N. 5 – 2006 – Tradizione Romana

 

sebastiano tafaro

Università di Bari

 

Diritto e persona: centralità dell’uomo

 

 

 

 

 

 

 

Giustiniano, nelle Istituzioni, enuncia a chiare lettere la centralità della persona:

 

Inst. Iust. 1.2.12: Ac prius de personis videamus. Nam parum est ius nosse, si personae, quarum causa statutum est, ignorentur.

 

La sua affermazione[1], autorevole vuoi per la natura della Fonte vuoi perché posta all’inizio del trattato destinato all’esposizione delle linee fondamentali concernenti lo ius, sembra riassumere, cogliendone il fulcro, lo sviluppo del diritto romano fino al VI secolo (d.C.). Essa lascia supporre che i redattori delle Institutiones abbiano riflettuto sul diritto romano e sul suo sviluppo arrivando alla conclusione che tutto lo ius[2] era stato caratterizzato dalla massima considerazione delle persone, tanto da potersi dire creato[3] in funzione di loro.

Ne scaturisce la consapevolezza della significativa centralità della persona, affermatasi progressivamente durante il lungo percorso di formazione ed articolazione del diritto romano.

Tale centralità si rifletté anche nelle sistematiche dei giuristi, alcuni dei quali, durante il Principato ed in particolare dal 2° secolo d.C., iniziavano le loro opere, partendo proprio dalle personae. Paradigmatico è il manuale istituzionale di Gaio, che, sul punto, era la fonte delle Istituzioni giustinianee, il quale nel primo commentario dichiarava:

 

Gai. 1.8: Et prius videamus de personis[4].

 

Nel prius adoperato dal giurista non vi era solo l’indicazione di una priorità espositiva, quanto la sottolineatura della necessità di partire dalla materia prioritaria per il diritto e la sua comprensione[5].

Questo appare chiaro alla luce di quanto, probabilmente al tempo di Diocleziano o nella prima metà del 4° secolo d. C. [6], Ermogeniano ebbe modo di precisare:

 

D. 1.5.2, Hermog. L. 1 iuris epit.: Cum igitur hominum causa omne ius constitutum[7] sit, primo de personarum statu ac post de ceteris.

 

Poiché Ermogeniano con la sua epitome si pone alla fine dell’esperienza giuridica romana e dà una sintesi della pregressa elaborazione giurisprudenziale, si è indotti a ritenere che la sua affermazione, più che il prodotto del suo pensiero, sia la sintesi del pensiero dei giuristi che l’avevano preceduto. In tal modo essa costituisce la fotografia della concezione dei giuristi classici.

Dunque vi è una continuità tra la posizione di Giustiniano, che ha avuto il merito di esplicitarne i connotati, e quella dei giuristi del Principato nel considerare la persona centrale e prioritaria in tutto il diritto.

In che cosa poi questa postulazione si traduceva nel concreto e cioè come venne vissuta la centralità della persona vorrei fare oggetto di una breve riflessione; la quale certamente non può essere esaustiva e forse neppure indicativa, ma si propone di offrire alcuni spunti di riflessione, con la consapevolezza che hanno bisogno di ulteriori e più ampi approfondimenti. Più che altro qui vorrei chiedermi in che si caratterizzava un diritto che dichiarava di essere in funzione delle persone.

Per rispondere a questo interrogativo occorre esaminare la problematica afferente alla soggettività giuridica degli uomini nelle elaborazioni dottrinarie e nel concreto dell’esperienza giuridica dei Romani.

Il primo punto fermo deve essere la consapevolezza del distacco temporale e terminologico con il passato, per evitare che nozioni per noi abituali e frequenti condizionino la percezione del passato e finiscano per trasformarsi in ‘pregiudizi’ rispetto alla realtà romana.

La quale era variegata e molto meno semplificata di quanto non usiamo oggi.

Per quanto adoperato da Gaio e da Giustiniano con valenza, come si è visto, generale, il termine persona non aveva, si sostiene, il significato che noi siamo portati ad attribuirgli. Il fatto è che il termine persona, oggi sinonimo di soggetto del diritto ed anche di uomo, è, come tutta la soggettività giuridica, mediato dal termine e dal concetto di ‘capacità’, nelle accezioni di capacità giuridica e capacità di agire[8]. Espressioni oggi usate quasi universalmente, ma che poco o niente dicevano ai Romani[9]; presso i quali «con il termine di capacitas si indica, nel linguaggio dei prudentes, l’idoneità del soggetto ad acquistare in base ad una valida delazione, la quale presuppone la capacità a succedere»[10].

Dunque nel diritto romano le cose stavano ben diversamente da oggi e, come vedremo, la persona si identificava con l’uomo.

È per questo motivo che vorrei soffermarmi su quello che in realtà il termine persona ha rappresentato per i giuristi romani, il cui contributo è stato e (mi si consenta l’affermazione) è penetrante ed elevatissimo.

Tra i molti ricordo un figlio dell’Oriente, che seppe raccogliere l’eredità dei giureconsulti romani del Principato e divulgarla in forma incisiva, sicché il suo pensiero più di ogni altro ha contrassegnato il diritto dall’età romana ai giorni nostri, in quasi tutto il pianeta. Intendo riferirmi a Domizio Ulpiano. Egli nel 3  secolo d. C., era stato allievo del grande suo connazionale Emilio Papiniano, del quale era stato adsessor e al quale era poi succeduto al vertice dell’Amministrazione della giustizia, facendo una carriera che lo aveva portato al vertice dell’Amministrazione imperiale. Il giurista, unito da vincoli di amicizia e di affetto con l’Imperatore[11], doveva avere ricevuto la sua formazione nella sua Terra d’Oriente, in Siria o a Tiro, città di origine alla quale pare rimasto sempre legato. Egli si propose di esporre in forma chiara ed esaustiva tutto il diritto, rivolgendosi anche al lettore-fruitore non familiare con il diritto romano; in tal modo la sua produzione, ampia ma anche enciclopedica e divulgativa, proprio perché consapevolmente rivolta a sintetizzare e diffondere il diritto[12], ebbe grande fortuna ai suoi tempi e andò oltre la stessa esperienza romana; è stata il perno sul quale si è articolata la raccolta dei Digesta di Giustiniano ed è stata, per tal via, la base sulla quale si è fondato e sviluppato il pensiero giuridico moderno. Il giurista era polemico nel rivendicare al diritto il primato nelle scienze umane, perché esso, a suo dire, era matrice della vera filosofia[13], ed aveva un valore così profondo da far considerare i suoi cultori (i giuristi) dei veri e propri sacerdoti[14] Ma il diritto cui guardava Ulpiano è quello più elevato della giustizia, equità e razionalità, sintetizzato da lui in tre (celebri) precetti fondamentali, a ragione ritenuti simbolo ed fondamento della civiltà giuridica:

 

D. 1.1.10.1 Ulp. 1 reg.: Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.

 

Come ognuno vede sono qui enunciati da Ulpiano tre pilastri sui quali deve poggiare il rispetto e la salvaguardia della persona umana. Sono essi tre principî che riassumevano il cammino secolare della filosofia greca[15], rivisitata dai Romani e che, specie attraverso la mediazione del Cristianesimo, si sono proposti come riferimento del diritto sino ai nostri giorni. Del quale si avverte ancora l'opportunità in un periodo, qual’è quello attuale, nel quale l’onestà, il rispetto della persona umana, il riconoscimento dei diritti fondamentali di ciascun popolo e di ciascun uomo appaiono messi in discussione o calpestati.

è per questo motivo che oggi appare necessario far partire il discorso sulla persona umana e sui suoi diritti fondamentali dalle radici del pensiero moderno, che nel diritto risiedono nelle fonti romane. In esse Ulpiano ci insegna che il diritto è la giustizia e risiede nello sforzo perenne di dare a ciascuno ciò che gli spetta, di non negare a nessun uomo ciò che la natura gli ha destinato e che la sua condizione esige[16].

La visione alla quale Ulpiano ci introduce era dunque quella che poneva un’equazione di corrispondenza totale tra diritto e giustizia, miranti alla salvaguardia della dignità umana. Il che è ancora più evidente se si considerino le fonti, al cui insegnamento Ulpiano doveva ispirarsi, e che possiamo cogliere anche nelle affermazioni di retori e filosofi; tra i quali significative testimonianze sono offerte dall’autore della Retorica ad Erennio e da Gregorio Taumaturgico:

 

Ret. ad Herenn. 3.2.3: (Iustitia est) aequitas ius unicuique rei tribuens pro dignitate cuiusque.

 

Greg. Thaumat. In Origenem oratio panegyrica - Migne patr. Gr. 10 c. 9, p. 1079 B: dikaiosyne, hè tà axia hekàstois aponèmei.

 

Ecco dunque stabilito un legame indissolubile tra diritto e giustizia e tra diritto e salvaguardia della dignità umana, tèlos (scopo) della vera philosophia, vero cardine del vivere civile: sono questi presupposti concettuali che spinsero Giustiniano ad affermare che tutto il diritto è finalizzato all’uomo.

Questa consapevolezza, lungi dal circoscriversi all’esperienza romana, è utile anche ad un momento, come l’attuale, di crisi di valore e di crisi del diritto occorre tornare ai fondamenti della nostra civiltà giuridica, per scoprire quale è l’essenza del diritto. Si vedrà così che essa risiede nella custodia e difesa della dignità del singolo uomo, nella consapevolezza che tutto il diritto è stato creato per le personae[17].

A questo risultato dette un apporto significativo il pensiero Greco, ma la base fu la peculiare esperienza giuridica dei Romani, che dedicarono gelosa attenzione alle prerogative dell’uomo in quanto soggetto del diritto.

Tale soggettività, certo, era per antonomasia quella del civis e non dell’uomo tout court, ma fu suscettibile di allargamento e, dopo il 212, a seguito della concessione della cittadinanza a tutti i sudditi dell’Impero (ad opera di Antonino Caracalla), riguardò gran parte dell’orbe conosciuto e certamente tutto il Mediterraneo[18].

È questa la ragione per la quale la concezione della persona-soggetto del diritto affonda le radici nelle specificità del retaggio che l’esperienza romana si portava dietro sin dall’età repubblicana e proto-imperiale, quando il diritto pervenne alle forme passate nella giurisprudenza severiana e nel Corpus iuris, proiettandosi nel diritto canonico, nelle esperienze medievali e moderne, sino agli attuali diritti vigenti.

Dunque i Romani concepirono il soggetto come un centro di prerogative legato a determinate situazioni e finalizzato alla crescita della Civitas, all’interno della quale tuttavia manteneva sempre la propria specificità, senza mai annullarsi nella collettività né perdere le prerogative personali dinanzi all’organizzazione cittadina.

Deriva da ciò la peculiare concezione di Popolo, che ha affascinato non pochi dei pensatori moderni e contemporanei[19]. Scaturisce anche da ciò la connessa singolarità dell’acquisto della capacità[20] non al raggiungimento della maturità intellettuale o quanto meno psico-fisica, come è negli ordinamenti giuridici contemporanei e anche in molti dell’antichità, bensì al sopraggiungere della pubertà.

Sono questi due punti che visti da vicini mostrano quanto penetranti siano stati i principî romani nella costruzione di una giuridicità attenta alle istanze dei singoli, purtroppo spesso persi nel corso delle successive esperienze.

La pubertà nelle società in formazione assume sempre un significato sacrale ed è legata alle visioni più profonde del destino dell’uomo e delle fasi della sua evoluzione, in altre parole è una delle tappe più significative del ciclo della vita umana[21]. Solo tenendo presente questa premessa si comprende la  singolarità della scelta romana, in base alla quale l’adolescente, divenuto pubere, poteva percorrere la carriera politica sino alle più alte cariche e poteva diventare pater familias, avendo sotto di sé la madre e le sorelle[22]. Ora tutto ciò si può spiegare solo avendo presente il vincolo, che si nutrì di nessi e di antagonismo, esistente tra le familiae e la Civitas. In esso si inseriva il singolo quale componente delle une e dell’altra; ma mentre nelle prime era assorbente la figura del ‘capo’, nella seconda fu determinante l’apporto di ‘tutti i componenti’: perciò nella Civitas l’individuo trovò la sua affermazione più piena. La quale caratterizzò definitivamente il ‘diritto’, perché alla lunga la Civitas prevalse. Essa, infatti, era contraddistinta da un’idea di ‘crescita’ costante, che ne segnò tutta l’evoluzione[23]. In essa si allocò e trovò giustificazione il ricorso alla pubertas: essa, con l’acquisizione della capacità a generare, consentiva al singolo di ‘far crescere’ la collettività e, in quanto autore della crescita, gli dava titolo per entrare nell’organizzazione cittadina. Inoltre, poiché con la pubertà si passava ad una nuova fase della vita, nella quale un nuovo organismo veniva a sostituire il precedente, si poté affermare che vi era una nuova nascita e che essa, a differenza della prima, che avveniva nella famiglia, avveniva nella e per la Civitas. Nella struttura cittadina il pubere, dunque, entrava con titolo suo specifico e con attribuzioni connesse ai cicli della vita insopprimibili ed inalienabili, perché scaturenti da un ordine universale, che reggeva l’intero creato e del quale l’individuo era parte, ma anche depositario[24].

