N. 8 – 2009 –
Tradizione-Romana
Università di Bologna
Per l’individuazione
delle Romanae
constitutiones
nelle Variae di Cassiodoro:
lettura di Var.
VII.41*
Sommario: 1. Osservazioni preliminari. – 2. Le citazioni di norme romane nelle Variae. – 3. I rinvii alla
legislazione romana. – 4. Var. VII.41 e l’istituto della venia aetatis. – 5. Esegesi di Var. VII.41.1. – 6. Var. VII.41.2 e il rinvio
alla legislazione romana. – 7. La formula cassiodorea e la legge di Costantino in C.Th.
2.17.1.
Nella
miniera di notizie di varia cultura che è dato leggere nell’opera
cassiodorea[1]
ricchi appaiono i riferimenti alla produzione normativa d’origine romana,
in ossequio alla generale dichiarazione d’intenti che emblematicamente
risuona in Var. III.43.1: “Delectamur iure Romano vivere”.
Trattandosi
di opera dedicata al “buon governo della città” prevalgono
indubbiamente, sotto il profilo quantitativo, le informazioni relative a tematiche
pubblicistiche. Tuttavia epistole, decreti e formule sono costellate di
riferimenti propriamente giuridici che mettono chiaramente in luce come il
programma politico perseguito da Teoderico, e propugnato dal suo ministro e
consigliere, trovasse le sue basi soprattutto nel rispetto per le leggi romane,
verso le quali numerose sono le espressioni di deferenza.
Al
riguardo, piace rilevare, incidentalmente, la frequenza e la ricchezza di
riferimenti a Roma, magnificata e celebrata come modello di cultura ad ampio
raggio[2].
Segnatamente, le iussiones riportate da Cassiodoro sono dichiaratamente
basate con notevole frequenza su leggi e costituzioni antiquorum principum,
nel più fervido ossequio alle decisioni dei veteres[3],
costantemente manifestato con espressioni inneggianti alla prudens[4],
provida[5],
reverenda antiquitas[6]
nel fermo proposito di antiquorum iura custodire (Var. X.7.1)[7].
In
quest’ottica, un profilo di grande interesse per i giuristi è
rappresentato dall’individuazione del materiale normativo d’origine
romana citato da Cassiodoro e posto alla base di molti provvedimenti riportati
nelle Variae.
All’identificazione
delle romanae costitutiones citate da Cassiodoro si riconnettono almeno
altri due profili d’interesse per i giuristi: l’individuazione
della paternità delle costituzioni può infatti consentire di
formulare congetture circa le fonti di cognizione del diritto cui attingeva
Cassiodoro e, di conseguenza, sulla disponibilità dei testi normativi da
parte della cancelleria in cui operava. Tale individuazione che rappresenta il
secondo, e forse più rilevante, aspetto d’interesse, può a
sua volta rivelarsi utile al fine di rinvenire ed aggiungere preziosi elementi
di valutazione in merito al problema dell’applicazione del codice
teodosiano in Italia, anche al fine di verificare, ove possibile, se le regole
giuridiche riportate da Cassiodoro si uniformano al diritto romano oppure
finirono per presentare forme di contaminazione o, in genere, modifiche formali
o sostanziali.
Intento
del presente contributo è dare un esempio della ricca incidenza di
citazioni di romanae constitutiones presente nelle Variae,
nonché delle potenzialità e dei risultati che offre lo studio dei
riferimenti legislativi all’interno dell’opera cassiodorea
attraverso l’analisi di un campione paradigmatico (Var. VII.41).
In via
preliminare, può osservarsi come i rinvii normativi appaiano molto
spesso volti più ad un ordinamento giuridico in generale che a norme
specifiche, e come ciò avvenga con un tono che pare, fondamentalmente,
di ossequio nei confronti di una cultura giuridica intesa nel suo complesso e
alla quale si ha talora l’impressione venga attribuito una sorta di
significato simbolico-emblematico.
Nelle iussiones
collazionate nelle Variae, Cassiodoro si richiama ad un numero assai
elevato di constitutiones e leges (si possono contare anche
più di un centinaio di rinvii). A fronte di tale considerevole
frequenza, peraltro, le citazioni non sono puntuali ma appaiono perlopiù
generiche ed imprecise, con la tendenziale omissione della paternità e
della provenienza dei richiami legislativi.
Simile
modus citandi si colloca, del resto, in linea con l’usuale
modalità di citazione della cancelleria imperiale, i cui sistemi di
riferimento restano nettamente diversi da quelli in uso nelle opere
giurisprudenziali e nella pratica forense dell'epoca. I giurisperiti erano
infatti soliti, già nell’epoca precedente, citare le costituzioni
imperiali riproducendone il testo, completato dall'inscriptio e dalla subscriptio
(come attestano, ad esempio, i Vaticana Fragmenta e la Collatio).
Questo atteggiamento della prassi trova una precisa spiegazione sol che si
rifletta sulla centralità assunta (nel periodo considerato) dal problema
di garantire l'autenticità dei testi normativi, fossero essi opere
giurisprudenziali o provvedimenti imperiali, al fine di consentire al
giudicante facili e puntuali controlli dei testi prodotti in giudizio[8].
Tutta
questa problematica peraltro non riguardava, per definizione, la cancelleria la
quale era sciolta da simili vincoli, giacché non era ipotizzabile
utilizzasse testi non autentici o citasse costituzioni imperiali non comprese
nei codici[9].
In
linea generale, dunque, il sistema di riferimento di Cassiodoro pare conformarsi
all’indirizzo ufficiale adottato dalla prassi burocratica.
La
lettura delle Variae, guidata dalla ricerca delle costituzioni a noi
altrimenti note (soprattutto grazie alle fonti giustinianee), consente in
alcuni casi di formulare ipotesi sulla matrice legislativa compulsata da
Cassiodoro in sede di estensione del provvedimento.
L'unica
citazione nominativa espressa si legge in un Editto di Atalarico riportato in Var.
IX.18 (a. 533-534): qui il rinvio alla norma d’origine romana avviene
sia tratteggiando sinteticamente il contenuto dispositivo sia riportando
l'indicazione dell'imperatore emanante: viene infatti richiamata (§§
1 e 2) una “sanctio divi Valentiniani”[10]
attinente ai cosiddetti invasores, ossia a coloro che invadono il
possesso altrui. La norma romana viene ripresa, in senso adesivo, per colpire
coloro che, contro la legge, si immettono nel possesso di fondi urbani o
rustici cacciandone violentemente il possessore.
La sanctio
di cui Atalarico ordina l’applicazione (lamentandone al contempo la
prolungata inosservanza) potrebbe essere identificabile, grazie sia
all’esplicita indicazione nominativa sia al contenuto delineato, in una
costituzione di Valentiniano II del 389[11],
una legge occidentale (emanata a Treviri), riportata in C.Th. 4.22.3.
Questo
modus citandi, per così dire, ‘anomalo’ nella sua
precisione lascia pensare (ipotizzo incidentalmente) che la conoscenza della
costituzione possa provenire non tanto dagli archivi della cancelleria quanto
dagli atti processuali di un giudizio in cui l'imperatore era intervenuto[12].
In altri termini, Cassiodoro, nel redigere la disposizione, avrebbe avuto
sottomano (o quantomeno avrebbe conosciuto) il fascicolo processuale,
comprendente le allegazioni delle parti che, come noto, avevano l’onere
di indicare con precisione la fonte che citavano a loro sostegno. Un indizio in
tal senso può leggersi nel § 2 della varia, ove compare un
espresso riferimento alle spese processuali[13].
Si potrebbe, dunque, ipotizzare che l’esplicita citazione del divus
Valentinianus in questo caso possa essere dovuta all’origine
processuale del caso prospettato.
Oltre
a questo rimando nominativo, pare interessante rilevare che nelle Variae
si incontra la citazione espressa soltanto di un altro imperatore romano,
Traiano. In particolare, il richiamo a Traiano ricorre quattro volte: si
tratta, peraltro, di riferimenti riguardanti non tanto la sua opera normativa
quanto condotte esemplari sotto il profilo ‘istituzionale’ di quest’imperatore
nei rapporti con gli altri organi della costituzione romana e con i suoi
sottoposti. D’altronde, se si considera che l’ispirazione
dell’opera, espressa nel sottotitolo, è ‘per il buon governo
della città’ si comprende anche il motivo per cui Traiano emerge
quale privilegiata citazione nominativa: Traiano appare a Cassiodoro come il
modello di ottimo governante, onesto, incorrotto e probo[14].
Infatti,
un primo ricordo di Traiano si legge in Var. VIII.3.5 ove si rende
omaggio alla figura dell’imperatore romano, il cui comportamento viene
additato come “clarum saeculis exemplum”. La condotta
esemplare per la quale Traiano, secondo Cassiodoro, rimarrà celebre nei
secoli riguarda il famoso episodio in cui l’imperatore, all’atto di
ricevere il consolato, in piedi, davanti al console rimasto seduto,
prestò il giuramento di rito (che il consolato comportava e che da
Augusto in poi gli imperatori non avevano più pronunciato) con il quale
invocava sul suo capo e sulla sua famiglia la collera divina qualora fosse
venuto meno, consapevolmente, alla sua parola[15].
L’esempio
riproposto da Cassiodoro e posto davanti alla componente romana del regno
è tratto dal Panegiricus (Traiano imperatori dictus) di
Plinio[16],
autore che viene, tra l’altro, menzionato espressamente in Var. VIII.13.4.
L’individuazione
della fonte di provenienza della citazione dell’imperatore romano, in
questo caso, può costituire una riprova del fatto che le citazioni di
Traiano derivino verosimilmente da fonti letterarie romane: nell’esempio
offerto, appunto, Plinio, il cui Panegirico il funzionario di Teoderico,
quindi, conosceva senza alcun dubbio.
