ds_gen N. 8 – 2009 – Memorie//Africa-Romana

 

Marilena Casella

Università di Messina

 

Complessità antropologica della nozione di confine*

 

 

 

(pubblicato in L’Africa romana. Ai confini dell’Impero: contatti, scambi conflitti. Atti del XV convegno di studio. Tozeur, 11-15 dicembre 2002, a cura di M. Khanoussi, P. Ruggeri, C. Vismara, Roma, Carocci editore, 2004, I, pp. 211-238)

 

O quam ridiculi sunt mortalium termini! Ultra Istrum  Dacos  <nostrum>   imperium, Haemo Thraces includat; Parthis obstet Euphrates; Danuvius Sarmatica ac Romana disterminet; Rhenus Germaniae modum faciat; Pyrenaeus medium inter Gallias at Hispanias  iugum extollat; inter Aegyptum  et Aethiopas harenarum inculta vastitas iaceat […] Formicarum iste discursus est in angusto laborantium […] Punctum est istud in quo navigatis, in quo bellatis, in quo regnatis[1].

 

Non potevo non iniziare abbandonandomi al fascino e alla suggestione di un classico in questa “età dell’indiscrezione” così felicemente evocata da Maurizio Bettini. Il mio vuole essere solo un tentativo di estrapolare, pur tra le difficoltà dell’approssimativa terminologia greca o latina, la visione che avevano i Romani nella percezione di quello strano spazio che si trova tra le cose, che mettendo in contatto separa, o, forse, separando mette in contatto persone, culture, identità, spazi tra loro differenti. «La frontière n’est pas seulement ce qui sépare, elle est aussi ce qui unit, elle doit être perméable, mais contrôlée »[2]. Lo spazio di confine, quindi, ma anche [p. 212] il confine come spazio, dove le identità che si incontrano sono allo stesso modo costitutive e rappresentative e dove ogni identità esiste proprio in quanto confermata dalle altre, al di là delle convenzioni e dei preconcetti. E una volta che il confine si fa spazio di confine, non può più pensarsi come realtà omogenea, perché ciò ne sacrificherebbe la sua enorme ricchezza[3]. Da qui il tentativo di cogliere nell’uomo romano uno sguardo più allargato, in grado di comprendere aspetti diversi, anche se molto lontani tra loro, come parti di una sola complessità.   Il confine, dunque, come un luogo dotato di una sua dimensione con le sue storie e i suoi abitanti. Il confine come costruzione culturale, come fantasia degli uomini, ridicolo popolo di formiche per dirla con Seneca, il quale mostra come i Romani avessero un’idea cartografica affine a quella nostra di “confini naturali”, difficili da stabilire e da conservare. Le barriere naturali, infatti, possono essere violate, svolgono sì un ruolo di limite, ma quando qualcuno le attraversa esse si trasformano e diventano luoghi di incontro, di commercio, zone intermedie. Se è vero, infatti, che il deserto separa violentemente gli spazi fertili che si trovano ai suoi margini, ciò non impedisce che al suo interno si possa vivere. Il nomade, ad esempio, vive la sua frontiera naturale. Così quella che ai margini viene vissuta come una barriera, può rivelarsi al suo interno come uno spazio nuovo, “trasnazionale”. Il Sahara costituiva a Sud  una valida cintura vuota di difesa, una distesa inospitale e torrida attraversata da alcune piste carovaniere lungo le quali i nomadi del deserto  filtravano i prodotti dell’Africa nera (Congo, Sudan): avorio, forse schiavi, leopardi, leoni, rinoceronti. In realtà quando ci si accosta ad un luogo di frontiera si ha la sensazione di un mondo estremamente ricco, vario, dove i costumi, i miti, le rappresentazioni, si mescolano continuamente. Più che lo scontro è il contatto che balza fuori[4]. E la zona sahariana rappresenta uno dei luoghi di contatto culturale e di sincretismo tra i più vari. Si incontrano qui, infatti, le culture di origine camitica anteriori alla conquista romana e le culture della savana, estreme propaggini settentrionali dell’Africa nera. Si tratta di un mondo insieme isolato ed ecletticamente composito, dove tutto si confonde e si [p. 213] mescola. Tende così il confine a divenire sempre più una striscia in cui non è possibile distinguere ciò che appartiene al suo interno e ciò che sta al suo esterno. I suoi bordi non sono mai netti, né definibili, né impermeabili. Può essere completamente visibile solo mediante la presenza di segni che lo individuino: cippi, pietre di confine, horoi, termini, ma anche alberi, elementi del paesaggio, architetture…Ad esempio una località che costituiva un punto di riferimento fondamentale come confine lungo la costa libica nell’antichità era quella dei Filai@nou bwmoi@. Per questa loro funzione le are dei fratelli Fileni sono ricordate da molti autori antichi, siano esse state un semplice luogo di geografia mitica, come ad esempio le Colonne d’Ercole, oppure un centro ben preciso, in cui sorgevano realmente degli altari come segni di confine. In Sallustio la breve descrizione storico-geografica della zona attorno a Leptis offre lo spunto per il racconto della leggenda dei Fileni, le cui Are erano poste al confine di tale regione[5]. L’analogia fra gli altari dei Fileni e le Colonne d’Ercole viene sviluppata in particolare in un capitolo di Strabone[6], partendo dall’osservazione di una pratica culturale comune nel mondo antico, ovvero quella di marcare i confini collocando in luoghi ben visibili delle colonne, ad esempio la stuli@v a forma di torre sullo stretto di Messina, delle stele o degli altari come quelli dei Fileni posti nella regione sirtica. Plinio conferma quanto detto già da Strabone: le Philænorum arae si trovavano nel punto più interno della Sirte. Nel luogo non erano visibili veri e propri altari, ma solo cumuli di sabbia: in intimo sinu fuit ora Lotophagon, quos quidam Machroas [p. 214] dixere ad Philænorum aras; ex arena sunt hae[7]. Tolomeo ci dà poi quella che è forse una delle descrizioni scientificamente più accurate della costa africana, grazie al nuovo sistema geodetico che fa uso dei gradi di longitudine e latitudine per individuare ogni punto, anziché registrare solo le distanze in stadi tra località contigue, come avveniva solitamente nei peripli. Non vi sono comunque variazioni significative riguardo alla collocazione delle are dei Fileni nel muco@v della Sirte[8]. Per il resto troviamo ribadito il ruolo di confine, da intendersi ormai come confine fra le province romane d’Africa e di Cirenaica. La Tabula Peutingeriana  le registra sotto il nome di Arephilænorum. Ma in questo volumen, contenente una completa rappresentazione cartografica del mondo antico, si trova ben più di un semplice nome. Nella tavola VII,2 l’indicazione Arephilænorum è accompagnata dalla didascalia fines affrice et cyrenensium, ed è illustrata da due simboli grafici: due doppi rettangoli che formano ciascuno una cornice in rosso, all’interno della quale stanno due tratti verticali neri. Si tratterebbe, secondo il Levi, della rappresentazione di due altari visti dall’alto. Del resto Jacobi ha messo in rilievo come in molti geografi antichi «il progetto scientifico della carta geografica realizza un vecchio sogno mitico, quello di Dedalo e Icaro: vedere l’ecumene a volo d’uccello»[9]. Il valore simbolico delle Are dei Fileni appare nella Tabula in tutta la sua rilevanza, sono davvero uno dei confini forti del mondo conosciuto, un confine tra Oriente e Occidente. Rilievo non esagerato se non si dimentica che la cartografia antica si rifà al sapere e all’immaginario e che le “zone sensibili” della carta sono proprio le terre di confine, dove abbondano gli elementi mitici. È innegabile poi il nuovo valore politico assunto dalle are nel mondo tardo-antico. In seguito alla riforma di Diocleziano, tale località divenne non solo confine tra le province di Tripolitania e Cirenaica, e dunque tra diocesi d’Africa e d’Oriente, ma anche fra le prefetture d’Italia-Africa e Oriente, secondo un assetto che anticipa la futura distinzione dei due Imperi d’Occidente e d’Oriente.

