N. 8 – 2009 – In Memoriam//Ferdinando-Bona

 

Dario mantovani

Università di Pavia

 

Ricordo del professor Ferdinando Bona*

 

 

 

 

1. – Il 13 settembre 1999, senza presagio, un attimo ha spento la vita di Ferdinando Bona, il suo ingegno, i suoi talenti, le gentilezze del suo animo.

Nei giorni dolorosi che sono seguiti, mi sono convinto che il modo più vitale di pensare a lui sia rileggerne l’opera. Popolate di personaggi, punteggiate di interrogative che svelano curiosità mentre mimano con garbo il dialogo, cadenzate da periodi complessi che quando sembrano sul punto di spezzarsi si saldano a un nuovo pensiero, pullulanti di notizie erudite, ma sempre sotto il controllo della logica, le sue pagine ci restituiscono lo spirito che le percorre al di sotto – o al di sopra – dei diversi e speciali problemi di storia giuridica di volta in volta affrontati.

Perciò sia consentito rievocarlo così, attraverso la sua opera, ma senza separarla, anzi collegandola, dov’è possibile, alla sua matrice esistenziale. E’ un collegamento indispensabile, poiché, se dovessi scegliere una parola sola per esprimere il carattere dominante del professor Bona, sceglierei: l’autenticità.

Non si tratta, naturalmente, di riassumere i numerosi argomenti dei suoi studi (che saranno raccolti in un volume della Facoltà di Giurisprudenza, secondo un progetto di cui, del resto, senza premonizioni, avevamo cominciato a discutere)[1] e nemmeno di esporre i tanti acquisti che ne sono venuti alla scienza del diritto romano – e forse un allievo non potrebbe farlo con il distacco richiesto – ma di sottolineare ciò cui egli teneva maggiormente, ossia il metodo.

   Il suo metodo fondamentale mi sembra consistesse in questo, nel praticare, al più alto livello, la lettura dei testi come studio di strutture.

Benché non possa escludersi l’assimilazione della lezione formalistica e strutturalistica penetrata anche nella cultura italiana negli anni Sessanta, e anzi nel panorama delle sue letture rientravano senz’altro anche i classici della linguistica e della critica strutturalistiche, questo metodo non era tanto il frutto di un’adesione teorica quanto un’abilità innata. Era la capacità congeniale di porsi in sintonia con il mondo mentale dell’autore soprattutto per il tramite dell’ordine espositivo. Oltre che a soddisfare una sua interiore aspirazione all’ordine, interpretare per strutture rispondeva poi al desiderio di ancorare l’esegesi a criteri obiettivi, verificabili, quasi tangibili nella loro evidenza una volta che egli avesse saputo disoccultarli.

   Naturalmente la lettura coinvolgeva i più diversi livelli del testo – livello era una parola a lui cara – a cominciare da quello grammaticale, sintattico e lessicale, il che è poi come dire conoscere e rispettare tutte le regole del latino e del greco, una premessa sulla cui importanza pensava non fosse neanche il caso d’insistere. Poi si spostava ad altri livelli, partendo dalle regole del genere letterario, si trattasse d’un commento lemmatico giurisprudenziale o d’un trattato retorico in forma dialogica e via via che l’applicazione di canoni noti lasciava il posto alla sua personalissima sensibilità, investiva le strutture profonde del testo, nelle quali ciascuno scrittore lascia la firma. I frutti di quest’interpretazione sono diffusi in quasi tutti i suoi lavori, spesso in saggi collaterali condensati a piè di pagina, e toccano profili diversissimi delle fonti giuridiche e letterarie. Ricordo ovviamente la composizione del glossario di Verrio Flacco, ma anche il criterio espositivo del lessico giuridico di Elio Gallo, per materia e non alfabetico come generalmente era ritenuto, lo schema delle opere de feriis a partire dal sesto libro de lingua Latina di Varrone (§§ 12-26), la sequenza delle leges  delle XII Tavole citate in Sinnio Capitone, l’impianto dei libri ex Cassio di Giavoleno, in cui ha riconosciuto una variante non sabiniana dello schema civilistico, il coordinamento delle categorie res corporalis / incorporalis e res mancipi / nec mancipi nel secondo libro di Gaio, il catalogo delle accuse di scioglimento della società consensuale in Gaio e nei libri ad edictum di Paolo[2]. Sono alcuni degli esempi più noti e sarà il caso in futuro di raccoglierne l’inventario completo. Vorrei portare qui ancora solo un ultimo saggio, di questo suo modo di cogliere la sistemazione mentale che lo scrittore conferiva alla materia. Partendo da sei glosse di Festo[3], brevissime e apparentemente scollegate fra loro, seppe ripristinare la fonte da cui provengono, con un’interpretazione che egli stesso considerava, con il doppio comparativo, audacior quam verior, ma che proprio per questo illustra massimamente la sua tecnica. Considerando i luoghi che erano menzionati o sottointesi nelle sei glosse e riportandoli ad una planimetria dell’Urbe, ipotizzò che la fonte da cui provengono sia «una specie di descriptio o itinerario descrittivo dell’alveo del fiume con le sponde connesse, seguendone il corso naturale. Così gettando lo sguardo ora a destra ora a sinistra, l’ipotetico periegeta in una altrettanto ipotetica escursione, avrà avuto occasione di parlare del Vaticanus collis, della Cadeta, dei ludi Piscatorii sulla destra e, perché no?, anche del Foro Boario prospiciente la riva sinistra del fiume, da cui si dipartiva quel Clivus Publicius che da quando fu costruito, funse sempre da arteria principale che consentiva un facile accesso all’Aventino»[4]. Insomma, era in grado di risalire da dettagli in piccola scala a macrostrutture, fossero opere o istituti oppure idee.

 

2. Questo, tuttavia, fu un punto d’arrivo nella sua pratica di storico del diritto romano.

Il primo lavoro a stampa apparve nel 1955, sul postliminium in pace e riprendeva i contenuti della tesi di laurea. Facciamo un passo indietro e conosciamo il giovane Autore, sulla scorta dei ricordi che egli stesso narrava piacevolmente e di alcune carte d’archivio consultate in questi giorni per fissare qualche data precisa. La laurea – la firma sul diploma è di Plinio Fraccaro – l’aveva conseguita il 16 novembre 1954, relatore di tesi Gabrio Lombardi. I relatori delle tre ‘tesine’ sono Rodolfo De Nova, Pietro Nuvolone, Enrico Tullio Liebman. Quale strada l’aveva condotto fino a quel giorno, tre dopo il suo ventiquattresimo compleanno, (ad assecondare quel compiacimento combinatorio per le date caro a Cicerone e al suo lettore moderno)?