Altro
autore a cui Cassiodoro pare tributario per la conoscenza di episodi relativi a
Traiano è Dione Cassio, dal quale parrebbe riprendere (in Var. VIII.13.5,
indirizzata al questore Ambrosius) il ricordo della celebre frase
pronunciata da Traiano al suo praefectus praetorio (Suburano), con la
quale lo esortava ad usare le armi anche contro di lui qualora fosse venuto
meno ai suoi doveri di principe[17].
Si
tratta, quindi, di citazioni non propriamente afferenti alla produzione
normativa traianea ma dovute, appunto, al valore esemplare, paradigmatico
ricoperto da questo imperatore, comunque conferenti a cogliere appieno quel
sentimento di profondo rispetto verso la tradizione giuridica romana cui prima
si accennava.
Al di
là dei casi in cui la ricostruzione del materiale utilizzato da
Cassiodoro appare agevolato dalla presenza nel testo di una precisa indicazione
nominativa, nella maggioranza dei casi l’indagine (di cui propongo un
campione paradigmatico) presuppone un’opera, talora anche complessa, di
analisi e raffronto tra i contenuti normativi riportati da Cassiodoro e le
corrispondenti leggi romane rinvenibili nell’apparato testuale tecnico.
Sotto un profilo metodologico, il lavoro richiede, quindi, da un lato
l’esame dei contenuti delle romanae constitutiones quali
sinteticamente riferiti nelle Variae, dall’altro, una lettura
comparata che raffronti le nostre fonti di cognizione con l’esposizione
cassiodorea.
L’individuazione
della matrice legislativa su cui Cassiodoro si è basato nella stesura
dei provvedimenti può, ad esempio, divenire possibile quando la mancanza
di elementi formali nella citazione sia compensata dal sunto del principio
giuridico espresso dalla costituzione e posto alla base della ratio decidendi
del provvedimento (atteggiamento del resto usuale per la cancelleria).
Così
accade, ad esempio, in Var. III.31.3[18],
ove è riportata una missiva di Teoderico indirizzata al senato della
città di Roma (datata 510/511) attinente a un caso, per la verità
abbastanza peculiare, di uso di beni pubblici per interesse privato. La
fattispecie concerne, in particolare, una servitù di acque, che
illecitamente si è venuta costituendo (un soggetto, abusivamente, aveva deviato
l’acqua delle pubbliche condutture di Roma per irrigare orti privati ed
azionare mulini parimenti privati).
La
soluzione additata da Teoderico al senato romano è fondata su un
istituto di chiara derivazione romana. L’ordine, infatti, così
suona: “se l'autore dell’illecito abuso sia difeso da una
prescrizione trentennale (si … tricennii praescriptione munitur),
costui, dopo avere accettato un prezzo equo, dovrà vendere quanto
illecitamente ha portato via” (accepto pretio competenti suum vendat
errorem).
La
soluzione è una sorta di contemperamento tra la necessità di
rispettare “i pilastri del diritto” (ne … legum culmina
destruamus) e la pubblica utilità consistente nel giovare ai
complessi edilizi (dum fabricis prodesse volumus).
Aldilà
dei problemi di natura sostanziale che la peculiarità del problema
può sollevare, ora interessa sottolineare il dato che la iussio
teodericiana impone l’applicazione della cosiddetta longissimi
temporis praescriptio, la cui operatività non consente che la
servitù illecitamente costituita venga estinta sic et simpliciter:
chi le ha dato vita ha diritto a una sorta di indennizzo (il “congruo
prezzo” alla fine non sarà che questo), dopo di che si opera la
rimessione in pristino e l’acqua riprende a passare dove passava trent’anni
prima[19].
La tricennii
praescriptio cui Cassiodoro si riferisce altro non è che la forma di
prescrizione istituita da Costantino, opponibile dal convenuto a prescindere da
titolo e buona fede, contro chi richiedesse la restituzione di un immobile (provinciale
o italico) dopo 40 anni di possesso ininterrotto[20].
Allo strumento fu poi attribuita una portata più generale da Teodosio II
per effetto della costituzione tràdita in C.Th. 4.14.1 del 422 d.C.[21],
con la quale fu prevista la possibilità di paralizzare qualunque azione,
inclusa la rivendica, dopo 30 anni (questo il nuovo termine iscritto da
Teodosio II) di mancato esercizio del diritto[22].
Il
nucleo dispositivo della iussio consente, dunque, in questo caso, di
individuare nelle leges che prevedono la tricennii praescriptio e
del cui rispetto si afferma la necessità (ne … legum culmina
destruamus) la costituzione di Teodosio II riportata in C.Th. 4.14.1.
Aldilà
di simili casi, che rappresentano del resto la minoranza, il gran numero di
rinvii per così dire ‘anonimi’ alle romanae constitutiones
(e le limitazioni alle nostre conoscenze delle fonti) rende spesso assai arduo
risalire alla paternità della norma richiamata. Anzi, al riguardo mi
pare plausibile congetturare che i riferimenti alla reverenda legum auctoritas
(e formule simili) rappresentino molto spesso una sorta di ‘clausola di
stile’, una formula stereotipa di citazione cui Cassiodoro ricorre per
rivestire di maggior incisività la disposizione emessa[23]
e con cui intende semplicemente sottolineare come la decisione assunta risulti
coerente all’ordinamento romano vigente.
Nonostante
la tendenziale genericità delle citazioni, in alcuni casi pare possibile
ricomporre, sia pure in via ipotetica, il percorso storico-legislativo al quale
Cassiodoro si richiama nell’estensione del provvedimento.
Simile
opera di ricostruzione, ad esempio, è percorribile in relazione a Var.
VII.41.
La Var.
VII.41 contiene la formula per la concessione di un istituto tipicamente
romano, la venia aetatis.
Preliminare
è un fotogramma giuridico-istituzionale.
La venia
aetatis è quel privilegio che consente ai minores di XXV anni
l’anticipazione della maggiore età, in modo tale da poter
amministrare autonomamente il patrimonio, sottraendosi alla curatela.
L’apposita istanza doveva essere presentata all’imperatore per un
previo rescritto di autorizzazione ed successivamente inoltrata al magistrato
competente. La conseguenza principale della concessione del beneficio (e, del
resto, coerente con l’anticipazione della maggiore età) consisteva
nella perdita del diritto di invocare la in integrum restitutio propter
aetatem, introdotta dal pretore a difesa di quei minori che, raggirati in
un’operazione negoziale, avessero subìto un pregiudizio
patrimoniale[24].
Una
serie di passi ulpianei restituiti nel Digesto[25]
attesta che per lungo tempo, quantomeno ancora nel III secolo d.C., le
concessioni del beneficio rimasero una sorta di favori strettamente personali
rimessi all’indulgenza e alla benevolenza imperiale, e, conseguentemente,
oggetto di provvedimenti eccezionali ed estemporanei.
Prima
di procedere alla lettura del testo di Var. VII.41, seguendo il filo
conduttore che qui si propone, va preliminarmente rilevato come Cassiodoro
riferisca la disciplina applicata nella formula alla “reverenda legum
antiquitas”, basandola sulla constitutionum auctoritas (§
2): tali riferimenti, in questo caso, non rientrano in quelle formule
stereotipe di citazione (di cui si diceva supra) ma costituiscono –
come vedremo – un legame concreto ad una precisa produzione legislativa.
Da
rilevare infine, sempre in via introduttiva, un (apparentemente) generico
riferimento (all’inizio del § 2) a dei iura che “ad
hanc veniam accedi voluerunt”.
Si
pone, dunque, il problema di individuare le fonti legislative richiamate.
Il
criterio più utile per ricomporre la storia legislativa che costituisce
il terreno su cui viene elaborata la formula (e che conseguentemente esprime la
disciplina dell’istituto a cavallo tra il V e il VI secolo d.C.) pare,
anche in questo caso, quello che fa leva sul contenuto tecnico-giuridico
emergente dal testo.
Pertanto,
anche l’individuazione delle constitutiones alle quali il testo
rinvia può cogliersi con maggiore efficacia mediante la valutazione del
contenuto tecnico-giuridico risultante dalla formula. L’esegesi del testo
sarà, dunque, occasione che consentirà sia la ricostruzione della
disciplina dell’istituto sia l’individuazione delle constitutiones
cui tale disciplina è dovuta.
Anzitutto,
una notazione formale. La formula è impostata secondo uno stile
dialogico tra il minore postulante e il sovrano, al quale viene inoltrata la supplicatio
(si nota, infatti, come i verbi vengano usati alla seconda persona singolare,
come se ci si stesse rivolgendo direttamente a colui che ha avanzato la
richiesta: cfr. ad es., § 1: cupis, contemnis, depromis; cum
tibi sit ratio; actiones tuae; § 2: Cape igitur, quod petis
.. moribus exhibeto).
Poste
queste premesse, leggiamo il testo della formula, di cui qui propongo anche la
traduzione, per poi procedere all’esegesi.
VAR. VII.41
- FORMULA VENIAE AETATIS
[1]
Gloriosa est supplicatio, quae veniam quaerit aetatis: quando se gravitatem de
moribus profitetur accipere, quam maturitatem vitae adhuc non contingit
intulisse. Minor nascendo grandaevus cupis esse consilio. Ita quod in humanis
rebus audacissimum est, ad erroris auxilium beneficium contemnis annorum.
Quapropter oblata supplicatione depromis, ut, cum tibi sit ratio firma
prudentiae, actiones tuae non relinquantur ambiguae, ne infirmetur iure quod
non potest utilitate titubare. Hoc
nos, quibus cordi est bona desideria perficere, libenter accipimus, quia nullas
se captare velle profitetur insidias, quisquis habere liberos contractus
constanter affectat.
Gloriosa
è la supplica con cui si chiede la venia aetatis: quando si
dichiara di accettare il peso delle regole di comportamento che alla
maturità della vita non è ancora capitato di recare.