[p. 215] Comunque nulla toglie che un confine potesse esistere indipendentemente dalla presenza dei segni stessi. Il segno di confine dichiarava palesemente che qualcuno avesse occupato uno spazio e vantasse dei diritti su di esso, stabilizzandolo, sottraendolo alla provvisorietà. Si avrebbe, insomma, così il passaggio dello spazio dall’ambito della natura all’ambito della cultura. È questo il motivo per cui molti degli elementi che segnavano i confini di un territorio erano pietre[10]. Il culto delle pietre è, infatti,  notoriamente una delle forme più elementari del sacro, attestato ad esempio in Africa fin dall’età preistorica. «La litholâtrie n’est pas à proprement parler l’adoration des pierres, mais la reconnaissance du caractère sacré de certaines pierres, la pierre n’est donc que la raprésentation concrète du sacré qui l’habite»[11]. Non a caso Hermes è la divinità del confine in ricordo della sua lapidazione. A Roma la pietra era considerata segno di Giove. In varie culture, comunque, le pietre e i segni di confine in genere, in quanto mezzi magici per la stabilizzazione dello spazio, hanno spesso un valore magico e anche a Roma i termini erano circondati da un alone di sacralità. Con lo spazio l’uomo antico, infatti, stabiliva un rapporto che era di conoscenza geografica, di utilità politica, di difesa militare, ma era anche religioso. Interessante a tal proposito la vicenda di Cippus[12], eroe eponimo del segno di confine detto cippus, che efficacemente sottolinea come un cippus possa solo allontanarsi dal centro della romanità, per estendere sempre di più il dominio di Roma in tutto il mondo[13]. Con l’idea di confine si connette quella di terra ultima, posta al limite dell’ecumene, ai confini del mondo. Quest’idea ha una particolare esplicitazione nella tensione fra il raggiungimento di confini ben definiti e l’aspirazione a un dominio universale, quale si può cogliere nelle Res Gestae di Augusto: Rerum gestarum divi Augusti, quibus orbem terrarum imperio populi Romani subiecit.

Il confine materiale rappresenta senza dubbio la realizzazione più semplice, per così dire fisica, del margine. Tuttavia confermare uno spazio, segnarlo, non vuol dire necessariamente chiuderlo, impedirne l’accesso agli altri. Non bisogna dimenticare che un confine [p. 216] esiste solo in funzione di un centro e spesso questo è stabilito in maniera molto più precisa e ha un’importanza maggiore dei segni che delimitano i suoi margini così sfumati. È uno spazio che  insiste « sur des forces, des dynamiques, sur l’attraction d’une “place centrale”, ou la diffusion d’objets matériels et culturels »[14]. Un confine non garantisce la sua totale impermeabilità, anzi tutt’altro. Il limes[15] romano è proprio la prova di una frontiera fortemente permeabile che non impediva migrazioni, commerci, esplorazioni, scambi tra civiltà differenti, pur essendo allo stesso tempo un luogo di equilibri difficili. Si presentava come un dispositivo permeabile: non precludeva, bensì consentiva le pacifiche migrazioni di nomadi nel deserto, l’andirivieni di carovane, di popolazioni clienti dello Stato romano e di commercianti e l’uscita di truppe per effettuare sortite contro predoni e belligeranti ed esplorazioni nel territorio barbarico[16]. Ciò che, infatti, non deve sfuggire è la sua essenza bidimensionale, poiché esso implica sempre una certa ampiezza pur nel suo maggiore sviluppo longitudinale. In altre parole a fondamento di ogni possibile significato di limes sta sempre quello di striscia o fascia condotta trasversalmente in uno spazio[17]. «Loin d’être une barrière hermétique entre le tell et la steppe ou bien la montagne et le prédésert», era piuttosto un mezzo di controllo, «de régulation des déplacements et des échanges par lesquels [p. 217] s’exprimait cette nécessaire symbiose entre régions d’économies complémentaires»[18].

J.-M.Carrié ha sottolineato proprio la tendenza dominante negli ultimi studi «d’assouplir, de détendre, d’humaniser l’inflexible “muraille” dont la tradition historiographique moderne s’était plu à entourer les provinces»[19]. E ancora un confine può essere in tempi diversi simbolo di una chiusura, ma anche di un’apertura; può significare l’inclusione o l’esclusione. Concetti quali «frontier of inclusion» versus «frontier of exclusion» compaiono negli studi inglesi a partire da O. Lattimore[20], schemi che, comunque, non avrebbero escluso dei fenomeni parziali d’ «assimilation transfrontalière». Trousset ha posto il problema su basi climatiche, ecologiche e antropologiche precise. Il limes africano in particolare è per lui una zona di confine avente un valore di frontiera, calcolata a sua volta su una frontiera geografica quasi ideale, frontiera culturale, o piuttosto zona di contatto tra un mondo sedentario o in gran parte sedentarizzato e romanizzato e un mondo berbero nomade che sfuggiva al controllo diretto di Roma. Proprio l’aspetto conflittuale delle relazioni tra indigeni delle montagne o degli altipiani e quelli del deserto, cioè di popolazioni ugualmente ma diversamente seminomadi, in rivalità per l’utilizzazione dell’acqua e delle risorse, potrebbe, secondo Trousset, spiegare la penetrazione in profondità del dispositivo militare romano. La posizione del limes corrispondeva, dunque, ad un limite climatico, ma anche a un equilibrio di forze.[21] Whittaker ha puntualizzato, invece, come per la presunzione dei Romani che il loro potere superasse le linee formali del territorio amministrato, per la loro ostinata convinzione di un Impero che dominasse universalmente, di un Impero senza limiti, la realtà delle frontiere resti una questione complicata. Il controllo politico oltre il confine amministrativo, esercitato attraverso la diretta occupazione militare o tramite alleanze, può spiegare perché i limites venissero a significare una zona di frontiera oltre che una linea di frontiera. Una frontiera, insomma, che stimolava l’attività [p. 218] produttiva, gli scambi, in una relazione osmotica che avrebbe portato alla creazione di quelle che Whittaker definisce «buffer-zones», zone che potevano raggiungere una profondità di 200 km[22].  Viceversa  Fulford ritiene che le frontiere costituivano un limite esterno di un mondo «self-contained», e che la frontiera di Roma era più una barriera che una membrana semi-permeabile[23]. René Rebuffat ha sentito l’esigenza di “riaprire” l’Impero sull’universo situato «au-delà de ses forteresses», e ne conclude che in Africa «il faut totalement renoncer à l’idée qu’une barrière ait été érigée, au delà de laquelle ne se serait trouvé qu’un monde inconnu et hostile. Au-delà des défenses fixes, l’armée contrôlait un vaste glacis. Au-delà de ce glacis, elle possédait encore cette sorte de défense avancée et non négligeable que constitue le renseignement[24]».

M. Euzennat presenta il limes come un dispositivo strategico e non come una linea di difesa continua[25]. Il campo di Souk-el-Arba, le città di Sala e di Volubilis costituivano dell’ «îles de romanité au milieu de la mer des tribus indigènes»[26]. «La frontière n’est pas une barrière, elle génère un espace transitoire». Si crea una zona « relativement homogène s’étendant de part et d’autre du limes »[27].  Astratta, virtuale, irriducibile a una rappresentazione visiva, la frontiera dovrebbe soprattutto essere il limite della potestas romana, idea questa del limite così difficile da ammettere, al punto da far coincidere le frontiere romane con quelle del mondo. Si trova in Appiano  una rappresentazione di questo immaginario geografico, quando lo storico convince i suoi lettori dell’esiguità del mondo situato al di là delle frontiere romane[28]. Il susseguirsi delle cerimonie trionfali, il cosmopolitismo dell’Urbs, l’approssimativo sapere [p. 219] geografico, avevano finito col persuadere l’opinione romana del compimento di quella profezia, data da Giove a Venere, che abbracciava lo spazio ed il tempo, Romanis […] imperium sine fine dedi[29]. «En théorie le pouvoir de Rome ne connaît aucune limite. En effet il repose sur l’imperium: ce dernier, assurément conféré par le peuple, n’en est pas moins de nature divine; ce pouvoir, comme les dieux, ne connaît pas de limites, juridiques, morales ou religieuses. Dans ces conditions, le destin de Rome est d’étendre sa domination, sans cesse»[30]. E ciò che vuol dire Virgilio in un verso celebre: tu regere imperio populos, Romane, memento[31]. Non esiste alcun limite, dunque, all’imperialismo di Roma se non quello imposto dalla pratica, o dagli interessi economici, o dal numero degli effettivi. Così l’imperium di Roma «sans limites en théorie, n’avait de limites que dans les faits»[32]. In effetti bisogna distinguere, come sottolinea Ch. Hamdoune, tra fines Imperii, concetto giuridico, e limes, suo supporto spaziale legato a fattori geografici determinanti realtà amministrative e militari. Bisogna ancora distinguere tra le frontiere teoriche di una provincia e il territorio amministrato realmente dai Romani[33].

Non si può passare sotto silenzio che il confine sia uno strumento di interazione e di scambio tra mondi diversi, mettendo in scena le diverse forme dell’alterità, tanto da poter portare a costruire a cavallo di esso una nuova identità, che prende e lascia qualcosa di entrambi i versanti. Se scavalcando il confine i singoli individui possono tradire le permanenze di braudeliana memoria, viceversa le civiltà continuano a vivere di vita propria, aggrappate ad alcuni punti fissi, poiché ci sono limiti culturali, spazi culturali di straordinaria perennità: nulla vi possono tutte le mescolanze del mondo[34], anche se l’identità sostanzialmente è conseguenza di un’interazione e non di una separazione. Naturalmente la presenza di un confine è la condizione che trasforma qualcuno in straniero. Ed ecco emergere la mentalità romana nei confronti dell’alterità, [p. 220] l’urgenza interpretativa che alcuni autori mostrano di avvertire in modo così acuto in merito al problema dell’altro. Varcare la frontiera significava in particolare per loro inoltrarsi in un territorio fatto di terre aspre, dure, difficili, abitato da mostri pericolosi contro cui dover combattere. Non c’è dubbio, infatti, che la presa di coscienza dello straniero e del diverso e il modo di atteggiarsi di fronte ad esso è in ogni epoca un aspetto e una componente essenziale dell’opinione pubblica. Quando compare all’orizzonte del “nostro” mondo, lo straniero è un essere incomprensibile. Talora si stenta persino a riconoscergli la caratteristica stessa di uomo. Il suo volto, i suoi capelli, la sua taglia, fuoriescono (per eccesso o per difetto) dalla misura che “noi” riteniamo sia quella giusta[35].

