Università
di Sassari
1. –
Nell’ordinamento italiano non si può parlare – come a tutti
noto – di una legge sulle società di capitali, in quanto la
disciplina di tali società è contenuta all’interno del
sistema codicistico, che contempla sia le società personali sia le
società di capitali. La distinzione, articolata per tipi di
società (tre tipi di società personali a fronte di tre tipi di
società di capitali) ed integrata dalla disciplina delle società
mutualistiche e consortili, è stata confermata anche nella recente
riforma del diritto societario italiano, la quale ha riguardato esclusivamente
le società di capitali (società per azioni, società in
accomandita per azioni e società a responsabilità limitata) e le
società cooperative.
Pertanto, in questa
sede, si farà riferimento alle disposizioni della riforma (d.legvo 17
gennaio 2003, n. 6) per tracciare un quadro della disciplina vigente in Italia
e delle sue prospettive, con espressa esclusione dell’esame relativo alla
disciplina delle società con azioni quotate (d. leg.vo 24 febbraio 1998,
n. 58) ed a quella delle cooperative.
2. –
L’obiettivo della riforma è consistito nel «favorire la
nascita, la crescita e la competitività delle imprese» in un
rinnovato quadro legislativo, che valorizzi le peculiarità dei diversi
tipi sociali, con particolare riguardo al modello della società
azionaria (spa) ed a quello della società a responsabilità
limitata (s.r.l.)
Effetto di questa
impostazione è, innanzi tutto, la netta contrapposizione fra
società azionarie e società a responsabilità limitata, in
modo da fare di questo secondo tipo sociale un modello assolutamente distinto dalla
spa, non più configurato (e configurabile) come una “piccola
spa”, ma caratterizzato da un’autonoma struttura organizzativa, che
veda al suo centro la «persona del socio» e, quindi, renda
utilizzabili per tale tipo sociale anche regole e principi sinora propri ed
esclusivi delle società personali.
All’interno del
tipo spa viene posta la distinzione fra società che si rivolgono al
mercato del capitale di rischio (c.d. società aperte, fra le quali
rientrano anche le società con azioni diffuse fra il pubblico in misura
rilevante ovvero quotate nei mercati regolamentati, a loro volta destinatarie
di una disciplina speciale contenuta nel testo unico sulla finanza) e
società “chiuse” (in quanto non riconducibili nell’ambito
delle società aperte).
3. – Il mezzo
per perseguire l’obiettivo di crescita e di efficienza dell’impresa
societaria è individuato nell’autonomia privata (e, più
specificamente, nell’autonomia statutaria), intesa come strumento di adeguamento
della struttura organizzativa alle esigenze di investimento e di
redditività dei soci e del mercato. Agli operatori economici ed agli
investitori è offerto un modello organizzativo di impresa –
strutturato nella forma della società di capitali – non più
sostanzialmente unico e contraddistinto da profili di rigidità e di
inderogabilità delle regole che lo governano, ma – al contrario
– viene offerta una pluralità di modelli plasmabili secondo le
esigenze dei soci e, in definitiva, del mercato.
Alla tradizionale
impostazione per cui «in materia di società di capitali la norma
imperativa è la regola e l’autonomia privata è
l’eccezione», succede – nell’ordinamento italiano
– un’impostazione in cui l’autonomia negoziale (che trova la
sua fonte non necessariamente nel contratto sociale, ma «nella
volontà del socio e/o dei soci» o, meglio, nel loro potere di
autoregolamentazione dei propri meritevoli interessi economici) si traduce
nell’atto di disponibilità ad avvalersi della forma organizzativa
della società di capitali come di una qualsiasi forma organizzativa di
impresa. Il ruolo dell’autonomia dei privati – al di là
delle specifiche osservazioni che seguiranno – può essere colto in
tutti i momenti di vita dell’organizzazione, dalla fase della
costituzione della società a quella dello svolgimento del rapporto
sociale fino alla fase dello scioglimento, intesa come momento dissolutivo sia
dell’intero rapporto sia del rapporto del singolo socio rispetto alla
collettività. Così, per limitarsi ad alcuni cenni, sono
consentiti rapporti partecipativi con terzi; sono consentiti regimi di gestione
deliberativi sostanzialmente estranei all’organizzazione corporativa
propria della società di capitali persona giuridica; è consentita
la costituzione della società senza termini di durata e, quindi, il
venire meno al rapporto sociale (anche nella sua interezza) per
determinazione dei singoli soci.