Tu,
minore quanto a nascita, desideri essere anziano quanto a saggezza. E
così, cosa di grande coraggio nelle vicende umane, rifiuti il beneficio
degli anni a presidio dell’errore. Pertanto, con la supplica che hai
presentato, poiché hai ferma convinzione di saggezza, ottieni che le tue
azioni non rimangano instabili, affinché non si invalidi sul piano del
diritto quel che sul piano dell’interesse non può vacillare.
Questo
(desiderio) noi, a cui sta a cuore esaudire i desideri meritevoli, lo
accogliamo volentieri, poiché mostra apertamente che non vuole tendere
alcuna insidia chiunque aspira con fermezza a stringere liberi contratti.
[2] Atque
ideo, si id tempus constat elapsum, quo ad hanc veniam accedi iura voluerunt,
nos quoque probabilibus desideriis licentiam non negamus, ut in competenti foro
ea quae in his causis reverenda legum dictat antiquitas, sollemniter
actitentur, ita ut alienandis rusticis vel urbanis praediis constitutionum
servetur auctoritas: ne cum opinioni praestare volumus, utilitatem supplicis
laedere videamur. Cape igitur nostro beneficio potiorem annis aetatem et quod
petis ab oraculo, moribus exhibeto. Nam professio maturitatis acerbae locum
denegat actionis, quando multo gravior est culpa, quam suae promissionis
impugnat auctoritas.
E
perciò, se risulta trascorso il tempo, in cui a questa concessione il
diritto ha inteso si potesse accedere, anche noi non neghiamo alle richieste
plausibili il permesso di promuovere solennemente presso il foro competente
quegli atti che in questi casi prevede la veneranda antichità delle
leggi, in modo tale che nell’alienazione di fondi rustici oppure urbani
sia mantenuta l’autorità delle costituzioni: affinché,
volendo primeggiare nel giudizio, non sembriamo recar danno all’interesse
del postulante.
Ricevi
dunque con il nostro beneficio la maggiore età, e di ciò che
chiedi al sacro potere, dai dimostrazione con i costumi.
Infatti,
una precoce professione di maturità toglie spazio all’azione,
poiché molto più grave è la colpa quando essa contrasta
con l’autorevolezza del proprio impegno.
“Gloriosa est supplicatio, quae
veniam quaerit aetatis”: l’incipit della
formula induce alcune riflessioni.
Anzitutto,
un rilievo formale-lessicale. L’altisonante e retoricamente solenne
qualifica di ‘gloriosa’ attribuita alla supplicatio
con cui si richiede la venia aetatis pare sottolineare, da un lato, il
culto della tradizione romana che tanto stava a cuore a Teoderico, quasi un
vanto dei natali romani dell’istituto; dall’altro, potrebbe anche
rappresentare un segnale indicatore dell'ormai incontestata fortuna che nella
pratica aveva incontrato l'istituto.
Si
è già avuto occasione di rilevare che i passi restituiti nel
Digesto inducono a pensare che le concessioni del beneficio fossero, ancora nel
III secolo, un fenomeno sporadico ed occasionale, lasciando così
immaginare che il beneficio non avesse ancora assunto i contorni di autonomo
istituto dotato di apposito nomen iuris[26].
Ebbene.
L’attribuzione di un apposito nomen all’istituto pare oramai
certificato dalla penna di Cassiodoro, che si avvale dell’espressione
‘venia aetatis’ nel senso indicato sia nel titolo della
formula sia all’interno della formula stessa (cfr. incipit; inizio
§ 2)[27].
Del resto, anche la stessa elaborazione di una formula ad hoc depone in
questo senso[28].
Il
termine supplicatio comporta alcune osservazioni di natura procedurale:
sotto questo profilo, la formula cassiodorea conferma la necessità della
previa richiesta (supplicatio)[29]
dell’interessato (in questo caso, al sovrano), come verrà poi
confermato nel § 2, dall’inciso “nos quoque probabilibus
desideriis licentiam non negamus, ut…”. In tal senso suonano
significativi non solo l’incipit (Gloriosa est supplicatio)
ma anche, in § 1, l’ablativo: “oblata supplicatione”
e, in § 2, l’inciso “quod petis ab oraculo”.
Collegati
alla notazione appena esposta sono inoltre tre punti relativi all’aspetto
probatorio ed espressi nel § 2, sui quali si tornerà più
avanti, e che qui mi limito ad evidenziare: occorre dimostrare il
raggiungimento dell’età prevista dal diritto per chiedere la concessione
della venia aetatis (“si id tempus constat elapsum, quo ad hanc
veniam accedi iura voluerunt”) nonché l’onestà
dei costumi (“quod petis ab oraculo, moribus exhibeto”);
infine, l’istanza deve essere presentata al foro competente (“ut
in competenti foro … actitentur”).
Presentata
l’istanza quae quaerit veniam aetatis, Cassiodoro espone una sorta
di riflessione (sempre sotto forma di dialogo) sulle motivazioni soggettive che
possono indurre un minore a richiedere quello che sostanzialmente si configura
come un aggravamento, irreversibile, della propria responsabilità nella
sfera giuridica: “quando se gravitatem de moribus profitetur accipere,
quam maturitatem vitae adhuc non contingit intulisse. Minor nascendo grandaevus
cupis esse consilio”.
Il minore,
nonostante l’età sino a quel momento raggiunta non lo
consentirebbe, ritiene e dichiara di essere in grado di accettare gli oneri che
tradizionalmente gravano sui maggiorenni, desiderando che la propria saggezza
sia già pari a quella di un uomo pienamente maturo. Pertanto, rivelando
grande coraggio, rifiuta la facoltà di avvalersi del beneficio degli
anni posto a tutela dell’errore (“Ita quod in humanis rebus
audacissimum est ad erroris auxilium beneficium contemnis annorum”).
Il beneficium
annorum cui il minore rinuncia è quello che gli deriva dal fatto di
non avere ancora compiuto venticinque anni, e di non avere quindi ancora
raggiunto quella piena idoneità a far fronte ad oneri, obblighi e
responsabilità (che sappiamo conseguire alla maggiore età). Il
minore, dunque, disprezza, rifiuta di essere soccorso, in caso di errore
negoziale, dall’erroris auxilium, vale a dire il provvedimento di
in integrum restitutio propter aetatem.
La
ferma convinzione della maturità del proprio discernimento lo induce,
quindi, a presentare la supplicatio quae
quaerit veniam aetatis, così
da rendere chiara ed univoca l’espressione degli impegni che intende
assumere (“Quapropter
oblata supplicatione depromis, ut, cum tibi sit ratio firma prudentiae,
actiones tuae non relinquantur ambiguae, ne infirmetur iure quod non potest
utilitate titubare”).
L’espressione
“actiones tuae non relinquantur ambiguae, ne infirmetur iure quod non
potest utilitate titubare” sta a sottolineare il fatto che i
comportamenti negoziali del minore che ottiene la dichiarazione di anticipo
della maggiore età saranno certi (non relinquantur ambiguae), nel
senso che qualora il postulante ottenga la venia aetatis non
potrà poi ritornare sulla dichiarata volontà negoziale
avvalendosi dei noti rimedi apprestati per tutelare la minore età.
Conclude
il paragrafo l’espressione dell’accondiscendente benevolenza del
sovrano, che si compiace di esaudire la meritevole richiesta, poiché
mostra apertamente che non vuole tendere alcuna insidia chiunque aspira con fermezza
a stringere liberi contratti (“Hoc nos, quibus cordi est bona
desideria perficere, libenter accipimus, quia nullas se captare velle
profitetur insidias, quisquis habere liberos contractus constanter affectat”).
Si
sottolinea che l’espressione “quisquis habere liberos contractus
constanter affectat” ribadisce la conseguenza della concessione della
venia aetatis: il sovrano si compiace di accontentare tutti coloro che
desiderano effettuare operazioni contrattuali liberi dall’assistenza del
curatore. L’inciso non è tuttavia significativo, a mio avviso, di
una generalizzazione indistinta, ma va raccordato alla limitazione, poco dopo
espressa, indotta dalle constitutiones (ita ut alienandis rusticis
vel urbanis praediis constitutionum servetur auctoritas) che, come vedremo,
impongono un’eccezione nel caso di alienazione di praedia.
Il
§ 1, dunque, non rappresenta riferimenti ad una legislazione precedente ma
è una sorta di preambolo, quasi un monito al minore postulante, che
viene avvertito in merito alle conseguenze della sua richiesta.
I
referenti legislativi sono concentrati nel § 2, la cui lunga proposizione
iniziale appare assai densa di contenuti e, soprattutto, ricca di riferimenti
alla sfera normativa: “Atque ideo, si id tempus constat elapsum, quo
ad hanc veniam accedi iura voluerunt, nos quoque probabilibus desideriis
licentiam non negamus, ut in competenti foro ea quae in his causis reverenda
legum dictat antiquitas, sollemniter actitentur, ita ut alienandis rusticis vel
urbanis praediis constitutionum servetur auctoritas: ne cum opinioni praestare
volumus, utilitatem supplicis laedere videamur”.
Preso
atto delle generiche considerazioni circa le intime e personali motivazioni che
possono muovere il minore alla supplicatio, svolti i doverosi
avvertimenti relativi alle conseguenze del beneficio, Cassiodoro passa ad
esporre presupposti, regole e fonti che governano l’istituto.
In primis,
viene introdotto un presupposto sulla cui base si potrà poi dar corso
alla supplicatio: “si id tempus constat elapsum, quo ad hanc
veniam accedi iura voluerunt”.
Il minore deve dimostrare il raggiungimento di un’età
minima per poter legittimamente presentare la supplicatio ed aspirare al
conseguimento della venia.
L’età
minima necessaria viene definita in via indiretta tramite un generico richiamo
a ciò che hanno stabilito imprecisati iura (la costruzione del
discorso, infatti, riferisce le regole in tema di “tempus elapsum”
ai iura: “tempus … quo ad hanc veniam accedi iura
voluerunt”). E qui si pone il primo interrogativo volto a dare, se
possibile, corpo a questi iura cui Cassiodoro si riporta per la
determinazione del presupposto richiesto.
