni della lex
epigrafica in cui la forma in u è più costante. La
trasformazione della forma in u per o è considerata una
variante linguistica che si è affermata solo verso la metà del
secondo secolo a.C. Cfr. sul punto O. Prinz,
De o et u vocalibus inter se permutatis in lingua latina (Halis Saxonum
1932) 18 ss. Anche W.M. Lindsay, Die Lateinische Sprache
(Leipzig 1897) 169, 457; C. Juret,
Dominance et résistance dans la phonétique latine
(Heidelberg 1913) 120. Diverso è il rilievo che invece a mio
parere si deve dare all’indicazione di Ennio ann. 24: Quam
prisci casci populi tenuere Latini. L’uso nel significato
‘etnico’ della parola, alla fine del terzo secolo a.C., da parte
del poeta dimostra almeno che l’espressione aveva un rilievo del genere
già all’epoca, mentre la forma più moderna in u può
significare che la trasformazione linguistica del fonema è più
antica di quanto si pensi o che l’attribuzione enniana sia
‘ritoccata’. Già soltanto da questo breve excursus si
deduce che da un punto di vista strettamente linguistico le attestazioni
più sicure di publicus/poplicus nel senso di pluralità o
moltitudine di individui possono essere ricondotte ad un’epoca oscillante
in uno spazio che va dal quarto al secondo secolo a.C. Naev. in Fest. sv. Stuprum (L. 418,8); Enn. in Gell. 12.2.3; Plaut. Poen.
1039; Aul. 406; Terent. Eun. 1031; Adelph. 155; Cic. de
leg. 1.23.61. Cfr. C. Meier,
sv. Populares, in PW. suppl. 10 (Stuttgart 1965) coll. 550,
14-615,60, in part. 568 ss.; P. Catalano,
Populus Romanus Quirites
[32]
Ricordo, fra altri esempi possibili, primo fra tutti in ordine cronologico tra
le fonti letterarie è un indagatissimo passaggio di Nonio Marcello che
riferisce di una affermazione dell’annalista Cassio Emina: Non. sv. plebitatem
(L. 217): Plebitatem, ignobilitatem. Cato pro Veturio: ‘propter
tenuitatem et plebitatem’. – Hemina in Ann.: ‘quicumque
propter plebitatem agro publico eiecti sunt’. Pur osservando tutte le
cautele dovute al fatto che Nonio è un autore del IV secolo d.C. la
più antica fonte in cui viene menzionato il sintagma ager publicus
[l’annalista Cassio Emina era vivo nel 146 (Plin. 29.(6).12; Cens. de
die nat. 17.11) Catone morì all’età di 85 anni nel
[33] D. Sabbatucci, La religione di Roma antica dal calendario festivo all’ordine cosmico (Milano 1988) 95; G.B. Pighi, La poesia religiosa romana (Bologna 1958) 26 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali 155; Quint. inst. or. 1.6.39-41. Un’attestazione dell’uso di populus in età molto risalente si ricava dal riscontro della forma poplo nel Carmen Saliare. Questo morfema conservato dalla glossa festina fornisce infatti la testimonianza più antica che conosciamo di tale vocabolo: Fest. sv. Pilumnoe poploe (L. 224,4): Pilumnoe poploe in carmine saliari Romani, veluti pilis uti assueti: vel quia praecipue pellant hostis. Sembrerebbe che Pilumnoe poploe sia un nominativo plurale in una forma omologa ad espressioni come Quirites o populus Romanus Quirites [M. Leumann, Latenische Laut und Formenlehre, in M. Leumann-J.B. Hofmann-J.E. Szantyr, Latenische Grammatik I (München 1963) 271 ss., 275. P. Catalano, Populus Romanus Quirites 115]. Questa indicazione va coordinata con il dato per cui i canti saliari (axamenta o versa) composti in una lingua che risultava incomprensibile agli stessi eruditi dell’età varroniana, sarebbero stati fissati per iscritto solo nel quarto secolo a.C.
[34] Diversa è la considerazione augurale di ager basata sulla distinzione dei genera agrorum descritta da Varrone su cui v. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in ANRW. 260 (1978) 491 ss.; O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 149 ss.
[35] V. anche Isid. etym. 15.13.1: Ager Latine appellari dicitur eo quod in eo agatur aliquid. Alii agrum ex Graeco nominari manifestius credunt che segue evidentemente Varrone: l.L. 5.6.34.
[38] V. sul punto Pantzerhyelm-Skutsch, in Glotta 3 196-203; C. De Simone, L’aspetto linguistico, in C.M. Stibbe, G. Colonna, C. De Simone, H.S. Versnel, Lapis Satricanus. Archaeological, epigraphical, linguistic and historical aspects of the new inscription from Satricum (Staatsuitgeverij-‘s-Gravenhage 1980) 81. Cfr. anche O. Sacchi, Spunti per un’archeologia giuridica del linguaggio. Suggestioni ancestrali e terminologia giuridica nella lustratio agri in Cato de agri c. 141 97 ss.
[40] C. Battisti, ibidem. La radice
etimologica sarebbe la forma *pupl- da cui sarebbero derivati anche i
gentilizi publi(e) da cui Publiena e Publina a
Chiusi e Perugia, ma anche il latino Publius e il meno latinizzato Popillius.
Di qui il ramo principale dei Popilli Laenates documentato dal
[41] O. Sacchi, L’ager Campanus
antiquus 149 ss.; Id., La nozione di ager publicus populi Romani nella
lex agraria del
[42]
Secondo E. Bianchi, Fictio
iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico
all’epoca augustea (Padova 1997) 94, nt. 175 il passo di Livio
andrebbe inteso nel senso che solo in Italia (alla fine del III secolo a.C.)
sarebbe stato possibile costituire un fittizio ager Romanus: “Se
così non fosse risulterebbe incomprensibile come, solo due anni
più tardi, nel
[44] D. Sabbatucci, L’edilità romana: magistratura e sacerdozio, in Atti Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche, VIII.6 (Roma 1954) 309 s.
[45] Per
l’aedificatio v. anche Hermogenianus in D. 1.1.5 (lib.
1 iuris ep.): Ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes,
regna condita, dominia distincta, agris termini positi, aedificia collocata,
commercium, emptiones venditiones, locationes conductiones, obligationes
institutae: exceptis quibusdam quae iure civili introductae sunt. Non
è noto l’anno di nascita di Isidoro di Siviglia, si ritiene che
questo personaggio possa essere nato tra il 556 e il 571 d.C. Su Isidoro cfr.
A. Garcia Gallo, San Isidoro
Jurista, in Isidoriana. Estudios sobre San Isidoro de Sevilla en el XIV
centenario de su nascimiento (León 1961) 115-131; J. De Churruca, Presupuetos para el
estudio de las fuentes jurídicas de Isidoro de Sevilla, in AHDE.
43 (1973); Díaz y Díaz,
Introducción general en S. Isidoro de Sevilla, Etimologias
(Madrid 1982) 94-111; Id., Problemas culturales en
[46] In
altra sede ho sostenuto l’ipotesi che il Senato romano considerasse
l’ager Campanus ancora all’epoca della deditio del
[47] In un’ottica del tutto
diversa si colloca D.W. Rathbone,
The control and exploitation of ager publicus in Italy under the roman
republic, in J-J. Aubert (cur.), Tâches publiques et entreprise
privée dans le monde romain, Actes du Diplôme
d’Etudes Avancées, Universités de Neuchâtel et
de Lausanne (Genève 2003) 135-
[48] Per Th. Mommsen, Droit public romain
[Paris (tr. fr. P.F. Girard) 1889] 274, 285 s., 305[=Römisches Staatsrecht
3.1 (Leipzig 1887)] il legislatore del 111 non avrebbe inteso includere nella
definizione resa con la frase …socium nominisve Latini, quibus ex
formula t]ogatorum milites in terra Italia inperare solent i Greci
del Mezzogiorno. Condivido la considerazione di Adam Ziolkowski [Storia di
Roma 134] per il quale la definizione di ‘confederazione
italica’ usata dagli studiosi moderni per definire la natura della
signoria di Roma in Italia sarebbe fuorviante. L’uso della toga come
indumento tipico dei Romani è indice dell’esistenza di un rapporto
di stretta colleganza politica ma appare eccessivo considerare questo tipo di
rapporto come paritario e soprattutto in modo generalizzato.