Restano, comunque,
fermi due momenti essenziali e storicamente propri della società di
capitali, quale che sia la forma giuridica rivestita di spa o di s.r.l. Tutte
le società di capitali sono persone giuridiche; in tutte le
società di capitali, in linea di principio, la società (e
soltanto la società) risponde delle obbligazioni assunte con il suo
patrimonio.
4. – Nella
prospettiva qui sintetizzata, il ruolo assegnato dalla riforma
all’autonomia negoziale consente, innanzi tutto, di affermare che la
forma di organizzazione di impresa societaria corrispondente a quella della spa
e della s.r.l. è disponibile da parte di qualsiasi soggetto
dell’ordinamento e non è esclusiva di una collettività
(pluralità) di soci.
La possibilità
che la società possa essere costituita con atto unilaterale si traduce,
infatti, nella «definitiva caduta del tabù della società
unipersonale» e del correlato mito della responsabilità illimitata
e personale nel caso di impresa gestita unipersonalmente.
Senza dubbio questa
è stata una (se non la prima) delle grandi scelte della riforma:
l’ampliata autonomia negoziale concessa agli operatori economici
«investe, nel nuovo testo, non solo il contenuto ma l’esistenza
stessa del contratto sociale nel suo rapporto con l’impresa e con la
responsabilità per l’impresa». Ed infatti «nella
riforma ha trovato pieno riconoscimento, accanto alla società che nasce
da contratto, la società unipersonale» (originaria o
sopravvenuta), rispetto alla quale soltanto convenzionalmente può
continuare a parlarsi di «società» e di «unico
socio».
Restano, comunque,
significativi tratti comuni così alla “società”
unipersonale come alla società pluripersonale. In particolare resta in
comune l’esercizio dell’impresa, inteso come esercizio di
attività economica a fine lucrativo; resta la personalità
giuridica nella duplice valenza del termine, quale centro autonomo di
imputazione degli effetti giuridici connessi allo svolgimento dell’attività
e quale indice della limitatezza della responsabilità; resta
l’organizzazione dell’impresa, pur sempre articolata nelle forme
proprie della società-persona giuridica, che certamente impedisce di
configurare la società unipersonale come impresa individuale, in
considerazione dei suoi profili fondamentali attinenti – rispettivamente
– alla responsabilità patrimoniale (delle obbligazioni sociali non
risponde in alcun caso il socio con il proprio patrimonio) ed al governo dell’attività,
perché il singolo non può esercitare personalmente i poteri
gestori se non tramite gli organi sociali.
5. – Un altro
indice della rilevanza assegnata all’autonomia negoziale (più che
statutaria) può ravvisarsi nell’espressa disciplina destinata ai patti
parasociali (per stabilizzare assetti proprietari o il governo delle
società). La sua collocazione, nelle sezioni dedicate alle disposizioni
generali, suona non soltanto esplicito riconoscimento della validità di
tali accordi (problema, del resto, superato) ma anche, e soprattutto, ha lo
scopo di individuare la stessa nozione di patti parasociali e la loro possibile
incidenza sulla vita sociale (almeno nelle società
“aperte”).
Resta il problema
dell’efficacia esterna da attribuire ai patti stessi, efficacia che,
anche intuitivamente, non può esaurirsi negli effetti meramente
obbligatori e circoscritti ai soli patiscenti, già ammessa prima della
riforma.
In questa prospettiva,
può ancora ricordarsi la nuova disciplina della trasformazione.
La trasformazione
diviene istituto di carattere generale, che consente non solo il cambiamento
del tipo sociale (con conseguente passaggio dall’uno all’altro
modello organizzativo societario), ma anche la modificazione del rapporto
sociale in un rapporto diverso. Qualsiasi ente, istituzione od anche stato di
comunione di beni può pertanto essere trasformato in società di
capitali e viceversa: in altri termini è resa disponibile
dall’autonomia negoziale la stessa causa (lucrativa, mutualistica,
ideale) per il cui perseguimento la società (o l’ente:
associazione, fondazione, comunione di azienda) era stata costituita.
6. – Venendo ora
più specificamente ai profili della riforma, per quanto riguarda le spa
– nel quadro sinora tracciato – una significativa linea di intervento
riguarda lo spazio assegnato all’autonomia statutaria ed i suoi
conseguenti riflessi.