Le
ipotesi che a questo punto della lettura si possono formulare sono
principalmente due.
Una
prima possibilità è che si tratti di un riferimento indistinto
all’ordinamento giuridico in generale; mi pare, tuttavia, che simile
genericità mal si concilii con il tenore complessivo del discorso e con
la progressione dei riferimenti di seguito riportati (si noti la progressione
“iura - reverenda legum antiquitas - constitutionum auctoritas).
La
medesima sequenza conduce ad una seconda congettura: il termine iura
potrebbe rappresentare una sorta di ‘riferimento anticipato’ a
quanto stabiliscono le leges cui Cassiodoro si richiama subito dopo. Iura,
quindi, come generico rimando a quell’ordinamento giuridico costituito
dai provvedimenti normativi imperiali, a prescindere dalla sede codificatoria.
Tra
breve, una volta sciolto il rinvio alle constitutiones, si potrà avanzare anche
un’altra ipotesi, di certo più ardita ma suggestiva. Lascio quindi
momentaneamente in sospeso il discorso, riservandomi di riprenderlo al momento
opportuno.
Se,
dunque, risulta soddisfatto il requisito dell’età minima,
richiesto dai suddetti iura, il sovrano accoglie la richiesta di
attivare presso il foro competente, quindi davanti a un magistrato, quegli atti
che in questi casi impone la veneranda antichità delle leggi: “si
…, nos quoque probabilibus desideriis licentiam non negamus, ut in
competenti foro ea quae in his causis reverenda legum dictat antiquitas,
sollemniter actitentur”.
La
finalità dichiarata della richiesta procedura è il rispetto
dell’autorità delle costituzioni in tema di alienazione di fondi
rustici oppure urbani (“ita ut alienandis rusticis vel urbanis
praediis constitutionum servetur auctoritas”).
Significativa, quasi programmatica, la motivazione
della volontà di mantenere la vigenza delle leggi esistenti: “ne cum
opinioni praestare volumus, utilitatem supplicis laedere videamur”.
Il sovrano, asserendo di non voler primeggiare nel giudizio per non recar danno
all’interesse del postulante, afferma in sostanza che non intende
derogare, come ritenendosi superiore, al diritto da tempo consolidato.
Come
già si rilevava, la formula prevede la necessità di una previa
autorizzazione del sovrano per poi procedere davanti al magistrato[30].
Un’ipotesi circa l’individuazione del foro competente può
essere validamente espressa soltanto una volta individuate le leges che
Cassiodoro cita subito a seguire. Anche su questo punto si tornerà,
quindi, più avanti.
In
questo nucleo centrale della formula si trovano i riferimenti alla “reverenda
legum antiquitas” e alla “constitutionum auctoritas”.
La
struttura argomentativa del discorso pare costruita in modo tale da
sottolineare una distinzione tra due differenti corpi normativi: al primo si
riferirebbe l'espressione "ut in competenti foro ea quae in his causis
reverenda legum dictat antiquitas, sollemniter actitentur"; al secondo, la consecutiva "ita ut
alienandis rusticis vel urbanis praediis constitutionum servetur auctoritas".
La
reverenda legum antiquitas avrebbe previsto una tipologia di norme di
portata più generale la cui osservanza non deve tuttavia tradursi
nell’inottemperanza di altre, poste da alcune constitutiones la
cui auctoritas deve essere rispettata (servetur). Tali costituzioni riguarderebbero un filone
normativo specifico, ravvisabile nella regolamentazione dell’alienazione
dei praedia rustici ed urbani (alienandis rusticis vel urbanis
praediis).
Pertanto,
il pensiero di Cassiodoro così suonerebbe: “si devono rispettare i
precetti, generali, stabiliti dalla reverenda legum antiquitas, ma in
modo tale da far salve le norme specifiche poste in quelle costituzioni che
attengono all’alienazione dei praedia rustici ed urbani”.
A
questo punto cerchiamo di sciogliere il nodo delle constitutiones che
rappresentano il principale referente normativo della formula cassiodorea.
Alla
luce delle fonti di cui disponiamo (essenzialmente codice teodosiano e
compilazione giustinianea) è possibile ricavare, sia pure in via
ipotetica, la matrice legislativa su cui Cassiodoro si è basato
nell’estensione del provvedimento.
A tal
fine appare necessario risalire a ritroso nel tempo, rispetto all’epoca
in cui scrive il funzionario goto. Nell’ordinamento romano, la venia
aetatis appare regolata da una serie di leggi, a noi conosciute attraverso
sia la codificazione di Teodosio II sia la compilazione giustinianea.
Anzitutto,
seguendo un ordine cronologico, dal Digesto abbiamo notizia di una legge con
cui Settimio Severo e Antonino Caracalla, agli inizi del III secolo d.C., intervennero in materia. Il passo cui
siamo debitori dell’informazione è un frammento di Ulpiano tratto
dall’XI libro ad edictum ed inserito sotto il titolo de
minoribus XXV annis (D. 4.4.3pr)[31]:
qui il giurista severiano riferisce che questi imperatori, recependo una prassi
che si stava diffondendo, permisero ai minori, sia pur molto di rado, di
amministrare da soli, sine curatore, il loro patrimonio[32].
La
legge, dunque, si relaziona alle prime problematiche che sorsero nel periodo
iniziale di applicazione del beneficio e mi pare plausibile ravvisare in essa
la prima legge (almeno in base alle fonti in nostro possesso) che interviene in
materia[33].
La
conoscenza di questa costituzione, alla quale credo che difficilmente
Cassiodoro potesse accedere attraverso i materiali che in Oriente si andavano
collazionando per la redazione del Digesto[34],
mi pare possa plausibilmente derivare dalla lettura del codice Gregoriano[35]
che, come noto, raccoglieva costituzioni da Adriano a Diocleziano.
Dal
codice dioclezianeo Cassiodoro può altresì aver attinto un
rescritto di Aureliano del 274, che noi conosciamo attraverso il codice
giustinianeo (ove costituisce la prima legge del titolo 2.44 dedicato ex
professo alla venia aetatis)[36]:
tale rescritto afferma recisamente che il minore beneficato della venia
aetatis perde ogni diritto alla in integrum restitutio propter aetatem[37].
E’
evidente che si presuppone esistente una legislazione precedente non conservata
nel Codice (giacché questa è la prima costituzione del titolo):
è quindi implicito, ma evidente, il rinvio ai Digesta (ove, come
visto, dal passo ulpianeo in D. 4.4.3pr si apprende di una costituzione in
materia di Settimio Severo e Antonino Caracalla).
Il
dato consente, credo, di ipotizzare che i compilatori dei Digesta e del
secondo Codice abbiano provveduto ad evitare contraddizioni o ripetizioni,
omettendo nelle leggi precedenti le norme poi ripetute, o modificate, da una
legge di Costantino, la seconda del titolo, che costituisce – come
vedremo – la principale fonte di riferimento.
La
regola espressa nel rescritto di Aureliano trova corrispondenza nel testo di
Cassiodoro laddove si legge, al § 1, “ad erroris auxilium
beneficium contemnis annorum”.
Il
precetto va inoltre verosimilmente integrato con un’altra legge, alla
quale Cassiodoro poteva attingere attraverso la codificazione teodosiana: si
tratta di una costituzione di Costantino del 315 d.C., con la quale viene
attenuato il rigore della norma di Aureliano (C.Th. 2.16.2.1)[38].
Con essa, Costantino dispone che il minore, pur avendo conseguito
l’anticipo della maggiore età, può esercitare la in
integrum restitutio propter aetatem per quegli atti compiuti prima del
decreto di concessione del beneficio, stabilendo al contempo che il diritto del
minore alla in integrum restitutio propter aetatem sia imprescrittibile
sino al compimento dei venticinque anni per lesioni anteriori al decreto stesso[39].
Per
completezza, si ricorda che dal codice giustinianeo abbiamo notizia anche di un
rescritto di Diocleziano emanato nel 294 d.C. che consente al minore che abbia
conseguito la venia aetatis di stare da solo in appello, senza
l’assistenza del curatore[40].
Stante le osservazioni sopra svolte, mi pare si possa ritenere che la sua
conoscenza derivi a Cassiodoro, al pari di altre costituzioni sinora citate,
dai codici privati e segnatamente, direi, dal codice Ermogeniano.
Tutte
le costituzioni sin qui menzionate costituiscono il terreno normativo su cui si
radica il testo più importante in materia, se non altro quello che
rappresenta la prima regolamentazione organica dell’istituto: la
costituzione in C.Th. 2.17.1 di Costantino del 321 d.C. (riportata anche in C.
2.44.2)[41].
Costantino
formalizza con questa disposizione il procedimento volto al conseguimento della
venia aetatis, con ciò testimoniando che ormai le richieste del
beneficio non erano più un fenomeno occasionale e sporadico, o perlomeno
non eccezionale (mentre, si ricorderà, i passi ulpianei restituiti nel
Digesto lascerebbero invece pensare, almeno sino all’epoca di Ulpiano,
che le concessioni del beneficio fossero ancora una sorta di favori ad
personam).
Le
regole poste dalla legge in C.Th. 2.17.1 appaiono sostanzialmente rispecchiate
all’interno della formula cassiodorea. La valutazione del contenuto di
questa costituzione permetterà di sciogliere alcuni punti lasciati in
sospeso.
La
procedura prevista si articola in due momenti: innanzitutto occorre rivolgersi
all'imperatore (qui, il sovrano) al fine di ottenere un rescritto di generica
autorizzazione, successivamente si possono presentare al magistrato competente
le prove necessarie.
Questa
regola appare rispettata anche nella formula, laddove si legge: “nos
quoque probabilibus desideriis licentiam non negamus, ut…” e
“quod petis ab oraculo” per poi proseguire davanti al
giudice competente (ut in competenti foro.. sollemniter actitentur),
nonché “ne cum opinioni praestare volumus, utilitatem supplicis
laedere videamur” (§ 2).