Ferdinando Bona nasce infatti il 13 novembre 1930 a Cassolnovo, Cassòlo per i suoi abitanti, un paese della Lomellina agricola gravitante piuttosto sulla vicina Vigevano che su Pavia e che sente anche prossima la provincia piemontese. Andava fiero, a volte con un po’ di polemica, della sua origine non borghese, da una famiglia peraltro distinta nel paese, dove il padre Serafino, messo comunale, impersonava, anche nel fisico possente, l’ordine costituito. Questo padre lo lasciò orfano a undici anni, ultimo di sette figli (sarebbero stati otto: Ferdinando aveva ricevuto il nome del primogenito, scomparso l’anno prima della sua nascita per un tuffo imprudente nelle acque fredde del Ticino), nel 1941, nel pieno della guerra! Lo attendeva perciò un’adolescenza dura, che lo lasciò almeno immune, più tardi, dalla nostalgia del sé giovane, il che contribuì al suo equilibrio olimpico nel rapporto educativo con le giovani generazioni. Provvidenzialmente, la madre Caterina Baratto seppe guidare la famiglia unitissima fuori dalle ristrettezze di guerra e avviare tutti agli studi e a ruoli onorevoli nella comunità, senza mai smarrire la serenità e anche un’allegria interiore.

L’adolescente Bona studia al Ginnasio Liceo ‘Benedetto Cairoli’ di Vigevano, dove consegue la maturità classica nel 1949. In un discorso pubblico inedito, tenuto nel 1993 nella ricorrenza dell’intitolazione d’una scuola vigevanese a un compagno di classe, che è comparso nelle carte generosamente trasmesse dal nipote dott. Claudio Cornalba, riandando agli anni del Liceo ricordava soprattutto l’insegnante di materie letterarie Elisabetta Fontana, che «abituava a seriamente adempiere gli impegni assunti» e gli studenti faceva «curvare, e non è solo un’immagine, sui testi della nostra letteratura, di quella latina, della greca: qui le bellezze formali del testo, le profondità del pensiero erano condite di quelle necessarie nozioni della consecutio temporum, delle diverse forme del periodo ipotetico e del discorso indiretto della sintassi latina così come degli interminabili paradigmi dei verbi greci, in cui l’apofonia vocalica sembrava dominare con sapiente alchimia e di cui molti avrebbero volentieri fatto a meno»[5]. Questo brano, che dà un assaggio del gusto per l’accumulazione verbale che caratterizza i suoi discorsi più sciolti, contiene un indizio da non lasciar cadere: il fascino letterario vi è fatto coincidere innanzitutto con le ‘bellezze formali’ e quindi il piacere del testo è acuito, anzi risiede principalmente nelle sue regole, a cominciare da quelle che presiedono alla lingua. Insomma, è una sorta di confessione – senza orpelli teorici, com’era il suo stile – ambientata fra i banchi di scuola, della vocazione alla lettura formale (che – forse la precisazione è superflua – è tutt’altro che trascurare i contenuti: è una via alla comprensione integrale del testo). E’ significativo, del resto, che, per quanto mi risulti, non fosse affatto un lettore di romanzi e di prosa e di invenzione in genere; apprezzava di più, ma anche qui senza esagerare, la poesia – Pascoli fra gli altri – forse perché il contenuto deve fare i conti con i numeri del verso. Il suo vero libro – fra i magnifici che possedeva – era tutt’altro: la Storia di un’anima di S. Teresa di Lisieux. Fra le arti, la sua era la musica (da Chopin a Edith Piaf), di cui era ascoltatore colto e di talento. Si compiaceva anche della sua abilità matematica. Scrivere gli costò invece sempre fatica, soprattutto scrivere lettere, a lui che collezionava epistolari, e gradi molto lo spirito di un collega affezionato che, inviandogli un biglietto d’auguri a Natale e conoscendo bene la sua riluttanza a ricambiare, scrisse più o meno: «Vale anche come risposta»[6]. Ma dallo scrivere lettere lo tratteneva forse anche il disagio di comunicare i sentimenti e viceversa dall’inviare biglietti il timore che la consuetudine avesse la meglio sulla spontaneità. Era un individualista autentico.

Nell’autunno del 1949 s’immatricola alla Facoltà di Giurisprudenza di Pavia. Un viaggio non breve, per lui che vide il mare a vent’anni e che si convertì all’aereo solo di recente, grazie al riguardo d’un suo ex-allievo pilota di linea che andò a prelevarlo a casa, lo fece imbarcare e si mise ai comandi fino a Roma, mentre la moglie del pilota sedeva nella poltrona accanto (il che significa che, in realtà, non era il volo a metterlo in ansia, ma le formalità burocratiche e una certa spersonalizzazione proprie di molti aspetti della vita d’oggi). Anche per questo periodo di formazione possiamo ricorrere a una testimonianza diretta, contenuta in un altro discorso inedito, letto in pubblico l’anno passato, che avrebbe dovuto illustrare il futuro dell’Università atteso dalle riforme e che invece, non senza significato, è piuttosto un bilancio di cinquant’anni d’esperienza di studente e insegnante nella Facoltà di Pavia.

In quegli anni - osserva retrospettivamente nel 1998 – l’iscrizione a Legge era riservata a coloro che avessero conseguito la maturità classica, il che significava possedere una medesima preparazione di base e anche un’estrazione non troppo dissimile: «Questo era sufficiente – sono sempre parole sue – perché, salvo poche eccezioni, non si mettessero in discussione i valori che, sottesi alla regolamentazione giuridica contenuta nei singoli codici e nelle leggi che facevano loro da contorno, venivano trasmessi nello stesso insegnamento». «L’interpretazione dommatica della norma giuridica era il criterio seguito nell’insegnamento come nella pratica forense … Le basi sociali delle scelte normative, se non celate, non erano comunque discusse o, se lo erano, tutto avveniva nei libri e nelle discettazioni tra iniziati. C’era una diffusa omogeneità di valori tra docenti, discenti, avvocati, magistrati, notai, verso le cui professioni quasi regolarmente ci si avviava a laurea conseguita»[7].

Dei suoi docenti d’allora tornavano spesso i nomi di Rodolfo De Nova, di Mario Rotondi (il fratello di Giovanni, laureato a Pavia, che per carisma e scienza potrebbe stare degnamente accanto a Ferrini nella galleria dei romanisti nel cortile delle Statue dell’Ateneo ticinese) e frequentemente quello del civilista Giuseppe Stolfi, di cui ammirava l’inflessibile razionalismo dogmatico. Ma su tutti, ovviamente, il nome di Gabrio Lombardi, che fu per lui maestro e figura adulta di riferimento, anche se al momento dell’incontro, in fondo, aveva solo trentasei anni. In ogni piega dell’agire di quel giovane professore Bona ritrovava i principi e i valori ricevuti in famiglia e ne vedeva, forse insperatamente, una profonda e consapevole attuazione dalla cattedra. Alla dimensione morale e cattolica di Lombardi, che ricalcava e approfondiva la propria, Bona rimase indelebilmente improntato, soprattutto alla visione provvidenzialistica – che è, lo si deve concedere, tutt’altra cosa rispetto al fatalismo – che esprimeva spesso con frasi tipiche del maestro, fra cui il conclusivo ‘tutto per il meglio’.

