N. 5 – 2006 – Notizie

 

Luigi Garofalo

Università di Padova

 

 

Studi sulla Sacertà

 

 

Padova, CEDAM, 2005, pp. VIII-178

 

 

 

Indice Sommario

 

Prefazione, 1

 

I. – Sulla condizione dell’homo sacer in età arcaica, 11.

 

II. – Iuris interpretes e inviolabilità dei magistrati, 51.

 

III. – Homo sacer e arcana imperii, 75.

 

Indice degli autori, 167.

 

Indice delle fonti, 175.

 

 

 

Prefazione

 

Della sacertà mi sono occupato in vari studi: ma in modo più esteso e approfondito nei tre che qui si susseguono nell’ordine in cui sono stati concepiti.

Ho maturato l’idea di raccoglierli in un libro grazie a Tommaso dalla Massara. Colpito dalla sorprendente attualità che la sacertà mostra, ha deciso di dedicarvi una parte dell’insegnamento di Storia del diritto romano che, a iniziare dall’ottobre del 2005, tiene a beneficio degli studenti della sede trevigiana della Facoltà giuridica dell’Università di Padova. E conoscendo la passione che da sempre nutro per questo tema dall’indubbio fascino, mi ha sollecitato a mettere a punto un testo fruibile a scopo didattico.

Dei tre scritti, il primo, Sulla condizione di homo sacer’ in età arcaica, trae origine da una relazione che, per iniziativa del professor Francesco Sini, ho esposto il 22 maggio 1990 a Sassari, presso la Facoltà di Giurisprudenza della locale Università, nell’ambito del terzo seminario incentrato su «Scientia iuris e collegi sacerdotali nell’esperienza romana arcaica e repubblicana».

Il secondo, Iuris interpretes’ e inviolabilità magistratuale, riprende e sviluppa alcune idee che ho enunciato in una lezione tenuta, su invito dei professori Luigi Labruna e Franco Salerno, il 26 marzo 1998 all’interno dei corsi di Storia del diritto romano e Storia della costituzione romana da loro impartiti nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli «Federico II» e poi riferito, con maggior ampiezza, il 16 novembre 2001 a Madrid, in una di quelle conferenze che il professor Javier Paricio è solito organizzare nella Facultad de Derecho dell’Universidad Complutense.

L’ultimo, Homo sacer’ e arcana imperii’, l’unico a essere inedito, dà forma compiuta a quanto ho avuto modo di sostenere in una comunicazione presentata, per volere del professor Pierangelo Catalano, il 22 aprile 2005 a Roma, nel venticinquesimo seminario internazionale di studi storici denominato «Da Roma alla Terza Roma», relativo a «Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca», e in seguito in un Gastvortrag’ su «Sazertät und Souveränität» che ha avuto luogo il 25 maggio dello stesso anno presso la Rechtswissenschaftliche Fakultät della Karl-Franzens-Universität di Graz, auspice la professoressa Evelyn Höbenreich, e, in lingua italiana, il successivo 8 novembre a Mosca, all’Accademia delle scienze di Russia, in seno a un corso di perfezionamento in diritto romano, coordinato dal professor Leonid L. Kofanov, frutto della collaborazione fra il Centro di studi di diritto romano che ha sede nell’Istituto di storia universale della stessa Accademia e la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Mosca «M.V. Lomonosov».

Leggendo questi saggi apparirà nitidamente che la sacertà, lungi dall’interessare soltanto gli studiosi della fenomenologia giuridica nel contesto della risalente società romana, attrae l’attenzione degli specialisti di non poche altre branche del sapere scientifico, che vi scorgono una sorta di prisma in grado di ridare luce ad aspetti di un’antichità, anche molto remota, che toccano, oltre al diritto, la religione, la politica, l’economia e l’antropologia[1]. Ma soprattutto emergerà con evidenza che essa riveste ora una posizione di particolare importanza nell’ambito del dibattito filosofico internazionale. Essenziale è allora chiarire da subito come abbia potuto conquistarla.