L’ampliamento
dell’autonomia si riflette – come è naturale – in
primo luogo sull’organizzazione interna dei rapporti fra i soci, per
quanto riguarda la possibilità di «consentire ai soci di regolare
l’incidenza delle rispettive partecipazioni sociali sulla base di scelte
contrattuali».
L’indicazione
è stata percepita – fermo il divieto di emissione di azioni a voto
plurimo (eventualità che pur poteva ritenersi consentita) – come
affrancamento dell’autonomia privata «dai limiti derivanti dal
tradizionale principio della tendenziale corrispondenza e
proporzionalità tra conferimenti, da una parte, e diritti patrimoniali e
amministrativi dall’altra parte».
In questa prospettiva,
mentre appare conciliabile con
l’impostazione della riforma la possibilità di emissione di
azioni senza valore nominale, suona invece quasi come innaturale
l’affermazione di principio per la quale «ogni azione attribuisce
un voto», quando si legga l’elenco di eccezioni e limitazioni che
segue l’enunciato principio (potendosi infatti emettere azioni senza
diritto di voto, con diritto di voto limitato o subordinato e potendosi
attribuire il diritto di voto a terzi non soci, portatori di strumenti finanziari).
7. – A fronte di
queste innovazioni, la cui utilizzazione può indubitabilmente favorire
la separazione fra proprietà e controllo; accrescere o ridurre la leva
finanziaria a disposizione del capitale di rischio; introdurre elementi personalistici
nella struttura capitalistica dell’impresa si può osservare che il
riconoscimento dell’autonomia statutaria non dovrebbe poter andare a
scapito del principio dell’uguaglianza contrattuale e della parità
di trattamento. Anzi, la correlazione rischio – responsabilità
– potere gestorio, modellata sull’uguaglianza intesa come
proporzionale attribuzione dei vantaggi e degli svantaggi contrattuali, sembra
essere tuttora la regola che meglio riflette «lo spirito del
capitalismo» e l’essenza della società di capitali.
Così, peraltro,
non pare essere stato nell’attuazione delle linee della riforma.
In via riassuntiva ed
esemplificativa si può ricordare che le azioni possono assegnarsi in
numero non proporzionale ai conferimenti e non avere valore nominale; possono
attribuirsi diritti diversi per quanto riguarda gli utili e per quanto concerne
l’incidenza delle perdite; possono attribuirsi diritti correlati ai
risultati in un determinato settore dell’attività.
8. – Come da
altri è stato osservato «aumentare il tasso di autonomia
significa» (…) ridurre quello di tipicità «sia
funzionale (legata alla causa del contratto, quale definita dall’art.
2247 c.c.) sia organizzativa (legata alle modalità organizzative, che
può assumere la comune attività imprenditoriale)».
La scelta del
legislatore ha immediati riflessi in materia di finanziamento
dell’attività sociale e della limitatezza della
responsabilità.
Sotto il primo profilo
risulta radicalmente sovvertito il regime precedente, imperniato sulla
distinzione fra capitale di rischio e capitale finanziario (o di prestito).
La possibilità
di emissione di strumenti finanziari partecipativi propone infatti (per la
prima volta) la concorrenza di terzi (non soci) nell’acquisizione dei
risultati di gestione tipicamente riservati ai soci nonché
nell’esercizio di diritti amministrativi (escluso il voto
nell’assemblea generale degli azionisti) agli stessi non meno tipicamente
riservati.
Allo stesso modo, la
possibilità di costituire «patrimoni separati» (o destinati)
ovvero di stipulare «contratti di finanziamento» collegati ad uno
specifico affare non soltanto incide per i profili ora detti sui diritti propri
dai soci (intesi come diritti scaturenti dal contratto/rapporto sociale) ma
crea una «separazione patrimoniale» e una «limitazione di
responsabilità» rimesse allo stesso debitore.
L’applicazione
della disciplina in materia di patrimoni separati è destinata a dar
luogo a non pochi problemi, alcuni dei quali mi limito semplicemente ad
elencare:
a) essendo pacifico
che il patrimonio può essere costituito con apporti di terzi, è
legittimo domandarsi se tale apporto possa essere totale (in tal caso,
permanendo la titolarità dell’attività in capo alla
società, si avrebbe esercizio di impresa senza rischio proprio; effetto
che non pare agevolmente conciliabile con i principi del nostro ordinamento);
b) in caso di insolvenza del patrimonio separato o di quello destinato al
singolo affare, è da individuarsi il relativo regime al fine di
stabilire se, in materia, sia applicabile il regime societario ovvero il regime
proprio dell’insolvenza (legge fallimentare).