Si sa che incontrare un maestro è impossibile se non lo si cerca e, indubbiamente, oltre la figura morale, anche la materia che Lombardi insegnava doveva avere suscitato molte risonanze nel giovane studente che dal Liceo portava con sé soprattutto il razionalismo delle lingue e l’armonia delle fonti classiche. Ma non è da tacere, anche per una valutazione della prospettiva in cui Bona aderisce agli studi romanistici, che Lombardi già maturava un certo distacco dai problemi specifici del diritto antico, che lo avrebbe portato poi a leggere volentieri nel second’anno del corso biennale di ‘Diritto Romano’ opere di teoria generale, come l’Ordinamento giuridico di Santi Romano. Lo stesso allievo, commemorandolo solo cinque anni fa in quella che è anche l’ultima sua pubblicazione a stampa, lo ha colto nella dimensione di educatore di civismo[8].

Come che sia, di sicuro la meta di laurearsi in diritto romano con Lombardi gli fece ricuperare, in un finale di esami sostenuti a tambur battente e a suon di trenta – otto in dodici mesi -, quel po’ di indugio che lo aveva preso a confronto d’uno studio che, evidentemente, non aveva ancora mostrato il volto per lui più allettante.

Arriva così la laurea, in quel novembre di quarantacinque anni fa. A questo punto, dubbi sul da farsi non devono averlo più sfiorato e nemmeno c’è da pensare ne nutrisse per lui il suo maestro, attesa l’immediata pubblicazione del lavoro di tesi su Studia et Documenta Historiae et Iuris, Rivista della quale, sotto la direzione di Riccobono, era allora moderator et sponsor proprio Lombardi, che ne avrebbe poi assunto la direzione, e alla quale Bona rimase perciò sempre particolarmente legato. Gli estratti gli sono recapitati a Foligno, alla Scuola dell’Arma di Artiglieria, la destinazione che ha scelto essendo riuscito primo del corso Allievi Ufficiali (1 agosto 1955 – 8 febbraio 1957). Al ritorno, nominato assistente volontario di Lombardi (15 aprile 1957), ripartì subito per Münster dove, grazie a una borsa di studio del Rotary – di cui sarebbe stato più tardi attivo socio – trascorse il tradizionale soggiorno d’istruzione in Germania presso il già insigne Max Kaser, che ricostruiva l’Istituto di diritto romano nella città devastata. Al ritorno non disdegnò affatto l’insegnamento superiore, da cui trasse soddisfazioni[9], in attesa di imboccare il cursus accademico, che iniziò come assistente, grazie all’ospitalità offerta a Diritto internazionale da De Nova (1 novembre 1959), finché fu disponibile il posto di Diritto romano (1 gennaio 1961).

Al lavoro d’esordio ne seguono così sulla stessa Rivista altri quattro a cadenza annuale; dal 1958 al 1961. Scavano per settori un unico grande campo, quello dei rapporti fra comunità indipendenti, esaminati specialmente sotto il profilo della sorte giuridica di persone e cose cadute in mani straniere. Questo fenomeno è indagato nei due versi, la cattura e il ritorno a casa, che dà luogo appunto al postliminium, il recupero della condizione giuridica anteriore[10].

Un attento studioso di lingua inglese, che pur seguiva un ordine d’idee divergente, salutò subito la «grande accuratezza» dell’investigazione di Bona, affermando: «Il suo trattamento dei testi è eccellente e le conclusioni basate su di essi possono essere accettate in larga misura»[11]. Eppure più tardi era l’Autore a non riconoscervisi più pienamente. Non sul piano dei risultati, anzi al contrario, perché rivisitando il tema trent’anni dopo per una voce enciclopedica, si trovò nella condizione invidiabile di poterli confermare tranquillamente, pressoché punto per punto[12]. Era piuttosto la prospettiva di quegli studi da cui si sentiva ormai distante. Erano, infatti, indagini fondamentalmente dogmatiche, per istituti; inoltre, il punto d’equilibrio fra esegesi, storia e dogmatica era talvolta raggiunto sul piano dell’interpolazionismo, ch’era allora una metodica imperante, anche se già scossa. Per descrivere le temperie diceva: «L’Index interpolationum, cioè la silloge dei rilievi critici disseminati nelle più varie opere degli storici del diritto privato romano … era ancora per quelli della mia generazione il pane e il companatico delle ricerche»[13].

E per i romanisti della sua generazione la successiva débâcle dell’interpolazionismo e insieme la crisi in cui è caduta la storia degli istituti – che sono due volti di un unico fenomeno, collegato a sua volta al nuovo rapporto fra la cultura giuridica contemporanea e la tradizione romanistica – lasciarono un vero e proprio ‘vuoto’, come lo definiva egli stesso[14].

La storia della disciplina negli ultimi decenni – verrebbe da azzardare – potrebbe anche essere vista come la somma delle risposte che ciascuno ha dato all’esigenza di colmare questo vuoto.

La sua fu una risposta personale e moderna, pur nel richiamo a una tradizione filologica secolare, che maturò all’inizio degli anni Sessanta attraverso l’esperienza di ricerca su Verrio Flacco, il precettore dei nipoti di Augusto, autore del vocabolario epitomato da Festo. Vi approda anche in questo caso sull’onda della curiosità. Una delle fonti per lo studio del postliminium è una glossa di Festo, appunto Postliminium receptum (p. 244, 9 L.), purtroppo mutila nel codice unico Farnesiano. Il desiderio di vederci più chiaro lo indusse a non accontentarsi delle edizioni critiche a stampa e, ormai definitivamente allontanatosi dal tema in cui s’occupava, ad approfondire la tradizione del testo e di passo in passo a impadronirsi dei misteri del glossario festino, in particolare legati alla presenza, in quasi tutte le lettere, d’una ‘prima parte’ ordinata alfabeticamente e d’una ‘seconda’ in cui le glosse sono raggruppate per affinità di contenuto. Se ne impadronì a tal punto che oggi il suo nome campeggia accanto a quelli di K.O. Müller, R. Reitzenstein e L. Strzelecki, i benemeriti studiosi di Verrio Flacco[15].

Quest’esperienza di studio fu decisiva sotto molti aspetti. Innanzitutto, fece definitivamente emergere la sua inclinazione per la lettura strutturale, di cui possiamo farci un’idea quasi visiva pensandolo al tavolo della sua stanza, accanto a quello di Lombardi che lo lasciava nella più totale e fiduciosa libertà constatandone la dedizione, alle prese con strisce di carta su cui aveva incolonnato le glosse di ciascuna lettera e che faceva scorrere l’una accanto all’altra fino a che venivano a trovarsi sulla stessa linea glosse di contenuto omogeneo, quasi come in una combinazione vincente (quest’abitudine a darsi strumenti di ricerca quasi manipolabili gli rimase anche dopo la pronta e indolore conversione al computer)[16]. In secondo luogo, la necessità di esplorare i contenuti di quelle glosse per individuarne le affinità lo fece penetrare nel mondo della letteratura latina sconosciuta, per ricalcare il titolo di un’opera di Henry Bardon che amava molto, il mondo dei grammatici e degli antiquari, depositari di parole, riti, istituzioni, credenze esoteriche di cui divenne anch’egli un esperto. All’esplorazione di quei profondi pozzi, di quelle favissae di parole in cui la cultura di Roma si può recuperare a strati come in un giacimento di ceramiche, risale, per fare solo un esempio, la sua conoscenza del calendario romano (e, si può aggiungere su un altro piano, si deve ad essa anche il fondo di fonti antiche dell’allora Istituto di diritto romano, che Lombardi procurò al suo allievo costretto altrimenti a fare la spola con la Biblioteca Universitaria pavese). Infine, e più in generale, nasce qui, a mio parere, la consapevolezza che la ricerca sulle fonti possa bastare a sé stessa, anzi sia la più genuina, perché non ha la necessità, per superare il ‘vuoto’ di cui si diceva, di «escogitare nuovi allettanti problemi»[17]. Credo fosse dell’idea che quanto uno studio sia capace di mantenersi nell’orizzonte del suo oggetto, tanto più sia destinato a rimanere attuale[18].