Inizialmente va ricordato che da qualche tempo tanti pensatori, attingendo ai lasciti di Michel Foucault[2] e Hannah Arendt e mettendoli variamente a frutto[3], scrutano e spiegano l’esperienza presente e passata sulla base dei paradigmi concettuali della biopolitica: uno strumento a valenza euristica dalla denominazione ambigua, se non proprio fuorviante, che consente loro di svelare i meccanismi di controllo e dominio della nuda vita[4], ossia della vita nella sua forma elementare e primaria[5], affermatisi nel corso della storia, dopo il declino della classicità greca, e principalmente negli ultimi secoli[6] (ciò che giustifica il rilievo critico sul vocabolo con cui lo si designa, dal momento che, a restare al lessico familiare ad Aristotele, esso rimanda al bíos, e dunque alla vita qualificata che abita il politico, e non, come sarebbe naturale attendersi, alla zoé, cioè alla vita nella sua dimensione biologica, esclusa dal politico[7]).

Di frequente, occorre aggiungere a maggior specificazione, questi pensatori concentrano il loro sguardo sull’eterogenea realtà tradizionalmente aggregata intorno a categorie che alla più parte dei cultori del diritto sembrano ancora dotate di una forza ricostruttiva insuperabile, tra le quali – a voler esemplificare – quelle di sovranità, legge e democrazia[8], e, avvalendosi appunto degli schemi conoscitivi della biopolitica, ne portano alla luce una costante che tali categorie lasciano invece nell’ombra: vale a dire l’indissolubile legame tra il potere moderno e la vita intesa nel suo significato corporeo ovvero, per ripetere parole di Laura Bazzicalupo e Roberto Esposito[9], «il nesso costitutivo del potere moderno con la morte e la sopravvivenza».

Un modello di questa tipologia di indagini è offerto da quell’ampia ricerca che per anni è andato svolgendo Giorgio Agamben, uno dei filosofi italiani di maggior prestigio, della quale parlo diffusamente nel terzo contributo. E ne parlo perché è proprio al suo interno che si rinviene una nuova analisi della sacertà, grazie alla quale l’autore giunge ad affermare che in essa andrebbe individuata «la forma originaria dell’implicazione della nuda vita nell’ordine giuridico-politico» e non certo, secondo quanto credono molti, una manifestazione di quella primitiva ambivalenza della nozione di sacro che in realtà costituirebbe il frutto della duplicazione della polarità di valori insita nella struttura etnografica di tabù.

Ebbene, da quando Agamben ha affacciato questa tesi, offrendo così una soluzione alla questione dell’origine del dogma che vuole sacra la vita, intesa come bloßes Leben’ – messa a fuoco da Walter Benjamin in un famoso saggio dato alle stampe nel 1921[10], nel quale avanza anche l’idea che in quel dogma, come scrive Jacques Derrida[11], risieda «la risposta relativamente moderna e nostalgica dell’Occidente alla perdita del sacro» –, la sacertà si è stabilmente insediata nell’universo della meditazione teorica, occupandovi anzi, come ho in precedenza osservato, un posto di primo piano. Intellettuali di ogni dove continuano invero a disquisirne, pur non uscendo quasi mai dall’orizzonte segnato dalla reinvestigazione compiuta da Agamben – che dei limiti sicuramente soffre, ben percepibili ove si confrontino le fonti antiche e le trattazioni scientifiche più o meno recenti sull’argomento che risultano scrutinate dall’autore e quelle che gli erano a disposizione[12] – e comunque al prevalente fine di accogliere o respingere la sua interpretazione in chiave biopolitica dell’homo sacer.

Zygmunt Bauman, per esempio, in due libri da poco tradotti nella nostra lingua cui accenno anche nell’ultimo scritto, indugia sulla sacertà, riprendendo e sintetizzando la riflessione che al suo riguardo ha articolato Agamben. Al pari di questi, infatti, egli distingue nell’homo sacer una figura dell’antico diritto romano, della quale la storia registra «moderne incarnazioni»[13], «posta al di fuori della giurisdizione umana senza trapassare in quella divina», in cui si nasconde l’intima correlazione tra potere sovrano e nuda vita[14]. E come Agamben si mostra convinto che la vita dell’homo sacer non abbia rilievo alcuno sotto il duplice profilo umano e divino, tanto da poter scrivere, in scia a lui: «uccidere un homo sacer non è un reato punibile, ma la vita di un homo sacer non si può usare neanche in un sacrificio religioso. Privata di quel senso umano e divino che solo la legge può conferire, la vita dell’homo sacer non ha valore. Uccidere un homo sacer non è reato né sacrilegio, ma per lo stesso motivo non può costituire un’offerta sacrificale. Traducendo tutto ciò in termini laici contemporanei, potremmo dire che, nella sua versione attuale, l’homo sacer non è né definito da un insieme di leggi positive, né è portatore di diritti umani che precedono le norme di legge»[15]. Ma anche Eligio Resta, per addurre un esempio ulteriore, là dove – in una monografia relativamente recente[16] – parla del criminale che «è sulla linea di una demarcazione tra un dentro e un fuori, tra un’inclusione e un’esclusione» e degli «ossimori» che «rendono giustizia di questo stato di esclusione degli inclusi che ogni criminalità viene a rappresentare», evoca l’homo sacer così come visto da Agamben: «il criminale era il sacer delle XII tavole», egli dice, «e la sua sacertà era il simbolo di ogni sospensione» del diritto, esattamente come sostiene Agamben; «se smette di essere l’empio’», prosegue Resta, «di quel meccanismo dell’empietà continua a prendere parte»[17].