9. – Una seconda
linea di intervento (quanto meno sotto il profilo dell’efficienza e della
snellezza dell’azione sociale) riguarda misure di snellimento delle
procedure e la redistribuzione delle competenze tra gli organi sociali, con
tendenza a trasferire dall’assemblea ai più agili e snelli organi
amministrativi, (sfruttando anche lo sdoppiamento di questi derivante
dall’eventuale adozione del sistema dualistico), un nutrito numero di attribuzioni
(approvazione del bilancio; emissione di obbligazioni; ipotesi minori di
fusioni e modificazioni dell’atto costitutivo).
Per quanto riguarda le
misure di snellimento, fra le altre, si possono ricordare – in materia di
assemblea – le nuove formalità per la convocazione, la
partecipazione all’assemblea anche avvalendosi di mezzi informatici,
l’espressione del diritto di voto anche per corrispondenza.
Alle norme destinate a
rendere più agevoli e meno onerosi i processi deliberativi corrispondono
regole dirette a garantire la stabilità delle decisioni assunte e degli
atti compiuti.
Conseguentemente
è stata riscritta la disciplina sulla nullità della
società, le cui cause sono ridotte a tre: mancata stipulazione
dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico; oggetto
illecito; mancata indicazione nell’atto costitutivo della denominazione,
dei conferimenti del capitale e dell’oggetto, nonché ne è
stata prevista la generale sanabilità con eliminazione della causa di
invalidità.
Soprattutto è
stata radicalmente modificata la disciplina dell’invalidità delle
deliberazioni assembleari per quanto riguarda sia l’annullabilità
sia la nullità delle deliberazioni.
L’azione di
annullamento è stata trasformata in azione collettiva, nel senso che
l’azione può essere promossa soltanto dai soci assenti
dissenzienti ed astenuti purchè gli stessi rappresentino una determinata
aliquota del capitale sociale (diversamente determinata a seconda che la
società sia fra quelle che si rivolgono al mercato del capitale di rischio
o meno); il singolo socio – come tale – può chiedere
soltanto il risarcimento del danno direttamente patito.
Discutibile, per le
sue intuibili conseguenze, e non certo conforme all’interesse dei soci
(primi interessati alla regolarità della gestione sociale), appare la
norma che subordina la prosecuzione
del giudizio di impugnazione della delibera alla sussistenza della percentuale
del possesso azionario per tutta la durata del processo.
Anche la disciplina
dell’azione di nullità ha subito profonde modifiche ed è
stata sospinta verso una criticabile assimilazione all’azione di
annullamento. Conclusione che trova riscontro nella prescrittibilità
dell’azione, nella sanabilità dei vizi, nel regime speciale a cui
sono assoggettate le deliberazioni assunte in determinate materie (fra cui
approvazione del bilancio, aumento e riduzione del capitale).
10. – Sempre per
quanto riguarda la struttura organizzativa, massima discrezionalità
è riconosciuta ai soci per la scelta del regime di amministrazione.
Al tradizionale
sistema “latino”, si affiancano il sistema dualistico (consiglio di
gestione e consiglio di sorveglianza) di origine tedesca e quello monistico
(consiglio di amministrazione e comitato di controllo per la gestione)
più vicino all’esperienza anglosassone.
La nuova disciplina
è diretta ad evidenziare come agli accresciuti poteri non solo gestori
degli amministratori (ad essi esclusivamente spetta comunque la gestione)
debbano corrispondere una più intensa tutela dei soci ed una più
incisiva accentuazione dei doveri di correttezza e di informazione. Si è
così introdotta un’azione di responsabilità promuovibile da
una minoranza qualificata e si è commisurato il grado di diligenza degli
amministratori alla natura dell’incarico ricoperto ed alle loro specifiche
competenze; si è altresì vietato che essi possano evitare ogni
responsabilità a seguito di autorizzazione ricevuta dall’assemblea
ovvero rimettendo ai soci decisioni in materia di gestione.
Non altrettanto
significative appaiono le innovazioni in materia di controlli (collegio e
revisore contabile o società di revisione), la cui disciplina rimane
allineata su modelli, della cui efficienza e funzionalità è
opportuno riservarsi ogni valutazione.