 

3. Dopo la pubblicazione nel 1964 della monografia su Verrio Flacco, che come s’aspettava non suscitò fra gli storici del diritto un’eco immediata[19], affronta un tema di diritto privato romano, la società consensuale[20]. Sono gli anni del primo incarico di insegnamento, grazie alla libera docenza ottenuta nel 1962, ’Istituzioni di diritto romano’ a Camerino, dal 1965 al 1968. Sarà poi a Pavia, incaricato prima di ‘Storia’ quindi di ‘Istituzioni’, dal 1968 al 1970, anno in cui vince la cattedra di ‘Istituzioni’[21], nella terna con G. Franciosi e R. Bonini e succede a Lombardi, chiamato a Milano proprio l’anno precedente. Anni quindi cruciali nella sua esperienza accademica e per gli incontri, alla base di legami ininterrotti: a Pavia con Filippo Gallo, a Camerino, nel clima di Camerino, con Giuseppe Provera e Luigi Labruna.

Gli studi sulla societas segnano indubbiamente un ritorno, anche se l’ultimo[22], a un’indagine dogmatica, condotta anche in chiave interpolazionista. Eppure i segni dell’esperienza filologica su Verrio Flacco sono evidenti, e non solo per l’esemplare recupero alla critica testuale degli scolii ai Basilici. Quale traiettoria avesse mai preso il suo metodo si può constatare quasi per tabulas confrontando l’edizione provvisoria del 1968[23] con la definitiva del 1973[24] (provvisorio peraltro è aggettivo fuori luogo, per un uomo che aveva come regola ‘quod factum est infectum fieri nequit’). La definitiva riproduce nella sua seconda parte pari pari la provvisoria; la prima parte, invece, è uno studio sostanzialmente autonomo (tant’è che il suo inserimento non sposta d’alcunché il seguito), di cui scopo dichiarato è di esaminare le «testimonianze del contesto delle opere in cui sono state inserite»[25]. Questo taglio gli è stato suggerito dalla disponibilità di «una trattazione unitaria, per quanto circoscritta, della disciplina giuridica della società consensuale, conservata nei paragrafi che Gaio le dedica nel libro terzo delle istituzioni» e dall’osservazione di concordanze fra la trattazione gaiana e il commento di Paolo all’actio pro socio. Quest’analisi parallela si trasforma negli studi di Bona in storia del pensiero giuridico romano, perché consente di rintracciare, nelle coincidenze, la comune discendenza da un patrimonio sabiniano-cassiano e, nelle eccentricità, la successiva deriva delle opinioni. Riporto un giudizio che gli stava a cuore, di Antonio Guarino, che pur difendeva opinioni diverse: «di più e di meglio non si sarebbe potuto fare per cercar di riportare il tema complesso della società consensuale al pensiero dei singoli giureconsulti che se ne sono occupati»[26].

Il 1973, che oltretutto è l’anno dell’ordinariato (Presidente di commissione proprio Guarino), è da segnare infine per la comparsa di un altro asse portante della ricerca di Bona, Cicerone. La sensazione è che a Cicerone arrivi nella scia dell’interesse per le Institutiones di Gaio, sbocciato, come s’è visto, in seno agli studi sulla societas e che lo conduce a esplorare le radici del sistema istituzionale, risalendo fino al progetto teorizzato nel De oratore[27]. Come che sia, il primo articolo ‘ciceroniano’- dedicato a uno studente della Facoltà dalla cui tragica scomparsa era stato profondamente colpito - verte sui decem libelli di P. Mucio Scevola[28] e in questo senso si salda anch’esso, come gli studi sulla societas, al filone delle indagini sulla giurisprudenza, che proprio allora andava affermandosi come promettente e preminente nel riassestamento degli interessi della romanistica[29].

L’interpretazione personale che Bona offre di questa linea di studi credo che risulti chiara dal percorso per il quale vi è giunto.

In primo luogo, storia della giurisprudenza fu per lui essenzialmente storia delle opere. C’è un’immagine che penso esprima bene la sua posizione: i giuristi li leggeva d’abitudine nella Palingenesia di Lenel. In questa prospettiva, lo studio del pensiero giuridico passa necessariamente attraverso lo studio della sua tradizione letteraria oppure dei modelli espositivi. Basti pensare, per le vicende della tradizione, al contributo dato alla palingenesi dei decem libelli Publio Mucio e, più tardi, dei libri iuris civilis  del figlio[30]; a proposito degli schemi espositivi, si ricordi invece l’indagine sull’impianto del secondo libro di Gaio, in cui l’interpretazione strutturale è portata al virtuosismo[31].

C’è poi – nell’approccio di Bona allo studio sui giuristi – una seconda variante personale da sottolineare, che è forse anche il tratto più caratterizzante la sua storiografia nel complesso. Anche quando affronta i grandi temi al centro della discussione scientifica odierna, Bona adotta preferibilmente un punto di vista interno alla fonte utilizzata e s’astiene il più possibile dal costruire. Gli si attaglia perciò bene la massima: «le ipotesi sono impalcature che si innalzano prima dell’edificio e che si tolgono quando l’edificio è costruito. Per chi lavora sono indispensabili; solo che costui non deve scambiare l’impalcatura per l’edificio»[32]. In altri termini, egli avverte il rischio metodologico implicato dall’egredire l’orizzonte delle fonti utilizzate e, in definitiva, la giurisprudenza della tarda repubblica per lui è la concezione che essa aveva il nostro principale teste, Cicerone[33].

Così rigorosamente circoscritto l’ambito entro cui deve tenersi, l’indagine può allora progredire all’infinito verso la comprensione, anzi la corrispondenza con il mondo mentale di cicerone. Questa progressione implica, per esempio la perfetta conoscenza della retorica, intesa come codice del discorso. Così, per esempio, tenuto conto delle regole che presiedono alla funzione di un dialogo antico, Bona riesce a indurre il disinteresse della giurisprudenza tardo repubblicana per un progetto d’un manuale istituzionale dall’indifferenza con cui l’accoglie Quinto Mucio Scevola l’Augure, la figura che nel De oratore impersonava i giuristi[34].