L’espressione ‘togati’ sarebbe apparsa per la prima volta in
un iscrizione greca proveniente dalla grecia ellenica e databile
all’inizio del secondo secolo a.C. L’indicazione traslitterata del
testo epigrafico sarebbe: ‘tebennoforuntes’=‘togati’
[cfr. sul punto A. Arbanitopoullos,
Qessalicai ¤pigr‹fai, in AEphem
(1910) 344 ss.; J. Hatzfeld, Les
trafiquants italiens dans l’Orient hellénique (Paris 1919) 238
ss.; P. Catalano, Aspetti
spaziali 539; A. Ziolkowski, Storia
di Roma 135]. Per l’uso già da età anteriore al II
secolo a.C. della formula togatorum per designare le milizie che i
singoli socii dovevano fornire ai romani v. Liv. 22.57.10; 27.9.3;
Polyb. 2.24.4. Nella categoria dei togati la lex agraria
distingue tecnicamente tra i Latini e gli altri socii. Del
problema si è occupato fra gli altri P. Catalano, Aspetti spaziali 540, il quale rileva che
l’equivalenza del termine togati (ovvero, socii nominisve Latini)
e Italici, circostanza che si riscontra in numerosi riferimenti delle
fonti [Liv. 29.24.14; 30.41.5; 22.37.7. Cfr. anche il SC. de bacchanalibus
del
[49] Dion. 1.35.1-3: “Con l’andar del tempo la penisola assunse invece il nome di Italia dal nome di Italo, un sovrano. Antioco di Siracusa dice che fu uomo valente e saggio, che persuadendo alcuni popoli circonvicini con la diplomazia, altri assoggettandoli con la forza, ridusse in suo potere tutta quanta la terra compresa tra il golfo nepetino e scilletico, che così fu la prima terra ad essere chiamata Italia da Italo. (…). Sempre secondo Antioco di Siracusa egli era di stirpe enotra. [2] Ellanico di Lesbo diversamente afferma che, mentre Eracle conduceva i buoi di Gerione ad Argo ed era ormai giunto in Italia, un vitello balzò via dalla mandria e, fuggendo, attraversò sia la penisola, sia a nuoto, lo stretto di mare e giunse in Sicilia. Eracle si mise ad inseguire il vitello ed ovunque capitasse domandava sempre agli abitanti del luogo se per caso qualcuno lo avesse visto, ma quella popolazione, poco pratica del greco, per indicare quel tipo di animale nel proprio linguaggio, lo chiamava vitulus, come nel linguaggio odierno, così, da quell’animale prese nome Vitulia tutta quanta la regione attraversata dal vitello in fuga. [3] Non vi è del resto da meravigliarsi che, con l’andar del tempo, il nome si sia modificato sino alla forma attuale, dato che anche i nomi greci hanno subito analoghe trasformazioni. Comunque, a parte le diversità tra le due tradizioni e cioè, se, come dice Antioco, questo nome deriva da un condottiero, il che è probabilmente più credibile, oppure se, come ritiene Ellanico, dal nome del toro, quello che risulta chiaro da entrambi è che prese questo nome all’incirca ai tempi di Eracle, o poco prima, mentre anteriormente i Greci la chiamarono via Esperia ed Ausonia, gli indigeni a loro volta Saturnia, come ho già detto” [tr. Cantarelli 69]. Mi colpisce molto il dato riferito dallo storico di Alicarnasso da cui si ricava che prima dell’era eraclea ci sarebbe stata un’era saturnia.
[50]
Arist. polit. 7.10 (1329b,8-22): fasÜ gŒr
oß
lñgioi
tÇn
¤keÝ
katoikoæntvn Italñn
tina gen¡sqai Basil¡a
t°w OÞnvtrÛaw, Žfƒ
oð
tñ
te önoma
metabalñntaV Italoçw Žntƒ
OÞnvtrÇn
kleq°nai kaÜ
t¯n
Žkt¯
taæthn
t°V EérÅphV ƒItalÛan
toënoma
labeÝn,
ösh
tetæxhken
¤ntòV oïsa
toè
kñlpon
toè
Ekulletkoè
kaÜ
toè
Lamhtikoè: Ž¡xei
d¢
taèta
Žpƒ
Žll®lvn õdòn
²miseÛaV ²m¡raV. toèton
d¯
l¡gousi
tòn
ƒItalòn
nomŒdas
toçV OÞnvtroçV övtaV poi°sai
gevrgoæV, kaÜ
nòmouV llouV te aétoÝV q¡sqai kaÜ
tŒ
sussÛtia
katastt°sai
prÇton: diò
kaÛ
nèn
¦ti
tÇn
Žpƒ
¤keÛnou
tin¢V xrÇvtai
toÝV sissitÛoiV kaÛ
tÇn
nñmvn ¤nÛoiV. Õkoun
d¢
tò
m¢n
pròV t¯n
TurrhnÛan
ƒOpikoÜ
kaÜ
prñteron
kaÜ
nèn
kaloæmenoi
t¯n
¤pvnumÛan
AësoneV, tò
d¢
pròV t¯n
ƒIapugÛav
kaÛ
tòn
ƒIñnion
XÇneV, t°n
kaloum¡nhV SirÝtin: ¸san
d¢
kaÜ
oß
XÇneV OÞnvtroÜ
tò
g¡noV.
[tr. Viano 577]: “I cronisti dicono che uno degli abitanti
dell’Enotria, un certo Italo, ne divenne re, che da lui gli abitanti del
paese cambiarono il loro nome da quello di Enotrii in quello di Itali, e che la
penisola dell’Europa che è compresa tra il golfo Scilletino e
quello lametico, tra i quali c’è mezza giornata di cammino, ha
preso il nome di Italia. La tradizione poi afferma che questo Italo
trasformò gli Enotrii, che erano nomadi, in contadini, diede loro delle
leggi e istituì tra l’altro le mense comuni, che perciò
ancor oggi alcuni dei suoi discendenti praticano, così come osservano
alcune delle leggi promulgate da lui. Abitavano la regione verso
[51] Questo stesso filone è peraltro chiaramente riconoscibile nella stessa saga virgiliana come dimostrano i seguenti notissimi versi: Verg. Aen. 1.530: Est locus, Hesperiam Grai cognomine dicunt,/ terra antiqua, potens armis atque ubere glaebae;/ Oenotri coluere viri; nunc fama minores/ Italiam dixisse ducis de nomine gentem. Ed affiora anche in un riferimento purtroppo eccessivamente sintetico delle Origines di Catone tratto da uno scolio isidoreo [Schol. Vallicelliana ad Isid. orig. 14.4.18 (Whatmough 154)= Orig. 7 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 294)]: Italiam Cato appellatam ait ab Italo rege. Già in Gellio emerge una versione etimologica più sofisticata che a sua volta poggia sull’autorità di Timeo di Tauromenio e Varrone. La terra Italia sarebbe stata così chiamata dall’abbondanza di animali e pascoli di tale paese, perché in greco arcaico i buoi venivano chiamati fitalo¤: Gell. 11.1: Timaeus in historiis, quas oratione Graeca de rebus populi Romani composuit, et M. Varro in antiquitatibus rerum humanarum terram Italiam de Graeco vocabulo appellatam scripserunt, quoniam boves Graeca vetere lingua fitalo¤ vocitati sint, quorum in Italia magna copia fuerit, bucetaque in ea terra gigni pascique solita sint conplurima. Chiude il quadro la nota voce serviana: Serv. (daniel) ad Aen. 1.533: Italiam Italus rex Siciliae ad eam partem venit in qua regnavit Turnus, quam a suo nomine appellavit Italiam: unde est fines super usque Sicanos non usque ad Siciliam; nec enim poterat fieri; sed usque ad ea loca, quae tenuerunt Sicani, id est Siculi a Sicano, Itali fratre. alii Italiam a bubus quibus est Italia fertilis, quia Graeci boves fitaloÁw, nos vitulos dicimus; alii a rege Ligurum Italo, alii ab advena Molossio; alii a Corcyreo; alii a Veneris filio, rege Lucanorum; alii a quodam augure, qui cum Siculis in haec loca venerit quamque his regionem inauguraverit; plures atare tenari nepote desatura Minois. regis Cretensium, filia Italiam dictam.
[52] Sul problema v. F. Altheim, Italien und Rom (Amsterdam-Leipzig 1941) 1.46; Id., Geschichte der lateinischen Sprache (Frankfurt 1951) 25, 30; F. Rauhut, Le origini delle parole Italia e Italiano, in Paideia 8.1 (1953) 1-13; R. Del Ponte, Dei e Miti Italici3 (Genova 1998) 156 s.
[53] G. Semerano, Le origini della cultura indoeuropea. Rivelazioni della linguistica storica [in due voll. (quattro tomi)] (Firenze 1984, rist. 2002) 1(2), 493.