11. – Sotto il
titolo di direzione e coordinamento di società, la disciplina novellata
introduce il principio della responsabilità della
“capogruppo” per violazione dei principi di corretta gestione
societaria e imprenditoriale nei confronti dei soci della controllata e dei
creditori sociali della medesima. E’ la prima risposta, in termini di
disciplina positiva, ad un fenomeno economico unitario che, sotto il profilo
giuridico, continua ad essere caratterizzato dal fatto che ciascuna
società del “gruppo” continua ad essere, rispetto alle
altre, autonomo centro di imputazione giuridica e, quindi, autonomo soggetto ai
fini della responsabilità.
12. – Per quanto
riguarda le s.r.l., dalla lettura del testo della riforma discende netta la
sensazione di un affrancamento della s.r.l. dal modello della spa. Anzi, la
sensazione è che il legislatore abbia appieno condiviso
l’orientamento per cui il mancato sviluppo della srl nel nostro paese
debba essere ascritto alla sua rigida coincidenza con il modello della spa
(come si avvertiva soprattutto nella disciplina delle strutture organizzative e
nel trasferimento delle partecipazioni).
Nella s.r.l. il ruolo
ascritto all’autonomia statutaria è innanzi tutto diretto a
liberalizzare i conferimenti, nel senso che, da un lato, possono essere
conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione
economica e, dall’altro, il versamento dei conferimenti in denaro
può essere sostituito dalla stipula di fidejussione bancaria o di
polizza assicurativa (analoga previsione vale per i conferimenti d’opera
o di servizi a favore della società). Anche in queste società
rimane la derogabilità del principio di proporzionalità e viene
prevista la possibilità di attribuzione ai soci di particolari diritti
in materia di gestione e di partecipazione agli utili.
In secondo luogo
– ed è certamente l’innovazione più rilevante –
all’autonomia statutaria è consentito espungere dalla disciplina
tutti i vincoli che non siano diretti alla tutela dei terzi e dei creditori
sociali, con conseguente superamento dell’organizzazione corporativa (in
questa ottica unico “organo” necessario della società
risulta essere l’organo gestorio, nei termini di cui si dirà qui
di seguito).
Il modello evolve
così, invece che verso le società di capitali, verso il modello
delle società personali, con un netto accostamento alla società in nome collettivo
(superamento dell’assemblea; possibilità di impiego del sistema di
gestione della s.n.c. ai sensi degli artt. 2257 e 2258 c.c.; ingresso nello statuto
di cause di risoluzione del rapporto sociale per recesso ed esclusione).
13. – Nella
s.r.l. ai caratteri di snellezza e competitività dell’impresa
garantiti dalla “personalizzazione” dell’attività di
gestione e deliberativa, propria di una concezione che identifica i soci come
portatori diretti dell’interesse di imprenditore, corrisponde una
previsione di impresa incompatibile con l’investimento di terzi. Di qui
il divieto di raccogliere capitale di rischio, anche indirettamente, mediante
appello al pubblico risparmio e la possibilità di emettere titoli di
debito sottoscrivibili soltanto da investitori qualificati.
Sinteticamente
può dirsi che per questo tipo di società la riforma ha perseguito
l’obiettivo di consentire l’esercizio dell’impresa secondo le
esigenze organizzative dei soci «senza imporre loro la responsabilità
illimitata e, in caso di crisi dell’impresa, il fallimento
personale».
14. – La riforma
dell’ordinamento italiano è frutto anche dell’armonizzazione
del diritto societario nell’Unione Europea, sicchè gli eventuali
adeguamenti che l’applicazione della legge potrà suggerire sono
almeno in parte legati all’evoluzione degli indirizzi comunitari in
materia. In proposito è appena il caso di ricordare che ha ormai trovato
attuazione il modello della società europea, plasmato su quello della
società per azioni (o più in generale, della società di
capitali) e nel quale la presenza dei lavoratori – in forme diverse, ma
orientate a garantire la loro partecipazione nel controllo della gestione
– è ormai un dato acquisito.
Al di là
dell’esperienza comunitaria, il futuro della società di capitali
sembra – allo stato – tracciato all’insegna di un incisivo
ruolo attribuito all’autonomia negoziale dei soci nonché del
rafforzamento dei poteri attribuiti agli organi di gestione rispetto
all’organo deliberativo (assemblea).