La traiettoria speculativa inaugurata da Agamben non è comunque rimasta priva di eco nel campo, che già si è visto composito, al quale da sempre appartiene l’esplorazione della sacertà.

Ne recano limpida testimonianza, come pure affiorerà dal mio saggio conclusivo, due ponderose opere, l’una – che già ho richiamato nella nota di apertura – di Roberto Fiori e l’altra di Andrea Carandini, e una lettura critica che Rainer Maria Kiesow ha dedicato proprio al volume di Agamben per noi più significativo, Homo sacer’. Potere sovrano e nuda vita, apparso a Torino nel 1995. Nella prima, invero, il romanista si sofferma brevemente sulla rielaborazione concettuale della sacertà prospettata da Agamben, definendola «suggestiva» e prendendone tuttavia le distanze, persuaso che «alla base dell’utilizzazione della figura dell’homo sacer come paradigma della soggezione dell’individuo al potere sia in realtà un’incomprensione», in quanto «il potere sovrano, in diritto romano arcaico, punisce mediante il sacrificium, che coincide con la pena di morte ..., e dunque il sacer esto – ossia la possibilità di uccisione che non sia immolatio – è con esso ontologicamente inconciliabile»[18]. Nella seconda, invece, l’archeologo plaude al filosofo, che «ha colto il nesso fra homo sacer e l’origine della sovranità»[19]. Mentre nel terzo lavoro lo storico e teorico del diritto manifesta uno scetticismo assoluto nei confronti dello sforzo ermeneutico di Agamben. «Niemand weiß – genau, oder auch nur ungefähr –, was sacer im frühen Rom bedeutet hat», egli osserva, in quanto «von realen’ homines sacri – jenseits bruchstückhafter normativer Bestimmungen – weiß mann nichts». Donde un inevitabile corollario, che vanifica l’impegno di Agamben: «der homo sacer bleibt ein historisches Änigma – ein Mythos»; e ancora: «der homo sacer ist ein Mythos, das bloße Leben als von der Sazertät abgeleiteter Begriff eine reine, und insofern genau zu Benjamins messianischem Gewalttext passende, Mystifikation». Esprimendo un giudizio che non collima con quello che ho sopra formulato, l’autore riconosce peraltro ad Agamben un merito: «zwar diskutiert er die rechtshistorische Forschung zum homo sacer durchaus ausführlich»; ma immediatamente soggiunge: «allerdings ohne dass die gedankliche Funktion dieser Erörterung deutlich würde»[20].

La disamina condotta da Kiesow, d’altro canto, risulta già valorizzata all’interno del circuito della scienza giuridica europea. Ad attingervi, in particolare, è Tomasz Giaro, nell’ambito di una lunga ricerca protesa a stigmatizzare, talora con eccesso di caparbietà e ironia, l’odierna tendenza, diffusa soprattutto tra gli studiosi dediti al diritto romano, a vedere in questo un insieme di istituti dall’inesauribile energia, capaci di attraversare il tempo veicolati da legislazioni, dottrine e giurisprudenze succedutesi nei secoli o di ricomparire ciclicamente nel corso della storia: come appunto nel caso della sacertà, che nello scenario ricreato da Agamben torna ripetutamente, dislocandosi in luoghi diversi, tra i quali i famigerati campi di concentramento dell’esperienza nazista[21].

Siamo dunque di fronte, com’è facile constatare, a posizioni discordanti, che di per sé giustificano l’incessante proseguire di indagini sulla sacertà che – in conformità al monito di Salvatore Settis a contrastare «l’eccessiva segmentazione» interna alle discipline relative al mondo classico[22] – intersechino le molteplici prospettive donde, mai come adesso, la si guarda[23].

