ds_gen N. 8 – 2009 – Memorie//XXIX-Roma-Terza-Roma

 

Franco Cardini

Istituto italiano di Scienze Umane

Firenze

 

L’IMPERO E gli IMPERI

 

 

 

I

 

Il termine “impero” è ormai entrato nel lessico storico, antropologico, giuridico e politologico nei sensi di “suprema autorità”, “massimo potere”, “predominio”, “supremazia riconosciuta”: il che, associato ai malintesi generati dall’abuso della parola “imperialismo”, che lessicalmente le è affine ed etimologicamente ne è derivata ma che semanticamente ne è lontana, non manca di generare equivoci e confusioni.

Ad evitar il loro perpetuarsi, è opportuno sottolineare come, di per sé, la parola “impero” designa un complesso di significati e di valori storici che vanno riferiti essenzialmente ed esclusivamente, su un corretto piano storico, all’impero romano; e che soltanto in senso analogico per un verso, comparatico per un altro, e quindi con tutta la cautela che ciò comporta, può essere usata a indicare altre esperienze storiche, le quali dovranno volta per volta venir identificate nella loro peculiarità.

 

II

 

La prima cosa da fare, parlando del concetto d’Impero e delle varie forme politico-istituzionali di governo che si sono servite di questo nome o che così sono state definite, è quindi procedere a un’accurata distinzione tra quel che la parola designa e le cose che, mediante essa, sono state nel tempo con tale nome designate[1].

La parola latina imperium – al di là del suo originario e ristretto significato politico, giuridico e militare – è stata utilizzata, dall’antichità romana in poi, per indicare l’esercizio di poteri sovrani concepito in funzione del bonum commune, in una prospettiva di universalità e di ordine pacifico valido per l’intero genere umano e per il suo generale vantaggio[2]. Secondo un celebre passo dell’Eneide, missione specifica e quindi funzione propria del popolo romano sono quelle di regere imperio populos...paci imponere mores[3]: ancora nel grande poema di Virgilio, la Forza Divina si esprime dichiarando che ai romani Imperium sine fine dedi[4]. E’ necessario riflettere attentamente su quel virgiliano sine fine, che ha carattere senza dubbio temporale, ma altresì spaziale. L’Imperium fatalmente – o, dopo la cristianizzazione, provvidenzialmente - concesso ai romani non conosce né una finis nell’ordine degli anni e dei secoli, né fines geografici, confini. Mutatis mutandis, la definizione virgiliana si adatta splendidamente a quel che negli Stati Uniti si è indicato come il manifest destiny della “nazione americana”: un’espressione coniata com’è noto a livello giornalistico e divenuta popolare negli States durante il biennio 1846-48 per indicare e qualificar come necessaria e provvidenziale, al tempo della guerra contro il Messico, la funzione di leadership statunitense-nordamericana sull’America latina e sull’intero continente già configurata nel 1823 dal “manifesto Monroe”[5].

Tornando al modello romano, appare legittimo intendere a parere di Seneca la pax Romana come potenzialmente estesa – e pertanto legittimamente estensibile - all’intero orbe terraqueo, al quale l’impero è in grado di assicurare la pace[6]. Con la Constitutio Antoniniana del 212 la cittadinanza romana, vale a dire l’appartenenza a quel Romanus populus ch’era il vero e unico depositario dell’Imperium[7], si allargò forse a tutti gli abitanti delle regioni fino ad allora soggette, in una coincidenza profonda tra Urbs (la Metropoli, Roma) e Orbs (il mondo) che annullava la distinzione tra vincitori e vinti e fondava una nuova identità: per quanto in realtà la discussione a proposito della natura, del carattere, della funzione e degli scopi immediati effettivi di quel provvedimento facciano ancor accanitamente discutere gli specialisti.

La cristianizzazione dell’impero, giuridicamente formalizzata da Teodosio I alla fine del IV secolo, comportò un profondo ripensamento del rapporto tra Imperium e pax, quindi tra l’identità del cives Romanus e quella del Christi fidelis. Agostino, nel De Civitate Dei, riprendeva l’assunto virgiliano in un passo che sarebbe poi stato guida al Dante del Convivio e del De Monarchia[8]. Nel 441 il vescovo di Roma Leone, cioè papa san Leone I Magno, proponeva una ridefinizione della pax Romana come perfettamente identificabile con la pax christiana: il che comportava un nuovo senso da conferire alla convergenza tra pax e imperium, fondata non più sulla forza delle armi, bensì sull’accettazione pacifica dell’auctoritas imperiale da parte di tutti i fedeli da una parte e sulla generale e capillare diffusione della fede entro i confini della res publica dall’altra.

Il rapporto fra pace e buon governo, destinato a divenir fondamentale anche nel mondo medievale, moderno e contemporaneo e a tradursi, nei documenti imperiali, nell’onniprensente e inscindibile binomio iustitia et pax – sempre rigorosamente in quest’ordine di precedenza -, era già stato miticamente postulato da Esiodo, che faceva Eirene, la Pace, sorella di Eunomia, la Legge Buona e quindi il Buon Governo. Per Agostino, infatti, Pax era Tranquillitas Ordinis, stabilità di buone e giuste istituzioni: e il grande vescovo d’Ippona inaugura il suo capolavoro filosofico-politico, la Civitas Dei, proprio all’indomani della violazione di Roma da parte del visigoto Alarico, chiedendosi appunto quali errori e quali peccati avesse commesso l’impero per meritare un castigo e un’umiliazione di tale genere. Poiché compito degli imperatori era il mantenimento di iustitia e di pax ritenute valori inscindibili, una divaricazione tra questi due valori comportava il crollo dell’ordine costituito sotto la loro auctoritas. La riflessione agostiniana va messa in confronto – e in contrappunto – con quella del presidente George W. Bush all’indomani del tragico 11 settembre del 2001: se dinanzi alla violazione del centro del mondo antico Agostino si chiedeva quali peccati fossero stati commessi nell’impero per indurre la potenza divina a consentire una tale profanazione, dinanzi alla violazione del World Trade Center, il cuore almeno simbolicamente economico dell’America, dell’Occidente e del mondo il presidente si chiedeva, al contrario, quali potessero essere le ragioni per cui dei criminali esterni avevano colpito una nazione libera e virtuosa.

 

III

 

Dal concetto d’impero, e dalla storia dell’impero romano, si avviò fin dall’antichità una costante tendenza a definire “imperi” tutte le organizzazioni politico-territoriali di grande ampiezza, caratterizzate dal dominio di un solo sovrano universalmente riconosciuto come tale – o comunque di un soggetto politico dalle caratteristiche sostanzialmente statuali - su una pluralità d’istituzioni pubbliche e di popoli. E’ profondamente etnocentrica e cronocentrica – incentrata com’è sul modello della storia romana – l’attitudine, ormai diffusa, a definire “imperi” le grandi civiltà antiche, moderne e contemporanee caratterizzate appunto da un vertice che eserciti un’ auctoritas universalmente riconosciuta (alla quale può però corrispondere una pluralità di di potestates) su un’insieme di comunità di sudditi tra loro eterogenee; e di ogni impero la storia stabilisce e circoscrive volta per volta i caratteri di centralizzazione e di livellamento o, al contrario, di rispetto e di mantenimento delle diversità, delle specificità, addirittura dei privilegi accordati o delle libertà conseguite “dal basso”. Siamo quindi soliti parlare ordinariamente, con disinvoltura, di “imperi” egizio, assiro-babilonese, persiano, alessandrino, variamente considerati come precedenti e in qualche misura altresì modelli e antenati dell’impero romano (che si è perpetuato, non dimentichiamolo, nell’esperienza che ordinariamente noi chiamiamo “bizantina”), mentre da esso sono in vario modo derivati, o ad esso si sono ispirati, o ad esso comunque collegati in tempi diversi il cosiddetto “impero romano-germanico”, quello etiope, quello russo; e, per “analogia imperfetta”, consideriamo altresì esperienze imperiali quelle in differenti periodi configuratesi nel mondo centroasiatico (l’impero tartaro” e la relativa pax mongolica), nell’India moghul, in Cina, in Giappone, nell’America precolombiana. Ma siamo altresì abituati a denominar “imperi”, anche quelli “coloniali” (come i possessi disseminati delle repubbliche marinare italiche tra XI e XV secolo, addentratisi nel caso di Venezia fin alla fine del XVIII; o ancora gli imperi spagnolo, portoghese, olandese).

Se consideriamo la parola “impero” in un senso più largo e inclusivo, in effetti, possiamo definire tali i sistemi fondati e gestiti dalle molte città-stato e nazioni che dal XII secolo si sono mosse alla conquista del resto del mondo, frattanto battendosi per conseguire l’egemonia le une sulle altre. Un buon esempio di questi “imperi imperfetti”[9] è fornito dalle “città marinare” medievali italiane quali Pisa, Genova, Venezia, che per un paio di secoli, tra il XII e il XIV, dominarono il Mediterraneo. Esse rappresentano un ottimo esempio del modo in cui i commerci e le conquiste si completassero a vicenda: costruirono le loro prime fortune attraverso il commercio accompagnato e alternato alla guerra corsara, quindi stabilirono le loro colonie dov’era loro più utile, nel Tirreno e in Adriatico, e attraverso il loro fondamentale appoggio a quella bislacca impresa che di solito definiamo “prima crociata” e al regno franco di Gerusalemme che ne scaturì si aggiudicarono importanti privilegi in aree strategiche del Mediterraneo orientale, mentre Pisa e Genova si disputavano anche l’egemonia in quello occidentale. Non detenevano certo tutte le caratteristiche di un vero e proprio impero, ma in cambio possedevano un vantaggio unico per quel tempo su tutto il resto del mondo circummediterraneo: avevano flotte in grado di competere con quelle bizantine e musulmane.