In altre parole la
crescita dell’impresa – in termini di produttività e di
efficienza – pare non poter prescindere sia dalla snellezza
dell’organizzazione, garantita dalla possibilità per i soci
(azionisti) di adeguare i modelli legislativi alle esigenze di finanziamento e
di operatività imposte dal mercato sia dalla compressione dei diritti
dei soci di partecipare alla gestione ed al controllo della società.
Al riguardo ci si
è domandati se non si debba raffigurare ormai la “nuova”
società per azioni, ma discorso non troppo diverso può farsi per
le società di capitali in generale, come un qualsiasi modello legale di
organizzazione dell’impresa, selezionabile non in funzione
dell’accordo dei soci ma in funzione della fruibilità da parte di
chiunque (di qui la possibilità della società di capitali
unipersonale) di un modello organizzativo per l’esercizio
dell’attività economica, che garantisca – attraverso
l’attribuzione della personalità giuridica – limitazione di
responsabilità per gli investitori e potestà decisionale per gli
amministratori (nella spa in via esclusiva).
Una risposta
definitiva al quesito così formulato è oggi prematura. Non vi
è dubbio che l’attuale disciplina tenga correttamente ferme ancora
talune distinzioni – prima fra esse quella fra società che si
rivolgono al mercato dei capitali e società “chiuse” –
che presuppongono l’intervento della legge a tutela di quei soci
(investitori e risparmiatori) che, in quanto portatori di interessi parcellizzati
e diffusi, non possono tutelarsi da sé o possono farlo a costi non ragionevoli.
Da questo punto di
vista la disciplina contiene interventi significativi – pur non mancando
regole di segno opposto – sia per quanto riguarda i diritti di voice
sia quelli di exit (diritti di partecipazione, minoranze di blocco,
azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, diritto di
recesso). Vero è, però, che queste regole, proprie del
trattamento destinato alle minoranze nelle società per azioni aperte,
sono divenute in buona parte di generale applicazione così di gran lunga
attenuando la distinzione fra società aperte e società chiuse, in
cui operano e governano pochi «soci imprenditori», ognuno
(ritenuto) custode vigile dei propri interessi e, pertanto non bisognevole di
norme specifiche a tutela della sua posizione di socio, ancor quando socio di
minoranza (l’osservazione
vale in particolare per il diritto di recesso).
La prospettiva del
diritto delle società di capitali può essere allora suggerita
proprio da queste ultime considerazioni. Ferma la libertà di chiunque di
adottare lo schema organizzativo del tipo sociale ritenuto più
rispondente ai propri interessi, appare opportuno che – in tale contesto
– il diritto delle
società per azioni rimanga il diritto della grande impresa e, quindi, un
complesso di regole idoneo a garantire l’efficienza produttiva
dell’impresa peraltro nel rispetto dei diritti di tutti coloro che
all’impresa forniscono (in varia veste: investitori, risparmiatori, nuovi
finanziatori) le risorse finanziarie
per la sua costituzione e la sua crescita. In quest’ottica –
tale pare oggi l’orientamento – alla funzionalità
dell’impresa possono anche essere sacrificati l’esercizio dei
diritti di intervento e di controllo diretto nella gestione, altrimenti propri
dei soci, e le forme di tutela reale che tale esercizio postula (in primo luogo
il diritto di impugnativa delle decisioni sociali) a favore di forme di tutela
essenzialmente risarcitoria. Tale sacrificio deve peraltro essere compensato da
rigide regole di responsabilità nei confronti dei titolari del potere
gestorio (primi fra essi gli amministratori), di trasparenza della gestione e,
quindi, di informazione completa ed agevolmente accessibile sulle vicende
sociali, nonché da assoluto rispetto delle regole del mercato garantito
da autorities istituite a tal fine.
All’interno
delle garanzie di libertà anzi dette, compito di ogni legge sulle
società di capitali è garantire che tanto lo schema organizzativo
della spa quanto quello della s.r.l. risultino idonei a consentire l’esercizio
dell’impresa, nel rispetto della funzioni essenziali e tipiche, alle
quali deve rispondere l’organizzazione dell’impresa capitalistica
societaria: la separazione fra il soggetto titolare dell’attività
(la società) e chi ad esso da vita (i soci) come conseguenza
dell’attribuzione della personalità giuridica e la conseguente
separazione – ai fini della limitazione della responsabilità del
socio esclusivamente alla quota di capitale sottoscritta – fra il
patrimonio sociale ed il patrimonio del singolo socio.