[54] Secondo F. Altheim, Italien und Rom 1.46, Italia sarebbe la terra degli Itali che non erano buoi, ma uomini. Questi uomini sarebbero stati figli del dio toro. Sempre secondo tale autore [F. Altheim, Geschichte der lateinischen Sprache 25 e 30] gli Itali sarebbero stati una frazione dei Siculi e la loro lingua imparentata col latino. Del resto Tucidide e numerosi recenti riscontri archeologici indicano che nei secoli VIII e VII a.C. dei Siculi vivevano al di là dello stretto di Messina. Cfr. anche H. Philipp, sv. Italia, in PW. Suppl. 3 (München 1918) coll.1246,21-1293,7. Ma v. le critiche di G. Semerano, Le origini della cultura indoeuropea 1. Rivelazioni della linguistica storica 492.
[58] Cfr. sul punto O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 68 ss., 36, nt. 11; 74, nt. 101; 80, nt. 114.
[61] P. Catalano, Aspetti spaziali 538, nt. 426.
[62] Plato epist. 7.327; leg. 2.659b; Gorg. 493a; Arist. metereolog. 1.6.342b; rhetor. 2.23.1398b; Theofr. hist. plant. 5.8.1; Callim. fragm. 493 (Schn.=653 Pf.).
[63] Vedi
Dion. 1.35. G. Semerano, Le
origini della cultura europea 493. Viene subito alla mente la teoria di
Santo Mazzarino sulle dimensioni spaziali del concetto di terra Italia.
Come è noto, questi, partendo dalla notizia del sacrificio di una coppia
di Galli e di Greci nel 228, 216 e
[65]
Strabo 5.2.6 (C 223-224,16-19): Eàdomen
d¢
kaÜ
toçV ¤rgazom¡nouV tòn
sÛdhron
tòn
¤k
t°V AÞqalÛaV komizñmenon: oé
gŒr
dænatai
sullipaÛnesqai kamineuñmenoV ¤n
t»
n®sÄ:
komÛzettai
dƒ
eéqçV ¤k
tÇn
³peiron.
[tr. Biraschi 99]: “Vidi anche quelli che lavoravano il ferro portato
dall’isola di Aithalia: esso, infatti, non può essere portato a
liquefazione e lavorato alla fornace sull’isola e viene perciò
subito portato dalle miniere sul continente”. Sul punto v. C. Battisti, Sul nome di Populonia 38 ss. La radice semantica comune di
tale derivazione etimologica è tuttavia l’idea di
‘ciò che sta ad occidente’, ‘tramonto’,
‘oscuramento’ dall’accadico ātalû,
attalû, o dall’aramaico ātaljā. Infatti, attraverso
riferimenti linguistici alle lingue che si parlavano nel mediterraneo durante
il secondo millennio a.C. possiamo inoltre stabilire un legame tra
l’antico babilonese Athalia, come derivato dal vocabolo attalu,
e il siriaco atalja che significa ‘oscuramento, tramonto’
(‘eclipse’, ‘Verfinsterung’). Tutte queste parole a
loro volta derivano da una lingua ancora più antica, il sumero, in cui antalu
significa ‘ombra’. Tutto questo spiega il nome dell’Etolia (Aetolia)
(regione occidentale della Grecia) e il nome di Atlantide che Esiodo pone ai
confini della terra. A„qal…a
era anche il nome di Lemno pelasgica. L’ombra di Tiresia compare in
versione etrusca nel famoso specchio indicata dal vocabolo hintial che
significa ‘anima, ombra’ riferendosi a ‘ciò che vive
nell’adlilà’. Cfr. A. D’Aversa,
La lingua degli etruschi (Brescia 1979) 349. Il valore semantico di
‘ombra’, ‘oscuramento’, terra lontana ai limiti del
conosciuto, riecheggia anche nel riferimento al paese dei Cimmerii che troviamo
in Omero (Od. 11.14 ss.) e nell’or.g.Rom. 10.1. Anzi la
città dei morti era proprio Cimmerio la città delle ombre, ma
anche la città della Sibilla, cioè Cuma era chiamata Cimmerio: or.g.Rom.
10.1: cumque comperisset ibidem Sibyllam mortalibus futura praecinere in
oppido quod vocatur Cimmerium. Questa stessa città diede
l’oracolo infausto per il sacrificio dei Galli e dei Greci nel
[67] Serv. ad Aen. 1.2.19 (daniel): sane non otiose fato profugum dicit Aeneam, verum ex disciplina Etruscorum. est enim in libro qui inscribitur litterae iuris Etruriae scriptum vocibus Tagae. Si v. anche Serv. ad Aen. 11.567.
[68] Per i significati più antichi in senso più ristretto v. P. Catalano, Aspetti spaziali 535, nt. 408.
[69] Indicazioni
delle fonti al solo vocabolo Italia sono anche in Cato Orig.
frgm. 39; 134; Polyb. 2.14; 2.23.13; 3.54; 6.52.10. Seguendo lo schema di
Pierangelo Catalano, sotto il profilo giuridico, il concetto di terra Italia
come unità territoriale rileverebbe nell’ordinamento romano per le
seguenti norme. Il pontefice massimo non poteva lasciare la terra Italia.
La testimonianza più antica di tale norma risale al
[70] A. Lintott, Judicial reform 202 s.
in sede di commento al sintagma terra Italia contenuto in tale legge
pone l’accento sul significato politico della nozione di Italia
sottolineando che tale nozione avrebbe avuto senso come parte della penisola
italiana che non sarebbe stata né romana, né latina. Cfr. p. 202: “Italia by
itself in 111 BC had a political sense as that part of Italy wich was neither
Roman nor Latin”. L’autore poi ipotizza che terra Italia
potrebbe escludere di per sé la città di Roma, che non fu oggetto
della legislazione agraria (ibidem): “Terra Italia may also
exclude by implication the city of Rome, wich was not the subject of agrarian
legislation. It is true that
Rome i explicity excluded in line 5, but that may be because the chapter in
question is dealing with urban public land”. M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.156 s. pone l’accento
sull’uso geografico dell’espressione rilevabile nel
[71] Sul
punto v. P. Catalano, Aspetti
spaziali del sistema giuridico religioso romano 547 per il quale le
premesse politiche e militari che avrebbero trovato forma nel concetto
giuridico-religioso di Italia, sarebbero anteriori alla guerra contro Taranto.
Cfr. anche S. Mazzarino, Il
pensiero storico classico 2.1 (Bari 1966) 214 ss. Per il concetto di
‘coscienza italica’ v. ora A. Ziolkowski,
Storia di Roma 134. La dottrina prevalente parla dell’esistenza di
una vera e propria ‘coscienza italica’ che appunto sarebbe emersa
proprio in questo periodo. È noto che Santo Mazzarino per primo fece
notare che l’idea originaria dell’Italia come ‘terra
patria’ (terra Italia), in senso appianeo (ann. 7.2.8), era
limitata geograficamente all’arco appenninico. Continuando su questo
versante Augusto Fraschetti, riprendendo il discorso già avviato dal
maestro siciliano, in base alla notizia del macabro rituale di seppellire vivi
una coppia di Galli e di Greci nel Foro Boario, ha mostrato che tale nozione di
terra Italia può essere nata negli anni intorno al 349/348 a.C.
che fu un momento in cui Roma ebbe come nemici contemporaneamente entrambi i
popoli. V. sul punto A. Fraschetti,
Le sepolture rituali del Foro Boario, in Le délit religeux
dans la cité antique. Coll. de l’École
Française de Rome 48 (Roma 1987) 51 ss. Secondo Ziolkowski un cambio
di significato si noterebbe in Eutropio (che, come è noto, rappresenta
la tradizione liviana) per cui il Senato romano, rifiutando la pace con Pirro
avrebbe fatto sapere al re che nessun accordo si sarebbe fatto con lui fintanto
che questi fosse rimasto in Italia. Eutr. 2.13.1. A. Ziolkowski, Storia di Roma
[74] J.W. Rich, Silvae Callesque 507. Pompeo Strabone
nell’89 e poi Silla fecero della Gallia Cisalpina una provincia
permanente e da questo momento fino al 42 l’Italia avrà come
confine il Rubicone. Mentre, solo dopo il 78-77, 72 e 63-62, l’uso di
considerare l’Italia come una provincia consolare diventerà
obsoleto. Altre notizie circa lo spostamento del confine italico compiuto dai
Romani sono in Strabone. Per il diritto augurale vi era una connessione tra
l’ampliamento del pomerium e il suolo italico. Bisogna guardare le
seguenti parole di Seneca: dial. 10.13.8: pomerium…numquam
provinciali sed Italico agro adquisito proferre moris apud antiquos fuit.