Studiandone adeguatamente i delicati meccanismi e la cornice storica entro cui s’inquadra, d’altro canto, meglio si può comprendere l’incidenza del sacro sull’evoluzione della società e dell’individuo: di quel sacro che a taluno[24] sembra affievolirsi sempre più[25], progressivamente obnubilato dall’inarrestabile espandersi della tecnica[26], che, ben diversamente dal primo, non esibisce nessun fine e nessun limite[27], pronta com’è a superare all’infinito i propri risultati all’unico scopo di potenziare se stessa[28].

Concludo con una notazione che attiene al piano personale. È questo il primo libro che dedico a Giambattista Impallomeni, di cui ho avuto la fortuna di essere allievo. La ragione è che, in vita, mi aveva intimato, e in modo davvero invincibile, di onorare, prima di lui, coloro che ho ricordato nei miei precedenti volumi: segno, tra i tanti, del suo aristocratico magistero.

 

 



[1]  Che attraverso la sacertà si acceda a una pluralità di ambiti circostanti al diritto risulta ottimamente da R. Fiori, Homo sacer’. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli, 1996, specialmente 7 ss. e 507 ss.: una monografia dal vasto impianto che rimane di grande utilità, nonostante la critica demolitoria che vi ha riservato F. Zuccotti, In tema di sacertà, in Labeo, XLIV, 1998, 417 ss.

[2]  E in particolare alla sua analisi del potere, impostata in termini di «esplicazione del nesso corpo-dominio», come rileva S. Natoli, La verità in gioco. Scritti su Foucault, Milano, 2005, 68.

[3]  Cfr. S. Forti, Introduzione, in La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, a cura di S. Forti, Torino, 2004, XXI s., nonché gli autori qui richiamati alla nt. 14.

[4]  Cfr. P. Barcellona, Il suicidio dell’Europa. Dalla coscienza infelice all’edonismo cognitivo, Bari, 2005, 49 ss. e 152 ss.; v. altresì G. Bonacchi, Corpo e storia, in Dialoghi di bioetica, a cura di G. Bonacchi, Roma, 2003, 38, che vede nel corpo il «luogo cruciale dell’alleanza fra saperi e poteri e del conflitto fra soggettività e disciplinamento che sta al cuore dell’impresa epistemologica occidentale».

[5]  Cfr. S. Forti, Introduzione, cit., XXII.

[6]  «L’opera di Foucault», si legge in M. Hardt - A. Negri, Impero, trad. it., Milano, 2003, 39, «ci permette ... di riconoscere la natura biopolitica del nuovo paradigma di potere. Il biopotere è una forma di potere che regola il sociale dall’interno, inseguendolo, interpretandolo, assorbendolo e riarticolandolo. Il potere può imporre un comando effettivo sull’intera vita della popolazione solo nel momento in cui diviene una funzione vitale e integrale che ogni individuo comprende in sé e riattiva volontariamente. Come scrive Foucault: oggi la vita è divenuta ... un oggetto di potere’. La funzione più determinante di questo tipo di potere è quella di investire ogni aspetto della vita e il suo compito primario è quello di amministrarla. Il biopotere agisce dunque in un contesto in cui ciò che è in gioco per il potere è la produzione e la riproduzione della vita stessa».

[7]  Cfr. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Torino, 2004, 4; v. altresì L. Bazzicalupo, Ambivalenze della politica, in Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti, a cura di L. Bazzicalupo - R. Esposito, Roma - Bari, 2003, 137, il cui pur rapido cenno in materia è illuminante: anticamente si discriminava «tra zoé, nuda vita, in comune con gli animali, l’orizzonte della necessità che lega l’uomo ai bisogni della sopravvivenza, ciò che Aristotele chiamava la vita nutritiva’, cioè potere di autoconservazione e istanza di resistenza alla morte, e bíos, la vita che ha forma, la forma di vita, che è specificamente umana e nella quale ha luogo il politico. La zoé, la vita biologica, era esclusa dal politico: la produzione e consumo dei mezzi di sostentamento e la riproduzione della specie – dunque il lavoro e la famiglia – sono soggetti alla necessità, danno luogo a rapporti di dipendenza, diseguaglianza, illibertà. È esattamente questa vita biologica, i cui bisogni sono quelli comuni alla specie, la sequenza lavoro, produzione, famiglia – stretta nel morso della non scelta, del dobbiamo sopravvivere’ in situazione di scarsità – che si porta al centro del nuovo spazio moderno».