Perciò i Romani fissarono la pubertà al compimento del 14° anno, che nella visione cosmogonica della vita umana si presentava come multiplo del numero ‘sette’, ritenuto il numero intorno al quale si era costruito l’Universo (sette erano i pianeti, sette le note musicali, le fasi lunari etc.) ed era articolata la vita degli uomini e delle città[25]. La scelta della pubertà denota quanto si fosse radicata nella cultura romana la concezione che vedeva la vita dell’uomo, di ogni uomo, legata allo svolgersi di sequenze aventi carattere insopprimibile e universale. Essa contribuì alla consapevolezza della necessità che anche il ius ne dovesse tenere conto, poiché a nessuno era consentito, senza andare contro le leggi profonde della vita stessa, dimenticare ciò.

Proprio per questi motivi fu colta dai romani l’insostituibilità e la non coercibilità della realtà cosmico-terrestre ‘uomo’, che si manifestava sin dal concepimento, ed implicò la salvaguardia dei nascituri, di qui in utero sunt[26].

Progressivamente questa realtà dell’uomo vivente, portatore di prerogative proprie ed espressione di leggi generali (per taluni autori antichi, cosmiche) venne sussunta nel termine persona. Riguardo al quale è da osservare che probabilmente, anche se radicata, la tesi che il termine stesse ad indicare esclusivamente l’homo, cioè l’uomo-individuo, come espressione meramente biologica appare priva di reale fondamento o quanto meno decisamente incompleta[27]. In realtà le cose non sembrano essere state esattamente in questi termini, perché il pensiero romano fu più poliedrico e sfaccettato di quanto la dottrina moderna ha ritenuto e pervenne ad attribuire a persona anche il significato di soggetto del diritto, secondo un’articolazione variegata, che andava dagli schiavi ai liberi, dalle personae alieni iuris a quelle sui iuris, dai cives ai peregrini[28].

Esemplare mi sembra proprio la disciplina, già segnalata, dei nascituri. Per essi si discuteva se fossero o meno homines[29], considerandoli alcuni giuristi solo parte del ventre materno, che non si potevano riconoscere come figli, così come non si poteva chiedere alla madre di esibirli o di consegnarli[30], tuttavia fu ugualmente considerato centro di imputazioni giuridiche, concedendo la missio in possessionem ventris nomine, facendolo oggetto di lasciti e di designazione di erede etc., tanto che il giurista Salvio Giuliano, ne 2  secolo d. C. potè generalizzare affermando:

 

D. 1.5.26 Iul. l. 69 dig.: Qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur in rerum natura esse...

 

La misura della modularità seguita dai Romani è evidente, così come è chiara l’inadeguatezza dei concetti moderni per cogliere quei principî, rispettosi dell’uomo sin dal concepimento[31].

Tutto ciò è la conferma che la vita del singolo, pur se confluente nell’Organizzazione cittadina, era un proprium che gli apparteneva e che si completava senza scomparire nella Res Publica.

Ne scaturì anche una stretta compenetrazione di pubblico e privato[32] che è difficile riscontrare in altre esperienze e che segnò una felice armonizzazione delle esigenze del singolo con quelle della collettività.

Non a caso è stato notato che publicus mentre «fonctionne comme dérivé de populus, c’est à pubes qu’il se rattache pour la forme. Publicus est ainsi un hybride de populus et de pubes»[33]. E pubes indica sia il singolo sia la collettività, come nella locuzione Pube praesenti in contione, omni poplo ovvero in quelle che parlavano della Dardana pubes o della Albana pubes o della Italica pubes o Romana pubes e similari[34].

L’esperienza romana offre un intreccio significativo nel quale l’individuo era nella collettività ma nello stesso tempo era la collettività.

Il che è evidente nella concezione e della Città-Stato e del suo substrato personale, il Populus Romanus Quirites, vissuto come entità concreta intesa come «tutti i cittadini»[35] e non come entità ideale e astratta, quale è nelle concezioni moderne. In siffatta concezione «certi diritti sono acquistati e difesi dal singolo cittadino»[36] e pone in evidenza, di volta in volta, «l’aspetto della ‘unione’ (o della ‘riunione’) e quello della pluralità», la quale «ha implicazioni normative ben precise negli iura populi Romani»[37].

Queste radici sono, a mio avviso, importanti, perché disposero, come si è detto, all’accoglimento delle concezioni elaborate dai filosofi e retori Greci; le quali, nelle loro piú significative espressioni, avevano posto l’uomo al centro delle proprie costruzioni sulla realtà del mondo e dell’universo.

Vi era, di conseguenza, matrici culturali profonde perché la persona venisse considerata come portatrice di istanze e diritti proprî. Certo essa concerneva i cives e non gli uomini in quanto tali, ma bisogna tenere presente che le elaborazioni giuridiche furono fatte per i cittadini e poi vennero estese agli ‘uomini’ sotto la spinta dell’allargamento dei confini dell’Impero e, più tardi, della concessione della cittadinanza a gran parte dei sudditi. A quel punto si era affermata nella terminologia l’uso di persona per indicare gli uomini in quanto relazionanti con il diritto.

Significativo, al riguardo, fu l’atteggiamento e il diritto elaborato per gli schiavi.

Sempre piú gli approfondimenti dimostrano quanto sia erronea l’opinione che vuole mantenere i servi nello stretto ambito delle res, come meri oggetti del diritto e non referenti di situazioni e forme di tutela. Si scopre, invece, che la loro condizione di ‘uomini’ penetrò in modo significativo anche nella normativa giuridica e, soprattutto, nelle enunciazioni dei giuristi del Principato, suggerendo soluzioni che oserei definire di ‘soggettività’ o che comunque, quanto meno, riconoscevano il servus come “un soggetto portatore di una dignità, di un valore in sé, proprio dell’uomo in quanto tale”[38], con implicazioni profonde sia nel diritto privato che in quello pubblico.

Molti sono gli aspetti specifici posti in luce dagli studi piú recenti, i quali hanno evidenziato l’esistenza di una vera e propria capacità patrimoniale degli schiavi, con proiezioni persino manageriali, ed hanno suggerito al Robleda di rivendicare l’esistenza di un diritto degli schiavi[39]. La realtà è che Il fatto di avere letto il passato in base alle categorie contemporanee (di personalità e di capacità giuridica) ha portato ad una omogeneizzazione sincronica dei criterî di valutazione delle realtà giuridiche, che, in alcuni casi, ha implicato la perdita delle sfaccettature e delle modularità con le quali gli antichi avevano collocato gli ‘uomini’ nel ‘concreto’ dell’esperienza giuridica. Non di rado si sono sottaciute le articolazioni presenti in un diritto (ius) organizzato intorno alla considerazione preminente dell’essere umano (homo), quale era quello dei Romani. Di esso si è stati portati a sottovalutare (quando non ad ignorare) le implicazioni profonde che vi erano, nella visione della posizione delle persone, tra pubblico e privato, così come si è teso a dare scarso peso all’incidenza del ius sacrum (diritto sacro) nella concezione dell’homo quale centro di riferimento del diritto. Si è dimenticato così che la posizione dei soggetti andava colta nella dimensione dinamica, che di periodo in periodo si modellò in base ad un rapporto dialettico tra il retaggio del vecchio assetto gentilizio e l’avanzante ed assorbente assetto della Città-Stato (Civitas). Da questa impostazione è derivata la quasi unanime negazione della soggettività giuridica dei servi (schiavi), che, invece partecipavano a varie sfere del ius: certamente al ius sacrum o al ius naturale, ma non solo ad essi, stante l’idoneità a compiere alcuni negozi patrimoniali o ad essere fonte autonoma di responsabilità o, ancora, la riconosciuta possibilità di attivare le procedure giudiziarie oltre la garanzia di alcuni diritti ritenuti essenziali[40].

Non potendo qui soffermarmi sui punti, anche i piú importanti, della condizione servile e della partecipazione degli schiavi al ius, voglio evidenziare un solo dato, nel quale pubblico e privato si intersecano per assicurare idonea tutela contro l’offesa del diritto, fondamentale, dello schiavo alla vita.

È ancora Gaio a dirci che l’uccisione dello schiavo poteva rientrare nella legge Aquilia, per il risarcimento del danno patrimoniale, ma anche in un iudicium publicum, quello previsto dalla lex Cornelia de sicariis:

 

Gai. 3.213: Cuius autem servus occisus est, is liberum arbitrium habet vel capitali crimine reum facere eum qui occiderit, vel hac lege – Aquilia – damnum persequi.

 

Coll. 1.3.2, Ulpianus l. VII de officio proconsulis sub titulo de sicariis et veneficiis: Relatis verbis legis modo ipse loquitur Ulpianus: Haec lex non omnem, qui cum telo ambulaverit, punit, sed eum tantum, qui hominis necandi furtive faciendi dausa telum gerit, coercet. Compescit item eum, qui hominem occidit, nec adiecit cuius condicionis hominem, ut et ad servum et peregrinum pertinere haec lex videatur.

 

Giustamente è stato posto in risalto il fatto che l’inclusione dello schiavo tra le persone tutelate con giudizio pubblico costituisce un vero salto di qualità nella concezione della condizione servile. La lex Cornelia de sicariis era rivolta alla punizione di chi avesse ucciso dolosamente un cittadino; pertanto l’estensione di essa[41] al caso dell’uccisione dello schiavo doveva essere conseguenza di “una revisione radicale della mentalità”, che “segna una svolta, un deciso mutamento di rotta nella considerazione sociale e giuridica dello schiavo”[42].

Mi pare che l’estensione della punizione per omicidio anche allo schiavo sia di grande rilievo e dimostri a chiare lettere come operasse l’intreccio pubblico-privato nella considerazione e tutela delle persone, la quale al tempo di Antonino Pio arrivò a prevedere anche la punizione di chi avesse ucciso il proprio schiavo. È ancora Gaio a darcene notizia:

 

Gai. 1.53: nam ex constitutione imperatoris Antonini qui sine causa servum suum occiderit, non minus teneri iubetur, quam qui alienum servum occiderit.

 

La punizione, che doveva essere affidata anche qui ad un iudicum publicum, probabilmente lo stesso previsto dalla legge sillana de sicariis[43], supera nettamente la concezione dello schiavo come res e riconosce in modo palese il diritto alla vita dello schiavo.

Diritto che prima non era del tutto misconosciuto, come si crede, solo era affidato ad una differente tecnica, propria del sistema aperto della Roma repubblicana. Infatti se è vero che al paterfamilias era attribuito il potere di vita e morte sullo schiavo, così come sui figli, era altresì vero che l’abuso di esso non restava impunito. La coercizione era affidata, invero, all’intervento dei Censori, i quali nell’esercizio della cura morum reprimevano ogni abuso del pater, commesso nell’esercizio del proprio diritto: tra essi rientrava l’uccisione immotivata del sottoposto, figlio o servo[44].

In conseguenza vi è una continuità nel ritenere lo schiavo destinatario di tutela giuridica sin dall’età repubblicana, perché lo si riteneva punto di riferimento di interessi sia suoi personali sia della collettività.

La convergenza di pubblico e privato nella tutela delle personae ha anche in altre sedi ricorrenti esempi.