La
legge di Costantino si apre con una dichiarazione di portata generale, con la
quale si ammettono omnes adulescentes, sia maschi che femmine, alla supplicatio
veniae aetatis.
Si
nota che anche la formula si riferisce indistintamente ai ‘minores’
in generale, senza operare discriminazioni all’interno della categoria
(§1: Minor nascendo; specialmente conferente in tal senso è
la frase finale del § 1: quisquis
habere liberos contractus constanter affectat; oltre ad un generico supplicis
nel § 2). Tutti coloro, sia maschi che femmine, che soddisfano i
requisiti posti nella formula appaiono, dunque, legittimati alla richiesta del
beneficio[42].
Vengono
poi fissate alcune condizioni.
Primo
requisito richiesto è il compimento di una determinata età, a
partire dalla quale è lecito presentare l'istanza di venia aetatis:
Costantino la fissa nei venti anni per gli uomini e nei diciotto per le donne
(C.Th. 2.17.1.1)[43].
A
questo punto si può sciogliere con una certa concretezza
l’indiretto riferimento, sopra visto, ai iura che avevano posto
un’età minima per la supplicatio e ai quali la formula
rinvia: “si id tempus constat elapsum, quo ad hanc veniam accedi iura
voluerunt”.
Se,
dunque, è vero - come credo che sia - che la principale fonte normativa
di questa formula è la legge costantiniana, Cassiodoro con questo rinvio
accoglierebbe il requisito del compimento dell’età minima posto in
C.Th. 2.17.1.1 (venti anni per gli uomini e diciotto per le donne)[44].
Viene
tuttavia da chiedersi per quale motivo Cassiodoro si riporti alla lex
costantiniana (che, oltretutto, è la principale norma di riferimento)
qualificandola “iura” e non, appunto, lex o constitutio
(termini, in effetti, con cui richiama gli altri rinvii normativi).
Una
spiegazione si può trovare sulla base di alcune considerazioni.
Si
è detto che in tale legge compare per la prima volta, stante le fonti in
nostro possesso, la fissazione ufficiale di un’età minima per
chiedere la venia.
Tale
precisazione, con tutta probabilità, non rappresenta una innovazione
costantiniana in senso assoluto: mi pare più verosimile ritenere che
Costantino in realtà non abbia fatto altro che formalizzare in termini
ufficiali quella che ormai era la prassi, affermatasi in via casistica. Appare
infatti poco credibile che provvedimenti straordinari e personali (come,
appunto, erano i rescritti che sino a quel momento autorizzavano la procedura
per chiedere il beneficio) potessero prescindere dalla valutazione
dell’età del richiedente, essendo questo un elemento la cui
valutazione debba inevitabilmente entrare in gioco per motivare la decisione[45].
In
altri termini, mi pare altamente probabile pensare che, anche se a noi non sono
giunte fonti precostantiniane in tal senso (eventuali testimonianze sarebbero
state, verosimilmente, cancellate dai giustinianei per evitare ripetizioni o
contraddizioni), quando gli imperatori autorizzavano con rescritto, caso per
caso, l’attivazione della procedura per la concessione del beneficio non
potessero non tenere conto dell’età del richiedente[46].
Ebbene.
Iura potrebbe indicare quel diritto precostantiniano costituito dai
rescritti di autorizzazione anteriori alla legge in C.Th. 2.17.1, rescritti che
a noi non sono pervenuti in quanto sostituiti con la nuova disciplina, ma che
Cassiodoro poteva leggere verosimilmente nei codici Gregoriano ed Ermogeniano,
codici che, come testimonia ad esempio la Lex Romana Wisigothorum, in
Occidente erano in quest’epoca, da una corrente di pensiero, considerati iura[47].
Il
termine iura, pertanto, potrebbe implicare un riferimento alle norme
apprese dalla lettura dei codici dioclezianei. Nella sequenza (iura…,
reverenda legum ... antiquitas,…constitutionum auctoritas) Cassiodoro
seguirebbe, dunque, l’impostazione impressa da Alarico legislatore e si
riferirebbe a due differenti fonti di cognizione del materiale giuridico da lui
citato.
Proseguendo
in questa direzione, si potrebbe anche pensare che tutto ciò che
Cassiodoro aveva letto al di fuori dal codice teodosiano sia da lui riportato a
quel diritto ante-codificazione e che
definisce iura, riservando il termine lex al materiale contenuto
nella codificazione ufficiale[48].
Secondo
la legge costantiniana in C.Th. 2.17.1pr, raggiunta l’età
stabilita (si id tempus constat elapsum), il minore doveva poi provare
anche la propria morum honestas mediante testimoni, in pubblico[49].
Nella
formula di Cassiodoro si legge: “Cape igitur nostro beneficio potiorem
annis aetatem et quod petis ab oraculo, moribus exhibeto”. L’inciso
“quod petis ab oraculo, moribus exhibeto” sottolinea la
necessità che il minore dimostri di essere degno di ciò che
chiede al sovrano (ossia di essere dichiarato maggiorenne anzitempo) dando
prova dell’onestà dei costumi[50].
Da un
punto di vista procedurale, questo riferimento della domanda al
“sovrano-oracolo” si pone come confermativo del fatto che la previa
richiesta all’imperatore permane come primo atto d’impulso della
procedura per poi attivare l’istanza presso il foro competente[51].
Vengono rispettati, dunque, i due momenti in cui si articola anche la procedura
posta dalla norma costantiniana (secondo la quale occorre la previa
autorizzazione dell'imperatore per poi presentare al magistrato competente le
prove necessarie[52]).
Anche
nel comando “moribus exhibeto” è dato leggere una
chiara corrispondenza con la prova della morum honestas richiesta da
Costantino[53].
Il requisito lascia un notevole margine di discrezionalità all'organo
giudicante, dal momento che simile valutazione comporta un apprezzamento del
tutto soggettivo dei boni mores, della probitas animi e della mentis
sollertia.
Si
può ora sciogliere il nodo dell’individuazione del foro competente
di cui sopra: Cassiodoro dichiara che il beneficio va richiesto in
competenti foro: salvo prova contraria, se è vero che la legge
costantiniana è la principale norma di riferimento, mi pare debba
ritenersi valido quanto Costantino vi aveva stabilito nel secondo paragrafo,
ove aveva indicato i magistrati competenti a conoscere dell'istanza di venia
aetatis, davanti ai quali andavano, appunto, allegate le prove richieste. I
minori di rango senatorio dovevano presentarsi al praefectus urbi, i perfectissimi
alla vicaria praefectura, gli equites romani davanti al praefectus
vigilum, i navicularii al praefectus annonae[54].
La
sostanziale conformità della formula alla disciplina costantiniana si
riscontra anche laddove Cassiodoro sottolinea che si deve rispettare l’auctoritas
di quelle costituzioni che sono intervenute in tema di alienazione di praedia
rustici ed urbani (“ita ut alienandis rusticis vel urbanis praediis
constitutionum servetur auctoritas”).
La
formula mantiene la regola, ribadita da Costantino in C.Th. 2.17.1, che impone
anche ai minori beneficati della venia aetatis di ottenere un decreto di
autorizzazione magistratuale in caso di alienazione di praedia[55].
Nella
riflessione conclusiva della formula, Cassiodoro ritorna sulla conseguenza
principale del beneficio, offrendo una sorta di spiegazione della ratio
che la determina: “Nam
professio maturitatis acerbae locum denegat actionis, quando multo gravior est
culpa, quam suae promissionis impugnat auctoritas”. La professione
della maturità anticipata impedisce che il minore dichiarato anzi tempo
maggiorenne possa in seguito pentirsi e cercare una tutela al fine di evitare
eventuali conseguenze dannose. Una volta andata a buon fine la procedura per la
concessione anticipata della maggiore età questa è
irreversibilmente compiuta.
Chiude
incisivamente la formula, dunque, il monito che l’aveva aperta:
l’espressione “professio maturitatis acerbae locum denegat
actionis” riprende, infatti, l’avvertimento che si legge nel
§ 1: “ad erroris auxilium beneficium contemnis annorum”.
Il postulante viene avvisato un’ultima volta in merito alle gravi ed
ineludibili responsabilità che, in seguito alla concessione della venia,
peseranno su di lui, con ciò richiamando, ulteriormente,
l’iniziale “quando se gravitatem de moribus profitetur accipere,
quam maturitatem vitae adhuc non contingit intulisse”.
La
formula, dunque, appare recepire in piena sintonia la disciplina dettata dalla
legge costantiniana e che trova sede nella codificazione teodosiana (e che,
nella sostanza, verrà recepita dai giustinianei).
La
considerazione permette un’osservazione conclusiva.
L’individuazione
delle romanae constitutiones che sostanziano il referente normativo di
Cassiodoro rivela un duplice profilo d’interesse per gli studiosi di
diritto. Da un lato, infatti, consente di gettare uno sguardo sulle fonti di cognizione
che il funzionario di Teoderico aveva a disposizione e dalle quali può
aver tratto il materiale normativo da lui utilizzato. In particolare, alla luce
delle considerazioni sopra esposte, si può ipotizzare che la conoscenza
delle costituzioni citate nella formula sia derivata a Cassiodoro dalla lettura
dei codici Gregoriano ed Ermogeniano, dal codice teodosiano (e probabilmente,
nel caso esaminato, anche dalla lettura dell’opera ulpianea).
Dall’altro, risalire alla fonte normativa di riferimento consente di
aggiungere dati ed informazioni preziose anche in merito al problem
dell’applicazione del codice teodosiano nel regno ostrogoto, nella parte
occidentale dell’Impero.
* Il
lavoro riproduce sostanzialmente, con aggiunta dell’apparato critico essenziale,
il testo di una relazione tenuta nell’ambito delle iniziative promosse
dall’AST di Parma il 19 febbraio 2009.