Il sistema di colonie che soprattutto Genova stabilì nel Mar Nero rappresentò – mentre, nel Trecento, Pisa e Venezia entravano in crisi a causa del crescere della talassocrazia catalana –un passo avanti in quel tipo di politica: ma l’ “impero” genovese entrò in crisi in rapporto con il crescer dell’importanza di un altro, quello tartaro dell’Orda d’Oro. C’è da chiedersi, non troppo lontano da “tentazioni” ucroniche, come sarebbero andate le cose se Genova e l’Orda d’Oro avessero trovato un equilibrio o stipulato un’alleanza[10]. Tuttavia, come Roberto Sabatino Lopez ha notato con forza e finezza, la “modernità” dell’esperienza e dell’esperimento genovesi consiste nel modo nel quale le forze interne alla città – che possiamo identificare con le famiglie, i clans, le corporazioni, le lobbies – seppero introdurre i loro privati interessi nel vivo della gestione pubblica della politica, sino a svuotar quasi di senso la natura pubblica del potere della repubblica guadagnandone il completo controllo. La repubblica di Genova, com’è ben esemplificato nelle vicende delle “compagne” medievali e poi del Banco di san Giorgio, costituisce un buon esempio di come un governo possa divenire quel che il vecchio Karl Marx ha definito un “comitato d’affari”. Si tratta peraltro di un fenomeno ricorrente nella storia delle società umane. Era già accaduto a Roma, nelle vicende di alcune grandi famiglie senatoriali del I sec. a.C.: e l’impero romano è figlio appunto anche di questo processo di privatizzazione e d’appropriazione del potere pubblico. Tuttavia, ciò è alquanto differente da come ad esempio la repubblica di Venezia o quella delle Province Unite costruirono i loro rispettivi imperi, dal momento che i loro governi – per quanto fondati su una complessa rete di interessi e di differenze e conflitti di tipo finanziario, culturale e politico – non sopttoposero mai del tutto la loro natura pubbliva agli interessi privati delle loro oligarchie interne, che pur gestivano si può dire in modo esclusivo il potere.

In due distinti casi, poi, un “impero coloniale” ha costituito la base storica per la proclamazione di un vero e proprio “impero istituzionale”, caratterizzato dall’instaurazione di un sovrano. Così l’ “impero delle Indie” detenuto da Vittoria regina d’Inghilterra che ne cinse la corona nel 1877 e che fu da allora regina et imperatrix: va da sé che forte era stata la tentazione, specie negli ambienti aristocratici e militari britannici più strettamente collegati all’esperienza del potere sul subcontinente indiano e al tempo stesso convinti dell’intima superiorità inglese (e “bianca”) ma perdutamente innamorati delle tradizioni e della cultura indiane, d’indurre la loro regina a rivendicare sic et simpliciter l’eredità “imperiale” dei Gran Moghul; prevalse tuttavia il buon senso, e Vittoria divenne imperatrice d’una nuova realtà politica indiana nella quale maharaja e raja venivano a formare un organismo istituzionalmente paragonabile e cerimonialmente alquanto simile alla Camera dei Lords. Tale modello fu poi piuttosto impudicamente plagiato – nonostante provenisse dalla “perfida Albione” – del più tardo, ristretto ed effimero “impero d’Etiopia” fondato nel 1936 alla fine della seconda guerra italo-etiopica, nel quale Vittorio Emanuele III, “re imperatore”, guardandosi bene dal pretender di appropriarsi in qualche modo dell’antica corona dei negus neghesti, adottava insegne appositamente concepite per un’istituzione imperiale nuova rispetto all’antico impero del Leone di Giuda, nella quale i ras venivano ad assumere un ruolo simile a quello dei maharaja e dei raja nell’impero dell’India.

Vanno altresì ricordate esperienze imperiali, o tali dalla storiografia occidentale definite, ciascuna delle quali può esser considerata istituzionalmente e geneticamente sui generis: come quella turco-ottomana che adottò per il sultano il titolo imperiale di conio persiano di padishah e che almeno dai tempi di Solimano il Magnifico, vale a dire dal pieno Cinquecento, pretese di atteggiarsi ad erede dell’impero bizantino (e difatti il mondo musulmano conosce il sultano Solimano come al-Kanuni, il restauratore del Canon giustinianeo); e quella persiana moderna safawide e qajar, fondata sull’attesa sciita della rivelazione dell’ “Imam nascosto” ma al tempo stesso sulla pretesa di rivendicazione delle esperienze achemenide, arsacide e sasanide (mentre, a partire dagli Anni Venti del secolo scorso, l’impero iraniano di Reza Shah e poi di suo figlio Mohammed Reza Pahlevi si sarebbe orientato su un “uso della storia” d’impronta decisamente neoachemenide).

 

IV

 

Un ruolo speciale all’interno di questa problematica spetta tuttavia alla filiazione romano-imperiale dell’impero rivendicato, sotto il titolo di czar (Caesar) da Vassili IV, granprincipe di Mosca e di Novgorod, figlio si Ivan III il Grande e di Sofia a sua volta figlia di Tommaso Paleologo. Sul piano istituzionale, la rivendicazione del titolo di Caesar da parte dei granprincipi di Mosca era legittima risalendo al loro riconoscimento in quanto tali da parte dei basileis di Costantinopoli, che detenevano il diritto di fregiarsi del titolo di Augusti secondo la legislazione dioclezianea. Sul piano dinastico, Vassili discendeva dalla dinastia imperiale per parte di madre. Ciò consentì a sua figlio Ivan IV il Terribile, succedutogli nel 1533 come czar di Russia, di rivendicare nel 1547 il titolo di czar e autocrate di tutte le Russie, con il quale venne appunto incoronato. L’impero czarista, durato dal 1547 al 1917, appare caratterizzato da una legittimità non incontestabile né assoluta, comunque rivendicabile in quanto dinasticamente collegato per via di discendenza femminile all’ultima legittima dinastia imperiale romana d’Oriente e in quanto istituzionalmente collegato al titolo cesareo legittimamente concesso dai basileis Augusti. In questo senso Mosca è erede della Nea Rome, cioè di Costantinopoli, e può proporsi come “Terza Roma” legittimata altresì, secondo la tradizione inaugurata dalle leggi di Graziano e di Teodosio nel IV secolo, della fedeltà al credo cristiano: come dice Agostino, infatti, Romanum imperium, quod Deo propitio christianum est[11]. L’eredità rivendicata in forza della conquista con la forza, sostenuta dai sultani ottomani, non può eviudentemente venir accolta in linea di legittimità giuridica nell’àmbito di quel sistema di leggi e di valori sui quali appunto l’impero dal IV secolo si fonda, e che risale all’età augustea senza soluzione di continuità.

 

V

 

Nell’Europa occidentale, dopo quella che Arnaldo Momigliano ha chiamato la “caduta senza rumore” della pars Occidentis dell’impero romano uscita dalla riforma amministrativa teodosiana, una neofondazione imperiale dai caratteri alquanto ambigui, ma che senza dubbio si rifaceva al modello romano “d’Occidente” e ne rivendicava l’eredità, si ebbe prima con l’impero carolingio del IX secolo e poi con quello romano-germanico avviato nel secolo successivo: nati entrambi dalla volontà di emulazione rispetto all’impero romano-orientale (cioè, come s’usa dire, “bizantino”) ma anche dal bisogno della curia episcopale romana, intanto affermatasi come egemone tra le Chiese d’Occidente, d’affrancarsi anche formalmente dalla tutela dei basileis di Costantinopoli. L’impero romano-germanico si sviluppò più tardi – nonostante il tentativo di rifondazione giuridica giustinianea portato avanti a metà del XII secolo da Federico I di Hohenstaufen e dai suoi giuristi bolognesi – in modo complesso, passando da un assetto elettivo a uno sostanzialmente ereditario (che tuttavia dell’elettività manteneva alcune forme) e caratterizzandosi poi come quell’insieme di territori retti a principato o a repubblica che Samuel Pufendorf avrebbe definito mirabile monstrum e a proposito del quale gli allegri studenti riuniti nella cantina di Auerbach descritti nell’Urfaust potevano chiedersi come facesse a star ancora in piedi. Un impero straordinariamente fragile e vago sul piano della potestas eppur duraturo e profondamente radicato su quello dell’auctoritas, della tradizione e della memoria.