Qui vorrei ricordare quella accordata ad un’altra categoria di persone ‘deboli’, le donne. Per esse la proiezione naturale, socialmente feconda, era nel matrimonio. Con esso, infatti, diventavano tasselli indispensabili della finalità di ‘crescita’, che si trova a fondamento tanto della familia quanto della Civitas[45]. Era pertanto nel matrimonio che la donna si realizzava e realizzava la sua posizione giuridico-sociale all’interno della società romana. In conseguenza di ciò il matrimonio era nell’interesse della donna, ma anche della sua familia e della Respublica. Ma per arrivare al matrimonio la donna aveva bisogno di avere la dote, che era diventata essenziale nella struttura del matrimonio romano[46]. Questa esigenza era molto antica nell’esperienza romana[47] ed era tanto avvertita che Plauto metteva l’accento sulla difficoltà di sposarsi per le donne senza dote, arrivando addirittura ad accostare il matrimonio senza dote al concubinato[48].

Orbene per assicurare alla donna l’effettiva possibilità di contrarre matrimonio i giuristi affermarono la necessità dell’intervento pubblico[49], sottraendo quindi la tutela della donna alle sole forme previste dal diritto privato, anche nel caso in cui matrimonio non fosse ancora valido, come quello della minore di 12 anni, che restava nella casa del marito in attesa del compimento dell’età matrimoniale:

 

D. 23.3.2, Paul. 60 ad ed.: rei publicae interest mulieres dotes salvas habere, propter quas nubere possunt.

 

D. 42.5.18, Paul. 60 ad ed.:interest enim reipublicae et hanc solidum consequi, ut aetate permittente nubere possit.

 

Dunque appare confermato che là dove si individuava una situazione di debolezza e quindi l’esigenza di tutela della persona si affermava l’esistenza di un interesse pubblico alla salvaguardia dell’interesse minacciato.

Finalità, questa, che poteva essere raggiunta in varie forme.

Esempio significativo fu quello che avvenne per la tutela degli impuberi. La quale si trasformò da potere in munus.

La protezione dei fanciulli era affidata alla famiglia e, per essa, al pater. La stessa famiglia o il gruppo cui essa apparteneva avevano il dovere di occuparsi degli impuberi e del loro patrimonio[50]: a questo provvedevano le forme della tutela legitima e della tutela testamentaria. Esse realizzavano la successione nell’esercizio del potere spettante al padre e restavano nell’ambito dell’organizzazione privata della familia o della gens.

Ma ecco che quando, probabilmente per conseguenza delle guerre che avevano decimato la popolazione maschile, si constatò che vi erano molti fanciulli senza un maschio che potesse provvedere alle loro necessità, si emanò un plebiscito (lex Atilia anteriore al 186 a. C.) con il quale si dette incarico al pretore di nominare un tutore a chi ne era privo[51]. Si verificò così un intreccio tra privato e pubblico, nel quale la Respublica si fece carico, attraverso un suo magistrato, di quello che fino ad allora era parso un interesse meramente privato. E ne risultò un cambiamento radicale, perché l’istituto fu modificato profondamente diventando una forma di protezione dei deboli (quali erano i pupilli[52] e non piú l’esercizio di un potere[53]. L’intreccio privato-pubblico che ne conseguì fu rivoluzionario e si tradusse in una forma efficace di protezione dei fanciulli, ritenuti deboli sino alla pubertà; ciò perché la pubertà e non un’età piú congrua[54] segnava la maturazione dell’uomo e la sua capacità di ingresso nella vita pubblica[55].

Analogo discorso vale per la cura dei minori di 25 anni. Lì, a partire dall’antica legge Laetoria del 3° secolo a. C., si verificò un incisivo intreccio tra negoziazione privata ed intervento pubblico, attraverso il pretore che poteva concedere un’exceptio legis Laetoriae o una restitutio in integrum, sempre basandosi sui presupposti adombrati dalla legge, che portò alla nascita della cura minorum. La quale costituì una forma abbastanza efficace di protezione dei giovani inesperti contro gli usurai[56], che solo per un’ottica fuorviante, dovuta alle distorsioni conseguenti all’adozione del concetto di capacità, viene classificata dalla manualistica contemporanea tra le forme minoratrici della capacità e non, come dovrebbe, tra le forme di difesa dei deboli[57]. Difesa peraltro incisiva contro gli speculatori, che potevano perdere ciò che avevano dato ai minori, se non avessero agito con estrema onestà o, comunque, oggettivamente dal prestito avessero tratto profitti immotivati[58].

A questo punto credo che gli esempi sarebbero ancora molti. Mi limito ai casi indicati, i quali confermano l’attenzione dei Romani, e per essi della loro giurisprudenza, ai problemi reali dell’uomo, cui il diritto accorda riconoscimento e protezione, di là da sue predeterminazioni o riconoscimenti, bensì solo perché sono. Dando vita ad un diritto che è per l’uomo-pesona in tutte le sue articolazioni, anche commerciali.

E qui vorrei dire che anche nel campo delle obbligazioni la proiezione verso l’uomo si manifestò in modo incisivo. Vi è in proposito l’esigenza di superare la convinzione che il contratto romano non era incentrato sul ‘consenso’ e sull’assetto degli interessi dei contraenti, bensì sul vincolo che scaturiva ‘oggettivamente’ da una determinata situazione[59]; in quest’ordine di idee la dottrina del primo novecento aveva inteso il contractus “non quale struttura giuridica implicante il consensus, ma in termini oggettivi, come ‘vincolo, affare’”[60]. Da tempo, tuttavia, ci si sta accorgendo che quella definizione non corrisponde al contratto romano; essa è solo la conseguenza della sussunzione del contractus nella (allora imperante) teoria del negozio giuridico. La quale, però, ha influenzato gran parte della romanistica, giunta a sostenere che il consenso-accordo sarebbe stato essenziale e costitutivo solo nei contratti dello ius gentium, che, secondo lo schema di Gaio[61], appaiono i soli contratti che contrahuntur consensu[62]; mentre il consenso, pur necessariamente presente, sarebbe irrilevante negli altri contratti, nei quali appare sostituito o assorbito da altri elementi, cioè dal dare, dalla pronuncia di particolari verba, dalla redazione di documenti (litterae).

A fronte di tali posizioni c’è, invece, da domandarsi come un diritto, come quello romano, che veniva dichiarato in funzione degli uomini come si atteggiava ed in che misura incideva nelle materie comportanti la regolamentazione di interessi contrapposti.

Vorrei qui, per tentare una prima approssimativa risposta, ricordare il pensiero di Giuliano su una questione molto complessa, perché investente temi ereditari e contrattuali. Il nocciolo concerneva l’interrogativo su quanto dovesse dare il venditore al compratore per l’evizione di uno schiavo: in particolare, in che misura doveva rifondere le spese fatte per l’educazione dello schiavo. La risposta del giurista adrianeo, riferita dal giurista severiano Paolo, è illuminante: bisognava sì pagare le spese sostenute per l’istruzione dello schiavo, ma non tutte, bensì solo quelle che potevano essere ipotizzate già al momento della vendita:

 

D. 19.1.43, Paul. 5 quaest.: De sumptibus vero, quos in erudiendum hominem em­ptor fecit, videndum est: nam empti iudicium ad eam quoque speciem sufficere existimo: non enim pretium continet tantum, sed omne quo interest emptoris servum non evinci. Plane si in tantum pretium excedisse proponas, ut non sit cogitatum a venditore de tanta summa, veluti si ponas agitatorem postea factum vel pantomimum evictum esse eum, qui minimo veniit pretio, iniquum videtur in magnam quantitatem obligari venditorem[63].

 

In altra sede[64] mi sono occupato della questione, arrivando alla conclusione che la posizione di Giuliano era di estrema attenzione all’assetto concreto degli interessi delle parti. Per fare ciò il giurista si avvaleva del riferimento a quanto cogitatum dai contraenti, il cui risultato si potrebbe riassumere in questi termini. ogni contratto si poggia non solo sul consenso espresso, ma anche sulle implicazioni di esso, però solo riguardo a quanto il contraente, se ci ne fosse consapevole, accetterebbe ugualmente di includere nel contratto. Sicché appare conseguente intervenire sul contenuto del contratto per tenerlo nei limiti dell’accettabile in considerazione di un bilanciamento ponderato degli interessi da esso coinvolti.

Tra consensus e bilanciamento dell’assetto degli interessi, ispirato dal sinallagma, sui quali, come si è detto, la dottrina assa la concezione romana del contractus mi sembra che Giuliano ipotizzasse la considerazione di un ulteriore riferimento: quello dell’aggancio della conventio, che disciplinava il contractus, con ciò che se immaginato si sarebbe ugualmente accolto in essa, ma che non era presente ai contraenti al momento della conclusione del contratto. Tale aggancio non incideva sulla validità del contratto, ma solo ne determinava la proporzionale riduzione delle conseguenze che, a rigori, sarebbero dovute scaturire dal consensus prestato. Tale riduzione, che poteva operare a favore tanto dell’una quanto dell’altra parte, mi sembra un ulteriore piú ultraneo sviluppo della linea di pensiero, sopra ricordata, espressa da Aristone ed iniziata da Labeone; con la differenza che le dottrine espresse da quei giuristi concernevano la conclusione del contractus, mentre la costruzione di Giuliano era diretta a regolare le conseguenze di esso: le prime guardavano al momento genetico del vincolo obbligatorio, mentre la disciplina giulianea mirava a fissare criteri per l’esecuzione del contractus, ivi compreso il momento dell’eventuale dissoluzione di esso, per responsabilità di una delle parti.

In qualche misura Giuliano perfezionava ed andava oltre la posizione già espressa da Sesto Pedio, quando aveva fondato il contratto sulla conventio (nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem)[65]. Questi, come si è ricordato sopra, dichiarava l’essenzialità della conventio per qualsiasi contratto od obbligazione, ma poi sembra avere riferire la conventio stessa al consensus; infatti egli dopo avere affermato che non vi poteva essere vincolo senza la conventio precisava che anche nella stipulazione, la quale pareva nascere solo dalla pronuncia di determinate parole, era necessario il consenso, operando, a mio avviso, una identificazione della conventio con il consensus: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum, nulla est (infatti anche la stipulazione, che si crea con le parole, è nulla se non contenga il consenso”).

Giuliano, almeno per i contratti sinallagmatici, invece parrebbe far rientrare nella conventio non solo il consensus, ma anche i termini nei quali si sarebbe potuto concludere l’accordo se si fossero ipotizzate circostanze o situazioni che in realtà non furono ipotizzate dai contraenti; sempre che esse avessero comportato uno squilibrio apprezzabile negli obblighi assunti dalle parti.

Con Giuliano la disciplina del contractus veniva così ad essere integrata da un nuovo principio, che ancorava gli effetti del contractus ad un criterio di prefigurazione di essi, al momento dell’intesa contrattuale, in modo da escludere le conseguenze non previste, quando fossero risultate fuori dal normale svolgimento degli eventi disciplinati nel contratto; sempre che avessero potuto incidere in maniera apprezzabile sull’assetto dato dalle parti ai propri interessi. In ultima analisi vi era una piú penetrante attenzione alla voluntas nel senso che si cercava di stabilire, di là da quanto esplicitato nell’accordo, cosa in realtà si era voluto o, meglio, quello che si sarebbe potuto volere. È per questo che la decisione di Giuliano si traduceva in una valorizzazione della volontà effettiva che stava alla base del negozio e che, anche se non esplicitata, era ricavabile dall’insieme della negoziazione e non solo dal consensus espresso.

Con il riferimento a quod sit cogitatum Giuliano aveva inteso richiamare proprio le circostanze non previste e, direi, impensabili; che, però, se note, avrebbero portato ad un diverso accordo mi pare anche confermato da un esame dell’uso del verbo cogitare in altri contesti.

Per tale via il giurista aveva introdotto anche nella materia contrattuale, che poteva prestarsi ad una visione formale, l’attenzione all’uomo storico e alla specificità del suo ‘concreto’ operare.

È questa un’articolazione del diritto in funzione della persona.

 

In conclusione vorrei domandarmi come si è pervenuti all’odierna posizione che pare avere abbandonato le matrici romanistiche e con ciò ha in parte smarrito il nesso inscindibile tra uomo e diritto, con la priorità del primo sul secondo, ed è sovente pervenuta a pensare che sia il diritto a creare la persona, attraverso la concessione della personalità giuridica.