Esse presuppongono uno stretto rapporto tra il concetto di terra Italia
e il pomerium. Il secondo fu ampliato probabilmente all’età
di Servio Tullio e poi soltanto con Silla. In base a questo, Theodor Mommsen [Römisches
Staatsrecht3 III.1 477 ss.] ritiene che la connessione tra il concetto di fines
populi Romani e pomerio risalga all’età regia. Questa norma
sarebbe nata invece per Pierangelo Catalano [Aspetti spaziali 534]
già verso la metà del terzo secolo a.C. In 5.1.11 lo storico di
Amasea riferisce del confine esistente tra
[76] Cfr. con ampio dettaglio di fonti e bibl. A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, cit., p. 57.
[77] Cfr.
A. Ziolkowski, Storia di Roma
135; P. Catalano, Aspetti
spaziali del sistema giuridico religioso romano 440 ss., 525 ss.
Probabilmente l’affermazione della norma per cui la proprietà
individuale, ossia il dominium ex iure Quiritium, del cittadino romano
era limitata al territorio italico dimostra l’avvenuto passaggio, in
ordine alla regolamentazione giuridica della terra, dal diritto augurale a
quello laico (ancora in età varroniana sembra che la disciplina dei genera
agrorum augurali fosse ancora in auge. Varro: l.L. 5.5.34). Gennaro
Franciosi ha scritto che l’individuazione dei fundi in solo Italico,
come categoria contrapposta ai fondi provinciali, è una realtà
ascrivibile ad un’epoca non anteriore al
[79] Liv. 21.41.14; 23.5.10 ss.; 25.7.4; Front. Strat. 4.7.25; Polyb. 3.77 e 85; Liv. 22.7.5; 22.13.1.
[80]
Affronta il problema A. Giardina,
L’Italia romana 59 ss. il quale nota che l’etnicità
italica veniva espressa in questo periodo solo all’esterno della penisola
come dimostra la nota iscrizione di Delo italicei qui Deli negotiantur.
Nel SC. de bacchanalibus del
[81] Per
A. Lintott, Judicial reform
202, il termine Italia avrebbe un significato politico: “(…)
Italia by itself in 111 BC had a political
sense as that part of Italy wich was neither Roman nor Latin”. Diversamente
M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.157
riconosce all’espressione terra Italia della legge agraria
epigrafica un valore meramente geografico: “(…) terra Italia
is used here for the geographical entity”. Sulla questione v. O. Sacchi, L’ager Campanus
antiquus 159 ss. Quanto al problema sollevato in dottrina [A. Lintott, Judicial reform 202;
M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.156] della
mancata menzione di terra insieme al vocabolo Africa nella legge
del
[84] L’espressione *agros è la parola indoeuropea per indicare la campagna. Essa viene attestata sia in Oriente che in Occidente, come testimoniano il sanscrito ájras, il greco égrÒw, l’armeno art, il latino ager, il gotico akrs, il tedesco Acker. La parola *agros deriva dalla radice (peraltro ben nota) *ag- che significa ‘portare’, da cui risulta che *agros in origine avrebbe significato ‘luogo dove si portano (gli animali a pascolare)’. Si parla però anche di un imprestito dal sumero agar che significa ‘terreno destinato alla coltivazione’, il che starebbe a dimostrare una influenza dell’Asia Minore per la nascita dell’agricoltura indoeuropea. Cfr. su tutto F. Villar, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa. Lingua e storia (Bologna 1997) 166. V. anche O. Sacchi, I limiti e le trasformazioni dell’ager Campanus 26 s.
[85] In
questo senso è indicativo L.
Capogrossi Colognesi, Persistenza e innovazione nelle strutture
territoriali dell’Italia romana. L’ambiguità di una
interpretazione storiografica e dei suoi modelli (Napoli 2002) 35 sul
valore più o meno innovativo rispetto alla situazione precedente alla
legge agraria del
[86] Émile Benveniste [Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee 1. Economia parentela, società (Torino 2001) 232] costruisce l’etimologia del verbo latino aedificare dal composto greco oiko-domeîn, denominativo del composto oiko-dómos che significa ‘costruttore di cose’. Al greco -domeîn corrisponde il latino facio con diversa radice. Ad oiko- corrisponde non domus, ma aedes. Lo studioso di Aleppo afferma che la formazione di aedificare sarebbe la prova del fatto che il valore proprio di domus non aveva nulla in comune con quello di aedes. Domus in latino non è quindi un termine architettonico. Indica ‘casa’ come luogo dove vive la famiglia, ma per indicare la casa in senso architettonico c’è il termine aedes. Aedes e domus si possono tradurre entrambi con casa ma semanticamente non si equivalgono. Da aedes come ‘casa’, ‘tempio’ è derivato aedilis, ma non c’è traccia di un processo analogo per domus. Lo sviluppo semantico di domus esclude ogni allusione alla costruzione ma va verso l’idea di ‘ciò che si possiede’. In Plauto ‘cui argentum domi est’ significa ‘colui che dà i soldi’. Nella precatio di Catone ‘mihi domo, familiaeque nostrae’ riguarda ciò che è proprio del pater familias. Come scrive allusivamente Benveniste, la domus trova posto tra la personalità stessa del sacrificante e la sua familia. Il dominus però non è colui che ha costruito la casa. Si v. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee 1.232.
[87] In
uno spazio di tempo che può andare dalla fine del terzo/inizi secondo
secolo a.C. (quando cominciò il fenomeno dell’urbanesimo), al
71/69-inizi
[90] Sul tema degli incendi in età arcaica a Roma si veda L. Minieri, Norme decemvirali in tema di incendio, in Drevnee pravo - Ius antiquum 2(7) (Mosca 2000) 40-47. Curioso l’accostamento etimologico di aedēs con il sanscrito ēdhah, idhmáh=‘legna da ardere’; accadico išātu, aramaico eššātā, ebraico ēš tutti col significato di ‘fuoco’, da cui il latino aestus=‘calore bruciante’. Cfr. G. Semerano, Le origini della cultura europea 1(2).334. Questi dati sono coerenti con la circostanza che la parola aedes ha anche un significato tecnico come sepoltura e di tempietto votivo privato per i voti del pater familias. V. con argomenti e fonti D. Sabbatucci, L’edilità romana 309 ss.
[91] G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare 129. Sull’evoluzione del concetto giuridico di aedificium o aedes in Giavoleno e Gaio come universitas abbiamo due testimonianze molto chiare D. 41.3.23 pr. (Iav. 9 epist.): Eum, qui aedes mercatus est, non puto aliud quam ipsas aedes possidere: nam si singulas res possidere intellegetur, ipsas non possidebit: separatis enim corporibus, ex quibus aedes constant, universitas aedium intellegi non poterit. accedit eo, quod, si quis singulas res possidere dixerit, necesse erit dicat possessione superficiei ‘tempori de mobilibus statuto’ locum esse, solum se capturum esse ampliori: quod absurdum et minime iuri civili conveniens est, ut una res diversis temporibus capiatur, ut puta cum aedes ex duabus rebus constant, ex solo et superficie, et universitas earum possessionem temporis immobilium rerum omnium mutet; e D. 41.1.7.11 (Gai. 2 rer. cott. sive aureor.): Illud recte quaeritur, an, si id aedificium vendiderit is qui aedificaverit et ab emptore ‘longo tempore’ captum postea dirutum sit, adhuc dominus materiae vindicationem eius habeat. causa dubitationis est, an eo ipso, quo universitas aedificii ‘longo tempore’ capta est, singulae quoque res, ex quibus constabat, captae essent: quod non placuit. Cfr. M. Bretone, I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura (Roma-Bari 1998) 79.
[92] Cfr. M. Kaser, Eigentum und Besitz im älteren römischen Recht2 [Forschungen zum römischen Recht 1] (Köln-Graz 1956) 260ss.; L. Labruna, Vim fieri veto. Alle radici di una ideologia (Napoli 1971) 103 ss.; Id., Tutela del possesso fondiario e ideologia repressiva della violenza nella Roma repubblicana (Napoli 1980) 7-267; G. Falcone, Studi sull’origine dell’interdetto uti possidetis 47, nt. 119 e passim.
[93] Cfr. Liv. 8.9.6; 9.8.8-10; Liv. 29.27.2-4; Liv. 1.16.3; 7.26.4; Serv. ad Aen. 1.731; Liv. 31.5.4; 31.7.5; Sall. epist. 2.13.8; Liv. 1.32.8; Sall. epist. 1.8.10; Cic. pro Mur. 1.