Ai primi dell’Ottocento questo augusto e venerabile fantasma imperiale infastidiva la nuova realtà imperiale scaturita dalla Rivoluzione francese e dal modello storico augusteo: quella di Napoleone I, empereur de la Republique. Dall’impero napoleonico derivarono in vario modo i numerosi imperi che campeggiano nella storia europea ed americana dell’Ottocento: quello federale d’Austria, spettante per diritto ereditario alla dinastia d’Asburgo, nato nel 1806 in conseguenza del forzoso abbandono del titolo romano-germanico[12] da parte di Francesco II  che, anche dopo la caduta di Napoleone, non riassunse più le ormai vetuste insegne del Sacrum Imperium continuando a farsi chiamare Francesco I imperatore d’Austria; quello federale tedesco, nato nel 1870 con la volontà di riunire sotto la sua sacra corona tutte le genti germaniche ma anche, in quanto Zweites Reich, restaurazione dell’impero fondato da Ottone I e renovatio imperii, nel segno peraltro d’una “purezza” germanica che il Sacrum Imperium – “inquinato” da storiche presenze italiche, magiare e slave – non aveva mai rivendicato e si era ben guardato da rivendicare. Altri modelli imperiali, concepiti e partoriti da quel fecondo ventre che fu l’Ottocento imperialistico e romantico, ebbero con ogni evidenza un carattere succedaneo: così il bonapartista “Secondo Impero” di Napoleone III, restaurazione del precedente; mentre più fragile e molto breve, ma anche più complesso, fu l’esperimento avviato in Messico nel giugno del 1864 da Massimiliano d’Asburgo in seguito all’azione congiunta franco-anglo-spagnola del 1862 contro il governo Juárez, responsabile di una pesante insolvenza finanziaria, e sostenuto essenzialmente e alla fine esclusivamente da Napoleone III, mentre l’augusto fratello di Massimiliano, l’imperatore Francesco Giuseppe, restava prudentemente in disparte e non mancava di far conoscere la sua contrarietà all’avventura. Dopo l’effimero esperimento imperiale di Agustín Iturbide, del 1822-1823, l’impero asburgico messicano, che sul piano dell’uso retorico della storia si rifaceva romanticamente a quello di Carlo V, riprendeva le basi dell’assetto federalistico che il Messico si era dato con la Costituzione del 1824, ispirata a quella degli Stati Uniti d’America, ma al tempo stesso guardava sul piano istituzionale sia all’impero d’Austria, appunto federale, sia ovviamente all’impero bonapartistico. Dalla tempesta napoleonica e dalla volontà autonomista delle aristocrazie coloniali scaturì anche il lungo esperimento imperiale brasiliano, fondato da Pietro I di Braganza nel 1822 e rovesciato nel 1889 per dar luogo, due anni dopo, a una repubblica presidenziale e federativa sul modello statunitense. Il Novecento ha poi assistito a una nuova proposta imperiale tedesca, esplicitamente collegata alle due precedenti dal momento che si autodenominava drittes Reich pur mantenendo forme statuali di repubblica accentrata: una proposta imperiale esplosiva ed eversiva, in quanto adottando la dottrina del Lebensraum ostentava il rifiuto di un’espansione coloniale extraeuropea – ch’era viceversa stata caratteristica dell’impero degli Hohenzollern – al quale sostituiva un disegno di colonizzazione dell’Europa orientale[13].

 

VI

 

A questa pluralità di casi, d’istituzioni, di situazioni, di formule liturgiche, di apparati cerimoniali, è stata affidata comunque nel tempo al funzione di tramandare, di continuo rinnovandolo e mutandone senso e aspetto, il nomen Imperii e il fascino che ancor oggi lo circonda e che è facile verificare nel continuo ricorrere del termine “impero” nelle circostanze e nei contesti più varii, dal mondo della finanza a quello della produzione e dell’immaginario. “Impero irresistibile” è stato definito “l’impero del mercato” americano in un recente libro di Victoria De Grazia, che naturalmente riprende provocatoriamente il tema della definibilità della superpotenza statunitense come “impero”[14].

La necessità o comunque la volontà programmatica di coordinare e razionalizzare le differenti realtà territoriali costituenti il dominio di una potenza, a partire dai possessi coloniali, venne tradotta negli Anni Settanta del XIX secolo dal Disraeli nella formula imperial federation, che avrebbe dato luogo alla formulazione di un concetto nuovo, l’imperialismo, attorno al quale si è andata formando come sappiamo una vasta problematica. Esauritasi o comunque almeno in parte storicizzatasi la polemica sugli “imperialismi” classici, antichi e moderni[15], un’altra se n’è andata avviando, negli ultimi decenni, a proposito della presenza nel mondo della superpotenza americana: tale polemica è divenuta più forte a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, in coincidenza con il crollo dell’Unione Sovietica e quindi del sistema di egemonia mondiale diarchico fondato con la Conferenza di Yalta del 1945 e perpetuatosi quindi attraverso le fasi della “guerra fredda” e della “coesistenza pacifica”.

Prima di affrontare con qualche dettaglio in più la questione statunitense, cerchiamo quindi di avviarci a una definizione accettabile d’impero. Abbiamo visto che nella società romana antica il concetto d’imperium era utilizzato per indicare un potere supremo in grado di mantenere uno stato di pacifico ordine in tutto il genere umano. Il modello storico romano è imprescindibile quando si voglia definire, in senso generale ma con una qualche concreta aderenza a fatti e istituzioni in qualche modo paradigmatici, un concetto del quale forse si abusa nel comune parlar politico e massmediale.

«Il termine ‘impero’ e gli aggettivi da esso derivati, ‘imperiale’ e soprattutto ‘imperialistico’, hanno acquisito oggi un significato peggiorativo, viste le associazioni negative dei contenuti politici, verificatesi negli ultimi tempi. Ciononostante il termine ‘impero’ rimane utile non soltanto perché esprime un’epoca, ma anche perché nel linguaggio della scienza continua ad indicare con alcuni aggettivi i fenomeni che distinguono certi organismi statali: le grandi superfici, i popoli multietnici, l’espansione politica, la formazione della consapevolezza culturale e statale della classe dominante e così via»[16].

 

VII

 

Alla luce di quanto si è finora detto potremmo provvisoriamente concludere che, per quanto la parola sia diventata d’uso molto comune per indicare in genere un potere sterminato su qualcosa o qualcuno, per propriamente parlare d’impero sarebbero necessarie cinque condizioni:

1.              l’autocoscienza diffusa e legittimata, da parte di chi ne costituisce il centro e il vertice, d’una missione universalistica (tu regere populos imperio Romane memento) obiettivo della quale è i lmantenimento d’una pace garantita dalla giustizia: ciò costituisce la base etica di qualunque cultura imperiale, e di solito si collega a valori di tipo religioso-sacrale; si può dire – per quanto la distinzione sia in termini concreti difficile – che la consapevolezza del carattere universale dell’impero e della sua specifica “sacralità” distingua la Weltanschauung autenticamente imperiale da quella più propriamente imperialistica, che in un sistema di potenze collegate fra loro mira anzitutto e soprattutto agli interessi di quella dominante;

2.              l’autoconsiderazione, da parte di quel centro, di se stesso quale detentore di plenitudo potestatis: quindi conditor legis, fons legum e legibus solutus, cioè superiorem non recognoscens;

3.              una forza militare adeguata a sostenere quell’autocoscienza e quell’autoconsiderazione;

4.              la capacità di concepire un sistema di relazioni diversificate, pensate sulla base di criteri che variano secondo le aree storiche, la pluralità delle istituzioni con le quali l’autorità definita o autodefinitasi “imperiale” si confronta, le regioni geografiche e le concrete circostanze che volta per volta si presentano;

5.              la capacità di selezionare élites in grado di governare l’impero scelte tra i cittadini del centro dominante o dai paesi sottomessi, ma in entrambi i casi fedelmente e consapevolmente compartecipi della Weltanschauung imperiale.

 

VIII

 

E’ piuttosto arduo rinvenire, nella concreta fenomenologia storica, dei casi che si attaglino sul serio a questi modelli, e che lo facciano a lungo. Non discuteremo in questa sede se e fino a che punto il sistema monarchico dell’Egitto faraonico, o quello di Alessandro Magno, o gli imperi achemenide, arsacide o sasanide dell’antica Persia, o quello tribale mongolo genghizkhanide, o quello cinese del periodo soprattutto del periodo Han, o quello turco ottomano, o quello czarista dei granprincipi moscoviti e quindi dei Romanov, o quello etiope, o quello neo-persiano dei Pahlavi, possedessero questi cinque requisiti. Tanto meno c’impantaneremo in discussioni riguardanti maya, aztechi o incas, che oltretutto dovremmo condurre penosamente di terza o di quarta mano. Limitiamoci alla storia “del nostro Occidente”, come si usa dire: nella quale non sarebbe obiettivamente lecito includere quello che resta tuttavia il modello, l’impero romano, esperienza mediterraneocentrica tanto importante anche nelle tradizioni bizantina, persiana, russa, ottomana ed etiope, ma tuttavia divenuta profondamente paradigmatica nel mondo occidentale. Tuttavia, nella storia “occidentale” propriamente detta – nella quel si è parlato anche di “imperi” veneziano, portoghese, olandese e via dicendo, sembra che soltanto due casi possano sul serio esser definiti, in senso proprio sotto i profili storico, istituzionale, militare e politico (e considerando, appunto, il modello romano come “unità di misura”), imperi: il Commonwealth britannico e la monarchia asburgica spagnola, la Monarquía de España[17], che peraltro solo al tempo di Carlo V ha coinciso con il Sacro Romano impero[18].

Questi due casi si sono distinti, in tempi, circostanze e contesti diversi, e naturalmente con molte eccezioni, anche per ragioni che andrebbero (e peraltro sono stati in molti casi di opere storiche) eseminate anche a livello psicoantropologico: la capacità di formar élites capaci di guardar oltre ai loro interessi individuali, familiari, di gruppo e di “casta” e di mantenere una ferma lealtà nei confronti del potere centrale dal quale dipendevano. In altri termini, ci furono molte “suocere dell’impero” sia nel caso inglese (si può dire fino al XX secolo) , sia in quello spagnolo (almeno fino alle paci di Westfalia e dei Pirenei, in pieno Seicento). Se le “suocere dell’impero” spagnolo avessero retto ai traumi sette-ottocenteschi, la storia del continente americano avrebbe potuto essere molto differente. C’è da chiedersi peraltro se la condizione di “mediocrità” propria per esempio delle élites dell’ “impero” olandese, ch’era funzionale al carattere di esso ma che alla lunga ne determinò la decadenza, non potrebb’essere riscontrata anche in altri casi[19]. C’è ad esempio da chiedersi che cosa sia accaduto nella colonie portoghesi, dal Brasile al Sudafrica al Sudest asiatico, nonostante la profonda e robusta cultura imperiale che si riscontra a livello culturale ininterrotta, dalle Lusiadas fino al sebastianismo di Fernam Pessoa. Il modello olandese, ch’è stato ben studiato, meriterebbe forse di esser messo in confronto con i casi “imperiali” portoghese e anche francese per spiegarne la labilità rispetto a quelli inglese e spagnolo.