[1] Sulle Variae
di Cassiodoro vd. soprattutto Mommsen
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1993; Riché P., Éducation
et culture dans l’Occident barbare (VIe-VIIIe siècle)4,
Paris 1995; Polara G., L’Italia
meridionale nelle Variae di Cassiodoro, in L’Italia
meridionale in età tardo antica. “Atti del XXXVIII convegno
di studi sulla Magna Grecia, Taranto 2-6 ottobre
[2]
L'omaggio alla civiltà romana spazia, infatti, dalla cultura giuridica
agli studia romana (come la grammatica e l’eloquenza: Var. IX.21),
in un sentimento più vasto di nostalgia per la civiltà classica
in generale (Var. VIII.31) e di dichiarata affezione per la città
di Roma (Var. I.1.3: veneranda Romanae urbis affectio). Cfr.
anche, ad es., Var. I.10.5 (antiquitas docta definit). Simili
espressioni vanno lette anche alla luce dell’intento di presentare
un’armonia tra i due ceppi etnici che tuttavia, verosimilmente, non
corrispondeva alla realtà.
[3] Var.
I.27.1: Si exterarum gentium mores sub lege moderamur, si iuri Romano servit
quicquid sociatur Italiae, quanto magis decet ipsam civilitatis sedem legum
reverentiam plus habere, ut per moderationis exemplum luceat gratia dignitatum?
[4] Praef.
16; Var. VII.2.1 (prudenter omnimodis inspexit antiquitas); Var.
VII.8 (antiquorum prudentia summa… maiorum auctoritas); Var.
VII.8.3 (prudens antiquitas deputavit); Var. VII.47.1 (prudens
definivit antiquitas).
[5] Cfr., ad esempio, Var.
IV.19.2 (provida definivit
antiquitas); Var. IV.33.2 (institutis legum provida decrevit antiquitas); Var. IV.35.1 (Consulto provida decrevit antiquitas); Var. VI.21.1 (provide decrevit antiquitas); Var. VII.47.3 (provide vobis
permisit antiquitas); Var. IX.18.1 (Provide decrevit antiquitas);
Var. XI.35.3 (Augustorum provida deputavit antiquitas).
[6] Var.
II.18.1 (Priscarum
legum reverenda dictat auctoritas); Var. IV.33.1 (Custodia legum
civilitatis est indicium et reverentia priorum principum nostrae quoque
testatur devotionis exemplum); Var. IV.33.2 (nos libenter
annuimus, qui iura veterum ad nostram cupimus reverentiam custodiri);Var.
V.5.4 (reverenda sanxit antiquitas); Var. VII.41.2 (reverenda legum dictat antiquitas); Var. X.7.5 (reverenda
priorum auctoritas).
[7] Var. X.7.1 (antiquorum
iura firmo consilio custodire).
Cfr. anche, in via esemplare, Var. VII.10.1 (moderatrix providit
antiquitas); Var. IX.18.9 (sollicita legalis sanxit antiquitas);
Var. X.7.5
(Velle
nostrum antiquorum principum
est voluntas); Var. XI.38.1 (diligenter consideravit antiquitas).
[8] Tale
esigenza, come noto, aveva suggerito alle cancellerie imperiali negli anni
426-429 d.C. la cosiddetta legge delle citazioni ed il progetto di un codice
che "omni generalium constitutionum diversitate collecta nullaque extra
se quam iam proferri liceat, praetermissa inanem verborum copiam recusabit".
[9] La
riprova è fornita dall'unica citazione, completa con l'indicazione
dell'imperatore emanante ed il titolo del codice in cui la costituzione si
trova, presente in una legge imperiale nel periodo che intercorre fra la
pubblicazione del codice teodosiano e la compilazione giustinianea. Essa, con
tutta probabilità, non proviene dalla cancelleria ma dagli atti
processuali del giudizio in cui l'imperatore interviene, richiamati nel testo
legislativo. Si tratta della terza novella di Antemio del 468 d.C. in tema di bona
vacantia in cui si legge: "nam cum de huiusmodi controversis ab
amplissimis cognitoribus tractaretur prolata est constitutio de codice
Theodosiano sub titulo "de bonis vacantibus", qua divus Constantinus
cavit.." (Nov. Anth. 3). Sul punto Bassanelli
G., Tracce dell'applicazione del Codice Teodosiano nelle fonti
giurisprudenziali e legislative del V e VI secolo, Relazione tenuta al
convegno "Aux sources juridiques de l'histoire de l'Europe: le Code
Théodosien. Le Code
Théodosien et l'Europe: moyen age, époque moderne”, Clermont-Ferrand. 4-6 dicembre 2008 (in
corso di stampa).
[10] Var.
IX.18 Edictum Athalaricus Rex. (a.
533-534) § 1:“…pervasionem … severitate legum et
nostra indignatione damnamus statuentes, ut sanctio divi Valentiniani adversum
eos diu pessime neglecta consurgat, qui praedia urbana vel rustica despecto
iuris ordine per se suosque praesumpserint expulso possessore violenter intrare”
(con la severità delle leggi e la nostra indignazione condanniamo
l’usurpazione, stabilendo che la a lungo e a pieno torto trascurata norma
di Valentiniano insorga di nuovo contro coloro che con spregio dei
princìpi giuridici avranno osato, essi e i loro familiari, immettersi
con la violenza in fondi urbani o rustici dopo averne cacciato il possessore);
§ 2: “…
quantum sanctio superius memorata testatur…”. Sostanzialmente, gli invasores
del possesso altrui saranno riconosciuti colpevoli nella misura stabilita dalla
sanctio citata. Il richiamo alla sanctio di Valentiniano appare,
dunque, adesivo in ambedue i punti. La legge, oltre ad essere utilizzata nell’Editto
di Teodorico, sarà successivamente ripresa nel codice giustinianeo, ove
il testo viene modificato sensibilmente (C. 8.4.7).
[11] In tal
senso Mommsen, Cassiodori
Senatoris Variae cit.,
[14] Di
carattere meramente topografico pare, invece, l’indicazione del Forum
Traiani di cui a Var. VII.6.1.
[15] Var.
VIII.3.5: “… Ecce Traiani vestri clarum saeculis reparamus
exemplum: iurat vobis per quem iuratis …”.
[17]
Cassiodoro richiama il giuramento (vota) che tutti i magistrati, il
senato ed i collegi sacerdotali prestavano in Campidoglio pro incolumitate
reipublicae e pro incolumitate principis. Nei vota Traiano
volle che si includesse la clausola (riferita da Plinio, Paneg. LXVIII):
“[Gli dei conservino il principe] se governerà lo stato bene e
nell’interesse di tutti”: cfr. Var. VIII.13.4 Ecce iterum
ad quaesturam eminens evenit ingenio. Redde nunc Plinium et sume Traianum.
Habes magna quae dicas, si et tu simili oratione resplendeas. fama temporum de
legitima atque eloquenti iussione generatur. … [5] Renovamus certe
dictum illud celeberrimum Traiani: sume dictationem, si bonus fuero, pro re
publica et me, si malus, pro re publica in me…”. Cfr. Dio.
Cass. 68.16. La vicenda è riportata anche da Plinio (Paneg.
LXVII.4-8, LXVIII).
[18] Var.
III.31: [2] Quapropter ordinationes nostras ad vestram facimus notitiam
pervenire, quibus amplius credimus civitatis vestrae dispendia displicere.
Dicitur ergo commodi cura privati aquam formarum, quam summo deceret studio
communiri, ad aquae molas exercendas vel hortos rigandos fuisse derivatam:
turpe et miserabile hoc in illa urbe fieri, quod per agros vix deceret assumi.
[3] Et quia non possumus admissi qualitatem ultra iura corrigere, ne, dum
fabricis prodesse volumus, legum culmina destruamus, si huius nefandissimae rei
dominus tricennii praescriptione munitur, accepto pretio competenti suum vendat
errorem, ut, quod laesionem publicis praestat fabricis, non praesumatur
ulterius, ne quod nunc sub largitate corrigimus, postea severissime vindicemus.
[2] Vi
rendiamo perciò edotti al riguardo, in quanto crediamo che non poco vi
dispiacciano i danni della vostra città. Si dice, quindi, che per
privato interesse l'acqua delle condutture, alla cui conservazione si sarebbe
dovuto attendere con grandissima vigilanza, sia stata dirottata per azionare
mulini ed irrigare orti: il che è vergognoso e deplorevole che accada in
quella città, quando appena sarebbe stato sopportabile in campagna. [3]
E poiché non possiamo correggere un fatto del genere oltre il limite
della legalità, affinché, nel voler giovare ai complessi edilizi,
non demoliamo le torri del diritto, nel caso che l'autore di questo
nefandissimo abuso sia difeso da una prescrizione trentennale', costui, dopo
avere accettato un prezzo equo, venda quanto illecitamente ha portato via.
Ciò perché non si provi a commettere in avvenire azioni dannose
agli impianti pubblici e noi più tardi non puniamo, manifestandoci molto
severi, quegli errori a cui adesso rimediamo con generosità (trad. Viscido, Cassiodoro Senatore Variae cit., 120ss.).
[19]
E’ significativo in tal senso che oggetto della venditio non
è una res, ma un error, cioè una situazione
derivante da un illecito, come appunto può configurarsi una
servitù.
[20] Della
costituzione costantiniana abbiamo notizia da un papiro egizio riportato in FIRA
III (Florentiae 1943) 318ss.
[21] C.Th.