Richiamo quanto ho già avuto modo di specificare in altra sede[66], mettendo in evidenza il cammino del termine e del concetto di persona, da quando viene impiegato in riferimento alla SS. Trinità, dove il Padre si mostra attraverso il Figlio, che, in tal senso, èpersona[67]. Di qui si compie un ulteriore passo, che consiste nell’uso del termine con significato analogo anche per gli uomini, visti come 'persone' viventi un’esperienza propria storicamente contrassegnata nell’ambito del messaggio salvifico dell’Incarnazione. A conclusione di questo iter cultural-semantico si perviene ad attribuire definitivamente al termine il significato “di persona individuale e individuata”[68]. Non c’è più motivo di ricordare l’origine teatrale, ma talora essa appare utile a far risaltare il contenuto di ‘valore’ del termine, a sottolinearne l’attinenza con la dignità delle persone, come farà, ad esempio, S. Tommaso d’Aquino, che spiega:

 

maxime Deo convenit quia enim in coemediis et tragoediis rapraesentabantur aliqui homines famosi, impositum est hoc nomen, persona, ad  significandos aliquos dignitatem habentes[69].

 

Come che sia, si può dire che la situazione non cambia per lungo tempo e che la nozione di persona non è oggetto di particolari determinazioni fino al XVI secolo[70], ma progressivamente si avvia ad una specificazione che finirà per alterarne i connotati. Pur se importanti discussioni non si registrano, si assiste ad una precisazione graduale nel linguaggio giuridico.

Il termine, giunto già con Gaio (nel 2  secolo d.C.) a denotare l’uomo, dà vita a progressive specificazioni tecnico-giuridiche.

La prima porta a puntualizzare che persona nel diritto è diverso da homo, in quanto la sua qualifica passa attraverso un riconoscimento del diritto, che prescinde dalla situazione naturale. Ad esempio, dirà Hugues Doneau, (Donellus, 1517-1591): «homo naturae, persona iuris civilis vocabulum»[71]. Il cammino in questa direzione l’iniziano i Canonisti medievali i quali usano persona per qualsiasi ente cui sia imputabile l’agire e quindi la capacità giuridica. Essi partono da un’assimilazione metaforica (quasi una «finzione»), per includere tra le personae anche le personae fictae, (le universitates), dando inizio alla figura dogmatica delle cosiddette «persone giuridiche», distinte, con brutta formulazione, dalle cosiddette «persone fisiche». Su questa nuova concezione si innestano due spinte che conducono da un lato alla ‘patrimonializzazione’ dall’altro all’astrazione del concetto di persona.

Considerando che uomo è colui che, potendo disporre pienamente di sé, acquisisce il dominium rerum externarum, la seconda Scolastica e le correnti di pensiero di cui punta d’avanguardia fu il Locke, posero le premesse per l’assunzione di un contenuto economico nel concetto di persona, che, specie nel XIX secolo, viene a realizzarsi nella figura del proprietario[72].

Per altro verso si costruisce una nozione formale ed unitaria di persona, riferibile tanto agli uomini quanto alle collettività, come centro d’imputazione di doveri e diritti fissati e riconosciuti dall’ordinamento giuridico, che il Kelsen indicava in questi termini: «La persona fisica o giuridica che ‘ha’ (come titolare dei medesimi) doveri giuridici e diritti soggettivi, è questi doveri giuridici e questi diritti soggettivi, è cioè un complesso di doveri giuridici e di diritti soggettivi, la cui unità si esprime in modo figurato nel concetto di persona»[73]. In conseguenza di ciò viene considerata persona qualsiasi ente cui sia imputabile il compimento di atti.

A conclusione di questo processo si perviene alla specificazione del termine, che perde il suo significato generale, frutto della concettualizzazione filosofica che aveva portato all’identificazione tra persona e uomo (inteso come realtà razionale da Boezio e da pensatori moderni, tra i quali spicca Kant). Esso si particolarizza. Su di lui premono le esigenze sempre più ‘esclusive’ dell’economia, che ancora oggi condizionano il diritto vigente.

Vi è una più vigorosa esigenza di adeguare ‘il giuridico’ alla realtà giornaliera, di concretizzarlo nello specifico del contesto socio-economico difendendo la facoltà di scelta dell’Ordinamento, unico arbitro della giuridicità e della soggettività. Questa “ricerca di una adeguazione giuridica alla realtà dell’agire e degli interessi, sempre meno imputabili in via prevalente al singolo, cade nell’astrattezza d’un concettualismo formale, per cui non ogni persona (in senso giuridico) è uomo. Codesta duplice ma opposta valenza semantica (restrittiva l’una, estensiva l’altra) viene divulgata da ideologie, recepite anche dalla scienza giuridica, e resa operante dal completo monopolio d’una invadente normazione giuridica che lo Stato moderno-contemporaneo si è attribuita. Persona viene perciò a significare, da un lato, il concretissimo proprietario, dall’altro l’astratto e quasi disumanato «attore» giuridico. Si determina, pertanto, ai giorni nostri una diffusa reazione filosofica, che nega al primo la capacità di risolvere in sé l’integralità della persona, poiché ne rileva la dipendenza ultima dalle cose, l’eteronomia. E critica il secondo, perché privo di consistenza esistenziale, mera apparenza artificiale, come aveva già rilevato Hegel nella sua dura critica al Rechtszustand, di nuovo maschera come in antico: e la maschera può nascondere il duro volto del proprietario, dell’uomo «dell’avere»[74].

Si arriva ad una costruzione, attuale ancora ai nostri giorni, nella quale ogni posizione giuridica dell’uomo dipende dal riconoscimento dell’ordinamento giuridico (per lo più statuale) ed è oggetto di astrazioni che spesso sono dettate da interessi economici, più che dalla considerazione della dignità umana. L’uomo è schiacciato nell’ordinamento, esso stesso dichiaratosi persona, come Stato o altro, dove è accerchiato da altre persone che sempre più e più di lui contano: le persone giuridiche, le grandi società, le multinazionali[75].

 

Per tutte queste ragioni si può dire che sulla persona non solo il dibattito e le conseguenti riflessioni sono aperte, ma devono ripartire da una matrice forte e chiara. Per la quale la base piú solida sembra offerta dalle fonti del diritto romano, incentrato sull’uomo-persona e sul suo essere nella Storia.

 

 



 

[1] Essa seguiva la partizione ripresa pari pari dal commentario di Gaio tra ius delle persone e ius delle cose: I.1.12 : Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones.

 

[2] Non posso qui soffermarmi sulle implicazioni, molteplici e complesse, relative al significato del termine ius e sul concetto con esso richiamato dal brano e, più in generale, avuto presente dai redattori di Giustiniano e dalla precedente giurisprudenza romana. Mi limiterò a rinviare, dandole per richiamate, alle cospicue e penetranti pagine scritte dalla dottrina contemporanea. In sommaria approssimazione, come la sede mi costringe a fare, mi pare di potere ritenere che qui ius fosse assunto da Gaio e poi da Giustiniano come indicativo dell’ordinamento ovvero del “complesso delle norme o dei rapporti giuridicamente rilevanti in una comunità politica o al di là di essa”: così bretone, I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura, 1998, 136. Ma lo stesso Autore avverte che ius ha una molteplicità di significati i quali non si  risolvono nei concetti odierni di ‘ordinamento’ o di ‘complesso normativo’, i quali sono un’astrazione molto lontana dal ius dei romani. Certo è che per noi risulta difficile la comprensione dei concetti romani, legati come siamo ad astrazioni ed a partizioni, prima fra tutte quella tra diritto oggettivo e diritto soggettivo, del tutto estranee al diritto romano: v. sul punto catalano, Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1, 1, 12, in Iuris Vincula – St. on. Mario Talamanca, II, 2002, 97 ss.

 

[3] Il termine usato (statutum) ha un significato pregnante e sta ad indicare un processo radicato e profondo, ineliminabile dal ius: ce ne persuade una breve scórsa delle ricorrenze di esso. Nelle stesse Istituzioni il termine veniva adoperato per indicare quello che fosse stato stabilito in modo certo, o ad opera delle parti contraenti (IJ 3.9.12.(7); IJ 323.1) o attraverso le costituzioni imperiali (IJ 2.8.2; IJ 4.2.1). Gaio utilizzava il termine una sola volta in relazione a cose ‘certe’ (Gai. 3.142).

 

[4] L’affermazione era preceduta dalla classificazione del ius: Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones.

 

[5] In questo senso si vanno orientando le letture piú recenti del manuale gaiano, il quale segna un punto fermo nella sistemazione degli argomenti all’interno dei manuali istituzionale, ed è diventato un modello per le età successive; esso era innovativo rispetto ad altri modelli, che non ancora avevano avvertito l’esigenza di porre le persone in cima alla trattazione giuridica: ad esempio la sistematica seguita da Quinto Mucio Scevola, nell’opera pur fondamentale quale furono i suoi libri sul ius civile, partiva dalle successioni, così come fece successivamente Sabino: v. Schulz, Sabinus-Fragmente in Ulpians Sabinus-Commentar, rist. Labeo 1 (1964), 56 ss. e Storia della giurisprudenza romana, tr. It. 1968, 172, 279. Ma sul punto v. anche le osservazioni di R. Quadrato, La persona in Gaio. Il problema dello schiavo, Iura 37 (1986), 1 s. «La persona costituisce un tema cruciale nella riflessione gaiana. È uno dei cardini dell’ideologia del giurista adrianeo, un punto decisivo del suo pensiero. La linea di Gaio la si intravede già nel modo in cui organizza il discorso istituzionale, nella descrizione del ius quo utimur. Il piano didattico si apre con la trattazione del ius personarum. È una novità nella sistematica. Modificando una linea antica, attestata nell’opera di Q. Mucio, riproposta nei tres libri iuris civilis di Sabino, Gaio colloca il tema delle persone al primo posto, sostituendolo alla hereditas. La persona viene così ad occupare un posto di preminenza, di centralità nell’ordinamento; è l’asse attorno al quale gravita il ius, l’intera costruzione giuridica…. Non è un mutamento di poco conto. È una prospettiva che tende ad orientare il diritto verso il suo destinatario naturale, l’uomo, nel cui interesse ‘statutum est’». Per la collocazione del brano gaiano v. Di Pietro, Gayo. Institutas. Texto traducido, notas e introducion4, Buenos Aires 1993, 62 ed ivi nt. 9; l’A. comunque non si interroga sul significato di prius.

 

[6] La datazione di Ermogeniano, che potrebbe essere stato anche l’autore del codex Hermogenianus, e della sua epitome è controversa e va da chi la data alla fine del 3° secolo a chi la colloca ad una data successiva ad una costituzione di Costantino sul plagio del 331: Brassloff, v. Hermogenianus nr. 2, re VIII.1, coll. 881-2;: v. Lenel, Palingenesia I, 266; Kübler, Röm. Geschichte, 375; Schulz, History of Roman Legal Science, 1967, 309; Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen2, 1967, 263. Efficacemente il Liebs ed il Cenderelli hanno sostenuto (suscitando un animato dibattito) che sia piú probabile la datazione dei libri iuris epitomarum all’età dioclezianea: v. Liebs, Hermogenians Iuris Epitomae. Zum Stand der röm. Jurisprudenz im Zeitalter Diokletians, 1964; Cenderelli, Ricerche sul codex Hermogenianus, 1965, 198 ss.; Intorno all’epoca di compilazione dei “libri iuris epitomarum” di Ermogeniano, in Labeo 14 (1968), 187 ss.