[8]  Alla più parte dei cultori del diritto, ho detto: perché non mancano tra essi coloro che avvertono la debolezza delle indicate categorie. Emblematico, al riguardo, è quanto scrive L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Roma - Bari, 2004, 43: «almeno sul piano della teoria del diritto, la sovranità si è ... rivelata uno pseudo-concetto o, peggio, una categoria anti-giuridica. La sua crisi, possiamo ora affermare, inizia per l’appunto, nella sua dimensione interna come in quella esterna, nel momento stesso in cui essa entra in rapporto con il diritto, dato che del diritto essa è la negazione, così come il diritto è la sua negazione. Giacché la sovranità è assenza di limiti e di regole, cioè il contrario di ciò in cui il diritto consiste. Per questo la storia giuridica della sovranità è la storia di un’antinomia tra due termini – diritto e sovranità – logicamente incompatibili e storicamente in lotta tra loro».

[9]   Scritte nella Premessa di Politica, cit., V.

[10]  Alludo a Zur Kritik der Gewalt: nella traduzione italiana esso è intitolato Per la critica della violenza ed è ricompreso in W. Benjamin, Angelus novus’. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, rist., Torino, 2004, 5 ss. Il punto che qui rileva si trova a p. 28, dove l’autore afferma: «falsa e miserabile è la tesi che l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, se esistenza non vuol dire altro che la nuda vita ... . Ma essa contiene una grande verità se l’esistenza (o meglio la vita) ... designa il contesto inamovibile dell’uomo’. Se la proposizione significa cioè che il non-essere dell’uomo è qualcosa di più terribile del (peraltro: solo) non-esserci-ancora dell’uomo giusto. A questa ambiguità la frase suddetta deve la sua apparenza di verità. L’uomo non coincide infatti in nessun modo con la nuda vita dell’uomo; né con la nuda vita in lui né con alcun altro dei suoi stati o proprietà, anzi nemmeno con l’unicità della sua persona fisica. Tanto sacro è l’uomo (o quella vita in lui che rimane identica nella vita terrestre, nella morte e nella sopravvivenza), tanto poco lo sono i suoi stati, tanto poco lo è la sua vita fisica, vulnerabile dagli altri. Che mai infatti la distingue essenzialmente da quella degli animali e delle piante? ... Varrebbe la pena di indagare l’origine del dogma della sacertà della vita».

[11]  In un lavoro che, sotto il titolo Nome di Benjamin, si può leggere in italiano in J. Derrida, Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità’, a cura di F. Garritano, Torino, 2003, 86 ss. (la citazione proviene da p. 130).

[12]  Vero è, peraltro, che il filosofo è ben più propenso del giurista alla selezione dei materiali da discutere, memore di autorevoli insegnamenti che affondano le loro radici nel mondo classico, come si desume da U. Curi, Pólemos’. Filosofia come guerra, Torino, 2000, 14 s. e 32 ss.

[13]  Cfr. Z. Bauman, La società sotto assedio, trad. it., Roma - Bari, 2005, 253.

[14]  Cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, trad. it., Roma - Bari, 2005, 41.

[15]  Cfr. ancora Z. Bauman, Vite, cit., 41.

[16]  E precisamente in Il diritto fraterno, Roma - Bari, 2002, 99.

[17]  Non è il caso di continuare ancora negli esempi: ma almeno una fugace segnalazione merita la menzione dell’homo sacer, quale soggetto «messo al bando della società» e non più considerato come una «persona» nonostante la sopravvivenza fisica, da parte di L. Bossi, Storia naturale dell’anima, trad. it., Milano, 2005, 344, che sul punto si rifà ad Agamben.

[18]  Cfr. R. Fiori, Homo sacer’, cit., 521 s., nt. 44 bis. Un minuscolo accenno all’homo sacer che emerge dalle pagine scritte da Agamben si rinviene anche in un volume di un altro romanista: «Per Iovem lapidem». Alle origini del giuramento. Sulla presenza del sacro’ nell’esperienza giuridica romana, Milano, 2000, di cui è autore A. Calore. Qui, a p. 75, lo studioso, dopo aver richiamato l’homo sacer, afferma infatti che il medesimo «veniva a trovarsi ... – come teorizza Agamben – in una zona originaria di indistinzione in cui sacer significava una vita uccidibile e insacrificabile’».