Coltivando questo medesimo filone ancor più in profondità, un inedito recentissimo, intitolato ‘Un bon ton del tempo antico’, illumina il significato sotteso ai diversi modi con cui Scipione Emiliano, nel De republica, riceve in villa i suoi ospiti, riservando a ciascuno attenzioni diverse a seconda della dignitas, dell’età e della confidenza. Può sembrare un divertissment  e anzi, la speranza è che lo sia stato in quel che Bona chiamava il suo romitaggio cassolese, ma a ben vedere l’interesse scientifico di quest’analisi semiologia è notevole, perché proprio la descrizione ciceroniana di quell’accolita di amici è il documento principale su cui si basa il ‘mito’del circolo degli Scipioni.

 

4. Retorica e ciceronismo, si sa, sono offese. Per Bona era diverso: aveva confidenza con Cicerone e i precetti della retorica antica, assimilati vitalmente, gli diedero il totale controllo della sua naturale comunicativa.

E’anzi da vedere forse in quest’interiorizzazione delle tecniche espositive una delle ragioni della progressiva predilezione per la comunicazione orale, la forma principale del discorso persuasivo, che si può notare dopo il 1980, anno di pubblicazione dell’‘ideale retorico ciceroniano’e che è anche l’anno- se posso parlare di me per un istante - in cui, matricola di Giurisprudenza all’università di Pavia, lo conobbi e con lui tanta parte del mio futuro. Di quel che ho ricordato finora naturalmente non sapevo nulla, ma non contava. Il professore aveva l’aspetto di una persona ricca di meriti.

Se si eccettuano l’Opusculum Festinum e il lavoro su Elio Gallo (e anche qui non senza precisazioni)[35], tutti i lavori successivi al 1980 sono relazioni a convegni, o meglio, usando la parola che preferiva, ‘conversazioni’[36]. In quegli anni smentì la sua riluttanza agli spostamenti, accettando volentieri gli inviti che aumentavano con la sua fama di relatore. Nel 1988 fu il clou: tre relazioni diverse a tre convegni internazionali, Roma, Copanello, Erice[37]. E non si tratta, come ognuno può constatare, di lavori di occasione; bensì di lavori impostati da tempo, almeno sul piano delle letture e della formulazione dei problemi, che aspettavano solo l’occasione di essere resi noti, a riprova del fatto che non era tanto la tensione dello studio a essere venuta meno, quando la sua concezione della comunicazione scientifica a mutare[38]. E, così, fu la partecipazione a un gruppo di ricerca promosso da Luigi Amirante, con Federico d’Ippolito e Oliviero Diliberto (poi proseguito nell’Istituto Italiano per la Storia della Legislazione, di cui Bona era presidente) a suscitare alcuni importanti contributi filologici alla trasmissione del testo delle XII Tavole[39].

Negli anni Novanta, come sappiamo, si ritira progressivamente dal proscenio e sceglie il romitaggio cassolese. E’ una scelta, accompagnata dal rispetto generale e fino all’ultimo dalla speranza del ripensamento. E se questa scelta ha lasciato rammarico in molti e anche dolore in alcuni e nemmeno per lui fu senza sofferenza (ma gli consentì comunque di essere più vicino alla famiglia e in particolare alla sorella Renza), c’è, tuttavia, da chiedersi se non si dovrebbe piuttosto considerare il decennio precedente un’insperata opportunità per una più ampia cerchia di fare la sua conoscenza, in una vita condotta altrimenti all’insegna del più socievole e umanissimo lathe biosas.

Anche in questi ultimi anni, ad ogni modo, il suo non fu un isolamento totale. La sua torre era collegata con Internet e continuò a mantenere un rapporto scientifico elettivo con una cerchia di allievi, vorrei dire di auditores, in effetti sempre crescente, perché oltre ai suoi allievi diretti, molti altri su suggerimento dei rispettivi maestri o anche spontaneamente gli sottoponevano le loro opere, sicuri che le avesse lette, anzi scrutate. Non invidiava ai giovani l’avvenire. Era felice di potere avviare altri alla libertà di ricerca, attendendosi in cambio soltanto che ‘scrivessero’. La sua conversazione istruiva, il suo silenzio formava. Senza atteggiarsi a maestro, lo era autenticamente, poiché: «nostri maestri noi chiamiamo, come è giusto, solo quelli da cui impariamo sempre»[40].

Il progressivo disimpegno della vita era in parte anche compensato da un attivo interessamento per la storia locale, che si è tradotto nella preziosa attività culturale e editoriale della Società Storica Vigevanese, di cui era presidente dalla costituzione nel 1991[41]. Che nella sua scelta ci fosse appunto anche il desiderio d’una forma nuova d’intervento culturale fuori dalla dimensione accademica[42], è testimoniato dalla sperimentazione d’una sorta di mecenatismo culturale, che oggi possiamo interpretare forse anche come un anelito alla riscoperta delle radici locali, avvertita quasi come un debito da adempiere verso la comunità d’origine o come un antidoto all’inarrestabile trasformazione dei luoghi e dei modi di vita[43].

Come che sia - pur tenendo conto cioè del suo ininterrotto magistero e di alcuni nuovi interessi e attività - resta comunque fuori di dubbio che ormai dovesse sentirsi poco a suo agio in un’Università in cui l’unità di tempo è diventata il minuto e che per le funzioni che richiede al docente è così diversa da quella con cui aveva stretto il suo patto. Ebbe certo modo di rendersene conto nei due mandati consecutivi di Preside, che furono l’abbraccio con cui la Facoltà di Pavia lo accolse nel 1987 al ritorno da quello che definiva «un breve soggiorno nella capitale del ducato di Milano»[44], cui s’era  deciso per obbedienza al maestro e forse anche, una volta tanto, per un desiderio di res novae[45].

E certo a Milano, davanti alla platea di studenti, ma poi anche a Pavia, tenendo conto dell’impennata delle immatricolazioni, della trasformazione - per dire così - della base culturale degli studenti e del riassetto dei corsi, sperimentò la difficoltà di riprodurre quel dialogo educativo che era sempre stato il suo modo di stare in Università. E, forse decise di non adeguarsi o di non continuare a provare. Del resto, all’autenticità del suo carattere apparteneva l’assoluta accettazione della realtà e il totale rifiuto per se stesso della consolazione.

Si rivolse perciò a chiedere di essere posto anticipatamente fuori ruolo, con il 1° novembre di quest’anno (1999)[46], ma la morte - venuta all’improvviso quando stava per lasciare la clinica di Vigevano dove qualche giorno prima aveva subito un intervento minore - lo ha colto prima del giorno in cui avrebbe lasciato l’insegnamento.