 

[7] Constitutum ha una valenza ampia e difficilmente riconducibile ad unità. Tuttavia in esso può notarsi il significato di ‘fissare’, ‘stabilire’, con una proiezione verso l’indicazione di quello che è frutto di ‘convenzione’ ovvero dello ‘stabilire insieme’, che era forse il suo significato “primitivo e mai dimesso” e sembra affermato nel 2° sec. d.C. dove è riscontrabile nei ‘commentarii’ di Gaio e nell’enchiridion di Pomponio: sul punto v. Giodice Sabbatelli, “Censtituere”. Dato semantico e valore giuridico, in Labeo 27 (1981), 338 ss. e Il catalogo degli iura e constituere nel proemio delle istituzioni gaiane, in Il linguaggio dei giuristi romani - Atti del convegno internazionale di studi - Lecce, 5-6 dicembre 1994 - a cura di O. Bianco e S. Tafaro, 2000, 113 ss. Questo mi spinge a pensare che Ermogeniano volesse dire che la centralità della persona era un punto fermo ed era stata concordemente accettata nel corso dell’evoluzione dell’esperienza giuridica romana. Devo però osservare che forse nel linguaggio dei giuristi a partire dall’età dei Severi constitutum potrebbe avere assunto un significato più ristretto e specifico perché potrebbe essere astato adoperato solo per indicare ciò che era stato deciso dalle costituzioni imperiali. Ulpiano adoperava il termine constitutum forse solo con riguardo agli edicta: v. Honoré, Ulpian, 1982, 239, nt. 375 (Ulp. 3.2.13.7, dove per il giurista costitutum distingue le costituzioni del Principe rispetto alle decisioni dei prudentes, indicate con responsum), 241, ntt. 392, 393, 394 (Ulp. D. 40.5.26.1, Ulp. 49.14.25, Ulp. D. 29.7.1). Per parte mia osservo che una breve scórsa delle fonti ulpianee mostra che sempre il giurista quando adoperava constitutum intendeva richiamare norme introdotte da costituzioni imperiale: cfr. Ulp. D. 2.4.10.4; Ulp. D. 2.13.4.5; Ulp. D. 3.2.13.7; Ulp. D. 3.3.39.1; Ulp. D. 3.6.5;  Ulp. D. 4.1.6; Ulp. D. 4.4.3.1; D. 4.4.22; Ulp. D. 4.6.26.9; Ulp. D. 4.9.1.1; Ulp. D. 5.2.29; Ulp. D. 11.7.6; Ulp. D. 13.6.5.2; Ulp. D. 13.7.11.6; Ulp. D. 16.2.11; Ulp. D.16.2.12; Ulp. D. 17.1.12.9; Ulp. D. 22.1.37; Ulp. D. 26.7.1.1; Ulp. D. 27.3.1.13; Ulp. D. Ulp. D. 28.3.6.8; Ulp. D. 28.3.6.10; Ulp. D. 29.7.1; Ulp. D. 30.41.5; Ulp. D. 40.4.9. 1; Ulp. D. 40.5.24.21; Ulp. D. 40.5.26.pr.; Ulp. D. 40.5.26.1; Ulp. D. 42.1.15.4; Ulp. D. 42.8.10.13; Ulp. D. 42.8.10.14; Ulp. D. 43.4.3.1; Ulp. D. 46.3.5.2; Ulp. D. 47.2.14.4; Ulp. D. 48.1.5.1; Ulp. D. 48.5.20; Ulp. D. 48.8.4.2; Ulp. D. 48.18.1.9; Ulp. D. 48.22.7.15; Ulp. D. 49.7.1.4; Ulp. D. 49.14.25; Ulp. D. 49.14.28; Ulp. D. 49.14.29; Ulp. D. 50.4.8; Ulp. D. 50.12.3. Anche nei tre soli frammenti di Ermogeniano che, oltre il nostro passo di D. 1.5.2, adoperavano il termine constitutum sembra chiaro il riferimento agli interventi degli imperatori: cfr. Herm. D. 40.1.24.1, D. 44.3.13, D. 49.14.46.5. Per due volte il tardo giurista diceva saepe constitutum est (D. 40.1.24.1, Hermog. 1 iuris epit. Sed et si testes non dispari numero tam pro libertate quam contra libertatem dixerint, pro libertate pronuntiandum esse saepe constitutum est; D. 49.14.6.5, Hermog. 6 iuris epit. Ut debitoribus fisci quod fiscus debet compensetur, saepe constitutum est: excepta causa tributoria et stipendiorum, item pretio rei a fisco emptae et quod ex causa annonaria debetur). orbene l’espressione sembra usata esclusivamente dai giuristi severiani (da Macro, Macer D. 42.1.63, ed Ulpiano, Ulp. D. 14.6.3.1, che è l’unico ad adoperare l’aggettivo al superlativo saepissime constitutum: v. Ulp. D. 4.1.6, D. 4.6.26.9, D. 11.7.6, D. 14.6.3.1, D. 28.3.6.8, D. 40.5.24.1, D. 42.8.10.13, D. 42.8.10.14). Di conseguenza sembra verosimile la derivazione del linguaggio di Ermogeniano da quello dei giuristi severiani.

 

[8] Per il diritto contemporaneo se ne veda, da ultimo, l’esaustiva esposizione, riferita al diritto italiano, in Perlingieri, Manuale di diritto civile, Napoli 1997, 115-116: «Persona umana e soggetto. Persona fisica è l'uomo considerato da diritto nella sua individualità e nei rapporti con gli altri. Preliminarmente occorre individuare il rapporto esistente tra la persona ed il soggetto. Due sono le linee di tendenza nelle quali sembra possibile riunire numerosi indirizzi dottrinali. Taluni, senza effettuare alcuna distinzione, discorrono indifferentemente di persona, soggetto, uomo, individuo. Storicamente, l’atteggiamento si accentua man mano che l'individuo è liberato dalla soggezione perviene agli status, fonti di privilegi e di discriminazioni. Lineare la conseguenza: ogni essere umano vivente è persona e quindi soggetto di diritto. Meno diffuso, invece, è l'orientamento che, ravvisando l'esistenza di differenti ámbiti di incidenza per il soggetto e per la persona, propone di tenerli separati. Le dispute sulla confluenza o sulla precisa suddivisione delle sfere d'influenza tra soggetto e persona non segnano alcun progresso rispetto al fine, perseguito dall'ordinamento, di valorizzare a pieno l'uomo nel suo essere e nelle manifestazioni del suo agire. In tal modo, però, si ridimensiona l'affermazione che tutte le persone umane sono soggetti di diritto: lo sviluppo storico e lo studio comparatistico degli ordinamenti giuridici dimostrano che il dato non è immutabile e la dottrina ricorre al termine soggetto (anziché a quello di persona), là dove si occupa del fenomeno soggettività in termini di struttura, mentre alla persona riserva un significato piú contenutistico».

La separazione tra persona umana e soggettività giuridica, nella dottrina contemporanea, è poi evidenziata dalla terminologia che distingue, talora per identificarveli, tra capacità giuridica, soggettività e personalità. In proposito il Perlingieri, loc. cit., osserva: «Per unanime opinione la capacità giuridica assurge a principio generale dell'intero ordinamento giuridico. Essa è definita dalla dottrina come idoneità di un soggetto ad essere titolare di diritti e doveri e piú in generale di situazioni soggettive. Secondo taluni però occorre distinguere la capacità giuridica "generale", che in quanto attitudine astratta e generica è estesa a tutti gli uomini, dalla capacità giuridica speciale, quale incidenza della capacità generale sulla possibile titolarità delle singole situazioni. Dominante è l'opinione che identifica la capacità giuridica con la soggettività. Nell'àmbito di tale opinione la teoria c. d. organica costruisce il soggetto giuridico come una fattispecie composta da un elemento materiale (il substrato materiale) e un elemento formale (il riconoscimento formale da parte dell'ordinamento) che attribuisce al primo la qualità di persona: I'uomo diventa soggetto del diritto soltanto in virtù di tale riconoscimento. La fattispecie‑capacità è preliminare ad ogni altra situazione soggettiva e si pone come presupposto per l'acquisto di tutti i diritti e gli obblighi giuridici; non è ammissibile che essa sia graduale poiché è sempre costante, piena, non parziale, non limitata, non relativa. In questa prospettiva però l'uomo assurge nell'ordinamento giuridico ad unità fittizia ed indifferenziata. L'altra impostazione, invece, raccoglie le teorie c. d. atomistiche che tendono a scomporre il fenomeno in tanti comportamenti quante sono le norme che li prevedono. La persona, fisica o giuridica, che "ha" doveri giuridici e diritti soggettivi "è" questi doveri e questi diritti; è, cioè, un complesso di doveri giuridici e di diritti soggettivi raffigurato unitariamente. Tale concezione estromette l'individuo dal mondo del diritto, limitandosi a cogliere l'isolato comportamento umano come previsto e disciplinato dalla singola norma. Pertanto la soggettività, al pari della capacità giuridica, lungi dal costituire una qualità intrinseca dell'uomo, si frantuma in una serie di comportamenti analizzabili l'uno indipendentemente dall'altro, sí che resta preclusa un'interpretazione della realtà che trascenda l'episodico e il contingente. Invero l'art. 1 – del Codice Civile italiano – segna l’ingresso dell'individuo nell'ordinamento giuridico: l'uomo è accolto nel mondo del diritto nella sua totalità fisica e psichica e dunque diviene soggetto di diritto. La natura della norma non consente di spingere l'affermazione oltre il mero riconoscimento della capacità‑soggettività. Il collegamento della soggettività ad ogni persona fisica è invece ravvisabile, a livello costituzionale. La soggettività entra nel novero dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all'uomo (2 cost. – italiana –). La qualità di uomo si presenta come condizione imprescindibile affinché l'ordinamento possa assegnare la qualifica di soggetto di diritto: I'appartenenza al genere umano costituisce requisito necessario e al tempo stesso sufficiente ai fini del conferimento della soggettività e non sono ammesse (31 cost. ) distinzioni di sorta tra individuo e individuo. Perciò la capacità‑soggettività non può essere eliminata per alcun motivo, neanche di natura politica (22 cost. ). Si riattribuisce cosí una propria utilità alla nozione di capacità giuridica generale e si respingono le letture riduttive dell'art. 1 – C. C. -. Con riferimento ai concetti di capacità giuridica e di personalità, ora si configura la prima come nucleo essenziale della seconda (sí che le due nozioni si sovrappongono e si esauriscono l'una nell'altra), ora si pone la personalità in una posizione di priorità rispetto alla capacità giuridica, come emanazione della personalità, ora, infine, come misura della stessa. Piú di recente, sulla base di una attenta valutazione del dato costituzionale non soltanto non è lecito confondere la capacità con la personalità (che della persona è l'aspetto dinamico garantito nel suo pieno e libero svolgimento), ma si delinea l'impossibilità di riconoscere all'uomo l'astratta potenziale titolarità senza l'effettiva attuazione dei valori dei quali egli è portatore. Il che vale, in particolare, per le situazioni soggettive personali e personalissime, che si possono definire esistenziali, là dove titolarità e realizzazione coincidono con l’esistenza stessa del valore, tant’è che, almeno per tali situazioni, non è configurabile la distinzione tra la capacità giuridica (momento della titolarità) e la capacità di agire (momento dell’esercizio). …. La dottrina prospetta tra la capacità giuridica e la capacità di agire (2 – C.C. -, con le modifiche della 1. 8 marzo 1975, n. 39) un costante parallelismo. La capacità giuridica designa il momento statico e il soggetto si presenta come immobile portatore d'interessi; la capacità di agire indica l'aspetto dinamico e il soggetto diventa operatore giuridico, protagonista attivo. Pertanto, la capacità di agire è definita come idoneità della persona a svolgere l'attività giuridica che riguarda la sfera dei suoi interessi o come attitudine a manifestare volontà che siano idonee a modificare la propria situazione giuridica o ancora come idoneità ad esercitare diritti e assumere obblighi giuridici. Della capacità di agire generalmente si afferma la relatività. Essa varia sia dal punto di vista strutturale, in quanto i presupposti che concorrono a formarla si differenziano in rapporto al tipo di atto; sia da quello funzionale, in quanto la sua esclusione o limitazione corrisponde a precisi scopi: altro è l'incapacità dei minori e degli interdetti giudiziali (1441), altro l’incapacità degli interdetti legali (14412), quale pena accessoria a carico del condannato all'ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni (32 c. p.). La relatività opera anche in altro senso: è dato rinvenire una capacità negoziale, una processuale, una penale, una politica, ecc. La capacità di agire, al contrario della capacità giuridica, appare misurabile in termini quantitativi, tant’è che fra gli estremi dell'incapacità totale e della piena capacità si collocano numerose tappe intermedie: capacità parziale, limitata, semipiena e altre ancora”» (p.121).

 

[9] Il punto è pacifico per i romanisti. Ciononostante essi, anche per inquadrare la realtà giuridica romana, usano parlare di capacità (giuridica e di agire), presumibilmente perché ritengono che il vocabolo sia per lo studioso contemporaneo il piú idoneo ad per la comprensione dell’antico: cfr., per tutti tre esempi emblematici della odierna e più autorevole manualistica:

Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano14, Napoli, rist. 1985, 43: «La condizione degli esseri che l’ordinamento giuridico considera soggetti di diritto si dice capacità giuridica o di diritto, o (in antitesi alla capacità di agire, della quale diremo tra breve) capacità di godimento del diritto. La terminologia fin qui riportata non è romana»; tuttavia l’Autore si avvaleva di quei termini ampiamente nel prosieguo della esposizione degli istituti romani.

Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990,  75 s.: «23. Capacità giuridica, capacità di agire, teoria degli 'status'. - a) Attualmente, la persona fisica è, in quanto tale, fornita di capacità giuridica. Per capacità giuridica s'intende l'idoneità di un soggetto ad esser titolare di diritti e di doveri: alla capacità giuridica si contrappone la capacità di agire, e cioè l'idoneità a porre in essere un'attività giuridicamente rilevante, al fine di creare, modificare od estinguere un rapporto giuridico. I romani non hanno consapevolmente formulato questa fondamentale distinzione tra la capacità giuridica e la capacità di agire, delle quali, però, si coglie, indubbiamente, in quell'esperienza la concreta operatività. Per il diritto romano, si tratta, in primo luogo, di determinare le condizioni che debbono ricorrere perché all'individuo umano sia riconosciuta la capacità giuridica».

Marrone, Istituzioni di diritto romano2, Palermo 1994, 193: «La dottrina moderna pone a base di ogni discorso sul diritto delle persone i concetti di capacità giuridica (o capacità di diritto) e capacità di agire. Per capacità giuridica intende l'idoneità ad essere titolari di diritti ed obblighi o, in ogni caso, di situazioni giuridiche soggettive; per capacità d'agire l'idoneità ad operare direttamente nel mondo del diritto e pertanto a compiere personalmente atti giuridici. Si tratta di categorie giuridiche non romane, utili però per inquadrarvi, all'occorrenza con le necessarie precisazioni, la realtà giuridica romana. Giuridicamente capaci sono oggi, nel nostro sistema positivo, tutti gli esseri umani, tutti quanti essendo possibili centri di imputazione di diritti e doveri giuridici (anche il pazzo, anche il fanciullo possono essere eredi, proprietari, etc.). Capacità giuridica si riconosce inoltre a talune entità consistenti in organizzazioni di persone e beni, cui si dà il nome di persone giuridiche. In contrapposizione ad esse gli esseri umani si dicono persone fisiche. I soggetti giuridicamente capaci sono pertanto in ogni caso 'persone': persone fisiche gli esseri umani, persone giuridiche gli altri enti. Per diritto romano le cose stavano diversamente. Anzitutto dal punto di vista terminologico: la parola 'persona' è riferita solo a quelle che noi diciamo persone fisiche ed è propria di esse. Tutti gli esseri umani, nel linguaggio giuridico, sono detti persone ma non tutti hanno capacità giuridica: possono averla, ma non l'hanno necessariamente, le persone libere; non l'hanno mai, in via di principio, gli schiavi (servi). Anche i Romani riconobbero che certe organizzazioni potessero essere centri di imputazione di diritti e doveri giuridici ma non elaborarono compiutamente il fenomeno: i concetti al riguardo furono, sul piano giuridico, appena abbozzati e mancò comunque una terminologia costante. La capacità d'agire — non concepibile propriamente per le persone giuridiche — presuppone oggi la capacità giuridica e viene riconosciuta a tutti gli esseri umani intellettualmente capaci: è negata pertanto ai minori di età e agli infermi di mente. Anche a Roma la capacità d'agire era riconosciuta alle persone intellettualmente capaci ma non presupponeva necessariamente la capacità giuridica: un pater familias adulto e sano di mente era giuridicamente capace e al contempo capace di agire; invece schiavi e filii familias adulti e sani di mente erano sì capaci di agire ma era loro fondamentalmente negata la capacità giuridica (operavano nel mondo del diritto con effetti che talora si imputavano al dominus o al pater familias)».

Non sono sfuggite a questa impostazione di fondo neppure le ricerche che sono partite da un’ottica differente, incentrandosi intorno alla considerazione della ‘persone’, come si può dire per la ricca e circostanziata opera dell’Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, nella quale l’interrogativo di fondo resta sempre quello di verificare se e quando vi fosse capacità (di volta in volta, giuridica o di agire).

 

[10] Così Talamanca, Istituzioni cit., 683, dove viene ricordato che «la categoria dell’incapacitas venne introdotta nell’ordinamento romano dalla legislazione matrimoniale augustea, che prevedeva una serie di casi in cui l’erede od il legatario non potevano acquistare l’eredità od il legato».

 

[11] V. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juriste2, 1967, 224 ss., 245 ss.; Tafaro, Regula e ius antiquum in D. 50.17.23, Appendice, 1989, 1 ss.1-3.

 

[12] V. Frezza, La cultura di Ulpiano, in SDHI 1968, pp. 365 ss., il quale mette in risalto il legame che doveva esserci stato tra il giurista ed i grandi pensatori della Siria, Origine e Porfirio, i cui insegnamenti sembrano presenti anche nell’impostazione dell’attività giuridica di Ulpiano, che espressamente si vantava della sua origine fenicia in D. 50.15.1.pr. Ulp. 1 de cens.: Sciendum est esse quasdam colonias iuris italici, ut est in Syria Phoenice splendidissima Tyriorum colonia, unde mihi origo est, nobilis regionibus, serie saeculorum antiquissima, armipotens, foederis quod cum Romanis percussit tenacissima: huic enim divus Severus et Imperator noster ob egregiam in rem publicam imperiumque romanum insignem fidem ius italicum dedit.

 

[13] Nella contrapposizione, insita nell’affermazione di Ulpiano, forse vi era l’eco di una polemica risalente che aveva contrapposto la vera philosophia alla simulata philosophia, e che “sembra raccogliere echi ciceroniani e quintilianei” (così Bretone, Storia del diritto romano2, 1987, 273 ed ivi nt. 82, con ragguaglio bibliografico, anche riguardo alla tesi del Nörr, che vede in Ulpiano la risposta all’accusa mossa da Cicerone, quando nel pro Murena 14.30 aveva bollato l’attività dei giuristi come verbosa simulatio prudentiae).

 

[14] D. 1.1.1.pr.-1 Ulp.: 1 ist.: Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi. Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notitiam profitemur, aequum ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes, veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes. Va detto che Ulpiano proponeva un ideale di vita pratico, calato nella realtà e non lontano da essa come i filosofi, ed in particolare Origene, avevano sostenuto, asserendo che bisogna perseguire la vera filosofia per vivere la vera vita, lontana dalla milizia, dall’attività forense, dallo studio delle leggi (cfr. Greg. Thaumaturgus, in Origenem, oratio panegyrica, - Migne, patr. Gr., 10, p. 1069 A-B). Ulpiano, invece si collegava alla tradizione aristotelica ed alle correnti di pensiero che avevano visto il nómos come la forma che consentiva di discernere ciò che giova da ciò che nuoce (v., per esempio, riguardo ad Archelao ed Ippocrate Polenz, Nomos und Physis, in Klass. Schriften, 2, 341 ss.) e che sostanziava la virtù degli dei di distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, come già Euripide (Hecuba, vv. 800-801) aveva detto. Il Nörr, Iurisperitus sacerdos, in Xénion. Festschrift Zepos, 1973, 557, suppone una probabile antecedenza alla qualifica di sacerdotes rivendicata da Ulpiano per i giuristi in una formulazione di Seneca, De vita beata 26.7.

 

[15] Soprattutto della neoplatonica: v. Frezza, La cultura, cit., 371. Era la concezione superiore del diritto a fornire ad Ulpiano una visione elevata del ruolo dei giuristi, visti come sacerdoti chiamati ad una missione totalizzante della scienza divina ed umana: D. 1.1.10.2: Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. Sul punto e sulle tematiche connesse v. Bretone, Storia del diritto romano2, cit., partic. 270 ss., 346 ss. che ricostruisce tutti gli itinerari culturali e le valenze connesse alle affermazioni ulpianee e alle visioni sul ius della giurisprudenza romana.

 

[16] Nel pensiero di Ulpiano la priorità spetta alla giustizia che consiste nella costante e perpetua volontà di riconoscere a ciascuno il proprio diritto (D. 1.1.10.pr.: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi), secondo un’affermato assioma greco, divulgato in Roma da Cicerone (De legibus 1.6.19).

 

[17] La centralità della persona è pienamente avvertita dai filosofi moderni. Rosmini assa sulla persona le sue teorie etico-giuridiche; per lui: «il concetto del diritto suppone primieramente una persona, un autore delle proprie azioni», perciò «la persona dell’uomo è il diritto umano sussistente» (Filosofia del diritto, I, ed. 1967, 106, 191).

 

[18] Sull’evento, ricordato anche avanti, che va sotto il nome di Constitutio Antoniniana , da ultimo v., anche per la disamina della più significativa letteratura, Bretone, Storia del diritto romano2, cit. pp. 443 s.

 

[19] Sul punto v. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, cap. I: “Populus e civis: Da Rousseau a Nietzsche”.

 

[20]  Il termine verrà usato nel significato odierno, perché è parso quello più idoneo ad indicare le situazioni di soggettività e capacità giuridica, in considerazione del fatto che capacità nell’uso odierno ha portata generale e può riferirsi ad ogni situazione con implicazioni giuridiche rilevanti: v. Falzea, sv. Capacità (Teoria generale), ED VI, 1960, 8 s.

 

[21] V. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana2, 1978, 39 s. Mutuo l’espressione ciclo della vita dal Pugliese, Il ciclo della vita individuale nell’esperienza giuridica romana, in Atti dei Convegni Lincei 61 (1984) - Colloquio: Il diritto e la vita materiale (Roma, 22-23 novembre 1982), 55 ss. Segnalo il fatto che il contributo è un archetipo esemplare per i temi legati alla considerazione della vita individuale ed in particolare alla problematica relativa all’età minorile; esso, peraltro, è l’ultimo di alcuni saggi, che denotano l’acuita attenzione dell’Autore per i problemi dei minori nella realtà romana; gli altri sono: Precedenti romani della moderna legislazione sui minori, Atti dei Convegni Lincei 59 (1983) - Colloquio italo-polacco: La legislazione sui minori (Roma, 22-23 novembre 1979), 111 ss.; Appunti sugli impuberi e i minori in diritto romano, in St. Biscardi IV (1983), 469 ss. Rinvio comunque alle specificazioni, anche bibliografiche, da me fatti in Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana, Bari 1988, cap. I. 1.

 

[22] La peculiarità di tale posizione richiederebbe un lungo discorso che non si può qui nemmeno accennare. Per lo status doctrinae, l’analisi dello sviluppo e dell’esercizio della patria potestas all’interno dell’organizzazione della familia e per un vaglio critico e completo delle fonti giuridiche e letterarie: Rabello, Effetti personali della “patria potestas”, I - Dalle origini al periodo degli Antonini (1979). Ricordo i riferimenti nei manuali istituzionali: Burdese, Diritto privato romano, 1977, pp. 221 ss.; Guarino, Diritto privato romano2 (1984), 309 ss.; Serrao Diritto privato economia e società nella storia di Roma 1 - Prima parte, 1984, 211; Marrone, Istituzioni di diritto romano, 1988, 288; Talamanca, Istituzioni di diritto romano, 1990, pp. 119 ss.; Nicosia, Institutiones. Profili di diritto privato romano, parte I, 1991‑92, 86 ss.

 

[23] L’etimologia di pop(u)lus, che potrebbe provenire da una radice mediterranea, importata dagli Etruschi, equivalente a “crescere”: cfr. Devoto, Storia della lingua di Roma (1940), 57, 77,80; De Martino, Storia della costituzione romana I (1958), 88 ed ivi nt. 30.  Il collegamento tra poublicus, publicus e il significato di crescita era già intravisto dal Ceci, La lingua del diritto romano, I, Le etimologie dei giureconsulti Romani , 1892, 111, nt. 2, che richiamava, in proposito, l’opinione del Thurneysen.

 

[24] Sono questi i temi affrontati in altra sede, nella ricerca sulla pubertà, alla quale, qui, non posso che rinviare: La pubertà a Roma. Profili giuridici, 1993 - ed. parzialmente rivista di Pubes e viripotens, cit.