[19]  Cfr. A. Carandini, La nascita di Roma. Dei, Lari, eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino, 1997, 190, nt. 32.

[20]  Cfr. R.M. Kiesow, Ius sacrum’. Giorgio Agamben und das nakte Recht, in Rechtsgeschichte, I, 2002, 63 s.

[21]  Cfr. T. Giaro, Diritto romano attuale. Mappe mentali e strumenti concettuali, in P.G. Monateri - T. Giaro - A. Somma, Le radici comuni del diritto europeo. Un cambiamento di prospettiva, Roma, 2005, 146 e 167, nt. 272.

[22]  Cfr. S. Settis, Futuro del classico’, Torino, 2004, 108, il quale opportunamente specifica che il classico’ greco e romano va sondato «nella spola fra identità e alterità, e cioè sia perché lo sentiamo nostro’, sia perché lo riconosciamo diverso’ da noi; sia in quanto esso è intrinseco alla cultura occidentale e indispensabile a intenderla, sia in quanto ci apre la porta a studiare e comprendere le culture altre’; sia perché serbatoio di valori in cui possiamo ancora riconoscerci; sia per quello che esso ha di irrimediabilmente estraneo».

[23]  Sulla fecondità del dialogo tra giuristi e filosofi, idoneo a restituire l’intreccio tra «fondo giuridico» e «fondo filosofico» di ciò che essi studiano, insiste N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma - Bari, 2004, VII (un intreccio, aggiungo, che risalta con evidenza se si legge il volume di J. Habermas, L’Occidente diviso, trad. it., Roma - Bari, 2005, e in particolare la sua parte quarta, intitolata Il progetto kantiano e l’Occidente diviso). Mi piace peraltro citare qui un passo di W. Benjamin, Johann Jakob Bachofen, in Il viaggiatore solitario e il flâneur. Saggio su Bachofen, a cura di E. Villari, Genova, 1988, 46 ss., nel quale l’autore, dopo aver rievocato il dibattito che opponeva Bachofen, allievo di Friedrich Carl von Savigny, al grande Theodor Mommsen, ravvisandovi «una sorta di prologo a quello che, qualche anno dopo, doveva far ergere la scienza positivista, nella persona di Wilamovitz, contro Nietzsche autore dell’Origine della tragedia», cita a sua volta questo brano dello stesso Bachofen, ricordando la sua idea del diritto «come una costruzione sulla terra», le cui fondamenta sotterranee e di profondità inesplorate sono formate dagli usi e costumi religiosi del mondo antico: «nessuno è calunniato come colui che stabilisce i legami fra il diritto e le altre forme di vita e che allontana da sé la tendenza a isolare, ponendo in caselle separate, ogni disciplina e la storia di ogni popolo. Si ha la pretesa di approfondire le ricerche limitandone il campo. Questo metodo non approda a null’altro che a una concezione superficiale e priva di ogni spiritualità, che ha generato una passione per una attività tutta esteriore di cui la fotografia dei manoscritti costituisce il culmine».

[24]  Mi riferisco a U. Galimberti, Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Milano, 2000, 29 ss.; ma anche J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi, domani, in M. Pera - J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Milano, 2004, 72, mette l’accento sulla «profanità assoluta che si è andata formando in Occidente».

[25]  Pur in un contesto in cui le religioni si atteggiano a «fattori di identificazione simbolica e di appartenenza», e per ciò stesso anche a fattori di conflitto, come puntualizza G. Marramao, Il mondo e l’Occidente oggi. Il problema di una sfera pubblica globale, in Parole chiave, XXXI, 2004, 33.

[26]  Anch’essa ormai stabilmente in contatto diretto con la nuda vita di Benjamin, come sottolinea E. Resta, L’infanzia ferita, Roma - Bari, 1998, 108 s.; e anch’essa in rapporto immediato con il diritto, come emerge da N. Irti, Nichilismo, cit., 30 ss., che da anni va colloquiando con Emanuele Severino sull’argomento.

[27]  Cfr. E. Resta, Le stelle e le masserizie. Paradigmi dell’osservatore, Roma - Bari, 1997, 22.

[28]  È U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, 2005, 715, a paventare che si cessi di chiedersi «che cosa possiamo fare noi con la tecnica» e si passi a domandarsi «che cosa la tecnica può fare di noi».