[95] L’origine del termine forse deriva dall’antichissimo linguaggio augurale italico stando ad una preziosa testimonianza di Isidoro: etym. 15.4.7: Sed et locus designatus ad orientem a contemplatione templum dicebatur. Cuius partes quattuor erant: antica ad ortum, postica ad occasum, sinistra ad septentrionem, dextra ad meridiem spectans. Unde et quando templum construebant, orientem spectabant aequinoctialem, ita ut lineare ab ortu ad occidentem missae fierent partes caeli dextra sinistra aequales; ut qui consulerent atque precaretur rectum aspiceret orientem. Nella fondazione del templum augurale il celebrante doveva trovare il locus e rivolgersi ad est (cuius partes quattuor erant: antica ad ortum, postica ad occasum, sinistra ad septentrionem, dextra ad meridiem spectans) come l’augure del rito di intronizzazione di Numa: Liv. 1.18.7: Inde ubi prospectu in urbem agrumque capto deos precatus regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit. Varrone invece, come è noto, riporta probabilmente il rituale etrusco che prevedeva l’orientamento con faccia a sud: l.L. 7.2.7: Eius templi partes quattuor dicuntur, sinistra ab oriente, dextra ab occasu, antica ad meridiem, postica ad septemtrionem. Riportano la notizia anche Paul.-Fest. (L. 454); Cic. de div. 1.31; Plin. n.h. 2.(55).142; 6.(24).87; Manil. astr. 2.273.
[96] Cfr.
ad es. Cic. Verr. 3.170; de re p. 2.39; Liv. 38.14.9. Sul punto
v. anche O. Sacchi, Il mito
del pius agricola e riflessi del conflitto agrario dell’età
catoniana nella terminologia dei giuristi medio/tardo repubblicani, in RIDA.
69 (2002) 16 ss. Se etimologicamente locuples significa
‘ricco’ in quanto ‘pieno di terra’ (da locus=‘terra’
+ ples=‘più’, ‘molto’), sembra più
plausibile pensare ad una diffusione di tale significato all’epoca della
diffusione del latifondo (grosso modo l’età cesariana, cioè
la parte centrale del primo secolo a.C.) che non all’epoca di Sesto Elio,
soprattutto accettando una datazione alta dei Tripertita (200/198 a.C.).
In quest’epoca siamo ancora lontani dalla legge agraria epigrafica del
[97] M. Weber, RAG. 68, nt. 36=MWG. I-2 159, nt. 36=SAR. 194, nt. 40; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 108.
[98] Si veda S. Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones (Napoli 1996) 231 ss. Interessante la seguente affermazione: “Con l’appellatio di fundi si intendeva – secondo Fiorentino – omne aedificium e omnis ager. Dall’usus si chiamavano aedes gli aedificia urbana e villae quelli rustici. Un luogo privo di aedificium era detto se in urbe, area, se in campagna, ager. Fundus era anche l’ager cum aedificio. Era dunque l’uso ‘dei parlanti’ a determinare la distinzione tra aedes e villae, area e ager”. Viene in mente la nota definizione festina di fundus: Fest. sv. Fundus (L. 79, 3): Fundus quoque dicitur populus esse rei, quam alienat, hoc est auctor. Sulla nozione di fundus cfr. L. Capogrossi Colognesi, Alcuni aspetti dell’organizzazione fondiaria romana nella tarda Repubblica e nel Principato, in Klio 63 (1981) 351 ss.; P.W. De Neeve, Fundus as econimic unit, in TR. 52 (1984) 3 ss. Sul frammento di Fiorentino v. O. Behrends, Bodenhoheit und privates Bodeneigentum im Grenzwesen Roms, in O. Behrends - L. Capogrossi Colognesi (edd.), Die römische Feldmeßkunst (Göttingen 1992) 259 ss. In realtà i giureconsulti romani tendono a voler fissare i concetti di ‘ager’, ‘fundus’ e ‘possessio’, ma si vede che è argomento tutt’altro che pacifico. Insieme a D. 50.16.60 e D. 50.16.211 anche D. 50.16.115 (Iav. 4 epist.): Quaestio est, fundus a possessione vel agro vel praedio quid distet. ‘fundus’ est omne quidquid solo tenetur. ‘ager’ est, si species fundi ad usum hominis comparatur. ‘possessio’ ab agro iuris proprietate distat: quidquid enim adprehendimus, cuius proprietas ad nos non pertinet aut nec potest pertinere, hoc possessionem appellamus: possessio ergo usus, ager proprietas loci est. ‘praedium’ utriusque supra scriptae generale nomen est: nam et ager et possessio huius appellationis species sunt, il cui autore fu console nel 90 d.C. [v. C. Ferrini, Il Digesto (Milano 1893) 84], dimostra che il dibattito fu ripreso costantemente dai giuristi dell’età classica.
[99] Lex agraria: l. 8: utei ceterorum locorum agrorum aedificiorum privatorum est, esto; ll. 9 e 10: agrum, locum aedificium possessionem ex lege plebeive scito; l. 12: ager locus aedificium privatus siet. Si v. anche retro, p. 83 ss.
[100] È la tesi di fondo di M. Guarnacci, Origini Italiche (in tre voll.) (Lucca 1772) in un’opera dedicata alla rivalutazione dell’importanza del ruolo avuto dalla cultura etrusca nell’Italia pre-romana. Su questi temi v. anche C. De Simone, I Tirreni e Lemnos. Evidenza linguistica e tradizioni storiche (Firenze 1996); A. Giardina, L’identità incompiuta dell’Italia romana 46; P. Casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito (Bologna 1998) 212 ss.
[101] M. Bretone, Storia del diritto romano
414. Cicerone attesta che Varrone fu allievo di Elio Stilone Preconiano (Cic. Brut.
56.205) ed è molto probabile che quest’ultimo fece un commento
alle XII tavole in cui l’attenzione agli aspetti linguistici ed ai
significati delle parole fu massima. Così anche nell’Introduzione
si veda I. Ramelli (ed.), Marziano
Capella, Le nozze di Filologia e Mercurio (Milano 2001) XXVIII: “Elio
Stilone, vissuto tra la seconda metà del II sec. a.C. e la prima
metà del primo, al quale Lucilio dedicò un intero libro delle sue
satire (si veda
[102] Cfr. con bibl. ivi G. Franciosi, La famiglia romana. Società e diritto (Torino 2003) 29 e passim.
[104]
Secondo G. Franciosi, Usucapio
pro herede 29, nt. 69: “Proprio l’interpretazione estensiva
della disposizione sui fundi (la norma decemvirale sull’usus
biennale di fundi e aedes, n.d.r.) condusse a considerare
tali le aedes, oltre che gli agri. Di qui la distinzione tra
fondi urbani e fondi rustici (n.d.r., in D. 50.16.211)”. Il che
potrebbe voler significare che l’estensione della norma
sull’usucapione biennale dei fundi alle aedes cone
conseguenza dell’opera interpretativa dei giuristi romani all’epoca
della legge del
[106] Si veda anche J. Peyras, Le fundus Aufidianus: étude d’un
grand domaine de la région de Mateir (Tunisie du Nord), in Ant.
Afr. 9 (1975) 181 ss.; A. Marcone,
Storia dell’agricoltura romana. Dal mondo arcaico all’età
imperiale (Roma 1997) 189.
[107] Varro l.L. 7.2.18: Ut ager Tusculanus, sic Calydonius ager est, non terra; sed lege poetica, quod terra áAñetolia in qua Calydon, a parte totam accipi áAñetoliam voluit; l.L. 5.5.33: Ut nostri augures publici disserunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus. Per completezza di informazione si deve anche ricordare la distinzione ‘atecnica’ (nel senso di ‘non giuridica’) di agri, sempre di Varrone, in Isid. etym. 15.13.6: Omnis autem ager, ut Varro docet, quadrifarius dividitur: aut enim arvus est ager, id est sationalis; aut consitus, id est aptus arboribus; aut pascuus, qui herbis tantum et animalibus vacat; aut florus, quod sunt horti apibus congruentes et floribus. Quod etiam Vergilius in quattuor libros Georgicorum secutus est. Come si vede, a questa distinzione pare che Virgilio si sia ispirato per lo schema di redazione dei quattro libri delle Georgiche.
[108]
L’indicazione è presente anche nella linea 16 anche se meno
chiaramente leggibile: veteri possesori prove ve]tere possesionem
dedit adsignavit reddidit, quodque eius agri III. Nel linguaggio della
giurisprudenza classica a partire da Labeone, ma usa l’espressione anche
Papiniano (anche se in tema di possesso di res mobiles), il sintagma veteres
possessores acquista un significato abbastanza preciso. In base a D.