 

Numquid et labra possumus tumore taeterrimo implere?[36]

 

L’etiope, in particolar modo, è irrimediabilmente diverso, quel taeterrimus apre una finestra, sottile ma profondissima, sul modo in cui Gitone vede il volto dell’altro. La “somatic norm image” che Gitone condivide, coniata sui tratti somatici del suo mondo, gli impone di giudicare orrenda la forma delle labbra che caratterizza l’Etiope. In questa prospettiva lo straniero non solo è diverso, brutto, o più grande, ma è soprattutto un enigma, non comunica, parla una lingua che non si conosce. La sua figura comunque non sta ferma, ma è una fonte irrinunciabile di alimentazione di quell’organismo che è la società[37].

Tanto Tolomeo, quanto Plinio il Vecchio vedevano i confini come una successione di nomi di popoli, disposti in profondità al di fuori della zona controllata direttamente da Roma. Si tratta di una rappresentazione del limes fatta da fonti letterarie, scaturita essenzialmente dall’idea che nasce nella parte centrale, di popoli collocati sulla carta, le cui intenzioni, i cui movimenti, i cui rapporti con i Romani sono stati modificati dalla trasmissione. Possiamo tentare di tracciare delle vie di comprensione tra la rappresentazione delle frontiere romane e la realtà. Si tratta della rappresentazione di spazi e popoli sconosciuti. Per gli scrittori latini sembra che [p. 221] la stessa natura fisica delle zone al di là delle frontiere sia differente rispetto a quella dell’Impero. Del resto la rappresentazione dei confini terrestri poggiava sulle strade di antichi miti geografici. Da Erodoto ad Aristotele, da Strabone a Sallustio gli abitanti delle regioni periferiche finiscono per essere irretiti negli intenti descrittivi degli autori in quello stato di natura, in quel primitivismo, che può essere concepito in termini positivi o negativi, ma che è comunque nettamente opposto al regno della cultura, nonostante vi sia già l’intuizione del relativismo culturale, del concetto di cultura oltre i confini geografici e storici dell’osservatore. Tuttavia l’immagine dell’altro finisce per essere irrimediabilmente investita dall’angolazione ideologica dello sguardo osservante, investita e al tempo stesso irretita entro le anse ideologiche che motivano le spinte conoscitive, che disciplinano l’esercizio di una conoscenza dell’altro mai neutra, mai avulsa da ragioni storiche complesse. Che tali testi siano godibili dal punto di vista antropico è indubbio. Essi diventano decodificabili proprio se piegati alle categorie interpretative dell’etnografia, anche se talvolta restano inviluppati nella sterilità delle generalizzazioni o filtrano le esperienze storiche attraverso le strutture dell’immaginario collettivo. Si pensi alla descrizione dell’Africa come terra estrema, arida, sterile, in ultima istanza periferica, rispetto ad un centro ideale florido e boscoso coincidente con la laus Italia; il tutto in coerenza con la teoria del determinismo ambientale, che da Ippocrate, attraverso Aristotele e Posidonio, giunge a Roma. Del resto l’etnografia antica non può ovviamente seguire le acquisizioni metodologiche contemporanee, che prescrivono la ricerca sul campo e l’eliminazione dei pregiudizi. Non potendo visitare essi stessi le regioni inaccessibili, storici e geografi raccoglievano su di esse informazioni di seconda mano, con un largo margine di errore e di notizie favolose[38]. Terra incognita il grande deserto non ebbe neppure un nome, se non quello di Libia interna, espressione geografica molto vaga che abbracciava tanto i territori al di là dell’Africa del Nord, quanto l’Etiopia interna, zona ancora più a sud.  Analogia, determinismo ambientale, tipologia delle forme culturali, etimologia erano i paradigmi su cui si fondava il sapere etnografico nel mondo antico. Erodoto, il “padre dell’antropologia”, a proposito delle popolazioni libiche più lontane aveva finito per ripetere i pregiudizi dei suoi informatori, ma comunque [p. 222] resta a lui il merito di aver esteso la sua ricerca con indagini ed osservazioni personali anche nella meso@gaia.

Nella Libia delle belve feroci (qhriw@dhv), oltre la regione delle fiere si stende un ciglione sabbioso che si protende da Tebe alle Colonne d’Ercole. In questo ciglione, a circa dieci giorni di cammino l’uno dall’altro,  si trovano sopra delle alture blocchi di sale. Sulla cima di ogni collina zampilla prepotente una polla d’acqua fresca e dolce ed intorno ad essa abitano degli uomini, che sono gli ultimi nella direzione del deserto (eèrh@mh), a sud della regione delle fiere[39].

Tra le sue righe troviamo i Nasamoni che vanno al di là delle solitudini di sabbia  e scoprono nel paese degli uomini con la pelle nera un grande fiume pieno di coccodrilli, il Nilo[40]. I Garamanti che distendono terra sul sale per gettarvi la semente e cacciano su carri a quattro cavalli i Trogloditi, i quali mangiano serpenti, lucertole ed emettono strida come i pipistrelli[41]. Gli Ataranti che hanno la caratteristica di non avere nomi propri di persona, ma solo quello collettivo di popolo[42], gli Atlanti vegetariani e nelle regioni più interne, addirittura, i «senza testa» che hanno gli occhi sul petto, gli uomini selvaggi e le donne selvagge[43]. Al di là di questo ciglione, verso mezzogiorno, il paese è deserto, senz’acqua, senza animali, senza pioggia, senza piante.

Paesaggi pittoreschi, uomini selvaggi, Aièqi@opev Trwglodu@tai içppwn taxu@teroi, coccodrilli ed ippopotami, abbondano nel Periplo di Annone che, comunque, fornisce due indicazioni geografiche importanti, l’isola di Cerne e il grande vulcano detto “Carro degli dei”, qew^n oòchma, ultima tappa dell’itinerario di Annone sulle coste africane[44]. All’isola di Cerne, eòxw tw^n  èEraklei@wn Sthlw^n, fa riferimento anche Palaiphatos, definendo oié de# Kernai^oi ge@nov  Aièqi@opev[45].

Con i romani la situazione si evolve. Si avverte un’attenzione sempre crescente per l’Africa dei berberi, nome-spia della traccia lasciata da Roma sugli indigeni, che si autodefiniscono «Imazighem», [p. 223] cioè «uomini liberi»[46]. E ciò sia per la graduale penetrazione romana nella meso@gaia, che contribuisce ad alimentare la curiosità per quella regione piena di stranezze zoologiche e botaniche, sia per i più intensi scambi culturali e politici. Dopo essersi stanziati nell’Africa mediterranea, i conquistatori non tardarono a prendere essi stessi contatto con le regioni limitrofe. Eppure ancora Sallustio premettendo che sed quae loca et nationes ob calorem aut asperitatem item solitudines minus frequentata sunt, de eius facile conpertum narraverim[47], fa leva su alcuni elementi dell’immaginario collettivo in grado di provocare nei lettori una sensazione di paura. Inquadra i popoli dell’Africa in una casella pericolosa, quella di un popolo che vive nella zona meridionale a clima secco, quindi lo definisce genus hominum salubri corpore, velox, patiens laborum…nam morbus haud saepe quemquam superat [48]. E ancora aggiunge ad hoc malefici generis pluruma animalia[49].