4.14.1 [= Brev. 4.12.1]. Imp. Theodosius A. Asclepiodoto p.p. Quae ergo ante
non motae sunt actiones, triginta annorum iugi silentio, ex quo competere iure
coeperunt, vivendi ulterius non habeant facultatem. Nec sufficiat precibus
oblatis speciale quoddam, licet per annotationem, meruisse responsum vel etiam
iudiciis allegasse, nisi, allegato sacro rescripto aut in iudicio postulatione
deposita, fuerit subsecuta conventio. In eandem rationem illis procul dubio
recasuris, quae post litem contestatam, in iudicium actione deducta habitoque
inter partes de negotio principali conflictu, triginta denuo annorum devoluto
curriculo, tradita oblivioni ex diuturno silentio comprobantur. Dat. xviii. kal. dec. Constantinopoli, Victore
v. c. cons. Successivamente la legge verrà inserita in C. 7.39.3.
[22] Sotto
il profilo temporale, l’epistola che stiamo leggendo viene scritta da
Cassiodoro nel periodo antecedente alla riforma giustinianea della praescriptio
(Var. III.31 è infatti datata tra il 510 e il 511); il
diritto romano di riferimento dovrebbe dunque essere ancora quello sancito nel
codice teodosiano. Parrebbe, quindi, permanere l’impostazione impressa da
Teodosio II.
[23] Oltre
al già ricordato intento di creare una convivenza pacifica tra Goti e
Romani, regolata da un’unica lex e da una aequabilis disciplina
(Var. II.16.5), così da rendere le due razze un popolo autonomo
che perpetuasse la civilitas romana, della quale i Goti sono considerati
custodi (Var. IX.14.8: “Gothorum laus et civilitas custodia”).
Cassiodoro si impegnò con zelo e convinzione alla realizzazione di
questo progetto, cercando persino di legare la storia dei Romani a quella dei
Goti (Var. IX.9.5-6: “Originem Gothicam historia …
dispersam”), che considerava i
difensori, e non i nemici, dell’indipendenza d’Italia: per questo
servì fedelmente Teoderico ed i suoi successori e per questo guardava
come ad un serio pericolo ai rapporti che la classe senatoria filoromana aveva
intessuto con l’Oriente. In questa direzione continuò ad operare
anche alla morte di Teoderico, quale precettore del principe erede Atalarico
che la madre Amalasunta aveva fatto educare secondo la tradizione romana.
Tuttavia la morte precoce di Atalarico seguita da quella della madre,
unitamente all’avanzata delle truppe bizantine in Italia non
consentirono, come noto, la realizzazione del programma. Del resto, questo
programma già sin dall’inizio non poteva avere fortuna in quanto
sgradito ad una delle parti che si volevano conciliare: sotto Teoderico,
infatti, all’interno della componente romana si erano create due fazioni,
una filobizantina (esemplarmente rappresentata da Simmaco e da Boezio) che
intendeva riconoscere la supremazia di Costantinopoli per salvare
l’integrità della tradizione imperiale; l’altra filogotica,
decisa a tutelare l’autonomia del ‘regno italico’. Sul punto
vd. per tutti Viscido, Cassiodoro
Senatore Variae cit., 22s. Si potrebbe anche
pensare a una precisa scelta ideologica di Cassiodoro che, costellando
così riccamente la sua opera di espressioni di lode ed ossequio verso la
cultura romana, componendone quasi un panegirico, mirava a ‘dotare’
anche i Goti di un così nobile e stimabile passato.
[24] Ratio di
questa privilegiata tutela era la convinzione che nei giovani, sino al
compimento dei venticinque anni, il consilium fosse ancora labile e
privo di stabilità e, in quanto tale, facilmente esposto ad insidie e
raggiri. Per lo stesso motivo, del resto, era configurato come quantomeno
necessario il consiglio di un curatore al quale, almeno in linea di principio,
non si potevano sottrarre. Si ricorda inoltre che, intorno al
[27] Si
può pensare che l’espressione abbia trovato un primo impiego
tecnico come autonomo nomen iuris forse dal 274: vd. infra nt.
36.
[28]
Probabilmente, simile mutamento di prospettiva si era già verificato
almeno dall’epoca di Costantino come dimostra, a mio parere
l’emanazione della legge in C.Th. 2.17.1 che disciplina in modo organico
la concessione del beneficio. Sulla legge vd. infra. Sottostante a
simile cambiamento non mi pare inverosimile scorgere esigenze di natura
essenzialmente pratica, ravvisabili nella risaputa forte espansione dei
traffici commerciali, che avevano determinato l’infittirsi di queste
richieste.
[30] Vd. supra.
Come vedremo, le costituzioni romane prevedevano che simile autorizzazione
venisse rilasciata dall’imperatore; nella formula di Cassiodoro si
allude, invece, ovviamente, a Teoderico. In ogni caso, ciò che rileva
è che il riscontro dell’età necessaria deve essere compiuto
dall’autorità sovraordinata, imperatore o sovrano che sia.
[31] D.
4.4.3pr (Ulp. 11 ad ed.) Denique divus Severus et imperator
noster huiusmodi consulum vel praesidum decreta quasi ambitiosa esse
interpretati sunt, ipsi autem perraro minoribus rerum suarum administrationem
extra ordinem indulserunt: et eodem iure utimur.
[32] Come risulta da D. 4.4.1pr-1 nonché
dal medesimo D. 4.4.3pr. Riportiamo i passi per comodità di raffronto:
D. 4.4.1 (Ulp. 11 ad ed.) Hoc edictum praetor naturalem
aequitatem secutus proposui, quo tutelam minorum suscepit. nam cum inter omnes
constet fragile esse et infirmum buiusmodi aetatium consiliúm et multis
captionibus suppositum, multorum insidiis expositum: auxiliúm eis
praetor hoc edicto pollicitus est et adversus captiones opitulationem. 1.
Praetor edicit: “Quod cum minore quam viginti quinque annis natu gestum
esse dicetur, uti quaeque res erit, animadvertam”. 2. Apparet minoribus
annis viginti quinque eum opem polliceri: nam post hoc tempus compleri virilem
vigorem constat. 3. Et ideo hodie in banc usque aetatem adulescentes curatorum
auxilium reguntur, nec ante rei suae administratio eis commuti debebit, quamvis
bene rem suam gerentibus. Simili favori sarebbero tuttavia stati elargiti
molto di rado, presumibilmente solo in presenza di particolarissime circostanze
e, in ogni caso, previa richiesta (supplicatio) dell’interessato. Bellodi Ansaloni, La “venia
aetatis”cit., 5ss. Ivi, anche per il problema relativo
all’anteriorità cronologica tra le concessioni imperiali e i decreta
magistratuali.
[33] Vista
l’eccezionalità della concessione, mi pare probabile che
già in questa sede, anche se il passo di Ulpiano nella versione
giustinianea non ne serba traccia, fosse entrato in valutazione il requisito
del compimento di un’età minima.
[35] Si
nota che nell'Interpretatio ad una costituzione di Filippo (a. 245)
conservataci nell'Epitome visigotica del Cod. Greg. 2.3.1 (FIRA II,
Florentiae 1968, 656s.) si ritrova l'espressione `venia aetatis' usata
in senso atecnico. Il passo è citato da Solazzi S., Scritti di diritto romano 2, (Napoli 1957)
78-79, per escludere la necessità di provare la raggiunta maggiore
età ex adspectu corporis in materia di tutela e curatela.
Più in generale 1'Interpretatio Gregoriani citata è stata
oggetto di un recente studio di Kreuter
N., Römisches Privatrecht im 5 Jh. n. Chr. Die Interpretatio zum
westgothischen Gregorianus und Hermogenianus, Berlin 1993.
[36] Il
rescritto di Aureliano è la prima e più risalente costituzione
del titolo, composto da quattro leggi, dedicato alla venia aetatis: C. 2
.44.1 (Aurel. – a. 274) : Eos, qui veniam aetatis impetraverunt,
etiamsi manus idonee rem suam administrare videantur, in integrum restitutionis
auxilium impetrare non posse manifestissimum est, ne qui cum eis contraberet
principali auctoritate circumscriptus esse videatur. In risposta ad un
quesito a lui sottoposto da un privato, l'imperatore Aureliano conferma
recisamente che quei minori di venticinque anni beneficati della venia
aetatis non possono successivamente avvalersi dell'ausilio della in integrum
restitutio, nemmeno qualora si siano rivelati incapaci di amministrare con
accortezza il loro patrimonio.
[38] = C.
2.52.5. Il titolo 2.16 del codice teodosiano è rubricato de integri
restitutione; il titolo 2.52 del codice giustinianeo è dedicato a de
temporibus in integrum restitutionis tam minorum aliarumque persona rum, quae
restitui possunt, quam heredum eorum.
[39]
Addirittura nel diritto comune il minore poteva chiedere la in integrum
restitutio anche contro la stessa concessione della venia aetatis.
Infatti, ragionavano i dottori, se per ottenere il beneficio occorre una
richiesta in tal senso da parte del minore, la stessa istanza, in quanto
compiuta durante la minore età, costituisce un atto eventualmente
dannoso, nei confronti del quale sussiste pertanto il diritto di chiedere la restituito.
Cfr. Landucci L., Note al Glück, Commentario alle Pandette,
IV, Milano 1890, 151 nt. A.
[40] C. 7.62.10 (Diocl. – Maxim.
– a. 294): Si actor a curatore ordinatus deteriorem calculum
reportaverit, tam ipse quam curator ad provocationis auxilium possunt
pervenire, curator vero solus provocationis litem exercebit. 1 Sin
autem interim adulescens veniam aetatis impetraverit vel ad legitimam aetatem
pervenerit, potest suo nomine appellationem exercere.
Qualora un minore durante lo svolgimento del processo abbia conseguito la venia
aetatis Diocleziano rescrive che“potest suo nomine appellationem
exercere”: viene meno, dunque, la necessità di richiedere un curator
ad litem. Vd. Bellodi Ansaloni,
La “venia aetatis” cit., 14ss. (ivi bibl.).
[41] C.Th.