43.16.1.28 (Ulp. 69 ad ed.) vetus possessor parte della
dottrina ha creduto di poter enucleare la seguente ricostruzione: vetus
possessor potrebbe essere il possessore di terra che sia stato privato
violentemente del possesso in tempi recenti. D. 43.16.1.28: Vi possidere eum
definiendum est, qui expulso vetere possessore adquisitam per vim possessionem
optinet aut qui in hoc ipsum aptatus et praeparatus venit ut contra bonos mores
auxilio, ne prohiberi possit ingrediens in possessionem, facit. sed qui per vim
possessionem suam retinuerit, Labeo ait non vi possidere. Cfr. anche D. 41.2.47 pr. (Papin. 26 quaest.)
e Hyg. grom. de lim. const. (Lach. 202,13=Thul. 165,12): adsignatum
per professionem veterum possessorum, reddita veteri possessori. A. Lintott, Judicial reform
[109] Th. Mommsen,
Gesammelte Schriften 1.96 s.: “vetus autem possessor videtur is esse,
qui tum occupavit agrum publicum, cum occupare licuit” si riferisce alle
indicazioni delle linee 13, 16, 17 e 21.
[110] Th. Mommsen, Gesammelte Schriften 1.97; K. Johannsen, Die lex agraria 201.
[111] A. Lintott, Judicial reform 205.
[112] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.153. Igino gromatico dà questa nozione di vetus possessor: Hyg. grom. const. (Thul. 142): sicut in Campania finibus Minturnensium; quorum nova adsignatio trans fluvium Lirem limitibus continetur; citra Lirem postea adsignatum per professiones veterum possessorum; Hyg. grom. const. (Thul. 165): Omnes aeris significationes et formis et tabulis aeris inscribemus, data adsignata, concessa, excepta, reddita, commutata pro suo, reddita veteri possessori, et quaecumque alia inscriptio singularum litterarum in usu fuerit, et in aere permaneat. È evidente che vetus possessor nell’ottica dei Gromatici fosse colui che aveva ricevuto un lotto di terra in concessione, in cambio di uno ricevuto in concessione, ovvero in conseguenza dell’esito di un’azione giudiziaria.
[113] M.H. Crawford (ed.),
Roman Statutes 1.154: “The inscription on a cippus from Rocca
San Felice…is of no help”.
[114] Di
recente è stata formulata una nuova ipotesi sulla natura dei veteres
possessores menzionati nella legge del 111. Secondo L. de Ligt, Studies in legal and
agrarian history III: Appian and the lex Thoria, in Athenaeum 89
(2001) 122, i veteres possessores sarebbero coloro che nel
[115] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.154 contesta l’impostazione del Mommsen in base ai seguenti argomenti: a) cominciamo dal primo: “‘antiquity’ of possession is no interest under the Roman law of property in general, once the two years nec essary to usucape private land have passed”. Il regime della possessio dell’ager publicus e i suoi riflessi giuridici sfuggono a schematismi di questo tipo che appaiono suferficiali e privi di senso storico. Per l’epoca della lex epigrafica non è possibile mettere sullo stesso piano la possessio dell’ager publicus con la possessio quale requisito per l’acquisto della proprietà delle res mediante usucapio. Ma sul punto dovrò ritornare. b) il richiamo a D. 43.16.1 e D. 41.2.47 pr. per qualificare la categoria di veteres possessores usata in questo contesto è quanto meno discutibile. Il primo, che ho riportato in nota x perché usato come argomento anche dal Lintott, riguarda il problema del possesso violento che abbia avuto origine da un’azione violenta. Qui il vetus possessor è colui che è stato spogliato con violenza di questo. Dunque poca attinenza con la questione che stiamo trattando. Il secondo passo tratto dal ventiseiesimo liber quaestionum di Emilio Papiniano usa l’espressione a proposito della disciplina dei danni occorsi ai precedenti possessori in materia di deposito e comodato e viene menzionato un parere di Nerva figlio in tema di usucapione. Dunque, niente di più lontano dal nostro problema. c) Il terzo argomento è così esposto: “And the only texts of the Agrimensores whic are explicit on the subject suggest very strongly that for them a vetus possessor was someone who had possessed ager publicus and whose claim to possession, wheter to the original piece of land or to one received in substitution for it, had been endorsed by a judicial process (see below)”. Critica metodologica all’uso delle fonti gromatiche per spiegare questioni attinenti al problema dell’ager publicus.
[117]
Sulla storicità della lex Licinia Sextia agraria si veda lo stato
della questione in A. Manzo, La
lex Licinia Sextia de modo agrorum 19 ss. Sul punto è il caso di
ricordare la posizione di Max Weber il quale sostiene [in RAG. 130, nt.
11=MGW. I-2 216 s. e nt. 11=SAR. 90 e 206 ss., nt. 15] la tesi
radicale della inesistenza di tale legge, considerata una proiezione
all’indietro delle leges Semproniae fatta dall’annalistica
per dare un avallo alla tradizione. In tal senso R. Maschke, Zur
theorie und Geschichte der römischen Agrargesetze, cit., p. 56 ss.; F.
Bozza, La possessio
dell’ager publicus, cit., p. 167 ss. Tra gli altri anche E. Sereni, Comunità rurali
nell’Italia antica (Roma 1955) 37; V. A. Sirago, L‘agricoltura italiana nel II sec. a.C.
(Napoli 1971) 72. Contra W. Soltau, Die Aechtheit des
licinischen Ackergesetzes von 367 v. Chr., in Hermes 30 (1895) 624
ss.; C. Trapenard, L‘ager
scripturarius. Contribution a l’histoire de la
propriété collective (Paris 1908) 108 ss., 120 ss.; E. Pais, Storia critica di Roma durante
i primi cinque secoli (Roma 1918) 3.95 ss. Su tutto ora L. Labruna, Tutela del possesso
fondiario 130 e passim; D. Mantovani,
L’occupazione dell’ager publicus e le sue regole prima del
[118] Appian. b.civ. 1.37. Cfr. M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.155. E. Badian, Tiberius Gracchus and the beginning of the Roman revolution, in ANRW. 1.1 (1972) 702 s. respinge la notizia desumibile da Liv. per. 58; de vir. ill. 64.3 per cui il limite massimo di terra sarebbe quello di 1000 iugeri in base al fatto che solo due figli avrebbero potuto reclamare la terra.
[120] F.T. Hinrichs,
Die römische Srassenbau zur Zeit der Gracchen, in Historia
16 (1967) 162 ss.; Id., Die Geschichte der gromatischen Institutionen.
Untersuchungen zu Landverteilung, Landvermessung, Bodenverwaltung und
Bodenrecht im römischen Reich (Wiesbaden 1974); Id., Die lex
agraria des Jahres 111 v. Chr. 252-307; K. Johannsen, Die lex agraria 98 s.
[123] La
prima commissione triumvirale fi costituita da Tiberio Gracco, suo fratello
Gaio e suo suocero Appio Claudio. Alla morte di Tiberio subentrò P.
Licinio Crasso, suocero di Gaio (v. Plut. T.Gracc. 21.2). Alla morte di
Appio Claudio e Licinio Crasso, nel
[125] Th.
Mommsen, CIL. 12, 87=Gesammelte Schriften 97; M. Kaser, Die Typen der römischen
Bodenrechte in der späteren Republik 11 s.; A. Burdese, Studi sull’ager publicus (Torino 1952)
[128] Sulle attribuzioni viritane v. Varrone dove troviamo anche la definizione di heredium, di centuria e di saltus: r.r. 1.10.2: Bina iugera quod a Romulo primum divisa dicebantur viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt. Haec postea centum centuria. Centuria est quadrata, in omnes quattuor partes ut habeat latera longa pedum ∞ CD. Hae porro quattuor, centuriae coniunctae ut sint in utramque partem binae, appellantur in agris divisis viritim publice saltus. Si v. anche Cic. de re p. 2.14.26: Ac primum agros, quos bello Romulus ceperat, divisit viritim civibus docuitque sine depopulatione atque praeda posse eos colendis agris abundare commodis omnibus amoremque…; Liv. 1.46.1: (n.d.r., Tarquinio) conciliata prius voluntate plebis agro capto ex hostibus viritim diviso; 2.41.1 (Spurio Cassio); Liv. 42.4.3: Eodem anno, cum agri Ligustini et Gallici, quod bello captum erat, aliquantum vacaret, senatus consultum factum, ut is ager viritim divideretur; Dion. 8.72-73; Colum. 1 praef. 14; Varr. r.r. 1.2.7. Sul punto cfr. Ch. Saumagne, Sur la loi agraire 68.
[129]
Liv. 4.49.6-11; Diod. Sic. 13.42.6. Cfr. G. Rotondi,
Leges publicae populi romani 213; Ch.
Saumagne, Sur la loi agraire 70.
[133] Così A. Lintott, Judicial reform 206; L.
de Ligt, Studies in legal and
agrarian history III: Appian and the lex Thoria 122.
[135] Cfr. B.G. Niebhur, Histoire romaine (in 7 voll.) (Paris tr. fr.
M.P.A. De Golbéry 1830-1840) 4.194.
[136] Th. Mommsen, Gesammelte Schriften 110. Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana 32, 18, nt. 16.