Strabone, a sua volta, confessa, tranquillamente, di non sapere molto di ciò che si trova al di là dell’oasi d’Ammone e della regione d’Augila, le@gomen eèx eièkasmou^ dia# to# aèpro@siton[50]. Troviamo in profondità Getuli, dei popoli libici il più grande[51], Pharusi e Nigritae[52], che usano carri falcati e alcuni vivono come i Trogloditi scavando abitazioni nella terra, i Lotofagi[53], che abitano la zona aònudron e mangiano solo il fiore del loto, Masaisulii e Karchedonii, vittime spesso di pestilenze dovute alle cavallette delle paludi[54], Nasamoni, Psilli, alcuni Getuli, Garamanti, Marmaridi[55], che indossano un mantello con largo bordo, Etiopi Hesperii in una zona di serpenti, leoni ed elefanti. Diodoro Siculo si sofferma nel III libro della sua Biblioteca su Etiopi, Libici ed Atlantidi. Sugli Etiopi occidentali ci fornisce davvero una dovizia di particolari affascinanti [p. 224] dal punto di vista antropico, particolari che lo storico dice di aver appreso durante un suo viaggio in Egitto. Dalla carnagione scura, me@lanev, dai nasi larghi, toi^v iède@aiv simoi@, e dai capelli ricci, toi^v tricw@masin ouùloi, dalla voce squillante, fwnh#n oèxei^an, appaiono simili a delle bestie feroci…armano persino le donne. Si nutrono di carne, latte e formaggio. Inviano imprecazioni al sole, si disfanno dei corpi dei loro morti gettandoli nel fiume. È la zona delle bestie selvagge, pachidermi e serpenti di incredibili dimensioni[56]. Nasamoni, Auschisei, Marmaridai, Macei sono definite, invece, popolazioni libiche. I primi possiedono terra capace di produrre raccolti, mentre gli altri sono nomadi. Ambedue questi gruppi hanno dei sovrani, e ciò porta all’intuizione di una regalità clanica, mentre il terzo gruppo non obbedisce ad alcun re e non conosce la giustizia, compie azioni di brigantaggio, attaccando all’improvviso dal deserto e copre il corpo con pelli di capra[57]. Quanto agli Atlantidi sono ritenuti molto superiori per la loro devozione agli dei e nell’umanità mostrata nei rapporti con gli stranieri. Affermavano che gli dei fossero nati da loro[58], racconto che ben si accorda con quanto detto da Omero per bocca di Era: «Infatti io vado a vedere i confini della terra bellissima, / Oceano, la corte degli dei e Teti divina, loro madre»[59].

Sulla scia di queste credenze Plinio, nei libri V-VII della Naturalis Historia, collocherà alla periferia del mondo, e in particolare all’interno dell’Africa, una serie impressionante di esseri mostruosi:

 

Interiore ambitu Africae ad meridiem versus superque Gaetulos, intervenientibus desertis, primi omnium Libyes Aegyptii, deinde Leucoe Aethiopes habitant. Super eos Aethiopum gentes Nigritae, Gymnetes Pharusii, Perorsi…ab his omnibus vastae solitudines orientem versus usque ad Garamantas

 

che non si sposano, ma passano da una donna all’altra, Augilasque, che venerano solo gli spiriti infernali,  et Trogeodytas, che scavano caverne, si cibano di serpenti e squittiscono, Tarraelios (Etiopi menzionati solo da Plinio), Oecalicas, Atlantas, che non hanno nomi propri e mandano imprecazioni al sole, eosque iuxta Aegipanas [p. 225] semiferos et Blemmyas, che non hanno la testa, ma bocca e occhi sul petto et Gamphasantas, nudi, incapaci di combattere e privi di contatti umani, et Satyros et Himantopodas loripedes.[60] Nigritae, Pharusii (entrambi popoli arcieri facenti parte degli Etiopi occidentali), Canarii (abitanti delle foreste vicine al Ger), Autololes (popolo considerato molto potente da Plinio, attraverso il loro territorio, infatti, passava l’itinerario per l’Atlante), Cisori (sembra vivessero nel Fezzan), Cispii (abitanti dell’Atlante sud-marocchino) Darae (abitanti sul Darat), Daratitae (abitanti sulle rive del Darat) Isbeli ( abitanti del grande Erg Occidentale), Longopori (tra Ouargla e Touggourt), Masati (abitanti delle rive del Massa), Usibalchi (abitanti del grande Erg occidentale)[61]. Reliqua deserta, dein fabulosa: ad occidentem […]Hesperii, Perorsi[62].

Non diversamente Pomponio Mela:

 

ultra Nigritae sunt et Pharusii usque ad Aethiopas. […] At super ea Libyes Aegyptii sunt et Leucoaethiopes et natio frequens  multiplexque Gaetuli […] Ab oriente Garamantas, apud Garamantas armenta sunt eaque obliqua cervice pascuntur.  Post Augilas, manes tantum deos putant, et Troglodytas […] strident , et ultimos ad occasum Atlantas, solem exsecrantur. Intra, si credere libet, vix iam homines magisque semiferi Aegipanes et Blemyes, capita absunt, vultus in pectore, et Gamphasantes, nudi armorumque ignari, et Satyri, praeter effigiem nihil umani, sine tectis ac sedibus[63].

 

Da tutto ciò emerge come per gli antichi fosse difficile discernere la verità dalla favola, illis  perangusta erat via qua ad investigandas terras remotissimas[64].

I romani, diceva Albertini,  hanno commesso «la faute de ne pas s’avancer assez loin en Afrique», ma poi aggiungeva che le ricerche sul limes e sul Fossatum Africae, hanno dimostrato che «l’expansion romaine vers le Sud a été plus rapide et plus importante qu’on le croyait jusqu’ici»[65].

[p. 226] Comunque sarebbe estremamente interessante sapere se la conoscenza, il controllo e la penetrazione della zona  superasse o meno  le linee tracciate normalmente sulle carte.

Dopo l’impresa dei giovani Nasamoni di cui ci parla Erodoto[66], dopo il “recordman” Magone di Cartagine che a quanto ci racconta Ateneo[67] attraversò per tre volte le grandi sabbie mangiando delle farine e senza bere mai acqua,[68] bisogna attendere il 19 a.C. per registrare un’iniziativa romana importante in direzione del Sahara. Si tratta del trionfo ottenuto dal console Cornelio Balbo[69] sull’indisciplinato regno dei Garamanti del Fezzan. La presa della capitale dei Garamanti fu la vera ricompensa e allo stesso tempo la fine di un’impresa di tre o quattro mesi, così audace per quel tempo, clarissimumque Garama, caput Garamantum, omnia armis Romanis superata et a Cornelio Balbo triumphata […] ipsum in triumpho praeter Cidamum et Garamam omnium aliarum gentium urbiumque nomina ac simulacra duxisse[70].

Al di là di alcuni toponimi facilmente identificabili come Rhapsa, Cidamus o Garama, l’elenco delle vittorie romane ne contiene molti altri che si prestano ad equivoci e che ricordano, comunque, località dell’attuale Sahara, cosa che viene talvolta considerata come una prova sufficiente dell’arrivo dei Romani fino al Niger.

Più eloquenti ancora sembrano le relazioni che implicano importanti incursioni romane all’interno del continente africano. Marino di Tiro e Claudio Tolomeo, la cui documentazione sull’Africa risale agli anni tra il 110 ed il 120 d.C., raccontano che il governatore Settimio Flacco «era partito per una campagna dalla base di Libia e coprì la distanza fra il paese dei Garamanti e quello degli Etiopi in tre mesi di cammino in direzione sud; mentre da un’altra parte Giulio Materno, giunto da Leptis Magna e partito da Garama insieme al re dei Garamanti, che marciava contro gli Etiopi, giunse [p. 227] in quattro mesi, dirigendosi sempre verso sud, ad Agisymba, terra etiope dove abbondano i rinoceronti bicorni»[71], paese che non si può identificare con sicurezza, ma che è esempio di una possibilità di conoscenza dell’Africa interna. Nella sua etnografia astrologica del mondo abitato, Tolomeo, specialista del ko@smov, ovvero di quel «composé harmonieux de la terre et du ciel, des hommes et des astres», che è l’universo, tenta l’impresa di disegnare un’immagine d’insieme della terra abitata[72].

L’ultimo quadrante comprende il territorio conosciuto con il termine di Libia: le regioni che abbracciano Numidia, Cartagine, Africa, Fazania, Nasamonite, Garamantica, Mauritania, Getulia, Metagonite, situate a sud-ovest dell’intera ecumene, sono affini al trigono sud-occidentale di Cancro, Scorpione e Pesci e di conseguenza sono presiedute da Marte e Venere in aspetto occidentale. Per tale configurazione planetaria questi territori sono retti per la maggior parte, da un uomo e da una donna, nati dalla stessa madre; l’uomo governa sugli uomini e la donna sulle donne[73]

Gli abitanti di Metagonide, Mauritania e Getulia, per l’affinità con lo Scorpione e con Marte, sono più feroci, [qhriwde@steroi], assai combattivi [macimw@tatoi], carnivori [krewfa@goi], molto temerari [sfo@dra réiyoki@ndunoi], sprezzanti della vita tanto da non risparmiarsi neppure loro [katafronhtikoi# tou^ zh^n]. I popoli di Fazania, Nasamonite e Garamantica, per l’affinità coi Pesci e con Giove, sono liberi [eèleu@qeroi], semplici nei costumi [aéploi^ toi^v hòqesi], lavoratori [filergoi#], intelligenti [euègnw@monev], limpidi [kaqa@rioi] e per lo più indipendenti [aènupo@taktoi]; essi venerano Giove come Ammone[74].