 

IX

 

In tutti i casi che non siano questi ultimi dunque, al livello di lessico istituzionale, sarà ovviamente legittimo sul piano formale definire come “impero” qualunque stato che tale si sia autodefinito: compresa in certi periodi del medioevo la monarchia castigliana, che con l’assunzione di tale termine intendeva sottolineare la sua autocefalia giuridica rispetto alle pretese ecumeniche romano-germaniche sostenute dal diritto romano. Ma dal punto di vista sostanziale, sotto il profilo storico-sociologico, opportuno sarebbe intendere la parola “impero” come sempre inclusa tra virgolette, specie nei casi di quelli che definiamo “imperi coloniali” o “egemonico-nazionali”, caratterizzati dal controllo di una potenza dominante. Vale la pena di aggiungere, richiamando i due imperi “occidentali” britannico e spagnolo, che siamo in entrambi i casi dinanzi a processi d’integrazione tra il possesso di terre emerse e il controllo degli oceani. Siamo in altri termini di fronte appunto a quel dato che Schmitt, in polemica con Jünger, ha definito caratteristico dell’Occidente, l’insieme terra-mare contrapposto al potere esteso sulla massa continentale. Gli imperi occidentali sono sempre Leviathan, mai Behemoth. Da questo punto di vista, quelli napoleonico, hitleriano e staliniano[20] potrebbero a loro volta aspirar alla candidatura di Behemoth, d’imperi continentali: e quindi, sul piano d’una definizione rigorosamente schmittiana, imperi “orientali” (non solo l’ultimo, ma anche i primi due: il che non sarebbe tutto sommato forse dispiaciuto al generalissimo Stalin, mentre senza dubbio sarebbe risultato alquanto sgradito al Primo Console poi Imperatore dei Francesi[21], e più ancora al Führer und Kanzler)[22].

E’ dunque possibile metter da canto il Primo e il Secondo Impero francesi, pur senza contestare la loro formale denominazione che del resto era internazionalmente accettata, ma che si proponeva su un piano differente da quello all’interno del quale possono valere le cinque regole da noi enunziate; astrarre altresì dagli altri “modelli istituzionalmente imperiali” ottocenteschi – come quelli latinoamericani del Brasile dei Braganza e dell’effimero Messico asburgico –; e porre semmai il caso degli Stati Uniti dopo il 1945, e ancor più dopo il 1991, accanto ai venerabili modelli del Commonwealth e della Monarquía, come terzo autentico caso imperiale occidentale, terzo Leviathan della storia moderno-contemporanea?

Per quanto oggi buona parte dell’opinione pubblica statunitense rifiuti per il suo paese e la sua storia la qualifica di “imperialista”, avvertita come negativa in quanto storicamente collegata con un impero specifico, quello britannico, dal quale e contro il quale i coloni del 1774 si erano ribellati, stiamo per contro assistendo sia a una crescente e in qualche caso orgogliosa accettazione dell’analogia tra impero romano e “impero” statunitense da parte di esponenti tanto del conservatorismo classico quanto del pensiero neoconservatore, sia all’affermarsi di una nuova tesi a prevalente carattere etico, secondo la quale la forza militare degli Stati Uniti sarebbe tesa all’affermazione dell’ «imperialismo dei diritti umani»[23]. In altri termini, si sta sviluppando un “sistema imperiale” che di per sé è ragppresentato dall’equilibrio internazionale, ma all’interno del quale i governi degli Stati Uniti gestirebbero – con piena sovranità - una forza militare garante di cause umanitarie: così ad esempio nel 2003 il “Wall Street Journal” ha potuto sostenere che la campagna navale britannica condotta a metà Ottocento per stroncare definitivamente la tratta degli schiavi potrebbe costituire il modello (e il precedente?) etico e giuridico per un’azione militare tesa ai giorni nostri a impedire la proliferazione delle armi nucleari[24]. D’altra parte però anche i più rigorosi nell’esorcizzare l’idea di un’America “imperiale” debbono far i conti col tema – caratteristicamente imperiale – della “conquista del mondo”. E’ stata appunto Victoria de Grazia a partire da un’espressione del presidente Wilson, «lotta per la conquista del mondo con mezzi pacifici», per coniare la definizione di Impero del Mercato, del quale essa sottolinea la «natura sostanzialmente non militare»[25].

Al riguardo si possono già proporre alcune osservazioni. Dato il carattere universale della Constitutio Antoniniana , grazie alla quale l’Urbs e l’Orbs venivano in effetti a coincidere – e lo si vede bene dall’origine degli imperatori dei secoli III-V: iberici, illirici, traci, africani, siro-arabi e così via –, un’analogia possibile rispetto all’impero romano si potrebbe proporre piuttosto riferendosi alle Nazioni Unite. Ma in questo senso lo scoglio è che, mentre le Nazioni Unite sono almeno formalmente il risultato di una convergenza di governi e di volontà sovrane che concordemente accettano di reciprocamente limitare la loro sovranità (dal che – sempre in teoria – dovrebbe scaturire un equilibrio mondiale), nell’impero romano in realtà tale equilibrio fu imposto e garantito fondamentalmente da un solo popolo (o comunque dall’impegno della classe dirigente di esso) che, dopo aver militarmente assoggettato l’ecumène (o almeno quella circummediterranea), estese ad essa i propri diritti e in qualche modo la propria identità. Ora, se impero romano e ONU non sono paragonabili perché a questa manca l’elemento propulsivo unitario ch’era caratteristico di quello, impero romano e “impero” statunitense non lo sono perché l’espandersi della potenza statunitense non è mai stata accompagnata (salvo il caso delle Hawaii, annesso nel 1989 come State dell’Unione) a un espandersi del diritto di cittadinanza della potenza egemone su quelle a vario titolo subordinate, né alla dichiarata sovranità della prima su nessuna delle seconde. Ciò ha dato modo a molti politici e storici statunitensi di sostenere che gli USA non si possono definire un impero: non lo sono se si pensa a quelli di modello “ecumenico”, quale il romano almeno dopo il 212; ma nemmeno se ci si riferisce a quelli di modello “coloniale” (dalle città marinare italiane dei secoli XI-XVIII ai differenti imperi spagnolo, portoghese, olandese, inglese e francese, dove lo statuto delle colonie era quello di sudditanza alla madrepatria e dove talvolta – come nei casi inglesi, francese e per un breve periodo, rispetto alla Libia, anche italiano – alcuni “territori d’oltremare” vennero integrati come parte del territorio metropolitano). Qui le analogie tra mondo antico e mondo contemporaneo divengono pericolose e imbarazzanti: l’ONU somiglia molto al regime della koinè eirene tra le poleis greche, stipulato per la prima volta nel 386 a.C. e fallito proprio perché non sorretto da alcuna potenza egemone, bensì risultato dell’unione paritaria di molte debolezze, tutte abbastanza in malafede, che non ressero all’urto della superpotenza macedone. D’altronde però, se vogliamo istituire confronti plausibili, si deve dire che l’impero statunitense contemporaneo sembra semmai simile al sistema ateniese della “polis tiranna”, ch’era promotrice e protagonista di alleanze in principio paritarie ma che si evolvevano come rapporti sempre più squilibrati fra la città dominante e le alleate, nella pratica suddite per quanto non formalmente tali. Un analogo sistema si affermò nel caso della repubblica fiorentina tra XIV e XV secolo, nel rapporto tra la “Dominante” e gli altri centri della regione. Durante la “guerra fredda”, USA e URSS avevano messo in pratica due sistemi, paralleli e speculari per quanto ricchi di variabili, di questo tipo: nei quali – all’interno dell’area d’influenza di ciascuna di esse – era impossibile per gli stati-satelliti mutar regime. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, tale sistema si è diffuso in tutto il mondo componendosi con una difficile convivenza con il sistema dell’ONU, e naturalmente configurandosi come una sorta di “egemonia monopolare imperfetta”, dal momento che da essa sfuggono si può dire totalmente la Cina e per ora l’Iran, e in modo parziale Russia e India (mentre diplomazia e politica statunitensi fanno il possibile per evitare che anche l’Europa, portando avanti il suo programma unitario, finisca in qualche modo per accostarsi nei loro confronti al modello di semindipendenza russa o indiana). D’altronde, che quello statunitense sia definibile come un “impero” (le virgolette fanno aprte della definizione) dotato di tratti coloniali in qualche modo riconducibili al modello coloniale “classico”[26], al di là dell’assenza di un’analogia formale (gli USA non hanno né colonie né protettorati istituzionalmente definibili come tali sotto il profilo formale)[27], lo si verifica nel costante sostegno fornito dai suoi governi alla dimensione del national interest e al non meno costante rifiuto di accettare da parte della comunità internazionale un trattamento paritario rispetto agli altri paesi (per esempio il rifiuto dell’accettazione del principio secondo il quale i soldati statunitensi possano esser giudicati da un tribunale internazionale o comunque da tribunali diversi da quelli del loro paese, come accade invece per tutti gli altri stati del mondo).