Per avere la misura di quel che abbia significato per la didattica del Diritto romano a Pavia da quando succedette a Lombardi basterebbero i numeri. Dal 1970, salvo l’intervallo alla Statale di Milano, durante il quale conservò comunque a Pavia l’incarico di ‘Esegesi’, ha sempre tenuto almeno due corsi, spesso entrambi quelli di primo anno[47]. L’unico corso che non sperimentò fu il ‘Diritto romano’ biennale, tenuto soprattutto dal professor Manlio Sargenti. Degli altri, sentiva meno nelle sue corde la ‘Storia del diritto romano’, che fu contento di poter trasmettere con fiducia all’amico Giorgio Luraschi al finire degli anni Settanta[48] e che riavviò senza troppo entusiasmo nel 1993, addirittura con l’onere dello sdoppiamento, sobbarcandosi perciò a tre corsi in un anno, fino al congedo in sabbatico nel 1997 dal quale non sarebbe più rientrato. Non si sentiva coinvolto dai problemi della politica che costituiscono tanta parte nel corso di ‘Storia’, lui che pure aveva avuto esperienze d’amministratore nel suo comune (ma la lettera con cui la dirigenza del suo partito, notando la stima di cui era circondato, lo invitava a impegni di maggiore rilievo è una di quelle rimaste senza risposta)[49]. E quando arrivava il momento di narrare le convulsioni della res publica, preferiva chiudere Sallustio e Cicerone e aprire Shakespeare, per recitare l’orazione di Antonio: ‘Sono venuto a seppellire Cesare, non a tesserne l’elogio. Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita, mentre il bene viene spesso sepolto insieme alle loro ossa’. Parole che recitava nel silenzio degli studenti trasformati in spettatori. ‘Esegesi delle fonti del diritto romano’, l’insegnamento introdotto a Pavia da Ferrini nel 1884 e ripristinato da Bona nel 1979 e che poi tacque nel 1993, fece in tempo a diventare un piccolo club, per cui sono passati molti dei laureati oggi avviati in varie discipline alla ricerca universitaria. Qui comunicava i risultati delle sue ricerche e incoraggiava alle prime prove[50].

Il suo corso per eccellenza erano le ‘Istituzioni’, dove dava l’esempio pratico di quel che doveva essere la ‘lettura espressiva’ degli antichi grammatici: il suo Omero era Gaio, letto prima in latino e  poi pazientemente spiegato.

Dava l’impressione a ogni studente di rivolgersi a lui individualmente e veramente dopo qualche lezione era in grado di interpellarne parecchi per nome. Molti, perciò, si rivolgevano a lui per consigli o incoraggiamenti o per superare una difficoltà, di studio o di vita ed è raro che fossero delusi, come capitò al rusticanus che si rivolse a Crasso. Non che facesse fatica o spendesse tante parole. Aveva il dono di fare specchiare gli altri in sé restituendo l’immagine migliore che ognuno avrebbe voluto avere.

 

 



 

* Testo letto il 30 novembre 1999 nella cerimonia di commemorazione tenuta presso l’Aula Foscolo dell’Università degli Studi di Pavia, edito in In Memoriam. La Commemorazione pavese del professor Ferdinando Bona, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 66 (2000), pp. 616-628 (ivi anche gli interventi del Rettore Roberto Schmid, del Preside della Facoltà Giuseppe Zanarone e del prof. Francesco Paolo Casavola).

 

[1] [La raccolta è stata successivamente pubblicata: F. Bona, Lectio sua. Studi editi e inediti di diritto romano (Pubblicazioni della Università di Pavia, Fac. di Giurisprudenza, n.s. 103), Padova, Cedam, 2003, 2. voll. Qui di seguito sono stati aggiunti i riferimenti a questa riedizione. N.d.A.].

 

[2] Per il glossario di Verrio Flacco (tramite l’epitome festina e paolina), vd. Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco, Milano 1964, passim e Opusculum Festinum, Ticini 1982, passim. Per il lessico giuridico di Elio Gallo, vd. BIDR. 90 (1987) 119-168 [ora in Lectio sua cit., 1.495-551]. Per le opere de feriis, vd. Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco cit., 101-110. Per la ‘sequenza’ decemvirale in Sinnio Capitone, vd. Index 18 (1990) 392. Per i libri ex Cassio di Giavoleno, vd. SDHI. 50 (1984) 430-451 [ora in Lectio sua cit., 2.1015-1090]. Per il secondo libro di Gaio, vd. Il coordinamento delle distinzioni “res corporales – res incorporales” e “res mancipi – res nec mancipi” nella sistematica gaiana, in AA.VV., Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1974, 407-454 [ora in Lectio sua cit., 2.1091-1129]. Per i cataloghi gaiano e paolino delle cause di scioglimento della societas, vd. Studi sulla società consensuale in diritto romano, Milano 1973, 31-77.

 

[3] Vd. Fest., s.v. Cadeta, p. 50, 25 Lindsay; Navalis porta, p. 187, 2 L.; Piscatorii ludi, Publicius clivus, Praebia, p. 274, 35 L.; Vaticanus collis, p. 519, 24 L.

 

[4] Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco cit., 125; cfr. Opusculum Festinum cit., nr. 30. Il dubbio residuo veniva dalla difficoltà di fare entrare in questo quadro la glossa Praebia.

 

[5] Relazione presentata e letta in occasione del ‘X anniversario della intitolazione delle Scuole elementari di Battù a Vittorio Ramella’, in Vigevano il 22 maggio 1993, organizzato dalla Direzione Didattica del IV Circolo di Vigevano (dattiloscr., 1993) [ora in Lectio sua cit., 2.1181-1189].

 

[6] Un risvolto scientifico dell’interesse per gli epistolari – che pressoché coincide anche con l’avvio della sua collezione privata – è il saggio Andrea Alciato nel suo tempo, in A. Alciato, Emblemata, Premessa di E. Gabba, Introduzione di F. Bona, Traduzione di D. Magnino, Pavia 1986, 13-19. E’ degno di nota che G. Lombardi abbia curato l’edizione del carteggio di G. Capograssi, Pensieri a Giulia, Milano 1978-81, 3 voll. [La imponente collezione di epistolari a stampa è stata donata dall’erede al Collegio Universitario Cairoli di Pavia dove, per iniziativa del Rettore del Collegio Marco Fraccaro, proseguita da Graziano Leonardelli, è stata collocata nella biblioteca dell’Aula Magna e catalogata on line. N.d.A.].

 

[7] La Facoltà di Giurisprudenza e le professioni connesse. Conversazione al Rotary Club (s.l.), il 9 luglio 1998, dattiloscr. [ora in Lectio sua cit., 2.1191-1204].

 

[8] SDHI. 60 (1994) 1-10 [ora in Lectio sua cit., 2.1227-1239].

[9] Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri ‘L. Casale’ di Vigevano, a.a. 1957/58; Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri ‘A. Bordoni’ di Pavia, a.a. 1958/59.