Questo passo mette in luce le conoscenze geografiche di Tolomeo sull’Africa, che sembrano molto ampie e che vengono esposte con un sistema matematico in cui longitudine e latitudine provano più o meno l’autenticità dei luoghi citati. Centinaia di nomi di montagne, fiumi, tribù e città compongono la sua carta dell’interno dell’Africa e, con l’appoggio delle somiglianze fonetiche, hanno prodotto un’impressione tale che si è creduto di avere la prova che i Romani possedessero una conoscenza perfetta delle regioni tropicali dell’Africa e, in particolare, del Niger e del Ciad. Nella sua Geografia, [p. 229] troviamo il catalogo più ricco delle tribù africane che ci sia giunto dal mondo classico, e insieme le indicazioni geografiche più utili. In effetti non sappiamo niente dei legami d’origine o d’interesse che dovevano legare più strettamente alcune tribù rispetto ad altre. Un etnico, poi, è suscettibile di designare tanto degli insiemi etno-politici vasti e più o meno vaghi, quanto delle entità tribali molto più delimitate. Il suo catalogo inizia con ta# me@gista eòqnh katane@metai th#n Libu@hn: to# tw^n Garama@ntwn, ai quali assegna una vasta regione della Libia interna tra il fiume Bagrada ed il lago Nouba, to# tw^n Melanogaitou@lwn, che abitano ad est dei Garamanti dal monte Oursagala a Sagapola (sembra popolino gli Altipiani e l’Atlante sahariano), to# tw^n Purèréai@wn Aièqio@pwn, to# tw^n Nigritw^n Aièqio@pwn, a nord del Niger, to# tw^n Daradw^n, che abitano alla foce del fiume di cui portano il nome, to# tw^n Pero@rswn, tra il mare e il vulcano detto “Carro degli dei”, to# tw^n   èOdraggidw^n Aièqio@pwn, tra il monte Kaphas e il monte Thala, to# tw^n Mima@kwn, sotto il monte Thala, to# tw^n Noubw^n, to# tw^n Lerbikkw^n[75]. Naturalmente Tolomeo ci dà solo delle coordinate geografiche, dei confini naturali delimitanti queste che il geografo definisce come tribù più importanti.

Continua, poi, con eèla@ssona eòqnh, aç kate@cousi ta# eèpi# qala@sshj meta# th#n Gaitouli@an : Autolatae, menzionati anche da Plinio (V, 17) come popolo molto potente, Sirangae, Mausolei, Malkoae, Mandori, Sophoukaei, Leukaethiopes, che ricorrono in Plinio (V, 43) e Mela (I, 23), Pharusii, Lunxamatae, Samamukii, Salati, Daphnitae, Zamatii, Arokkae, Keniani, Souboupores, Makkoi, Daukhitae, Makkhourebi, Soloentii, Anatikoli, Stakheirae, Orpheis, Taroualtae, Aphrikerones, Akaemae, Gongalae, Nanosbeis, Nabathrae, Alitambi, Mandrali, Thalae, Dolopes Astakouri, Asarakae, Dermoneis, Aganginae, Xulikkeis, Oechalices. Questo catalogo che potrebbe apparire una mera ostentazione di erudizione, è da intendersi come la spia di conoscenze più precise e, soprattutto, di una percezione dei rapporti spaziali più vicina al vero. Il linguaggio dei rapporti spaziali è, infatti, fondamentale per l’organizzazione della cultura, e all’interno di tale linguaggio un ruolo cruciale spetta al concetto di frontiera, la linea che divide lo spazio della cultura dallo spazio esterno, lo spazio della natura o degli altri. Emerge chiaramente, soprattutto nelle opere precedenti a quella del geografo alessandrino, la traccia [p. 230] di un modello di rappresentazione dello spazio che è diverso da quello moderno, geometrico e cartografico, ed è il modello definito «spazio odologico», riprendendo un termine dello psicologo Lewin[76]. Si tratta, cioè, della rappresentazione dello spazio nella prospettiva di chi deve compiere un cammino, come una successione di punti da percorrere. Il disporre i toponimi lungo una linea, scandita da espressioni come primum, ac deinceps, deinde, post, o eéxh^v o eèfexh^v è tipico delle descrizioni dei geografi antichi. Le conseguenti imprecisioni, comunque, devono essere perdonate se teniamo presente la mentalità anti-cartografica propria degli storici antichi. Così il ricorso all’immagine cartografica, che aiuti a fissare i toponimi, non era il modo di procedere degli storici antichi, per i quali la descrizione verbale era considerata più nobile e attendibile. I vari excursus fungono da condensatori e organizzatori di un sistema logico che comprende varie eziologie, etimologie e concezioni antropologiche che sono d’ausilio per ricavare un’idea precisa delle caratteristiche dei popoli dell’Africa interna. Si possono rinvenire una serie di aspetti della mentalità antica per molti versi lontani dal nostro modo di concepire la materia etnografica, ma che sottintendono, comunque, una sequela di ragionamenti preziosi per ricostruire la riflessione degli antichi sulla diversità umana.

L’ipotesi di Ch.Courtois[77] di un importante popolamento tribale delle montagne sembra, seguendo le orme di J. Desanges[78], fortemente giustificata, grazie alla fotografia aerea, che ha permesso di vedere settori interni del limes, e grazie alla storia delle grandi insurrezioni del III e IV secolo[79]. Lo stesso Tolomeo enumera varie montagne nella sua lista di tribù, tra le quali qualcuna addirittura porta un nome derivato proprio da una montagna, ad esempio Mando@roi, Taroua@ltai,  èAroua@ltev. Per non parlare poi dell’Atlante! Lo studio delle duplicazioni di etnici in Tolomeo mette in evidenza l’importanza della regione del Djérid e della Djeffara come «porta del deserto»[80], definizione questa che ci trasferisce indietro nel mondo dei miti, per comprendere meglio le rappresentazioni [p. 231] della realtà complessa dei confini e cogliere in esse l’importanza delle porte, ad esempio le Porte degli Inferi, che segnano l’ingresso nel mondo dell’al di là visto come un «monde à frontière»[81].  Parecchie tribù menzionate in Africa sono nuovamente segnalate dal geografo alessandrino nella Libia interna, e anche se bisogna tener conto della tendenza dei geografi antichi a proiettare il noto nell’ignoto, è probabile che dei nomadi circolassero tra il Rirh ed il Fezzan da una parte ed il Sud-Tunisino e la Tripolitania dall’altro. Ne sono un esempio gli Oreipaei, i Nugbenitae. Forse andavano a caccia nella zona delle belve o nelle solitudini piene d’elefanti che si trovano, seguendo Plinio[82], tra le Sirti e una prima regione desertica da una parte, cioè a nord e non a sud del Sahara. Così la loro attività avrebbe potuto approvvigionare il traffico d’avorio e di belve a Sabratha e a Leptis Magna. Simmetricamente all’estremità occidentale del Mangreb, secondo Desanges, si può constatare la presenza di un gruppo importante di tribù menzionate soprattutto da Tolomeo, da collocare tra la Tingitania e il Draa sulla base dell’identificazione di fiumi e montagne che facevano da punti di riferimento al geografo alessandrino. Resta comunque difficile localizzare le innumerevoli tribù, che anche per Tolomeo non dovevano estendersi al di là dell’Hoggar. Sarebbe assurdo sostenere che Roma non abbia esercitato alcuna azione profonda sulle tribù. «A lire certains articles de notre catalogue, on concevra l’impression que les nomades ont été repoussés sans cesse vers l’ouest ou le sud-ouest du I au III siècle»; schematizzando, Desanges intravede un equilibrio precario che combina politiche diverse: «refoulement et cantonnement des tribus jusque dans les zones méridionales de la Bysacène et de la Numidie gagnées à la culture de l’olivier; tolérance plus grande de Rome sur les Hautes Plateaux de Maurétanie, où leurs déplacement etaient plus surveillés que contrariés; liberté beaucoup plus large aux confins algéro-marocains»[83].

Quanto alle «îlots montagneux, Ouarsenis, Dahra, Zaccar, Atlas Mitidjien, Titteri, Djurdjura, Bibans, Hodna e Babors», le tribù vivono come «en riserve», sotto il comando  di capi che ricevono i titoli romani di praefectus o di princeps e ai quali l’imperatore «fait déférer les insignes de leur dignité»: scettro d’argento dorato, corona, mantello bianco, tunica bianca, scarpe dorate…Così «si la Berbérie [p. 232] n’est pas devenue une nation romaine», malgrado cinque sei secoli di presenza romana, lo si deve in larga misura al mantenimento delle strutture tribali, sia lungo i bordi del limes che nei massicci montagnosi[84].

Per dirla col Momigliano «la continuità etnografica in Africa è anche continuità storica, nonostante la dominazione romana […] l’ordinamento tribale si è conservato fino ad oggi ed è stato il vero mediatore di questa continuità»[85].

Al carattere troppo modesto della penetrazione romana nel Sahara, sembra rispondere «la nature assez mesurée de l’avancée des Sahariens orientaux» in quella che fu l’Africa romana[86]. Tenendo conto delle lacune della documentazione, si può solo tentare di fare un «fil de jour», per riprendere un immagine di Valery, in quel mondo oscuro.