2.17.1. Imp. Constantinus A. ad Verinum. Omnes adulescentes, qui honestate
morum praediti paternam frugem vel maiorum patrimonia urbana vel rustica
conversatione rectius gubernare cupiunt, et imperiali auxilio indigere coeperint,
ita demum aetatis veniam impetrare audeant, cum vicesimi anni clausae aetas
adulescentiae patefacere sibi ianuam coeperit ad firmissimae iuventutis
ingressum: ita ut, post impetratam aetatis veniam, iidem ipsi principale
beneficium allegantes, non solum praescriptorum annorum numerum probent, sed
etiam testibus advocatis, honesta aut simili aut potiore dignitate praeditis,
morum suorum instituta probitatemque animi testimonio vitae honestioris
edoceant. Quod cum ea condicione effecerint, in alienatione praediorum ius
tantum aetatis obtinebunt, quantum per annorum dimensiones ac temporum leges et
natura singulis quibusque deferre consuevit. 1. Feminas quoque, quarum
aetas biennio viros non sera pubertate praecedit, servato etiam in hoc temporis
intervallo, decem et octo annos egressas ius aetatis legitimae mereri posse
sancimus: sed eas, quas morum honestas mentisque sollertia, quas certa fama
commendat. Has vero propter pudorem ac verecundiam in coetu publico demonstrari
testibus non cogimus, sed percepta aetatis venia annos tantum probare tabulis
vel testibus misso procuratore concedimus: ut etiam ipsae in omnibus
contractibus tale ius habeant, quale viros habere praescripsimus. 2. Ita
ut senatores apud gravitatis tuae officium de suis moribus et honestate
perdoceant, perfectissimi apud vicariam praefecturam, equites Romani et ceteri
apud praefectum vigilum, navicularii apud praefectum annonae. 3. Cui
aetati, quoniam inter plenam perfectamque adolescentiam et robustissimam
iuventutem media est, firmatae aetatis appellationem imponimus, ut prima aetas
pueritiae sit, sequens adolescentiae, firmata haec tertia, quarta legitima,
quinta senectus habeatur.
Si nota
che il testo giustinianeo della costituzione presenterà alcune varianti
rispetto alla redazione teodosiana, dovute sia ad esigenze di brevità
sia ad innovazioni, di carattere soprattutto procedurale, apportate dai
compilatori giustinianei. I principi fondamentali dell'istituto non hanno
tuttavia subìto modificazioni di rilievo. La possibilità di
richiedere la venia aetatis rimane aperta a tutti i minores XXV annis,
di entrambi i sessi, purché abbiano compiuto venti anni i maschi e
diciotto le femmine (siano cioè in quella che Costantino aveva definito firmata
aetas; peraltro, la minuziosa distinzione in cinque fasce d'età
presente nella redazione teodosiana non compare più). Primo atto
d'impulso della procedura è ancora la sollecitazione di un rescritto
imperiale; è rimasta anche la necessità di allegare, in un
momento successivo, le prove relative all'età, alla morum honestas
e alla mentis sollertia davanti al magistrato competente.
Relativamente alle modalità di presentazione delle prove viene mantenuto
il trattamento di favore per le donne: esse continuano ad essere esentate dal
dover fornire in pubblico le prove necessarie mediante testimoni, potendo,
invece, presentarle per mezzo di un procuratore. Viene integralmente omessa la
parte finale del principium della costituzione quale riportata nella
versione teodosiana, relativa al divieto di alienazione dei praedia
senza decreto nonostante la concessione del beneficio. Non si tratta
però di un'abrogazione della norma, posto che i giustinianei la
riporteranno non solo in un altro punto della medesima costituzione, ma anche
in quella immediatamente seguente nel titolo (C. 2.44.3, del 529). Sono state,
invece, radicalmente modificate le disposizioni in tema di competenza dei
magistrati : laddove Costantino aveva operato una rigorosa ripartizione a
seconda della classe sociale del minore richiedente, Giustiniano dispone, molto
più semplicemente, che nelle capitali ci si rivolgesse, se di rango
senatorio, al praefectus urbi, altrimenti al pretore, mentre nelle
province, senza distinzione, ai governatori di queste. Bellodi Ansaloni, La “venia aetatis” cit.,
18ss. (per il raffronto con il testo giustinianeo ib., 24ss.).
[42] Si
tratta di un’innovazione sancita da Costantino e poi recepita in
occidente, come prova la formula cassiodorea: in epoca anteriore, infatti, il
diritto di richiedere la venia aetatis, spettava soltanto ai minori di
sesso maschile (tale ius.. ..quale viros habere praescripsimus: C.Th.
2.17.1.1 in fine). L’esclusione delle donne viene, ad esempio, attestata
in D. 4.4.1.2 (Apparet minoribus annis viginti quinque eum opem polliceri: nam
post hoc tempus compleri virilem vigorem constat). Costante dottrina
ritiene che il beneficio verrà concesso, a partire da Costantino, anche
alle donne ad ulteriore conferma del noto processo di equiparazione tra i due
sessi (perlomeno sul piano giuridico-formale) che, iniziato in età
repubblicana, si concluderà verso la fine del V secolo d.C. Sul punto Bellodi Ansaloni, La “venia
aetatis” cit., 19s.
[43]
Ritorno, al riguardo, sulla tesi avanzata nel mio precedente lavoro: Bellodi Ansaloni, La “venia
aetatis” cit., 20. Pare inoltre interessante rilevare,
incidentalmente, come parte della terminologia impiegata da Costantino nella
citata costituzione in C.Th. 2.17.1 relativa alle partizioni della vita umana
in fasce d’età (C.Th 2.17.1.3: Cui aetati, quoniam inter plenam
perfectamque adolescentiam et robustissimam iuventutem media est, firmatae
aetatis appellationem imponimus, ut prima aetas pueritiae sit, sequens
adolescentiae, firmata haec tertia, quarta legitima, quinta senectus habeatur)
emerga anche in Var. VII.42.1, ove compare l’espressione “cum
tibi sit ratio firma prudentiae”: la qualifica di firma
annessa ai sostantivi ratio prudentiae, che esprimono la maturità
derivante dall’età, sembra attinta dalla terminologia
costantiniana della firma aetas di cui in C.Th. 2.17.1.
[44] Al
riguardo non si pongono nemmeno problemi circa l’adesione da parte di
Cassiodoro alla versione teodosiana o giustinianea della legge stante il fatto
che l’età minima coincide in entrambe le versioni.
[45] Vd. supra.
La legge di Costantino e la prassi successiva non sarebbero, quindi, nel senso
di una generalizzazione della concessione, richiedendosi, come dimostra ancora
la formula di Cassiodoro, una puntuale istruttoria di verifica dei requisiti
richiesti. Se fossero stati numerosi simili provvedimenti a favore di
adolescenti, l’evoluzione avrebbe portato, mi pare, ad una
generalizzazione indifferenziata del beneficio.
[46] A meno
che non si preferisca ritenere che la legge di Costantino avesse lo scopo di
render più rigido un atteggiamento della cancelleria divenuto troppo
lassista.
[47] Sul
punto vd. per tutti Lambertini
R., Introduzione allo studio esegetico del diritto romano3, Bologna
2006, 98. Ci sono, tra l’altro, dati plausibili, almeno a mio parere, per
ipotizzare che Cassiodoro riportasse regole stabilite da costituzioni apprese
dai codici Gregoriano ed Ermogeniano, oltre a basarsi sicuramente sul codice
teodosiano, anche sul Breviarium. Che Cassiodoro utilizzasse il corpus
normativo alariciano è supportabile da vari elementi, tra cui, ad
esempio, il fatto che in Var. IX.18 si riporti a una costituzione, C.
Th. 4.22.3, il cui testo ci è conservato non da manoscritti del codice
teodosiano, ma soltanto dal Breviarium (4.20.3), come si legge
nell’apparato critico dell’edizione Mommsen - Krüger. Su Var. IX.18 vd. supra.
[48] In tal
senso, si pensi anche alle costituzioni che potrebbe avere appreso dalla
lettura dell’opera ad edictum di Ulpiano.
[49] Sulle
differenze stabilite tra maschi e femmine: Bellodi
Ansaloni, La “venia aetatis” cit., 22. È
prevista una sola eccezione: il divieto di alienare i praedia sine decreto,
senza cioè un'apposita autorizzazione del magistrato.
[50] Il
termine oraculus è termine quasi sacro, ad indicare
autorità sovraordinata, quasi divina; in questo caso, l’imperatore,
o il sovrano. Cfr. Zimmermann, The
Late Latin Vocabulary cit., 153.
[51] La
previa richiesta all’imperatore è del resto implicita nel tenore
della formula (si ricava da espressioni del tipo “Hoc nos …
libenter accipimus” (§ 1); ““nos quoque
…licentiam non negamus, ut…”(inizio § 2); “ne
cum opinioni praestare volumus, utilitatem supplicis laedere videamur”
(§ 2).
[53] Sia
nella versione teodosiana (C.Th. 2.17.1pr) che giustinianea (C. 2.44.2.1). Bellodi Ansaloni, La “venia
aetatis” cit., 18 ss.
[54] C.Th.
2.17.1.2. Come si ricorda in nt. 42, la giustinianea C. 2.44.3 del 529
modificherà radicalmente le disposizioni in tema di competenza dei
magistrati. Vd. Bellodi Ansaloni,
La “venia aetatis” cit., 23.
[55] Il
divieto di alienare o pignorare sine decreto i praedia rustica
degli impuberi venne stabilito, com'è noto, da una Oratio Severi
del 195 d.C. nei confronti di tutori e curatori ed era stato poi esteso,
probabilmente in età dioclezianea, anche ai praedia dei minori di
venticinque anni. Pertanto, in caso di simili alienazioni senza il prescritto
decreto, è da credersi che anche quei minori che avevano ottenuto la venia
aetatis avrebbero eccezionalmente potuto ricorrere all'auxilium
della in integrum restitutio, altrimenti negato. Sul punto vd. per tutti
Cervenca G., Studi vari sulla
‘cura minorum’, in part. 1. Cura minorum e restitutio in
integrum, in BIDR. 75 (1972) 235ss.;