[138] F. De
Martino, ibidem; L. Zancan,
Ager publicus 72. Cfr. linea 24: quoi IIIvir eum agrum locum
pro eo agro loco, quo coloniam deduxit, dedit [reddidi]t
adsignavitve; facitoque is pr(aetor) consolve, quo de ea re in
ious aditum erit; linea
[141]
Appian. b.civ. 1.18.74-77: “Ucciso Gracco e deceduto Appio
Claudio, furono nominati al loro posto nel triumvirato agrario, con il
più giovane Gracco. Fulvio Flacco e Papirio Carbone, e poiché i
possessori di agro pubblico trascuravano di farne regolare dichiarazione, si
bandì con un editto che degli accusatori avrebbero potuto presentare
denunce. [74] Si ebbe subito, allora, un gran numero di difficili liti. E,
difatti, quanto altro terreno, prossimo all’agro pubblico, era stato
venduto o diviso fra gli alleati, su di esso, per misurare l’agro
pubblico, era necessario svolgere un’inchiesta: come era stato venduto e
come diviso. Ma non tutti avevano più titoli di vendita o di assegnazione
e quelli che si ritrovavano erano dubbi. [75] Rifatta, inoltre, la misurazione
dei terreni, taluni possessori venivano trasferiti da un terreno a piantagioni
e fornito di cascine a terreni nudi; taluni da zone fruttifere ad altre sterili
e piene di paludi e pantani: difatti, originariamente, non si era fatta la
divisione trattandosi di terreni conquistati. [76] Inoltre, la disposizione che
consentiva a chi voleva lavorare la terra indivisa aveva indotto molti a
lavorare le terre vicine alle proprie, confondendo, così, la distinzione
fra le pubbliche e le private. Il passar del tempo aveva, poi, mutato ogni
cosa. [77] E l’ingiustizia dei ricchi, per quanto grande era difficile a
riconoscere. Così non vi era altro che un generale trasferimento,
poiché ognuno era trasportato e traslocato su terreni altrui” [tr.
Gabba-Magnino 81, 83].
[146] Appian. b.civ. 1.7.26: „RvmaÝoi
t°n
ƒItalÛan
pol¡mÄ
katŒ
m¡rh
xeiroæmenoi
g°V m¡roV ¤l‹mbanon
kaÜ
pñleiV ¤nÐkizon
³
¤V tŒV prñteron
oësaV kleroæxouV Žpò
sfÇn
kat¡legon. [tr. Gabba-Magnino 67]: “I
Romani, man mano che sottomettevano con le armi le regioni dell’Italia,
si impadronivano di parte del territorio e vi fondavano delle città
oppure nelle città già esistenti deducevano propri coloni”.
[148] A. Lintott, Judicial reform 208. Condivido la precisazione relativa all’indicazione agri locei publicei (linea 5) che l’autore riferisce ai suoli non edificati, in opposizione alla formula agrei locei aedific[iei (linea 6) che riguarderebbe i suoli ubicati all’interno di un perimetro urbano.
[150] F. De Martino, Storia della costituzione romana2 3.25. L’autore respinge l’ipotesi di L. Zancan, Ager publicus 86 per il quale gli Italici sarebbero stati esclusi dalle distribuzioni, anche ammettendo che C. Gracco riconobbe i diritti sanciti nei foedera. Cfr. anche F. De Martino, Storia della costituzione romana2 (Napoli 1973) 2.484.
[151] Sul
punto S. Petrucci, Colonie
romane e latine nel V e IV secolo a.C., in F. Serrao (cur.), Legge e
società nella repubblica romana 2 (2000) 3 ss.; E. Hermon, Habiter et partager les
terres avant les Gracques 75 ss., 203 ss. e passim; G. Franciosi, Per la storia
dell’usucapione immobiliare in Roma antica 144 ss. In particolare
possiamo ricordare le assegnazioni dell’ager Latinus, Privernas
e Falernus del 340 e
[152] M. Weber,
Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats-
und Privatrecht (Stuttgart 1891) 18 ss.[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2:
Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und
Privatrecht, hg. von J. Deininger (Tübingen 1984) 112 ss.][=Storia
agraria romana. Dal punto di vista del diritto pubblico e privato
(tr. it. S. Franchi) (Milano 1982)
17 ss.]; Id., Agrarverhältnisse im Altertum 157[= Gesammelte
Aufsätze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte3 224][= Storia
economica e sociale dell’antichità 287]. Per un
orientamento critico sulla Römische Agrargeschichte di Weber
segnalo J. Deininger, Die
antike Welt in der Sicht Max Webers (München 1987); L. Capogrossi Colognesi, Economie
antiche e capitalismo moderno (Roma-Bari 1990); Id., Max Weber e le
economie del mondo antico (Roma-Bari 2000); R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber 41
ss. e passim. P. Honigsheim, Max Weber as Historian
of Agriculture and Rural Life, in Agricultural History 23 (1949)
195-197; A. Heuss, Max Webers
Bedeutung für die Geschichte des griechisch-römischen Altertums,
in Historische Zeitschrift, 201-3 (1965) 533-538; E. Sereni, Prefazione a SAR.
pp. IX-XXI; A. Momigliano,
Dopo Max Weber?, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa
8-4 (1978) 1318-1319; E. Narducci,
Max Weber fra antichità e mondo moderno, in QS. 7.14
(1981) 33-35; E. Lepore, Dalle
forme alla storia del mondo antico, in Pietro Rossi (cur.), Max Weber e
l’analisi del mondo moderno (Torino 1981) 83-88; E. Lo Cascio, Appunti su Weber
“teorico” dell’economia greco-romana, in Fenomenologia
e società V-17 (1982) 123-128; Id., Weber e il “capitalismo
antico”, in M. Losito-P. Schiera (curr.), Max Weber e le scienze
sociali del suo tempo (Bologna 1988) 401-406; F. De Martino, Su Max Weber, l’economia antica e la
storiografia dell’antichità, in Index 19 (1991)
459-473; F. Lamberti, L‘antichistica
e Max Weber, in Labeo 38 (1992) 347-361; O. Behrends, Bodenhoeit und privates Bodeneigentum im
Grenzwesen Roms, in O. Behrends-L. Capogrossi Colognesi (edd.), Die römische Feldmeßkunst,
cit., p.207-210.
[153] M. Weber,
Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats-
und Privatrecht 16[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2: Die römische Agrargeschichte
in ihrer Bedeutung für das Staats und Privatrecht 111][=Storia
agraria romana 15 s.].
[154] Tac. ann. 14.27.2-3: non enim, ut olim, universae legiones deducebantur cum tribunis et centurionibus et sui cuiusque ordinis militibus, ut consensu et caritate rem publicam efficerent, sed ignoti inter se, diversis manipulis, sine rectore, sine adfectibus mutuis, quasi ex alio genere mortalium repente in unum collecti, numerus magis quam colonia. A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta 49.
[155] Hyg. grom. de lim. const. (Lach. 199,11 ss.=Thul. 162 s.): Agro limitato accepturorum comparationem faciemus ad modum acceptarum, quatenus centuria capere possit aestimabimus, et in sortem mittemus. solent enim culti agri ad pretium emeritorum aestimari. si in illa pertica centurias ducenum iugerum fecerimus et accipientibus dabuntur iugera sexagena sena besses, unam centuriam tres homines] accipere debebunt, in qua illis tres partes aequis frontibus de terminabimus. omnium nomina sortibus inscripta in urna mittemus, et prout exierint primam sortem centuriarum tollere debebunt. eodem exemplo et ceteri. quod si illis convenerit, ut conternati sortiri debeant, qui tres primam centuriarum sortem accipere debeant, conternationum factarum singula sortibus nomina inscribemus. ut si convenerit Licio Titio Luci filio, Seio Titi filio, Agerio Auli filio, veteranis legionis quintae Alaudae, ex eis unum sorti nomen inscribemus et quoto loco exierit notabimus. si conternationem urna faciet, singulis sortibus singulorum nomina inscribemus, et a primo usque ad tertium qui exierit erit prima conternatio. sic et reliquae. has conternationes sublata sorte quidam tabulas appellaverunt quoniam codicibus excipiebantur, et a prima cera primam tabulam appellaverunt. peracta deinde conternationum sortitione omnes centurias sortibus per singulas inscribemus et in urnam mittemus: inde quae centuria primum exierit, ad primam conternationem pertinebit. sit forte centuria D.D. XXXV. K. XLVII: hanc et prima tabula tres accipere debebunt. quod in aeris libris sic inscribemus: TABVLA PRIMA. D.D. XXXV V.K. XLVII L. TERENTIO L. FILIO POL(LIA) IVGERA XLVI, P. TARQVINIO CN. F. TER(ENTINA) IVGERA LXVI. eodem exemplo et ceteras sortes…
[156] Hyg. de lim. (Lach. 113,1 ss.=Thul. 73,6): Mensura peracta sorteásñ dividi debent, et inscribi nomina per decurias [per homines denos], [s]et in forma[s] sec[t]ari denum hominum acceptae, ut quot singuli accipere debent [decem] in unum coniungantur; et in sortem inscribi SORS PRIMA [I] D.D. I ET SECVNDVM ET III ET IIII CITRA CARDINEM ILLVM, quo usque mensura expleri decem hominum debebit, id est in quot centuriis; similiter [h]omnium decuriarum nomina in sortibus inscripta esse, qua parte quae aut quota sors modum habeat, utrum ultra et dextra, utrum sinistra et ultra, aut citra; deinde ex decuriis,| antequam sortes tollant, singulorum nomina in pittaciis et in sorticulis. et idáeoñ ipsi sortientur, ut sciant quis primo aut quoto cumque loco exeant. | Igitur omnem sortem ponere debent, in qua totius perticae modus adscriptus erit. haec sortitio ideo necessaria est, nequis queri possit, se ante debuisse sortem tollere et [in]meliorem fortasse potuisse incidere agri modum, aut sit disceptatio, quis ante sortem tollere debeat, cum omnes in aequo sint.