Purtroppo i testi si fermano all’inizio del II secolo d.C., comunque abbiamo prove archeologiche che, nel III e IV secolo, oggetti di origine romana penetrarono molto all’interno nel deserto. L’interesse del mondo romano per la zona desertica e le regioni limitrofe, storicamente provato dai viaggi di Flacco e Materno, è documentato archeologicamente dal mausoleo di Germa, il monumento di tipo romano più meridionale nell’interno dell’Africa. Sorge isolato nel deserto con la sua aggraziata classica dignità, simbolo forse di una simbiosi: tomba di un Romano domiciliato nel Fezzan, o di un abitante del Fezzan che ha adottato costumi romani?

Sembra, infatti, che i Garamanti, dall’avventura di Materno alla fine dell’occupazione di Bu Njem circa, abbiano vissuto in pacifica simbiosi con la dominazione romana. «Si le mot  de protectorat est ici peut-être risqué», si potrebbe postulare che gli itinerari conducenti a Germa potessero essere percorsi in tutta sicurezza[87]. È normale che prodotti romani si trovassero sulle vie degli itinerari carovanieri del Sahara: lampade romane, oggetti di vetro o di terracotta  e addirittura ossidiana, presenza molto interessante, poiché essa sembra avere la sua origine più prossima nelle isole del Mediterraneo, Pantelleria, Lipari e Santorino. Singolare appare poi l’esistenza di due tombe a cremazione in una regione dove di solito [p. 233] era praticata l’inumazione, estremamente significativa se si considera la loro vicinanza al mausoleo. Avremmo, insomma, la testimonianza di una penetrazione abbastanza profonda di visitatori provenienti dal mondo romano[88]. I risultati di queste esplorazioni lontane ebbero riflessi in Roma stessa, sulla vita quotidiana, sulla cucina, sulla cura pubblica e privata della salute, sull’immaginazione dei poeti[89].

Peraltro i numerosi mosaici trovati nelle ville romane della costa mediterranea attesterebbero  scambi - come ad esempio penne  di struzzo, fiere per i giochi del circo e schiavi negri provenienti dal cuore dell’Africa, per allietare l’esistenza dei signori di Roma -, tra le genti del deserto e le popolazioni frontaliere dell’Impero, che fecero in questo caso da intermediari tra il mondo civile e quello  definito primitivo[90]. La cattura degli animali selvatici dovette essere la principale fonte di guadagno di questi territori, come sembrano confermare indicazioni statistiche eloquenti: per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio a Roma furono usate nei combattimenti novemila fiere. La maggior parte erano Libicae o Africanae. Anche l’avorio doveva avere un posto importante nel commercio trans-sahariano.  I rilievi di Ghirza ci mostrano delle  carovane di cammelli sia cariche sia senza carico. Sulle lunghe strade del deserto parecchie spezie giungevano dall’Oriente o dall’Africa sudorientale: cumino, balsamo, zenzero, cassia, cinnamomo, mirra, incenso[91]. 

Il mausoleo di Bir as-Shawi per lo stile e la scelta dei suoi rilievi è già imparentato con quello che conosciamo nel resto della Tripolitania interiore e a Ghirza: ritratti di nobili locali, gusto per le corse di cavalli, rappresentazione di frutti, uva in particolare. I templi conosciuti sono quelli di Bu Njem, dedicati a Mars Annaphar, Iuppiter Hammon[92], Vanammon e a due divinità sconosciute. È probabile che Iuppiter Hammon proteggesse tutte le grandi tappe carovaniere, culto comune ai Maci e ai Garamanti[93].

[p. 234] Nel Peri# tw^n kaq’ oçla kli@mata iédiwma@twn Tolomeo sottolinea come le differenti caratteristiche dei popoli su interi paralleli e interi angoli dipendano dalla loro posizione rispetto all’eclittica e al sole:

 

così i popoli che vivono sotto i paralleli più meridionali, cioè tra l’equatore e il tropico estivo, hanno il sole allo zenit e ne sono riarsi: di conseguenza hanno pelle scura, capelli lanosi e crespi, figura contratta e il corpo prosciugato dal sole, natura ardente e indole per lo  più selvaggia […] con termine generale vengono chiamati Etiopi[94].

 

Indubbiamente dall’epoca di Erodoto all’epoca di Strabone, nel nord del Sahara vi erano già popolazioni bianche o meticce, armate d’arco come gli Etiopi, che conducevano con destrezza carri da guerra. Tolomeo cita nella Libia interna delle popolazioni dette Etiopi, e altre di cui non ci dice niente. Sarebbe, quindi, assurdo tradurre Etiopi con negri. Si trattava di «facce bruciate», che non dovevano avere degli stetti rapporti antropologici con i popoli attuali dell’Africa occidentale. Tra Libici ed Etiopi, inoltre, vi erano delle tribù come i Pharusii, i Garamanti, i Nigritae, che tanto la tradizione letteraria, quanto gli studi antropologici fanno apparire come intermedie.

L’esistenza di «facce bruciate», ab ore perusto, sui margini sahariani dell’Africa del Nord, e spesso in una posizione geografica più settentrionale ancora, è ben attestata dalle fonti letterarie antiche[95]. Le scoperte archeologiche e antropologiche provano la validità globale di tali testimonianze. Le popolazioni melanoderme, gli Etiopi, per riprendere l’espressione antica, hanno occupato le regioni sahariane e l’evoluzione più sicura è un lento accrescimento di alcuni gruppi leucodermi, di cui l’origine esterna non è messa in dubbio.

Si opta in favore di un’ origine strettamente autoctona degli Haratini discendenti da Etiopi «plus ou moins métissés au cours des derniers millénaires avec des éléments blancs méditerranéens dans le nord et le centre du Sahara, avec des Négroïdes soudanais dans la partie méridionale et occidentale»[96]. Da tanto tempo si sottolinea il carattere apparentemente assurdo di alcune categorie etniche citate da Tolomeo, come i Melanogetuli ed i Leukaethiopes - «bonnet blanc et [p. 235] blanc bonnet»?[97]- esempi della realtà particolarmente complessa del Sahara settentrionale. In effetti i Melanogetuli sono collocati dal geografo alessandrino ad ovest dei Garamanti, detti un po’ neri come tutti gli abitanti della Triakontaschene, regione nilotica a sud del tropico del Cancro, e al Nord di tutto un insieme di popoli etiopici, Girei, Nigritae, Daradae. Quanto ai Leukoaethiopes, questi non sono separati dai Perorsi che dalla pu@rron pedi@on. Sembra probabile che queste popolazioni del pre-deserto siano da ritenere etnicamente intermedie tra i Libici e gli Etiopi. Molto più inquietante è l’assimilazione della bordura meridionale della fascia mediterranea a degli Etiopi, cioè a dei negri, secondo i parametri degli antichi: una scala cromatica il cui valore relativo traduce la percezione di un alessandrino erudito sotto l’Impero romano. Purtroppo, come afferma Desanges[98], non è facile stabilire dei criteri incontestabili di «négritude» in presenza di resti ossei. Rimane da scoprire se la tendenza a rappresentare alcuni grandi insiemi di popolazioni dell’Africa del Nord antica come particolarmente scuri, tanto più se questi vivono «à la lisière du limes» romano, non ammetta una spiegazione di carattere psicologico. Sappiamo con quanta convinzione F. M. Snowden[99] ha affermato che l’antichità non abbia  conosciuto dei pregiudizi a proposito delle popolazioni negre. I popoli etiopici erano ritenuti barbari, ma non più dei Sarmati o dei Numidi[100]. Allo stesso modo L. A. Thompson[101] ha dimostrato come i negri non fossero vittime di alcun pregiudizio razziale all’epoca romana, ammettendo, comunque, la possibilità di un pregiudizio di tipo sociale e culturale. A tal proposito sono abbastanza eloquenti due testimonianze dell’alto Impero:

 

Aethiopes maculant orbem tenebrisque figurant

perfusas hominum gentes[102]

 

[p. 236] Loripedem rectus derideat, aethiopem albus;

quis tulerit Graccos de sedizione quaerentes?[103]

 

È palese l’esistenza di un pregiudizio estetico: l’Etiope rappresenta come una devianza dell’umanità in rapporto al bianco.

 

Faex Garamantarum nostrum processit ad axem

Et piceo gaudet corpore verna niger

Quem nisi vox hominem labris emissa sonaret,

Terreret visu horrida larva viros [104]

 

Gli antichi limitavano l’ampiezza maggiore del mondo abitato al nord fino alla Maeotis palus o al Tanais, al sud il limite era l’Etiopia di Meroe. La bruttezza garamantica, quindi, simboleggia il tipo meridionale più lontano dal tipo nordico. Il proverbiale adunaton Aièqi@opa smh@cein è il seme di una riserva nei confronti dei melanodermi, risalente alla tradizionale associazione del colore nero con gli omina di morte[105].