 

[10] I lavori sono congiunti come anelli d’una catena. L’apertura del secondo lavoro sull’occupazione delle res hostium riprende una nota del primo lavoro e il terzo lavoro prende avvio da un’affermazione contenuta nel primo e nel secondo: risp. cfr. SDHI. 24 (1958) 237 nt. 2 [ora in Lectio sua cit., 1.35 nt. 2] con SDHI. 25 (1959) 310-311 [ora in Lectio sua cit., 1.71-73] e cfr. SDHI. 24 (1958) 263 e SDHI. 25 (1959) 358 [ora in Lectio sua cit., risp. 1.64 e 1.128] con SDHI. 26 (1960) 106 [ora in Lectio sua cit., 1.144]. Nel secondo lavoro sul postliminium l’Autore riepiloga e si allinea ai risultati raggiunti nel primo: vd. SDHI. 27 (1961) 188 nt. 7 [ora in Lectio sua cit., 1.226 nt. 7].

 

[11] A. Watson, The Law of Property in the Later Roman Republic, Oxford 1968, 64 (il giudizio attiene specificamente al lavoro sulla preda bellica). Cfr. F. Bona, ED. 36 (1985) 911 nt. 4, s.v. Preda bellica (storia) [ora in Lectio sua cit., 1.280 nt. 4].

 

[12] ED. 36 (1985) 911-916, s.v. Preda bellica (storia) [ora in Lectio sua cit., 1.280-291].

 

[13] Commemorazione della vita e dell’opera di Contardo Ferrini. Tenuta il 18 marzo 1998 nell’Aula Borsi dell’Università Cattolica S. Cuore di Milano (dattiloscr., 1998). Questa conferenza inedita non è una ripetizione di quella pur memorabile tenuta al Collegio Borromeo di Pavia nel 1982 (e pubblicata in Nuovo Bollettino Borromaico 20 [1982] 33-49 [ora in Lectio sua cit., 2.1205-1225]), ma contiene – secondo il costume del Relatore – alcuni nuovi sviluppi, relativi specialmente alle tendenze recenti della romanistica.

 

[14] Commemorazione della vita e dell’opera di Contardo Ferrini cit.

 

[15] P.L. Schmidt, in Der Kleine Pauly, V, col. 1210, s.v. Verrius 2).

 

[16] Dell’applicazione dell’informatica agli studi romanistici, del resto, fu un partecipe osservatore fin dai primi passi mossi in questa direzione: vd. l’intervento al IV Congresso della Corte Suprema di Cassazione CED del 1988, Problemi relativi alle fonti del diritto romano nella prospettiva di una loro utilizzazione informatica [ora in Lectio sua cit., 1.577-595].

 

[17] Commemorazione della vita e dell’opera di Contardo Ferrini cit.

 

[18] Si può considerare un manifesto della sua impostazione il vivace odi et amo scientifico con cui ha discriminato all’interno della produzione romanistica di Ferrini gli studi dogmatici (nei quali faceva rientrare anche gli studi sul diritto criminale, che non suscitavano il suo interesse) dagli studi sulle fonti, nei quali ultimi vedeva addirittura anticipazioni non pienamente recepite dalla romanistica successiva: vd. Nuovo Bollettino Borromaico 20 (1982) 40 [ora in Lectio sua cit., 2.1214].

 

[19] Vd., tuttavia, A. d’Ors, in SDHI. 31 (1965) 439-441.

 

[20] Vd. SDHI. 33 (1967) 366-389 [ora in Lectio sua cit., 1.295-326]; Contributi alla storia della “societas universorum quae ex quaestu veniunt” in diritto romano, in Studi in onore di G. Grosso, I, Torino 1968, 383-461 [ora in Lectio sua cit., 1.327-407] nonché la monografia (provvisoria e definitiva) citata oltre.

 

[21] Fra i commissari il professor F.P. Casavola cui è affidata la commemorazione di quest’oggi [i.e. 30 nov. 1999: poi edita in In memoriam, La commemorazione pavese del professor Ferdinando Bona, in SDHI. 66 (2000) 629-634 N.d.A.]

 

[22] Alle società questuarie  - precisamente alle societates publicanorum – tornerà nella relazione al Convegno della Società Italiana di Storia del Diritto a Erice del 1988 (pubbl. con il titolo Le “societates publicanorum”e le società questuarie nella tarda repubblica, in AA.VV., Imprenditorialità e diritto nell’esperienza storica, Palermo 1992, 13-62 = Lectio sua cit., 1.409-477): ma la distanza dall’impostazione precedente è misurabile nel tipo di fonti utilizzate (soprattutto letterarie) e nel taglio dei problemi affrontati (prevalentemente socio-economico, anche se non manca il riesame di alcuni nodi della disciplina giuridica).

 

[23] Studi sul recesso del socio in diritto romano classico, Milano 1968.

 

[24] Studi sulla società consensuale cit. [nt. 2].

 

[25] Studi sulla società consensuale cit., 5.

 

[26] A. Guarino, Giuristi e ‘societas consensuale’, in Labeo 19 (1973) 353.

 

[27] Che Gaio possa avere rappresentato per F. Bona il crocevia fra gli studi sulla societas e quelli ‘ciceroniani’ è avvalorato da alcuni rinvii contenuti nell’articolo ‘gaiano’ Il coordinamento delle distinzioni ‘res corporales – res incorporales’ e ‘res mancipi – res nec mancipi’ nella sistematica gaiana cit., 409 nt. 2 e 410 nt. 3 [ora in Lectio sua cit., 2.1091 nt. 2 e 1092 nt. 3] (società); 412 e nt. 12, 420 nt. 28 [ora in Lectio sua cit., 2.1094 nt. 12, 1100 nt. 28] (De oratore). Nell’ultima pagina (454 = Lectio sua cit., 2.1129, ma vd. anche 412 nt. 12 = Lectio sua cit., 2.1094 nt. 12) è annunciato lo studio sull’ideale retorico ciceroniano, apparso solo nel 1980.

 

[28] SDHI. 39 (1973) 425-480 [ora in Lectio sua cit., 2.615-679].

 

[29] Valutazioni significative di quest’indirizzo, ‘dall’interno’ e nell’immediatezza, si leggono nelle recensioni analitiche alle opere di R. Greiner e di A. Schiavone, risp. in SDHI. 40 (1974) 504-514 e SDHI. 44 (1978) 550-576 (vd. anche Opus 1 [1982] 413-416) [queste ultime due recensioni ora in Lectio sua cit., risp. 2.681-716 e 911-917].

 

[30] Vd. risp. SDHI. 39 (1973) 425-480; Cicerone e i ‘libri iuris civilis’ di Quinto Mucio Scevola, in AA.VV., Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un seminario, a cura di G. Archi, Milano 1985, 205-279 [risp. ora in Lectio sua cit., 2.615-679 e 833-909].

 

[31] Vd. Il coordinamento delle distinzioni ‘res corporales – res incorporales’ e ‘res mancipi – res nec mancipi’ nella sistematica gaiana cit., 407-454 [ora in Lectio sua cit., 2.1091-1129].

 

[32] J.W. Goethe, Massime e riflessioni, nr. 1222 (trad. it. S. Giametta, ed. Milano 1992).

 

[33] E’ eloquente che nello studio del 1980 sull’ideale retorico ciceroniano ed il ‘ius civile in artem redigere’, in cui affronta il problema per antonomasia, quello dell’eventuale influenza della filosofia greca sul pensiero giuridico romano, Bona definisca scopo della ricerca semplicemente «indagare il significato delle enunciazioni ciceroniane» pertinenti: vd. SDHI. 46 (1980) 283 [ora in Lectio sua cit., 2.719].