 

[25] Il sette era il numero intorno al quale era organizzata l’intera esistenza umana. Richiamo quanto ho già osservato in La pubertà a Roma, cit, 124 s. nt. 20-21, il sette diventò il simbolo della perfezione e il multiplo intorno al quale si scandivano gli avvenimenti più importanti della vita. Perciò la Città, che aveva una posizione ed un destino particolare al centro del mondo, doveva nascere da una combinazione di sette, così come la vita dell’uomo doveva avere un ritmo settenario. Queste idee furono espresse da Varrone con accuratezza e in forma precisa non meno che diffusa, in modo particolare nelle Imagines o Hebdomades, nelle quali magnificò le molte e varie potestates del numero sette: Gell., III.10.16 Haec Varro de numero septenario scripsit admodum conquisite. Gellio ricordava le principali tesi del Reatino, dalle quali risulta che questi poneva il sette come perno di una visione cosmogonica e globale dell’esistenza, tale cioè da essere a fondamento di tutto l’universo e della vita degli uomini, immersi in esso. Tra l’altro, il sette era il numero che ripartiva le zone del cielo (di qui forse nasceva un paragone con Roma, fulcro della Terra, che imitava il cielo, secondo una configurazione che venne poi esplicitata dopo molti secoli da Claudiano: cfr. Gelsomino, Varrone, 63. Sette erano i circoli dell’asse celeste e intorno al sette era strutturato lo zodiaco, così come alla scansione di sette corrispondevano i solstizi e gli equinozi, mentre anche le fasi lunari potevano ricondursi a multipli di sette (Gell., III.10.1-6). In questa vasta visione del creato si collocava anche la nascita e lo sviluppo degli uomini, anch’essi regolati dal sette: Ad homines quoque nascendos vim numeri istius porrigi pertinereque ait (Gell., III.10.7). La trasformazione del seme in uomo, la gestazione (riguardo alla quale, per giustificare il richiamo a sette, non prendeva in considerazione il termine normale dei nove mesi, bensì quello minimo per poter dare alla luce un figlio vitale), la dentizione, la corporatura e i periodi fortunati o pericolosi della vita dell’uomo, il sistema sanguigno, le malattie e la stessa morte  erano regolati dal sette (Gell., III.10.7-15). ... le concezioni sui numeri e il collegamento con la vita dell’uomo avevano origini antichissime nella filosofia greca, anche se forse attinte a concezioni derivate da altre correnti di pensiero. La corrispondenza, sul punto, tra il pensiero di Varrone, e quello di Cicerone, che arrivò a vedere il numero sette come rerum omnium fere nodus (De Rep. VI.13), è la conferma più eloquente della diffusione e del favore delle nozioni elaborate dalla speculazione ellenica.... Plutarco annodava ad Eraclito una dottrina degli Stoici, secondo la quale la trasformazione del seme in uomo dovesse avvenire in base ad un multiplo di sette, dopo due settimane. Del posto occupato dal numero sette nel pensiero di Platone, di Stratone Peripatetico, di Dione Caristio e, soprattutto, di Ippocrate ci hanno parlato, più di ogni altro, Galeno e Macrobio. Il primo a più riprese lascia intendere che Ippocrate dovette avere presente la scansione settenaria della vita umana. Di particolare rilievo, per noi, appaiono i punti nei quali questa scansione veniva collegata alla pubertà. Negli ‘Aforismi’ il medico del 2° sec. d. C., commentando e completando l’aforisma del venerato capostipite di Coo sulle malattie acute, aggiungeva che forse esso poteva essere riferito anche alle malattie diuturne, le quali si manifestavano entro sette mesi, entro sette anni, sino al quattordicesimo anno, che rappresentava l’età della pubertà, secondo una sequenza settenaria (Medicorum Graecorum opera quae exstant - Claudii Galeni Opera Omnia, edit. Kühn (1829, rist. 1963) fr. XXVIII (Chart. IX.124 - Bas. V.264), p. 638 s. E che l’Autore desse per scontata la scansione settenaria è evidente anche da altre sedi: ad esempio dal successivo aforisma XXX in cui diceva che la gioventù era delimitata dal quinto settenario e, perciò, dimostrava che la partizione in sette accompagnava la visione di tutta la vita umana. Le stesse opinioni erano esposte anche altrove: (Chart. IX.126 - Bas. V.264), (Medic. Graec. cit. - De Hippocratis et Platonis placitis l. 8 – Chart. V.240 – Bas. I.325 – , 695), (Med. Graec. cit. - De sanitate tuenda l. 6 — Chart. VI.165 - Bas. IV.277 —, 387). Ancora più ricche di indicazioni e di sfaccettature sono le notizie fornite da Macrobio. Un’attenzione particolare, secondo l’Autore, venne accordata ai numeri dai Pitagorici, per i quali il numero sette meritava addirittura ammirazione, perché racchiudeva gli elementi ‘vitali’ per la perfezione e completezza: infatti era composto di un numero dispari e di un numero pari. L'Autore, allo scopo di mostrare che quel numero si inseriva in una teoria universale sia dell’umano quanto del divino, richiamava il Timeo di Platone e si diffondeva in una vasta trattazione, nella quale intrecciava notizie generali sui numeri, dei quali il sette, con l’otto, appariva “ad multiplicationem annorum perfecti in re publica viri” (1.6.3) e adatto a rappresentare l’anima del mondo, con notizie relative alla scansione settenaria della vita umana. La formazione del seme, i primi movimenti del feto, il tempo del parto, il distacco dalla placenta, l’acquisto della vista, la dentizione, l’allattamento, tutto lo sviluppo successivo, erano sempre riconducibile a partizioni in sette dei giorni, delle settimane, dei mesi o degli anni. Anche la pubertà era un multiplo di sette e, per la natura, si verificava al 14° anno. L’uomo risultava composto di sette membra e di sette parti. Per avere un’idea dell’insistenza sul collegamento tra il sette e la vita umana, appare utile guardare alcuni punti, più significativi, dell’esposizione di Macrobio: Ita est ergo natura fecundus hic numerus, ut primam humani partus perfectionem quasi arbiter quidam maturitatis, absolvat. (Com. 1.6.16-17); Com. 1.6.61-74. Ed ancora : Septem sunt enim intra hominem quae Graecis nigra membra vocitantur: lingua, cor, pulmo, iecur, lien, renes duo; et septem alia... guttur, stomachus, alvus, vescica et intestina principalia tria... In aperto quoque septem sunt corporis partes, caput, pectus, manus pedesque et pudendum (1.6.77-80).

 

[26] Sulla pregnanza di questa espressione, che riconosce la vita al nascituro, v. Catalano, Diritto e persone, cit., 169 ss.

 

[27] Per tutti cito Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, 1968, pp. 8 ss.; ma l’opinione è radicata presso gli studiosi di diritto romano, i quali si richiamano ad un testo delle Institutiones  di Gaio, che, nel 2  sec. d. C., parlava di personae anche riguardo agli schiavi: Gai 1.9: et quidem summa divisio... personarum haec est, quod omnes homines aut liberi sunt aut servi. Dal brano si suole dedurre un significato generico di persona, senza implicazioni giuridiche, ma così non è.

 

[28]  Non è questa la sede per ridiscutere la questione, complessa e risalente. Basti osservare che tutte le personae, anche gli schiavi, in realtà, avevano, nella visione dei Romani, una loro soggettività, sia pure diversamente articolata: sul punto, v. Catalano, Diritto e persone, cit., partic. 163 ss.; v. anche Tafaro, La pubertà a Roma. Profili giuridici, cit., 11 s. In effetti devo qui ribadire che le concezioni moderne della ‘personalità giuridica’, condizionano la ricostruzione della realtà antica, la quale spesso viene forzata per farla aderire ad uno schema che non corrisponde affatto all’evoluzione dell’esperienza del passato. In realtà nell'esperienza romana non troviamo nulla di assimilabile ai concetti contemporanei di soggetti di diritto e di capacità (giuridica e di agire). Da tale visione è stato originato «il venir meno della stretta connessione tra le nozioni di homines e di qui in utero sunt (propria degli antichi giuristi romani) sostituita dalla contrapposizione, che direi inumana, tra le nozioni di ‘persona’ e di ‘feto’»: v. Catalano,  Diritto e Persone cit., 172. Si deve alla nozione della ‘personalità’, definita dal Savigny e, in Italia, dallo Scialoja, la distinzione tra ‘persona’ e ‘feto’, dalla quale si è voluto trarre la conclusione che il feto non è persona. Su di essa si sta sviluppando una cospicua critica nella dottrina civilistica contemporanea: cfr. Caferra, Diritti della persona e stato sociale, rist. 1992, 39 ss.; Catalano, op. cit., 172, nt. 23. Le concezioni basate sulla ‘personalità giuridica’ sono consone alla formazione europea degli Stati borghesi, ma spesso si rivelano inidonee a cogliere le realtà di altre esperienze. Soprattutto non colgono le realtà in formazioneo o in evoluzione, quali (ad esempio) ancora oggi, almeno in parte, sono alcune esperienze latino-americane e, in passato, fu quella romana. Questa si articolò in un intreccio dialettico e magmatico tra sfere differenti di influenza che spesso si intersecavano. Rispetto alle quali lo Stato rappresentò la costruzione di sintesi ultima, che tuttavia convisse con esse almeno fino al 2° a.C. Nel quadro che ne scaturì l’individuo si collocò su piani molteplici, che implicavano i sacra, attraverso un legame stretto tra pubblico e privato, nel quale si fece via via sempre più strada il vincente tentativo dello Stato di rivolgersi direttamente ai singoli, superando le organizzazioni delle gentes e delle familiae: cfr. Fiorentini, Ricerche sui culti gentilizi, 1988.

 

[29] D. 35.2.9.1 Pap. l. 10 quaest.: Circa ventrem ancillarum nulla temporis admissa distinctio est nec immerito, quia partus nondum editus homo non recte fuisse.

 

[30] D. 25.4.1.1 Ulp. 24 ad ed.: Ex hoc rescripto evidentissime apparet senatus consulta de liberis agnoscendis locum non habuisse, si mulier dissimularet se praegnatem vel etiam negaret, nec immerito: partus enim antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum. Post editum plane partum a muliere iam potest maritus iure suo filium per interdictum desiderare aut exhiberi sibi aut ducere permitti. Il testo mi pare esprimere un concetto ovvio e cioè che prima del parto non è consentito nessun atto ammesso nei confronti dei figli già nati; pertanto la sua portata è molto limitata e relativa al contesto discusso e non implica un generale disconoscimento della ‘personalità’ dei nascituri.

 

[31] Una panoramica dello status doctrinae sul punto e più in generale sulle persone in diritto romano è offerta dall’Albanese, Le persone nel diritto privato romano (1979), p. 15 e i capitoli II-IV, V, VII; Id., v. Persona (diritto romano), ED. XXXIII, 1983, pp. 169 ss.

 

[32] V. Nocera, Il binomio pubblico-privato nella storia del diritto, 1989.

 

[33] Beneveniste, Pubes et publicus, R. Philol. XXIX, fasc. 1, 1955, 7; v. anche Colaclidès, A propos de ‘publicus’, in Rev. Étud. Latin. 37 (1959), 113 ss.

 

[34] v. Morel, Pube praesenti in contione, omni poplo, in Rév. Étud. Latin. 42, 1964, 375 ss. e il mio Pubes e viripotens, cit. 38 ss.

 

[35] Von Jhering, Geist des römischen Recht auf verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, IV, 1878, 183; ricordato da Catalano, Populus Romanus, cit., 64 ss.; Diritto e persone, cit., 164 ed ivi nt. 5. Anche il Peppe, v. Populus (Diritto Romano), ED XXXIV, 1985, 328, ritiene che la nozione più generale di popolo valevole per tutta l’esperienza romana potrebbe essere quella di «populus come insieme di cives».

 

[36] Catalano, Diritto e persone, cit., 166, che richiama anche il suo Populus Romanus, cit., 118-154.

 

[37] Catalano, Diritto e persone, cit., 166.

 

[38] Quadrato, loc. cit., 10 s.

 

[39] v. Robleda, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, 1976, 72 ss.; Buti, Studi sulla capacità patrimoniale dei servi, 1976; Di Porto, Impresa collettiva e schiavo manager in Roma antica (II sec. a.C. - II sec. d.C.), 1984; Reduzzi-Merola, «Servo parere», 1990.

 

[40] Agli AA. citati alla nt. prec. adde Catalano, Diritto e persone, cit., 168: «Lo ius, costituito hominum causa, riguarda i servi già nell’età piú antica».

 

[41] Non originaria, nella legge sillana, questa estensione fu dovuta ad un orientamento interpretativo probabilmente già consolidato al tempo degli Antonini nell’ambito della cognitio extra ordinem: Marotta, Multa de iure sanxit. Aspetti della politica del diritto di Antonino Pio, Milano 1988, 304 s.; v. anche Lineamenti di Storia del diritto romano, sotto la direzione di M. Talamanca, Milano 1989, 284, 468.

 

[42] Quadrato, op. cit., p.10.

 

[43] Marotta, op. cit., 303 ss. Ed ivi bibl.