 

X

 

A questo punto, bisogna riconoscere che il concetto di “impero” (o solo l’immagine di esso, dal momento che la sua concettualizzazione risulta così problematica e l’uso del termine appare in molti osservatori così vago e disancorato da una problematica storica e giuridica seria?) può anche continuar a venir usato, quanto meno – appunto – tra virgolette: ma che la sostanza del problema sembrerebbe ricondurre a un tema oggi forse desueto, quello suscitato negli Anni Ottanta «da alcuni teorici neorealisti delle relazioni internazionali (Gilpin, Waltz, Kaohane)» che, «discutendo della nozione di ‘impero’, la contrappongono a quella di ‘egemonia’, e tra i due concetti»[28] «optano decisamente per il secondo. Keohane, in particolare, ha elaborato con notevole successo la nozione di egemonic stability, che assume il primato di una o più grandi potenze come fattore di stabilizzazione delle relazioni internazionali e concepisce questo primato in termini molto lontani dall’idea di una conflittualità espansionistica permanente, secondo il modulo imperiale classico»[29]. Criticando con rigore la tesi di Hardt e Negri, Mario Telò ha peraltro suggerito di liberarsi altresì dei vincoli del concetto gramsciano di “egemonia” per utilizzare piuttosto quello di “supremazia” statunitense. Secondo il Telò, l’“egemonia” avrebbe caratterizzato il ruolo degli USA nel trentennio circa successivo alla seconda guerra mondiale (un’area cronologica, questa, che andrebbe forse ampliata all’intera parabola della diarchia mondiale sovietico-statunitense e delle “guerra fredda”, poi avviata al “dialogo” parallelo al “disgelo”), per essere poi sostituita, nel XXI secolo (ma già dagli Anni Novanta?), dalla “supremazia” statunitense: la differenza tra i due concetti non è puramente lessicale, in quanto, mentre l’“egemonia”, ancora in termini gramsciani, «era una forma di consenso ‘corazzato’ dal dominio militare ed economico», la «“supremazia” è priva dell’elemento del consenso»[30]. La critica del Telò mira a colpire il concetto di “impero deterritorializzato”, quindi di dominio “despazializzato” dell’ “impero” statunitense, e giunge in quest’ottica a sostenere che non sia paradossale parlare semmai, nello specifico caso di esso, di “sovranismo”: difatti «è vero che gli USA si avvalgono di funzioni transnazionali e funzioni deterritorializzate, ma sulla salda base di un potere politico nazionale, capace ancora di conciliare, quasi ‘schmittianamente’ in momenti e questioni d’eccezione, l’interesse nazionale con l’azione internazionale, riorganizzando spazi geopolitici»[31]. Ora, si può anche parlar di “supremazia” anziché di “egemonia”: ma l’elemento del “consenso corazzato”, assente nel primo caso mentre era presente nel secondo, resta alquanto ambiguo se non inquietante. Era un “consenso” obbligato dalla pressione militare ed economica (e anche politica), quello di cui godevano le potenze appunto “egemoni” durante la “guerra fredda” e comunque al tempo della diarchia magari “imperfetta”[32] esercitata sul mondo, mentre le condizioni di obbligatorietà si sarebbero modificate dalla fine del XX secolo? Oppure è invece, in senso assoluto, divenuto superfluo il consenso delle nazioni e dei popoli oggetto della supremazia statunitense attuale, dal momento che gli strumenti di creazione e di organizzazione del consenso sono ormai saldamente nelle mani delle élites in vario modo e a vario livello coinvolte e cointeressate nella gestione d’un mondo globalizzato in funzione appunto di quella “supremazia” e dei centri e lobbies che tale gestione “egemonizzano”, nel senso – ebbene, sì… - ancora veterogramsciano di tale verbo? E il “sovranismo” capace di «conciliare…l’interesse nazionale con l’azione internazionale» non si traduce forse in una politica internazionale condotta sempre, comunque ed esclusivamente in effettiva e coincreta direzione dell’ “interesse nazionale”, secondo i cànoni storici dell’imperialismo così com’è stato definito nel XIX secolo, sia pure con tutte le polemiche che ne hanno accompagnato la definizione? Si tratterà semmai, nel nostro specifico caso, di considerare se, in che senso e fino a che punto ormai quelli difesi dall’azione politica statunitense tra l’ultimo decennio del XX secolo ed oggi, cioè dal momento nel quale gli USA si sono trovati a esercitare il ruolo di superpotenza mondiale unica, fossero “nazionali”, in un tempo nel quale lo scollamento tra élites e “multitudini” – tanto per usare un termine che Hardt e Schmitt hanno immesso in un lessico politico ormai refrattario a utilizzare il desueto concetto di “masse” – appare evidente, in modi e forme diversi, in tutti i paesi del mondo, mentre la ricchezza si va sempre più concentrando nelle mani di pochi soggetti i quali, nella gestione di essa, appaiono d’altro canto sempre meno legati a una realtà “nazionale”, anche negli Stati Uniti. In altri termini: in tempi nei quali l’appello di Marx ed Engels, «Proletari di tutto il mondo, unitevi!», appare pateticamente (o, se si preferisce, tragicamente) dépassé, mentre al contrario sembrano sempre più uniti – per quanto attraversati da rivalità, discordie e contraddizioni – i gruppi imprenditoriali e i centri decisionali nei campi produttivo, economico e finanziario (insomma, l’appello marxengelsiano è stato accolto non già dai “proletari”, bensì dai “padroni”), che cosa significa concretamente parlar ancora di “interessi nazionali”? In che senso le aggressioni all’Afghanistan e all’Iraq, certo funzionali – anche se non è detto che si rivelino, alla lunga, vantaggiose neppure per loro – alla politica della Unocal o della Halliburton, giovano anche alla white trash che popola gli slums di Detroit? Ma non avrebbe anch’essa, questa miserabile white trash insieme con altre forme di racaille (tanto per usar una parola cara ai fiancheggiatori europei del “sovranismo” statunitense), diritto a una fettina dell’ “interesse nazionale” statunitense? E che cosa c’entrano, con tale interesse, i molti partners non-statunitensi delle corporations americane?

Insomma: secondo molti, lo scopo della presenza egemonica statunitense nel mondo è al tempo stesso quello di garantire quel ch’è stato definito “imperialismo dei diritti umani” (che farebbe dell’esercito degli USA il “poliziotto internazionale”, e del governo degli USA il “Ministero dell’Interni del mondo unito”) e di sostenere i national interests. Ci si trova dunque dinanzi alla pretesa di una costante identificazione degli human rights con i national interests. Un’identificazione possibile solo se ci si pone in un’ottica teologico-provvidenzialistica della storia. Tale identificazione, ancora almeno formalmente libera dalla necessità d’una giustificazione, era chiaramente proposta da un autorevole cittadino americano alle Nazioni Unite fino dal settembra del 1994, allorché il grande David Rockefeller dichiarava esplicitamente, in un discorso tenuto al Business Council dell’ONU nel quale si sottolineava l’importanza della congiuntura aperta con la fine della diarchia sovietico-statunitense: «L’attuale apertura d’opportunità, attraverso la quale si può costruire un mondo veramente pacifico e interdipendente, non rimarrà aperta per lungo tempo. Siamo alla vigilia d’una trasformazione globale. Tutto quello che ci serve è la giusta crisi maggiore e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale»[33].

Di questo Nuovo Ordine Mondiale gli Stati Uniti non sono – in quanto entità statuale pubblica – i diretti detentori e gestori in linea istituzionale e giuridica: la loro forza militare ne è, semmai, la garante[34]. Ma allora, ammesso (e non proprio concesso) che tutto ciò sia lecito e accettabile al di là della costrizione che deriva dai concreti ed effettivi rapporti di forza, il punto diviene un altro: sono in grado di esserlo? E’ proprio sotto il profilo militare che gli USA si trovano in effetti a dover affrontare di nuovo il problema caratteristico degli imperi coloniali. Non ci si può fidare dell’esercito di leva, che a lungo andare non sopporta di dover sostenere guerre in paesi lontani delle quali non comprende né la giustificazione, né il bisogno; ci si è adattati a rivolgersi alla National Guard, ma c’è da chiedersi se i cittadini-soldati, i “soldati del week-end”, siano adatti a un impegno costante e continuativo come quello che potrebbe configurarsi ancora a lungo in Iraq e in Afghanistan; in un modo o nell’altro, si deve pertanto ricorrere ai costosi contractors, ai mercenari, oppure organizzare formazioni militari coloniali fatte d’indigeni ( che ricordano da vicino i gurka, i sepoys, gli “ascari” e via discorrendo, con tutti i rischi e i limiti in quei casi noti). Dopo che l’esercito dell’Iraq saddamista fu dissolto, nel 2003, il “governatore” Paul Bremer non trovò di meglio che auspicarne una sua rapida rinascita nel duplice obiettivo di ristabilire l’ordine e di ridurre la disoccupazione nel paese. La situazione somiglia abbastanza da vicino a quella maturata in India dopo lo scioglimento delle milizie armate della Compagnia delle Indie: senza l’Indian Army, l’impero britannico avrebbe cronicamente sofferto di una mancanza di forze militari. Per questo Lord Salisbury poté affermare che l’India era «an English barrack in the Oriental Sea from which we may draw any number of troops without paying for them»[35]. L’alternativa, per gli Stati Uniti, è ricorrere per rinforzi all’ONU o alla NATO: anche da qui la necessità di smantellare di fatto la prima senza riformarla (una riforma darebbe alle istituzioni internazionali forza e autorevolezza nuove) bensì sostituendola con “coalizioni” organizzate volta per volta secondo la necessità e di mantener costantemente e rigorosamente egemonizzata la seconda.