Al termine di questa rassegna di testimonianze che raggiungono la fine del IV sec.  sembra si possa ammettere con Desanges che   «les Libyens “noirs” sont, dans nombre de cas, des Libyens noircis par les préjugés d’auteurs qui reflètent très probablement la mentalité d’une partie au moins de leurs lecteurs. Les hasard et les jeux du langage ont favorisé cette tendance […] les mots solidifiaient les préjugés en leur conférant le sceau d’une adhésion collective…» così i barbari delle frange dell’Africa romana apparivano come «affectés dans leur carnation d’un écart», rispetto alla norma antropologica ammessa, cioè la popolazione bruna mediterranea, e di preferenza [p. 237] italica. Questa differenza si interpreta talvolta come il segno di una degradazione di tutta la persona. Tenendo conto del fatto che il colore nero rappresentava una macula, «noircir» alcune comunità etniche dell’Africa del Nord è stato spesso un modo «de les exclure moralement de l’empire»[106]. Excludere significa letteralmente “chiudere fuori”, tenere lontano, separato. Effettivamente una delle conseguenze naturali connesse alla costruzione di un confine è quella di limitare uno spazio, portando qualcuno verso il margine, la marginalità, che, comunque, non deve essere colta solo in un’accezione negativa, poiché può divenire un modo per manifestare la propria identità. Un modo per non stare né dentro, né fuori, o magari una maniera per entrare in contatto con una cultura, per viverci in mezzo, rimanendovi, però, allo stesso tempo distanti. In questo senso il confine può essere allora inteso come una “sfasatura”, qualcosa che segnala un difetto di corrispondenza o di congruenza tra le parti, una sorta di incoerenza tra due campi che non sono misurabili con lo stesso metro[107]. E questo può essere a volte  causa di conflitto, soprattutto quando di fronte si trovano culture differenti. Parlare di confini significa anche parlare di “recinti” mentali, culturali, religiosi, ideologici…ed è solo nella volontà di chi lo costruisce che sta il limite del potere di un “recinto”, che può farsi personaggio e diventare la raffigurazione vivente dello scontro tra due modi opposti di stare nel mondo, di occupare uno spazio. Uno dei compiti del confine è mettere in scena le diverse forme dell’alterità, provocare continuamente quel non so che, che ci permette di dire che “noi” non siamo proprio uguali agli altri, ovvero provocare il malinteso. Se chiudere il confine e occultare il malinteso, lasciando l’altro fuori dalla “porta”, vuol dire creare una continua minaccia, allargando, invece, sempre più lo spazio del confine, avendo l’altro di fronte si può elaborare un percorso per attraversare il disordine[108]. Ciò richiede l’intuizione del relativismo culturale, la dilatazione, implicita e inaugurale, del concetto di cultura oltre i confini geografici e storici dell’osservatore. E i Romani erano sì ossessionati dalla brama di potere a tal punto che la larga fascia di controllo, senza una presenza amministrativa, porta ad alcune strane informazioni presenti nelle curiose liste topografiche [p. 238] che circolavano nel Tardoimpero (ad esempio nella Cosmographia di Giulio Onorato la Getulia è considerata una provincia dell’Impero romano[109]), ma estremamente ricettivi e aperti agli stimoli esterni. Trovo calzante concludere questo tentativo di abbracciare un tema così complesso, e che tale rimane, pensando ad «une double assimilation, celle  de Rome au pays qu’elle découvrit, et celle de ce pays à une civilisation importée qui lui a fourni un moyen d’expression»[110].

 

 



 

*Un grazie particolare va al Prof. J.Desanges che con interesse e disponibilità ha letto il mio manoscritto, dandomi, già dopo il mio intervento tunisino e poi nei nostri incontri parigini, quella sicurezza che solo un "grande" può trasmettere a chi timidamente inizia a percorrere i sentieri impervi della ricerca storico-antropologica. Un grazie ancora alla Fondation Hardt che, con la sua quiete autunnale e la sua dovizia di classici,  ha rappresentato una tappa importante di questo lavoro. 

 

[1] Sen., nat., I, 9-11 : «Quanto ridicoli sono i confini delle nazioni: l’Istro non oltrepassino i Daci, la catena dell’Emo chiuda i Traci, l’Eufrate limiti i Parti, il Danubio divida Sarmati e Romani, il Reno faccia da freno ai Germani, i Pirenei elevino le loro cime tra la Gallia e la Spagna, tra l’Egitto e l’Etiopia vasti e disabitati deserti si estendano […] è questo un correr qua e là di formiche che si affaticano in angusto spazio […] un punto nello spazio è quello su cui navigate, guerreggiate, costruite regni».

 

[2] Y.Le Bohec, La “Frontière militaire de la Numidie, de Trajan à 238, in A.Rousselle (éd.), Frontières terrestres, frontières célestes dans l’Antiquité, Paris 1995,  p.120.

 

[3] P.Zanini, Significati di confine. I limiti naturali, storici, mentali, Milano 1997, p. 14

 

[4] Rousselle (éd.), Frontières, cit., p. 11.

 

[5] Sall., Iug., 78-79. Interessantissimo il libro di R.Oniga, Il Confine conteso. Lettura antropologica di un capitolo sallustiano (Bellum Iugurtinum, 79), Bari 1990, in cui è analizzata la situazione iniziale costituita dalla mancanza di un confine e dal conseguente stato di ostilità. «Il primo meccanismo culturale che viene applicato è lo spostamento del conflitto sul piano agonale, si passa dalla guerra alla gara, la corsa per il confine, nella quale uno dei due cursori prevale sull’altro, per valore o per inganno, cosicché il confine non viene esattamente nel punto mediano. Dietro il sacrificio dei Fileni, seque vitamque suam rei publicae condonavere: ita vivi obruti (sconfitti nella corsa, i Cartaginesi chiesero un’altra condizione ai Greci, i quali proposero loro o di essere seppelliti vivi nel punto in cui rivendicavano i confini della loro terra, o permettere loro di avanzare)  sta un modello culturale specifico: il sacrificio di fondazione».

 

[6] Strab., III, 5, 3 e ancora in XVII, 3, 20, in cui nella dettagliata descrizione della costa sirtica si apprende la circostanza che sotto il regno di un Tolomeo non specificato vi fu uno spostamento del confine verso ovest.

 

[7] Plin., nat., V, 28.

 

[8] Ptol., IV, 3, 15.

 

[9] C.Jacob, Carte greche, in F. Prontera (a cura di), Geografia e geografi nel mondo antico: guida storica e critica, Roma, 1983, pp.49-67; Id., Dionisio d’Alessandria, il “noos” delle Muse e lo sguardo aereo sull’ecumene, in F.Baratta, F.Mariani (a cura di), Mondo classico. Percorsi possibili, Ravenna 1985, pp.83-107.

 

[10] Oniga, Il confine,  cit., p.98

 

[11] M. Bénabou, La résistance africaine à la romanisation,  Paris 1976, p. 271.

 

[12] Ov., met. XV, 565-621; Val. Max., V, 6, 3.

 

[13] Oniga, Il confine, cit., pp.102-5.

 

[14] Ph. Leveau, Le limes d’Afrique à l’épreuve de nouveaux concepts (apport du point de vue systémique à la notion de limite et de frontière), in Rousselle (éd.), Frontières, cit, p. 65

 

[15] Limes, itis: sentiero, confine, limite. Collegato con la radice indeuropea *lei- (piegare), significa, connesso con limus, trasversale e ci porta alla pratica etrusco-romana della limitatio, che sta alla radice dell’organizzazione giuridico-sacrale dello spazio romano, iscritto in un reticolato ortogonale. Limes, sentiero e via, prima che confine, diventa il nome della frontiera aperta, rete viaria che consente gli spostamenti delle truppe e dei rifornimenti e non muraglia difensiva continuata, che difende, durante l’Impero, il territorio romano dalle pressioni barbariche.  Cfr. A. Ernout- A.Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1959, p.359 ; C.Milani, Il “confine”: note linguistiche, in M. Sordi (a cura di), Il confine nel mondo classico, (CISA 13), Milano1987, pp. 3-12. Interessante poi B. Isaac, The meaning of the terms Limes and Limitanei, «JRS», 78, 1988, pp.125-47.

 

[16] P.Trousset, Signification d’une frontière: nomades et sedentaires dans la zone du limes d’Afrique, «BAR», Int. Ser., 71 (III), Oxford 1980, pp. 931-40.

 

[17] Cfr. DE, s.v. Limes [G. Forni], IV, 1959, pp. 1076 ss. ; Denominazioni proprie e improprie dei  limites  delle province, in Actes du IX Congrès intern. d’ Études sur les Frontières romaines, Mamaia 1972, Bucarest 1974, pp.  285-289; G. Forni, Limes: nozioni e nomenclature, in Sordi (a cura di), Il Confine, cit., pp.272-294.

 

[18] Trousset, Signification d’une frontière,  cit., pp.935-6.

 

[19] J.-M.Carrié, 1993: ouverture des frontières romaines ?, in Rousselle (éd.), Frontières, cit., p.31.

 

[20] O.D.Lattimore, Studies in Frontier History, collected papers 1928-1958, London 1962.

 

[21] P.Trousset, Recherches sur le limes Tripolitanus du Chott El-Djerid à la frontière tuniso-libyenne, Paris 1974, p. 19

 

[22] C.R.Whittaker, Supplyng the System: Frontiers and beyond, in J.C. Barnet et al. (eds.), Barbarians and Romans in North West Europe, «BAR» Int. Ser., 471, Oxford 1989, p.66.