 

[34] SDHI. 46 (1980) 332-351 [ora in Lectio sua cit., 2.774-795].

 

[35] Il primo – oltre a rivelare l’incipiente amore per l’editoria di privata e di prestigio (destinata soprattutto alla circolazione fra amici), che lo porterà poi sia a incentivare edizioni di storia locale (vd. nt. 44) sia a riprodurre nel fascicolo Ho fatto terno, del 1991, brillanti e originali conversazioni conviviali – è suscitato dal desiderio di controbattere un articolo recente (del 1978), che contestava radicalmente la scoperta del Müller, cioè la presenza di due parti diversamente organizzate in quasi tutte le lettere del glossario festino. L’opponente, tuttavia, non prendeva in considerazione, come invece avrebbe dovuto, l’insieme dei risultati fondati su quella scoperta e raccoglierli in unum parve perciò a Bona la confutazione più elegante ed eloquente. L’articolo su Elio Gallo (BIDR. 90 [1987] 119-168 = Lectio sua cit., 1.495-551) adempiva invece una promessa di molti anni addietro; vd. Contributo allo studio della composizione del ‘de verborum significatu’ di Verrio Flacco cit., Premessa (s.n.p.).

 

[36] Vd. ad es. Cicerone e i ‘libri iuris civilis’ di Quinto Mucio Scevola cit., 205 [ora in Lectio sua cit., 2.833].

 

[37] Vd. risp. Problemi relativi alle fonti del diritto romano nella prospettiva di una loro applicazione informatica cit.; Ius pontificium e ius civile nell’esperienza giuridica tardo repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo repubblicana. Atti, Napoli 1990, 209-250 [ora in Lectio sua cit., 2.965-1013] (sull’attenzione che questa relazione calamitò, vd. la cronaca di E. Dovere, in Labeo 34 [1988] 389); Le ‘societates publicanorum’ e le società questuarie nella tarda repubblica cit. Una relazione tenuta il 30 marzo dell’anno successivo a Sassari al Seminario di studi sul tema ‘Scientia iuris e collegi sacerdotali nell’esperienza romana arcaica e repubblicana’, dal titolo Interpretatio pontificale delle XII Tavole – che fu rielaborata per una lezione tenuta all’Università di Parma il 24 novembre 1994 – compare fra le carte inedite. [Vi giaceva anche una lezione tenuta a Sassari, ancora nel 1988, pubblicata in Lectio sua cit., 2.1131-1160, con il titolo ‘Docere respondendo’ e ‘discere audiendo’ nella tarda repubblica N.d.A.]. Allo stesso periodo risale una fruttuosa collaborazione con il gruppo dei romanisti tedeschi impegnato nella traduzione del Corpus Iuris Civilis.

 

[38] Dal punto di vista dei contenuti (e soprattutto dell’orizzonte documentale), questi lavori, nell’insieme, si riallacciano – se non m’inganno – ai due filoni principali individuati nell’attività scientifica dell’Autore, quello ‘verriano’ e quello ‘ciceroniano’.

 

[39] Vd. Index 18 (1990) 391-401 e Index 20 (1992) 211-228 [quest’ultimo ora in Lectio sua cit., 1.553-576]. In realtà, l’attenzione alla trasmissione delle XII Tavole affonda le sue radici negli studi verriani e aveva trovato un’ambientazione storiografica opportuna nella riflessione di Cicerone: vd. La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo repubblicana, in AA.VV., La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, a cura di G. Luraschi e M. Sargenti, Padova 1987, 101-148 [ora in Lectio sua cit., 2.919-964].

 

[40] Goethe, Massime e riflessioni (ed. cit.), nr. 129; cfr. nr. 365.

 

[41] Si vd. in particolare il periodico Viglevanum. Miscellanea di studi storici e artistici, che s’è in breve imposto per autorevolezza di contenuti e pregio iconografico nel panorama delle Riviste di storia locale, con connessa collana di monografie. [E’ da segnalare che la Società Storica Vigevanese ha intitolato a Ferdinando Bona un concorso annuale con lo scopo di sensibilizzare alla storia locale gli studenti delle scuole dell’obbligo e superiori N.d.A.].

 

[42] Anche in questa dimensione, tuttavia, è testimonianza, oltre naturalmente che di amicitia, dell’intento di promuovere concreti interventi culturali la scelta di raccogliere gli Opuscula selecta di Filippo Gallo, in un volume della Collana della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia (Padova 1999), che è l’ultima opera curata (anche editorialmente) da F. Bona, con la collaborazione di Massimo Miglietta.

 

[43] Vd. i bei volumi di M. Brignoli, Il circolo di Cassolo. Cassolnovo e il Risorgimento: gli Arconati Visconti, Vigevano 1994 (con un’appassionata prefazione di F. Bona, sospesa fra Arpino e Cassòlo) e Id. (a cura di) Ad Helenam Suam. Politica e privato nell’epistolario B. Cairoli – E. Sizzo, Vigevano 1996.

 

[44] Così, con levità, recensendo un nuovo volume della Storia di Pavia (in Bollettino della Società Pavese di Storia Patria [1991] 445): «a mano a mano che leggendo mi si dipanavano avanti i tempi in cui lo Studium generale poneva le basi del suo sviluppo, mi sentivo sempre più lieto d’essere ritornato a insegnare in questa Alma Ticinensis Universitas che mi vide studente e docente, dopo un breve soggiorno nella capitale del ducato di Milano».

 

[45] All’Università degli Studi di Milano F. Bona, succedendo a G. Lombardi, ha insegnato dall’a.a. 1983/84 all’a.a. 1986/87 ‘Storia del diritto romano’.

 

[46] Già dall’a.a. 1997/98 aveva chiesto il congedo per motivi di studio.

 

[47] Ha svolto attività di formazione scientifica anche nel ruolo di Coordinatore del Dottorato di ricerca in ‘Diritti del Tardo Impero Romano’, dal 1994 al 1997.

 

[48] Fu tenuta per incarico dall’a.a. 1969/70 all’a.a. 1978/79. Tenne l’insegnamento di ‘Storia del diritto romano’, sul finire degli anni Ottanta e fino al 1997, anche alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano e di Piacenza.

 

[49] Forse sentiva la difficoltà ulteriore creata, nel rapporto con l’esperienza costituzionale antica, dall’assenza di un’elaborazione scientifica da parte dei giuristi. Sta di fatto che, insegnando la ‘Storia’, privilegiava l’esperienza arcaica, dilettandosi e dilettando gli studenti con molti aspetti del ritualismo giuridico e con una precisa e vivace presentazione del calendario, rendendo per una volta visibile il nesso stretto che la tradizione romana racconta corresse fra il lege agere e i dies Fasti.

 

[50] A chi scrive propose di trovare lo schema simmetrico con cui Gaio espone le satisdationes praetoriae.