D’altronde, quel che sembra mancare all’ “impero americano” per esser veramente tale, in senso “universalistico” o in senso “colonialistico”, è una strategia positiva generale: gli USA non intendono né conquistare direttamente e politicamente il mondo (altra cosa è la prospettiva wilsoniana indicata dalla de Grazia), né assumersi direttamente l’incarico di proteggere direttamente il genere umano. Essi si limitano a cercar di regolare il disordine del mondo attraverso coalizioni di circostanza, al di fuori del diritto internazionale; essi praticano sistematicamente la repressione dei sintomi di disagio e di disperazione o il perseguimento dei crimini terroristici, senza affrontare il tema delle cause profonde di tale disagio, di tale disperazione, e tanto meno proponendone una terapia. Ciò avviene perché in realtà i governi statunitensi sono espressione d’una classe politica in parte “comitato d’affari” delle imprese multinazionali, in parte espressione diretta di esse e dei loro interessi: la conduzione aziendalista del mondo degrada gli eserciti al rango di organizzazioni di vigilantes privati che si occupano solo di tutelare l’ordine e i diritti delle imprese che li hanno ingaggiati e impedisce il progredire di forme di più profonda giustizia, le sole che potrebbero far progredire quella “pace nell’ordine” ch’era condizione fin dall’antichità indispensabile perché un impero potesse dirsi legittimo. Siamo di fronte a quel ch’è stato definito “il caos imperiale”[36].

In tale prospettiva, si può dire che centro e protagonista dell’impero siano non già gli USA con il loro governo, il loro esercito e i loro interessi, bensì una nuova e complessa entità sovranazionale, internazionale e anazionale, un “impero” senza confini e senza limiti, senza centro e senza periferia, guidato da una élite internazionale di gruppi imprenditoriali e finanziari. Come sosteneva Polibio, l’impero è sintesi delle tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia): se accettiamo questo schema, nell’impero del nuovo millennio la monarchia è costituita dal monopolio della forza militare detenuto direttamente e indirettamente dagli USA e di quella politica garantito dagli organismi come Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale che regolano il flusso del danaro; l’aristocrazia dalle grandi multinazionali che controllano produzione, distribuzione, prezzi, salari e consumi; e infine la democrazia dai rappresentanti del potere politico degli stati rappresentati da e nell’ONU[37] nonché dai rappresentanti delle Organizzazioni Non Governative, che controllano i governati e ne assicurano la funzionalità rispetto alla gestione del potere così organizzato[38].

Non si può quindi affermare con leggerezza che gli Stati Uniti d’America siano a capo di un “impero”, o un “impero” essi stessi. Il popolo statunitense, a differenza del senatus populusque Romanus, non si è mai esplicitamente proclamato depositario di un potere che, originariamente ristretto al territorio degli U.S.A., si sia col tempo trasformato non solo in mondiale ma – e questo è davvero un punto sul quale il giudizio da formulare sarebbe complesso – universalistico. Tuttavia, secondo lo schema che abbiamo mutuato da Polibio, il potere ufficiale degli Stati Uniti presidia almeno formalmente gran parte della prima tra le forme di governo nell’impero sintetizzate, la monarchia, col suo controllo sulle armi; ma i suoi ceti dirigenti ed emergenti, i suoi “cittadini eccellenti”, si ritrovano puntualmente a presidiare anche le altre due, l’aristocratica oggi rappresentata dalle élites e la democratica incarnata nelle masse. Resterebbe da capire appieno fino e che punto l’aristocrazia di quei cittadini dotati di speciali mezzi di potere politico, economico, finanziario, tecnologico, culturale e massmediale abbia occupato e privatizzato – “allodializzato”, si sarebbe detto nel medioevo – i pubblici poteri statunitensi.

Si può dunque affermare che, con gli Stati Uniti d’America, ci si trova dinanzi a una grande potenza egemonica che si pone al di sopra di qualunque altra potenza o formazione statale; che detiene – unica ormai al mondo – la plenitudo potestatis; che è  la sola a esercitare la sovranità illimitata (che dai trattati di Westfalia in poi era considerata sul piano dello ius publicum Europeaeum condizione irrinunziabile per qualunque stato) in un mondo di sovranità limitate; che ritiene se stessa nella pratica (e giunge magari a pretendere dai suoi partners in qualche modo anche un riconoscimento giuridico-formale di ciò ) tanto fons iuris quanto conditrix legis e pertanto legibus soluta:  mentre tutti gli altri stati, popoli e nazioni, raccolti in qualunque forma di sodalizio sovrastatale e sopranazionale, collegialmente uniti in qualunque tipo d’istituzione rappresentativa dotata di qualunque livello di autorità deliberante, possano a loro volta ambire solo a una sovranità limitata e guardare ad essa come la coordinatrice e l’armonizzatrice suprema?

Ma, se non saranno capaci di risolvere sul serio il contrasto tra human rights e national interests, se gli interessi della loro Urbs non coincideranno davvero con quelli dell’intero Orbs , gli Stati Uniti d’America resteranno solo un Leviatano che impone al mondo e sul mondo non solo la sua autorità e il suo potere appoggiati alla sua forza militare e alla sua moneta, ma anche il suo arbitrio, i suoi interessi, il suo modo di vivere e di pensare, il livellatore “pensiero unico” del quale esso è portatore e che appiattisce e annulla le diversità esportando il suo way of life senza ormai produrne più neppure le merci, che vengono prodotte altrove.

 

XI

 

A meno di non concluderne che sono anch’ essi governati da un’élite sempre meno espressione – non solo sostanziale, ma anche formale: vista la sempre maggiore frequenza di processi decisionali sottratti  a qualunque forma di controllo elettorale e di verifica pubblica - di una volontà “collettiva” o comunque “generale”, e sempre più collegata a sua volta ad altre similari élites sparse per tutto il mondo, ma concentrate comunque fra Stati Uniti, Canada, Europa, Giappone e Australia[39]: costituite nella loro totalità, o quanto meno in gran parte, di CEO (Chief Executive Officers)[40], alcuni dei quali vengono introdotti nelle istituzioni dei vari stati attraverso meccanismi elettorali democratici certo – nel senso che oggi si dà a questo termine -, e magari formalmente corretti, salva la riserva di finir con lo svolgersi (non è detto sempre del tutto consapevolmente) il ruolo di componenti di “comitati d’affari”, mentre altri lavorano direttamente inseriti in imprese a carattere multinazionali gli interessi delle quali – intendiamoci – sono ben lungi dall’essere comunque in coerente e costante accordo reciproco[41].

Non c’è insomma posto per ipotesi di Complotto Universale o per fantasie dietrologiche di sorta, magari dissimulate sotto il pretesto di chissà quale ingegnoso paradigma indiziario. Il Grande Complotto, si può esserne (quasi) certi, non esiste; non c’è alcuna Tavola (né rotonda, né di altre forme geometriche) attorno alla quale seggano Superiori Sconosciuti. Ma disegni e programmi formulati per seguire interessi particolari di lobbies e di corporations da personaggi e da gruppi che contano al di fuori e al di sopra della legalità interna e internazionale: questi sì, ce ne sono parecchi; per quanto si cerchi in tutti i modi al livello di mass media di non farne trapelare esistenza ed attività di non farne trapelare esistenza ed attività[42]. E le sedi delle corporations, dei clubs, delle banche, delle imprese, dei pools in cui essi vengono progettati sono ben fornite di stanze dei bottoni, di tavoli, di poltrone e di computers, sia pur non immuni dagli attacchi degli hackers. Il bellum omnium contra omnes che potrebbe costituire, oggi, l’autentica e più profonda sostanza della lotta per il potere mondiale ha le sue regole, come sempre: che possono essere altresì tradite e disattese, come dappertutto.

In altri termini, ci si potrebbe chiedere quale sia il rapporto fra l’effettivo potere detenuto e gestito, oggi, dal governo degli Stati Uniti d’America e il processo di globalizzazione. Ma in questi termini la domanda è mal posta. La vera e fondamentale questione è un’altra: quali sono le forze reali che sostengono, in parte controllano e in parte direttamente costituiscono il governo degli Stati Uniti d’America? Di quale potere sovrano esso è rappresentante, di quale sovrana volontà esso è l’esecutore, al di là delle forme giuridiche preposte a legittimarlo? E’ sua la detenzione del potere “imperiale”? Oppure dietro ad esso come dietro ad altre forze, attualmente “in presenza” nel mondo, si cela un “impero invisibile” che in realtà è irresponsabile - nel senso etimologico del termine: che cioè non è responsabile, non deve rispondere delle sue azioni perché nessuno è in grado di chiamarlo a risponderne – dinanzi ai suoi sudditi, che neppure sanno (o, almeno, non con chiarezza) di esser tali?[43] O ci troviamo in tutto il mondo, in effetti, out of control, in un caos ingovernabile per quanto i suoi effetti deleteri non siano ancor emersi, come sosteneva in anni non sospettabili Zbigniew Brzezinski[44], e il mondo sta volando in frantumi?

E’ evidentemente presto per fornire una risposta a quesiti del genere. Tuttavia, l’impressione che l’equilibrio inaugurato alla fine degli Anni Ottanta del secolo scorso, con la fine della “Guerra Fredda”, sia ormai compromesso e che il tempo dell’egemonia d’una sola superpotenza mondiale stia volgendo al suo termine[45], può non essere ingiustificata se guardiamo all’emergere di altri soggetti sulla scena internazionale e alla crescente esigenza, da molte parti manifestata, di ridefinire nuove forme di equilibrio multilaterale.