[157] M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 19 ss.[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2: Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 114 ss.][=Storia agraria romana 18 s.]. Cfr. anche M. Weber, Agrarverhältnisse im Altertum, in Handwörterbuch der Staatswissenschaften3 1 (Jena 1909) 157[=Gesammelte Aufsätze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte3, hg. von Marianne Weber (Tübingen 1988) 224][=Storia economica e sociale dell’antichità. 1. I rapporti agrari (tr. it. B. Spagnuolo Vigorita) (Roma 1981) 287]. Si tratterebbe di una specie di adattamento del sistema adottato per la ripartizione e la assegnazione dell’ager scamnatus rispetto al quale l’assegnazione avveniva per proximos possessionum rigores. Cfr. Front. de agr. qual. (Lach. 3,1=Thul. 1) e M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 26[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2: Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 120][=Storia agraria romana 22]. Su questo punto v. però la critica di Th. Mommsen, Zur römischen Bodenrecht [Rec. a M. Weber, Römische Agrargeschichte], in Hermes 27 (1892) 82 il quale ritiene che rigor, nell’ager scamnatus, sia semplicemente l’equivalente di limes, inficiando così una delle tesi portanti della Storia agraria romana sulla distinzione tra il sistema della centuriatio e quello della scamnatio. Cfr. sul punto R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber 91, ma anche 115 e passim.
[158] Th.
Mommsen, Zur römischen Bodenrecht [Rec. a
M. Weber, Römische
Agrargeschichte], cit., p. 113.
[159] M. Weber, RAG. 28 s.=MWG. I-2 122 s.=SAR. 23 s. Non convince la critica specifica di B. Brugi [Le dottrine giuridiche degli Agrimensori Romani 143 s.] rivolta a Weber su questo punto: “Il Weber pensa che il carattere distintivo della assegnazione ‘per centurias’ dipenda soprattutto dalla mappa la quale non avrebbe riprodotto che i limiti estremi della centuria: or siccome non coincidono coi confini dei singoli possessi sarebbe mancata di regola ‘una rappresentazione cartografica di questi’. Si potrebbe quasi credere balenato qualche cosa di simile al pensiero di un commentatore di Frontino [2, 12]. Invece nell’‘ager scamnatus’ il suolo sarebbe stato assegnato ‘per proximos possessionum rigores’ [3,1], cioè, spiega il Weber, ‘secondo i prossimi confini dei possedimenti’. La mappa avrebbe rappresentato con precisione all’occhio i singoli fondi. La prima divisione sarebbe adatta ad un suolo in cui non non v’è altro bisogno di identificare il fondo: la seconda gioverebbe al fisco per questa identificazione. Tale spiegazione non sembra appoggiata dalle fonti. Si osservi che già dai tempi di Augusto si volle anche nella ‘centuriatio’ una rappresentazione dei confini di ogni possedimento [172,6], forse perché, perduta la corrispondenza tra i duecento iugeri e i cento possessori, restava ormai difficile verificare, ad es. per il censo, la situazione dei fondi”. Un’altra critica all’ipotesi di Weber sulla corrispondenza ager scamnatus-ager publicus/centuriatio-ager privatus viene da E. Beaudouin [La limitation des fonds de terre dans ses rapports avec le droit de propriètè (Paris 1894) 84 ss.]. Secondo tale autore le forme agrimensorie non avrebbero presupposto alcuna particolare disciplina giuridica, ma sarebbero state dettate solo da necessità tecniche di ordine topografico. Sul punto v. anche L. Zancan, Ager publicus 6 ss.; A. Burdese, Studi sull’ager publicus 16 ss.; L. Bove, Ricerche sugli agri vectigales (Napoli 1959) 17 ss. e passim; F. De Martino, Storia della costituzione romana2 2.459 ss.; 3.10 ss.; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 92, nt. 46.
[160] G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica 145. Per Weber, il modus agri può essere visto come un retaggio dei tempi della Haufenverfassung e del principio delle quote di partecipazione agraria. Sarebbe stato proprio per questo che la mancipatio sarebbe sopravvissuta e si si sarebbe adattata alle nuove condizioni dettate dalla costituzione dei nuovi assetti territoriali. Nella forma, infatti, come strumento di registrazione catastale della centuriatio sarebbe stata registrata insieme al nome degli assegnatari, solo la quota loro assegnata, senza l’indicazione dei confini delle singole proprietà. L’indicazione di Igino è chiara: namque antiqui plurimum videbantur praestitisse, quod extremis in finibus divisionis non pleniis centuriis modum formis adscripserunt. Cfr. M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 25 ss.[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2: Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 119 s.][=Storia agraria romana 21 s.]. Weber basa il suo ragionamento su Hyg. de cond. agr. (Lach. 121,8=Thulin 84,9): cum in Pannonia[m] agros veteranis ex voluntate et liberalitate imperatoris Traiani Augusti Germanici adsignaret, in aere, id est in formis, non tantum modum quem adsignabat adscribsit aut notavit, sed et extrema linea unius cuiusque modum comprehendit: uti acta est mensura adsignationis, ita inscribsit longitudinis et latitudinis modum. quo |facto nullae inter veteranos lites contentionesque ex his terris nasci poterunt. namque antiqui plurimum videbantur praestitisse, quod extremis in finibus divisionis non pleniaes centuriis modum formis adscribserunt. Cfr. anche R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber 115.
[161] Il discorso che si sta facendo riguarda il modus concepito come ‘misura’, in particolare come ‘misura del fondo’ (modus agri). Sull’uso nel linguaggio comune e giuridico del termine modus nel significato di misura cfr. A.E. Forcellini-V. De Vit, sv. Modus, in Totius latinitatis Lexicon 4 (Prati 1868) 154 s.; K.E. Georges, sv. Modus, in Ausführliches Lateinisch-Deutsches Handwörterbuch 2 (Leipzig 1880) 860 ss.; A. Walde-J.B. Hofmann, sv. Modus, in Lateinisches etymologisches Wörterbuch3 2 (Heidelberg 1965) 99 s.; E. Brandt-A. Lumpe, sv. Modus, in Thesaurus linguae Latinae, 8 (Lipsiae 1936-1966) 1264 ss.; A. Ernout-A. Meillet, sv. Modus, in Dictionnaire étimologique de la langue latine4 (Paris 1979) 408 s.; J. Pokorny, sv. Modus, in Indogermanisches etymologisches Wörterbuch3 1 (Tübingen-Basel 1959) 705. Si v. sul punto M.F. Cursi, Modus servitutis. Il ruolo dell’autonomia privata nella costruzione del sistema tipico delle servitù prediali (Napoli 1999) 22 s. e passim che, fra l’altro, collega (p. 22, nt. 61) l’interpretazione del valore semantico di modus in Émile Benveniste [Il vocabolario della istituzioni indoeuropee 2.376 ss. come: “una misura imposta alle cose, una misura di cui si è padroni e che presuppone riflessione e scelta, che presuppone anche una decisione”] a Verg. gramm. epit. fr. 22a [GrL. 8 Hagen 196]: modus non aliud quam certam mensuram significat, ravvisando che (ibidem): “la qualificazione certa della misura richiama l’attenzione sull’intervento di chi fissa la misura della cosa”. In G. Semerano, sv. modus, in Le origini della cultura europea 1(2).475, il vocabolo latino modus, nel significato di ‘misura’, ‘maniera’, viene ricollegato all’accadico mada\du che significa ‘misurare’, ‘to measure’, ‘vermessen’.