 

[44] Sui poteri e compiti dei Censori, rinvio, sinteticamente, a De Martino, Storia della costituzione romana, 2a ed., Napoli 1990, I, 19, 256, 326 ss.

 

[45] Sul punto rinvio al mio lavoro, citato sopra, Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana, Bari 1988, partic. 143 ss.

 

[46] Per la bibl. Rinvio al mio volume citato alla nota prec., cui adde Pugliese, Istituzioni di diritto romano, Padova 1986, 440 s.

 

[47] Dionigi di Alicarnasso (2.10.2) ricordava che, per evitare che le ragazze restassero senza dote, era stato imposto ai clientes di concorrere alla formazione delle doti a favore delle figlie dei patroni che non avessero avuto mezzi sufficienti ricchezze: sul punto, Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma. Prima parte, Napoli 1984, 193.

 

[48] Aulularia 191 ss.; Trinummus 688 ss.

 

[49] Esso consisté nella concessione di privilegium exigendi, che tutelava il beneficiario anche di là dalla volontà del debitore: v., anche per la bibliografia essenziale, il mio Pubes cit., 184, nt. 42.

 

[50] Va ricordato che il termine familia, come è testimoniato anche nell’uso delle dodici tavole, indicava sia le persone che vivevano con uno stesso padre (e quindi l’organizzazione che si realizzava intorno a lui) sia il patrimonio: D. 50.16.195.1 Ulp. 46 ad ed. "familiae" appellatio qualiter accipiatur, videamus. et quidem varie accepta est: nam et in res et in personas deducitur. in res, ut puta in lege duodecim tabularum his verbis "adgnatus proximus familiam habeto". ad personas autem refertur familiae significatio ita, cum de patrono et liberto loquitur lex: "ex ea familia", inquit, " in eam familiam": et hic de singularibus personis legem loqui constat.

 

[51] Per tutti v. Pugliese, Istituzioni cit., 446 ss.

 

[52] Il termine stesso pupillus, che ha radice comune con pupus (indicativo di giocattolo, per sottolineare lo stato di incapacità del fanciullo), probabilmente comparve in seguito all’avvento della tutela atiliana.

 

[53] Le due posizioni sono espresse nella definizione sincretica formulata, sul finire della Repubblica, da Servio Sulpicio Rufo e ricordata dal giurista severiano Ulpiano: D. 26.1.1: Tutela est, ut Servius definit, vis ac potestas in capite libero ad tuendum eum, qui propter aetatem sua sponte se defendere nequit, iure data ac permissa.

 

[54] Ad esempio il 25° anno, che gli stessi Romani posero come età riferimento per il raggiungimento della maturazione necessaria per provvedere correttamente da soli ai propri affari, nella lex Laetoria: Pugliese, Istituzioni cit., 456 ss.

 

[55] V. sopra ntt. 20-21.

 

[56] Pugliese, Istituzioni cit., 446 ss.; Talamanca, Istituzioni cit., 172 ss., Marrone, Istituzioni cit., 271 ss.

 

[57] Tra essi si differenzia il recente manuale di Guzmán Brito, Derecho privado romano. t. I. Sintesis historica del derecho romano. las acciones y el proceso. El derecho de las personas y de la familia. El derecho de las cosas y de su dominio, posesion, uso y goce. El derecho de las obligaciones, Santiago de Chile 1996, 407, il quale inquadra la cura minoris nell’ambito de “La proteción al minor XXV annis.

 

[58] Semmai c’è da riflettere sull’opportunità che interventi analoghi a quello romano vengano introdotti anche ai nostri giorni, afflitti dalla piaga dell’usura. Sulle prospettive e suggestioni che possano suggerirsi su questa piaga della realtà odierna, v. L’usura ieri ed oggi. Convegno su “L’usura ieri ed oggi”, Foggia, 7-8 aprile 1995, a cura di S. Tafaro, Bari 1997.

 

[59] Secondo la costruzione fattane dal Pernice, Zur Vertragslehere der römischen Juristen, in zss, 8, 1988, 195 ss. V., anche, Perozzi, Le obbligazioni romane, 1903, 311 ss.; Bonfante, Sulla genesi e l’evoluzione del contractus, in ril 40, 1907, 808 ss. = Scritti giuridici varii III, 1921, 107 ss. e cfr. , anche per la vasta citazione bibliografica, Talamanca, v. Contratto e patto nel diritto romano, in digesto, IV ed., 1989.

 

[60] Così Melillo, Contrahere, pacisci, transigere, cit. , p. 42.

 

[61] Il giurista antoniniano per molti e per molto tempo è stato ritenuto, se non l’unica, la fonte quasi esclusiva per la conoscenza del diritto classico, relegando in secondo piano le testimonianze di altri giuristi, che, poiché provenienti dal Digesto di Giustiniano, venivano sospettate di interpolazioni, operate dai Compilatori delle Pandette o da precedenti interpreti operanti nel Dominato.

 

[62] Gai 3.89: Harum autem quattuor genera sunt: autem enim re contrahitur obligatio aut verbis aut litteris aut consensu. Tr.: Vi sono poi quattro generi di contratti: infatti l’obbligazione si contrae o con la consegna di una cosa, o con la pronuncia di determinate parole o con la scrittura o con il consenso.

 

[63] Si deve invece discutere delle spese, che il compratore fece per l’erudizione dello schiavo: infatti ritengo che anche per quel caso basti l’azione di acquisto: infatti non contiene solo il prezzo, ma tutto quanto interessa al compratore perché lo schiavo non sia evitto. Per altro se affermi che abbia superato il prezzo a tal punto, che una somma tanto alta non fu pensata dal venditore, come se fai l’ipotesi che fosse stato evitto uno, divenuto poi auriga o pantomimo, che era stato venduto a prezzo bassissimo, sembra iniquo che il venditore sia obbligato a dare una così grande quantità.

 

[64] Ho in corso di pubblicazione un articolo su Perequazione tra le prestazioni: ricorso alla cogitatio.

 

[65] D. 2.14.1.3, Ulp. 4 ad ed.: Conventionis verbum generale est ad omnia pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt: nam sicuti convenire dicuntur qui ex diversis locis in unum locum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis animi motibus in unum consentiunt, id est in unam sententiam decurrunt. Adeo autem conventionis nomen generale est, ut eleganter dicat Pedius nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re sive verbis fiat: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum, nulla est. - Tr.: «La parola convenzione è termine di portata generale concernendo tutti i negozi per i quali gli agenti prestano il loro consenso, si per contrarre sia per transigere: infatti così come si dice che convengono coloro che da luoghi diversi si raccolgono e vengono in uno stesso luogo, parimenti anche coloro che mossi da differenti sentimenti consentono sulla stessa cosa, cioè giungono alla stessa decisione. Il nome convenzione è generale fino al punto che, come elegantemente dice Pedio, non vi è nessun contratto, nessuna obbligazione, che non abbia in sé la convenzione, sia che si contragga con la consegna della cosa sia che si contragga con le parole: infatti anche la stipulazione, che si crea con le parole, è nulla se non contenga il consenso».

 

[66] Persona: origine e prospettive. Oltre l’antropocentrismo, in Incontro fra Canoni d’Oriente e d’Occidente, Bari 23-29 set. 1991.

 

[67] In tal senso, ad esempio, si esprimeva Clemente Alessandrino: v. citazione in Cotta, persona cit., 160, nt. 3, dove viene ricordato che «Ai nostri giorni N. Berdiaev ripropone il nesso tra persona (“immagine totale dell’uomo”) e volto umano (“culmine del processo cosmico”)».

 

[68] Cotta, loc. cit., che nota «Per san Giovanni Damasceno esso è ciò che esprimendo se stesso per mezzo delle sue operazioni e proprietà, porge di sé una manifestazione che lo distingue dagli altri della sua stessa natura» “

 

[69] Summa Theologiae, I, 29, 3.

 

[70] Così Orestano, Il «problema delle persone giuridiche», cit., p. 7.

 

[71] Commentaria iuris civilis, II, 9.

 

[72] Nasce così l’individualismo giuridico.

 

[73] La dottrina pura del diritto2, tr. it. 1966, p. 197.

 

[74] Persona, cit. 162.

 

[75] Val la pena sorridere con un giurista italiano su questa “creatività” del diritto: Galgano, Il rovescio del diritto, 1991, pp. 24 ss. «Iddio creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, ma l’uomo non volle essergli da meno: creò, a immagine e somiglianza propria, la persona giuridica. Le dette un’assemblea ed un consiglio di amministrazione e le disse: questi sono i tuoi organi; l’assemblea è il tuo cervello; vedrai, ascolterai, parlerai con gli occhi, con le orecchie, con la bocca dei tuoi amministratori. Alla loro creatura gli uomini dettero, se non un’anima, sicuramente un corpo. Che la persona giuridica abbia un corpo erano convinti già i Romani, dal momento che corpus habere equivale, nel loro linguaggio, ad essere persona giuridica; ed è convinzione che si perpetua: di “corpi morali” parlavano ancora i codici dell’Ottocento (con ciò sottintendendo che le creature di Dio sono banali corpi fisici) e corporation dicono tuttora gli americani. Iddio aveva detto al primo uomo e alla prima donna: crescete e moltiplicatevi. La persona giuridica è stata dall’uomo concepita come unisex: le società madri generano le società figlie e queste, a loro volta, le loro figlie; e i cinque continenti si sono popolati di società madri, società figlie, società sorelle. Lo sviluppo demografico degli esseri umani e delle persone giuridiche procede, se non di pari passo, secondo la legge della compensazione: dove il tasso di natalità rallenta, come accade nei paesi industrializzati, cresce in modo vertiginoso il numero delle persone giuridiche. E ci sono paesi, sia pure minuscoli paesi, che si vantano di essere simbolo di questa stupenda prolificità: nel Liechtenstein, a Monaco, a Panama i cittadini in carne e ossa sono una trascurabile minoranza della popolazione, formata per la quasi totalità da una imponente moltitudine di persone giuridiche, e di così solida razza da rivelarsi capaci di muovere alla conquista del mondo. Una considerevole quota della ricchezza mondiale appartiene a persone giuridiche nate in questi prolifici paesi. Ma l’uomo volle fare di più e di meglio: alla persona giuridica, che è sua creatura, permise ciò che a lui stesso, creatura di Dio, non è consentito. L’uomo è mortale, la persona giuridica può essere immortale. Le basta, per assicurarsi l’immortalità, che ad ogni scadenza del termine di durata l’assemblea ne deliberi la proroga, e così all’infinito. E c’è ben altro: le persone giuridiche possono fondersi. Di due o più persone giuridiche se ne può fare una sola, sia che una incorpori le altre, sia che tutte si fondano in una nuova persona giuridica. Nulla di simile è dato all’uomo. Nelle sacre scritture è rivelato: “sarai una sola carne”; ma è solamente una metafora; di due o più corpora l’uomo ha saputo fare davvero, e non soltanto per metafora, una sola corporation. Altro prodigio: la persona giuridica può essere scorporata e, di una Persona giuridica se ne possono fare, per scissione, due o più, praticamente senza limiti di numero. La creatività umana ha, dunque, largamente superato quella divina: al Creatore un simile prodigio era riuscito solo per gli esseri unicellulari. Iddio aveva detto alla prima donna: partorirai nel dolore. Il parto della persona giuridica è, all’opposto, quanto di più semplice e indolore si possa immaginare. Non si versa sangue, ma solo danaro; e nei minuscoli felici paesi, che sopra ho menzionato, basta per creare una persona giuridica il versamento di una somma pari al prezzo di un vestito. La superbia dell’uomo ingelosì il suo Creatore, che volle castigarla, e ne incaricò il proprio vicario in Terra, Papa Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo de’ Fieschi. Questi usò l’arma della persuasione, elaborò una teoria, si studiò di convincere gli uomini che la persona giuridica era null’altro che una persona ficta. La mediazione del Sommo Pontefice produsse i risultati sperati: Bartolo di Sassoferrato, sommo giurista, ma uomo timorato di Dio, dovette convenire che la persona giuridica vere et proprie non est persona; Baldo degli Ubaldi, giurista non meno sommo, ma anch’esso timorato, ne completò l’opera con dovizia di argomenti: persone sono soltanto gli uomini, anche se a costoro è dato di agire, anziché uti singuli, uti universi. E da allora di persona giuridica non si parlò più per secoli. Erano, del resto, i secoli dell’Inquisizione, e nessun giurista volle rischiare il rogo».