 

 



 

[1] La fortuna del libro di M.HARDT –A. NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, tr.it., Milano 2002, uscito in originale versione inglese per la Harvard University Press nel 2000, ha provocato una vasta discussione – i cui termini non richiameremo, in questa sede, se non episodicamente – nella quale sono entrati, a titolo di esempio (e per riferirmi ad alcuni studi che mi sono stati più utili nella stesura di queste pagine): M. CACCIARI, Digressione su impero e tre Rome, in Micromega, 2001, 5; IDEM, Ancora sull’idea di impero, in Micromega, 2002, 5; T. NEGRI – D. ZOLO, L’impero e la multitudine. Un dialogo sul nuovo ordine delle globalizzazione, in Reset, sett. 2002; F. TEDESCO, Affrettate tanatografie. Verso un nomos imperiale?, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, LIII, 20003, 1; D. ZOLO, Usi contemporanei di “impero”, in Filosofia politica, XVIII, 2004, 2; F. TEDESCO, Impero latino e idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 35, 2006, 373-401.

 

[2] Cfr. L. CANFORA – M. SORDI, New York, l’antica Roma e il destino degli imperi, in Vita e Pensiero, 4, 2005,  72-78.

 

[3] Aen., VI, 851-52.

 

[4] Aen., I, 279. E’ lo spirito del celebre inno imperiale inglese, Rule Britannia.

 

[5] Cfr. A. STEPHANSON, Il destino manifesto, tr. it., Milano 2004; C. MAIER, Among Empires, Harvard MA 2006.

 

[6] De providentia, IV, 14. Le due supreme funzioni dell’imperatore secondo il De Monarchia di Dante, sono quelle di legislatore universale per le fondamentali materie di generale interesse comune e quello di giudice inappellabile nelle controversie tra qualunque tipo di realtà politico-istituzionale. Tali supreme funzioni di legislatore e di giudice sono garanzia di pace intesa quale massima garanzia di bonum commune, intrinsecamente connessa con la giustizia (l’imperatore deve garantire iustitia et pax, inscindibili: ma declinabili rigorosamente in quest’ordine): tali prerogative consentono all’imperatore, che guida la Sancta Romana Res Publica solo in temporalibus (mentre la sua guida in spiritualibus spetta al papa: ma questo vale, evidentemente, solo per la Cristianità latina: varrà come legge effettivamente universale solo alla fine dei tempi, quando tutti i popoli saranno un solo gregge sottomesso al solo Vero Pastore, del quale papa e imperatore sono vicari ciascuno nella sua sfera), di adempiere alla sua funzione di guida della “città terrena” verso la felicità quale può configurarsi nella vita terrena.

 

[7] Il concetto di imperium designava, in Roma antica, il potere dei magistrati supremi, comprensivo degli aspetti giurisdizionali (civili e penali) e militari; esso andava distinto dalla potestas, potere aministrativo delle magistrature minori. Durante il periodo regio, l’imperium spettava al re, era illimitato e dotato di carattere sacrale; nella repubblica il popolo, suo detentore, lo demandava attraverso i comizi curiati ai due consoli, che avevano facoltà di affidarlo, in eventuali momenti d’emergenza, a un solo dictator. Casi di esercizio straordinario dell’imperium, esercitato anche al di fuori della magistratura, si registrano in casi come quello di Scipione l’Africano, di Pompeo e, sulla base del precedente pompeiano, di Ottaviano nel 27 a.C. (egli lo mantenne anche dopo la scadenza del suo consolato, nel 23 a.C.). La “perfezione” dell’autorità imperiale esercitata da Ottaviano fu raggiunta dal cumulo perpetuo di tribunicia potestas, di Imperium proconsulare maius e, dopo il 12 a.C., del ruolo di pontifex maximus. In età imperiale, l’imperium veniva riconosciuto a ogni imperatore al momento dell’ascesa al trono: la consuetudine trova la sua origine e il suo fondamento nell’acclamazione imperatoria conferita il 18 marzo del 37 d.C. dal senato a Caligola (praticamente, un fittizio triumphus).

 

[8] Aurelii Augustini De Civitate Dei, II, 29; per Dante, cfr. soprattutto Convivio, IV, 10.

 

[9] Se per “impero perfetto” intendiamo la realtà storica e istituzionale che attua in qualche modo le cinque condizioni descritte infra.

 

[10] Fondamentali, al riguardo, le riflessioni di Nicola Di Cosmo, dell’Institute for Advanced Studies , nella relazione sul tema Foreign merchants in the Mongol empire and the “Expansion of Europe” in the Fourtheenth Century, presentata durante il convegno Empires: from ancien to contemporary times, tenutosi a New York il 27-28 gennaio 2006 a cura del Department of Italian Studies della New York University e dell’ Istituto Italiano di Scienze Umane.

 

[11] Aurelii Augustini De gratia Christi, II, 17, 18.

 

[12] In realtà, in seguito al trattato di Presburgo del 1805 che aveva sancito il distacco dall’impero della Baviera, del Württemberg, del baden e di altri vari stati minori germanici, ch’erano andati a costituire la Confederazione Renana sotto la protezione francese, il 1° agosto del 1806 Napoleone fece annunziare alla Dieta imperiale, riunita a Ratisbona, di non riconoscere più l’esistenza del Sacro Romano Impero; in seguito a ciò Francesco II, che già dal 1804 – cioè dall’indomani dell’assunzione della nuova corona imperiale “dei francesi” da parte di Napoleone – aveva preso a farsi chiamare “imperatore ereditario d’Austria”, rinunziò “spontaneamente”, il 6 agosto, alla corona romano-germanica.

 

[13] Per gli imperi occidentali: AA.VV., Les empires occidentaux de Rome à Berlin, éd. A. Tulard, Paris, PUF, 1997.

 

[14] V. de GRAZIA, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, tr.it., Torino 2006: un libro da leggere in contrappunto con S. PROULX, Il Libro Nero delle multinazionali americane, tr.it., Roma 2005.

 

[15] Per cui cfr. W.J. MOMMSEN, Imperialismus-theorien, Göttingen, Vandenhoeck-Ruprecht, 1977: D. ZOLO, Usi contemporanei, cit., part., 183-91.

 

[16] H. FOKCIŃSKI,  Polonia e Turchia crocevia degli imperi tra Sei e Settecento, in AA.VV., L’Europa centro-orientale e il problema turco tra Sei e Settecento, a cura di G. PLATANIA, Viterbo 1999, 119.

 

[17] Cfr. H. THOMAS, I fiumi dell’oro. L’ascesa dell’impero spagnolo, tr.it., Milano 2006. Dopo la pace di Utrecht del 1713, la Spagna mantenne il suo impero coloniale ma andò mettendo in ombra il suo carattere anche culturalmente parlando “imperiale”, ch’era una dimensione indissolubilmente legata alla casa d’Asburgo.

 

[18] F. CARDINI – S. VALZANIA, Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Milano 2006.

 

[19] Ci riferiamo alla bella relazione di Ann Laura Stoler, della New School for Sociale Research, , sul tema “A Non-Incompetent Man”: genealogies of alliance and mediocrity of a Dutch colonial élite, presentata durante il convegno Empires, cit.

 

[20] Tre “imperi” dei quali il primo è tale anche sul piano della definizione formale; il secondo, pur mantenendo forme istituzionali repubblicane, si autodenomina letteralmente Reich, autoconsiderarsi anche Drittes in segno di continuità non già col primo, cristiano e universalistico, bensì col secondo, nazionale e germanico; quanto al terzo, va rilevato come al suo interno la funzione internazionalista bolscevica possa in qualche modo presentarsi come in un certo senso paragonabile all’universalismo. Peraltro bonapartismo, nazionalsocialismo e comunismo si sono obiettivamente configurati come “religioni civili”, con una loro “teologia politica” e un corrispettivo sistema simbolico-liturgico: cioè con una loro forma peculiare di “sacralità”, che appare intrinseca al concetto d’impero.

 

[21] E soprattutto, parrebbe in diretta linea di collisione con la Fenomenologia hegeliana: ma cfr. M. VEGETTI, Hegel e i confini dell’Occidente. La Fenomenologia nelle interpretazioni di Heidegger, Marcuse, Löwith, Kojève, Schmitt, Napoli 2005.