 

[23] M.Fulford, Roman and Barbarian: the Economy of Roman Frontier Systems, in Barbarians and Romans, cit., p. 90.

 

[24] R.Rebuffat, Au-delà des camps romains d’Afrique Mineure, in ANRW II, 10.2, 1982, p.508

 

[25] M.Euzennat, La frontière romaine d’Afrique, «CRAI», 1990, pp.565-80; Id., Les recherches sur la frontière romaine d’Afrique(1974-1976), in Limes. Akten des II. Internationalen Limeskongresses, Székesfehérvar 1976, Budapest 1977.

 

[26] Leveau, Le limes d’Afrique, cit., p. 58.

 

[27] Ivi, p.61.

 

[28] App., praef. 1-7.

 

[29] Verg., Aen., I, 279.

 

[30] Le Bohec, La frontière, cit., p.141.

 

[31] VIRG., Aen. VI, 853.

 

[32] Le Bohec, La Frontière, cit., p.142

 

[33] Ch. Hamdoune, Frontières théoriques et réalité administrative: le cas de la Maurétanie Tingitane, in Rousselle (éd.), Frontières, cit., p. 237.

 

[34] F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 1986, vol. II, pp. 814-5.

 

[35] M.Bettini, Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Bari 1992, pp.8-9.

 

[36] Petron, Satyr., CII, 15.

 

[37] Bettini, Lo straniero, cit., p.8.

 

[38]R. Oniga, Sallustio e l’etnografia, Pisa 1995.

 

[39] Herod., IV, 181.

 

[40] Herod., IV, 172

 

[41] Herod., IV, 183

 

[42] Herod., IV, 184.

 

[43] Herod., IV, 191.

 

[44] Periplus Hann., 12; 16-17.

 

[45] Palaeph., Peri@ aèpistw^n, XXXI.

 

[46] M.Rachet, Rome et les Berbères, un problème militaire d’Auguste à Dioclétien, Bruxelles, 1970, p.18.

[47] Sall., Iug., 17, 2

 

[48] Sall., Iug., 17,6.

 

[49] Ibid.

 

[50] Strab., XVII,3, I.

 

[51]Strab., 3, 2; Cfr. A. Luisi, Getuli, dei popoli libici il più grande, in M. Sordi (a cura di), Autocoscienza e Rappresentazione dei popoli nell’antichità, (CISA, 18), Milano 1992, pp.145-151.

 

[52] Strab.,  XVII, 3,7

 

[53] Strab., XVII, 3,8.

 

[54] Strab., XVII, 3, 10.

 

[55] Strab., XVII, 3, 23

 

[56] Diod., III, 8-11.

 

[57] Diod., 49.

 

[58] Diod., 56.

 

[59] Hom., Il. XIV, 200-201.

 

[60] Plin., nat., V, 43.

 

[61] Plin. nat., VI, 194

 

[62] Plin., nat., VI, 195.

 

[63] Mela,  I, 22-23 con integrazioni I, 44-48.

 

[64] R.Schilling, Quae de Africa interiore deque Afrorum moribus rettulerint scriptores Romani, in Africa et Roma, Acta omium gentium ac nationum conventus latinis litteris lingua eque fovendis (1974), Roma 1979, p. 114

 

[65] E.Albertini, L’Afrique Romaine, Alger 1955, (rist. agg.L.Leschi 1949), pp. 26, 28

 

[66] Herod., II, 32

 

[67] Ath., Deipn. II, 22

 

[68] M.Baistrocchi, Penetrazione romana nel Sahara, in L’Africa Romana V, p.193. (Senz’acqua non può essere andato molto lontano, perché, come sottolinea Baistrocchi, per sopravvivere al fenomeno della disidratazione nel deserto l’uomo ha bisogno almeno di quattro litri d’acqua giornalieri in inverno del doppio in estate. Quanto al cibo è probabile che il viaggiatore si sia nutrito di polvere di datteri e di altri frutti secchi mescolati a formaggio di capra, una mistura ad alto potenziale nutritivo, ancora oggi utilizzata dai nomadi tuaregh, quando sono in viaggio).

 

[69] Plin., nat., V, 5.

 

[70] Ibid.

 

[71] Ptol.Geogr. , I, 8, 4

 

[72] G. Aujac, Claude Ptolémée, astronome, astrologue, géographe. Connaissance et représentation du monde habité, Paris 1993, p.7-8.

 

[73]Ptol., Prev. Astr., II, 42-43.

 

[74] Ptol., Prev. Astr., II, 2, 45.

 

[75] Ptol., Geogr., IV, 6, 16.

 

[76] K.Lewin, Der Richtungsbegriff in der Psychologie. Der spezielle und allgemeine Hodologische Raum, in  «Psychologische Forschungen» 19, 1934, pp. 249-299.

 

[77] Chr.Courtois, Les Vandales et l’Afrique, Paris 1955, pp. 118-25.

 

[78] J. Desanges, Catalogue des tribus africaines de l’Antiquité classique à  l’ouest du Nil, Dakar 1962, p.II.

 

[79] Cfr. Rachet, Rome et les Berbères,cit.

 

[80] Desanges, Catalogue, cit., p.12

[81] Rousselle (éd.), Frontières,  cit., p. 13.

[82] Plin., nat., VI, 26

[83] Desanges, Catalogue,  cit., pp. 17-8.

[84] Ivi., p. 20.

[85] A. Momigliano, I regni indigeni dell’Africa Romana, in LAfrica Romana, Milano 1935, p. 87.

 

[86] Desanges, Catalogue, cit, p. 21-2.

 

[87] Rebuffat, Au-delà des camps romains cit., pp. 495-6.

 

[88] M.Wheeler, La civiltà romana oltre i confini dell’impero, Torino 1963, pp.109-11.

 

[89] J.I. Miller, Roma e la via delle spezie dal 29 a.C. al 641 d.C., Torino 1974, p.272.

 

[90] Baistrocchi, Penetrazione romana,  cit., p. 196.

 

[91] Miller, Roma e la via delle spezie, cit., p. 107.

 

[92] Su Iuppiter Hammon  cfr. Benabou, La résistance africaine,  cit., pp.335-8.

 

[93] R.Rebouffat, Les fermiers du désert, in L’Africa Romana V, pp. 58-9

 

[94] Ptol., Prev. Astr., 2, I-2.

 

[95] St.Gsell, Histoire ancienne de l’Afrique du Nord, Paris 1913, I, pp.295-8 e 303-4.

 

[96] Encyclopédie berbère, s.v. Aethiopes, [G. Camps], II, 1985, pp.175-81

 

[97] J.Desanges, Toujours Afrique apporte fait nouveau, Scripta minora, Paris 1999, p. 271.

 

[98] Ivi, p. 232 ; cfr. M.Chabeuf, À propos de l’homme de Grimaldi: mélanodermes, nègres et négroïdes, in G.Camps, G.Oliver (éds.), L’Homme de Cro-Magnon: anhtropologie et archéologie, Paris 1970, pp. 93-7.

 

[99] F. M. Snowden, Before Color Prejudice. The Ancient View of Blaks, Cambridge-London 1983.

 

[100] Y. A. Dauge, Le Barbare. Recherches sur la conception romaine de la barbarie et de la civilisation, Bruxelles 1981, p.477. 

 

[101] L. A. Thompson, Romans and Blacks, London 1989.

 

[102] Manil., Astron., IV, 723-724.

 

[103] Juv., II, 23-24.

[104] Cfr. Anth. Lat., n. 183, pp. 155-6 hrsg. von F. Bücheler, A.Riese, E.Lommatzch, I, I, Leipzig 1984.

 

[105] L.Cracco Ruggini, Il negro buono e il negro malvagio nel mondo classico, in M. Sordi (a cura di), Conoscenze etniche e rapporti di convivenza nell’antichità, (CISA, 6), Milano 1979, p.113; cfr. Ead., I popoli dell’Africa e dell’Oriente, in Storia di Roma, III, I, Torino 1993, pp. 449-52: questi popoli che abitavano vicino al sole, nel mondo greco e fino al III sec. d.C., godettero fama di pii, longevi, beati; spesso il colore della pelle veniva contrapposto «all’anima sbocciante di candidi fiori». A partire dal III sec. venne meno la loro stilizzazione in termini di primitiva innocenza. Le più precise conoscenze etno-geografiche, acquisite mediante viaggi, ne fanno un popolo militarmente forte e sempre più pericoloso e come tale già compare nel romanzo di Eliodoro, Le Etiopiche.

 

[106] Desanges, Toujours Afrique, cit., pp. 237-8.

 

[107] Cfr. G. Devoto, G.C.Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze, 2000-01.

 

[108] Zanini, Significati del confine,  cit., pp.74-105.

 

[109] Raccolte in GLM.

 

[110] R.Rebuffat, Deux ans de recherches dans le Sud de la Tripolitaine, «CRAI», 1969, p. 212.