 

[22] E’ necessario, crediamo, partire proprio da Carl Schmitt per chiarire il concetto di “Occidente moderno”, o meglio, di «concetto contemporaneo di Occidente in quanto Modernità». A livello di semantica storica, può comunque essere utile W. FREUND, Modernus e altre idee nel Medioevo, tr.it. Milano, Medusa, 2001. Ai giorni nostri, è molto serrato appunto il dibattito sul concetto di Modernità correlato a quello d’Occidente. Va al riguardo sottolineato con forza che la nozione moderna di Occidente – un termine che aveva già, evidentemente, una lunga storia – nasce tra Sette e Ottocento «come una proiezione dello spazio europeo nella direzione dell’‘emisfero occidentale’ americano. Sia per Hegel che per Carl Schmitt l’Occidente tende a identificarsi come il ‘nuovo mondo’ che incorpora e porta a compimento la modernità europea, che ne universalizza i valori e le tensioni interne. E’ merito di Carl Schmitt l’aver tracciato, in Nomos della Terra, la genesi dell’uso politico globale – atlantico e oceanico – della nozione di Occidente» (D. ZOLO, recensione, su “Il Manifesto”, 15.10.2004, a G. PRETEROSSI, L’Occidente contro se stesso, Roma-Bari, Laterza, 2004; il Preterossi è, fra l’altro, fortemente critico nei confronti della contrapposizione neocon tra la “vecchia Europa” e l’“altro Occidente” che sarebbe costituito dalla giovane, forte e bellicosa America). Sul weberiano legame tra cristianesimo calvinista e nascita del capitalismo, reinterpretato però come nesso tra cristianesimo, libertà e “successo occidentale”, è tornato R. STARK, The victory of reason. How Christianity led to Freedom, capitalism and Western success, New York, Random House, 2005, in termini che parrebbero rivisitare il “classico” percorso weberiano ma che in realtà sono funzionali anche a una certa attualizzazione politica (e come tali sono stati salutati con entusiamo da ambienti neocon o ad essi vicini). Si veda, contra, come F. CARDINI e S. VALZANIA, Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Milano, Mondadori, 2006, interpretano la discarted image – a dirla appunto in termini desunti da Clive Staples Lewis – d’uno sviluppo “medievale” della storia europea, coerente in molti sensi con la proposta boccacciana quale abbiamo qui delineato, in termini di “occasione perduta” (anche se, tuttavia, di “modello possibile”).

 

[23] Secondo Dinesh D’Souza l’America è divenuta un impero, ma per fortuna è «the most magnanimous imperial power ever» (In praise of an American Empire, in Christian Science Monitor, 26.4.2002. Sulla stessa linea interpretativa il suo What’s so great about America, New York 2003); Sebastian Mallaby propone un “neo-imperialism” americano come rimedio contro il caos generato dai tanti “failed states” che infestano il mondo (cit. in N. FERGUSON, Colossus. The rise and fall of the American Empire, London-New York 2004, 5).

 

[24] Interdicting North Korea, in Wall Street Journal, 28.4.2003, 12. La tesi potrebb’essere utilizzata, attualmente, anche nei confronti del “caso” iraniano: ma è da notare che, a differenza della Corea del Nord, l’Iran sarebbe è obiettivamente lontano dal possedere armi nucleari e che le sue pretese, quanto meno formali, si arrestano al nucleare civile e non partono da alcuna contestazione del trattato di “non proliferazione”.

 

[25] V. de GRAZIA, , L’impero irresistibile, cit., XIII-XIX, passim.

 

[26] Che sembra essersi mostrato con evidenza, in particolare, nelle due guerre afghana e irachena del 2001 e del 2003, in realtà ancora in corso mentre stiamo scrivendo, nella primavera del 2007.

 

[27] Per quanto il caso delle “United States Virgin Islands” si presenti come un governatorato, Puerto Rico sia un “Estado Libre” associato agli USA, le isole Midway una dipendenza amministrata dalla Marina Militare, Guam e le Samoa un “territorio statunitense non incorporato” retto da un governatore, le Marianne settentrionali (tranne Guam) un “Commonwealth degli USA” e varie altre isole del Pacifico siano controllate da enti militari o civili statunitensi. Le repubbliche panamense e filippina dispongono di un’indipendenza formale, tuttavia molto limitata nella sostanza. Gli USA perseguono una politica di controllo di questi territori sulla base di specifiche esigenze a carattere esclsivamente strategico, il che non consente un confronto con vere e proprie istituzioni a a carattere coloniale “classico”. In questo contesto, si pensi al peso anche economico (ma altresì alle risorse che ad esso sono correlativo) delle basi statunitensi nel mondo (oltre 120 nella sola Italia, tra USA e NATO; 38 nella sola isola giapponese di Okinawa; e così via): cfr. C. JOHNSON, Le lacrime dell’impero. L’apparato militare, industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, tr.it., Milano 2005.

 

[28] F. TEDESCO, L’impero latino, cit., 374, che a sua volta richiama il passo dell’Autore da noi qui cit. subito infra, alla nota successiva.

 

[29] D. ZOLO, Usi contemporanei, cit., 183-84.

 

[30] Citiamo ancora dal F. TEDESCO, L’impero latino, cit., 375, al quale va il merito di aver richiamato, nei termini qui esposti, M. TELÒ, L’Europa potenza civile, Roma-Bari 2004, 15-30.

 

[31] Ibidem, 22, cit. ancora da F. TEDESCO, L’impero latino, 376.

 

[32] Dopo il XX congresso del PCUS il blocco socialista si era spaccato, e la Cina era uscita dall’area egemonica dell’URSS; in seguito sarebbero emersi i “paesi non-allineati”, il “Terzo” e il “Quarto” mondo…

 

[33] Cfr. M. CHOSSUDOVSKY, War and Globalization. The truth behind september 11, Oakland, Global Outlook Publishing, 2002, 121. In differenti termini, la necessità di una “giusta crisi maggiore”, con maggior finezza definita «truly massive and widely perceived direct external threat», era sancita anche da Z. BRZEZINSKI, La grande scacchiera, Milano, Longanesi, 1998, 279. Le dichiarazioni di Rockefeller e di Brzezinski anticipano e preparano autorevolmente, da posizioni diverse, il celebre assunto contenuto nello studio Rebuilding America’s defenses: strategy, forces and resources for a New Century, pubblicato nel settembre del 2000 a cura del Centro di Studi neoconservatore denominato Project for a New American Century (PNAC) creato nel 1997 da William Kristol e Gary Schmitt, con l’autorevole presenza di eprsonaggi quali Wolfowitz, Rumsfeld, Perle, Cheney, Libby, Armitage. Interessante, alla luce dell’evento dell’11 settembre 2001, rileggere un passaggio di questo interessantissimo, fondamentale documento: «E’ probabile che il propecco di trasformazione, anche se introduce elementi rivoluzionari, duri a lungo, salvo un nuovo evento catastrofico catalizzatore, una nuova Pearl Harbour» (il testo del documento si può controllare sul sito www.newamericancentury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf ; la citazione è rintracciabile a 51).

 

[34] Scopo del Nuovo Ordine Mondiale – scopo “imperiale”, nel senso anche storicamente parlando proprio del termine – è il mantenimento della pace, quindi la pacifica governance della globalizzazione: fermo il fatto che «la globalizzazione del mondo non può funzionare se non si avanza verso una crescente capacità di governo platenaria» (JACQUES ATTALI, cit. in “Avvenire”, 17.4.2004).

 

[35] Cit. in N. FERGUSON, Colossus, cit., 202.

 

[36] A. JOXE, L’empire du chaos, Paris 2002 ; si veda anche l’ancor più radicale critica di M. MANN, Inchoerent Empire, London 2003.

 

[37] A partire dal 2003 e dalle resistenze, concretizzatesi nell’ONU, contro la politica di aggressione del governo Bush nei confronti dell’Iraq, il gruppo più estremisticamente neocon dei consiglieri e collaboratori del presidente Bush ha preso a mettere a punto una politica tendente a svuotare l’ONU di qualunque residuo potere e a screditarne il ruolo sul piano morale oltre che a sottolinearne su quello pratico l’impotenza (che esso stesso contribuiva potentemente a determinare), per delegittimarla sostituendola nella pratica con un rinovato ruolo di NATO e l’UE: ne è stata prova l’utilizzazione out of area di contingenti militari NATO p.es. in Afghanistan. Ma il “nuovo corso” della NATO era già stato in qualche modo collaudato, appunto contro la volontà dell’ONU, nel 1999 nell’aggressione alla Serbia, durante la presidenza Klinton.

 

[38] Tale la tesi di M. HARDT – A. NEGRI, Impero, cit.

 

[39] Cfr. J. ZIEGLER, Les nouveaux maîtres du monde et ceux qui leur résistent, Paris 2002.

 

[40] G. CHIESA- M. VILLARI, Superclan. Chi comanda l’economia mondiale?, Milano 2003, 10.

 

[41] Su tali questioni, che si modificano di continuo e che costituiscono un quadro faticoso da aggiornare, cfr. il punto provvisorio fatto da “La Nouvelle Revue d’Histoire”, 2, sept.-oct.2002, e da “Questions Internationales”, 3, sept.-oct. 2003.

 

[42] Giungendo magari a cercar di limitare i diritti civili – tra cui quello d’informazione e di critica – nel nome di situazioni d’emergenza e di problemi di sicurezza, com’è accaduto nell’ottobre del 2001 con il Patriot Act firmato dall’allora Ministro della giustizia di Bush, John Ashcroft: cfr. l’analisi durissima, ma puntuale, di G.C. STONE, Perilous times: free speech in wartime, from the Sedition Act of 1798 to the War on Terrorism, n.ed., New York 2004.

 

[43] Cfr. il commento di Michael Chossudovsky (www.globalresearch.ca) al riassunto reso pubblico dal Pentagono di un documento segreto riguardante il nuovo orientamento della strategia militare statunitense, nella primavera 2005, molto importante specie per quel che concerne i rapporti con l’Unione Europea (che peraltro non è esplicitamente menzionata): tale documento passò inosservato a suo tempo dalla stampa statunitense, salvo il “Wall Street Journal” dell’11 marzo 2005. Ci pare che, al riguardo, sia troppo facile e comodo passar sotto silenzio (magari con la scusa della ricorrente demonizzazione del suo Autore) le molte e puntuali argomentazioni di A. de BENOIST, L’impero del “Bene”, tr.it., Roma 2004.

 

[44] Z. BRZEZINSKI, Il mondo fuori controllo, tr. it., Milano 1993.

 

[45] Cfr., in sintesi – e in mezzo a una letteratura ormai oceanica – A. MINC, Ce mond qui vient, Paris 2006.