N. 8 – 2009 – Tradizione Romana
Università di Milano
La lex
Iunia Licinia e le procedure di pubblicazione e di conservazione delle leges
nella Roma tardo-repubblicana
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Fonti attestanti il deposito all’erario
dei progetti di legge e delle leggi. – 3. La
procedura di approvazione e la pubblicazione delle leggi – 4. Il ruolo della lex Iunia Licinia sulla conservazione delle leges. – 5. Riflessioni
conclusive: il senso e le ragioni dell’archiviazione delle leges all’erario.
Nell’anno 692 di Roma, il 62 a.C.[1], gli
allora consoli Decimo Giunio Silano e Lucio Licinio Murena condussero
all’approvazione comiziale il testo di una legge de legum latione. Si
era evidentemente manifestata, nell’ultimo scorcio della repubblica, l’esigenza
di un’innovazione normativa su tale argomento. Sta di fatto, tuttavia, che, a
dispetto di ben cinque citazioni di tale legge, superstiti nell’opera di
Cicerone[2], i
moderni non sono attualmente in grado di dire con certezza né quale fosse il
suo nome ufficiale, né quale fosse il suo esatto contenuto.
Quanto al nome, bisogna rilevare che esso è riferito da
Cicerone due volte come lex Licinia (et) Iunia[3], mentre
altre tre come lex Iunia et Licinia[4]. È questo l’unico caso in cui le fonti hanno trasmesso
una doppia denominazione di una legge, attraverso l’inversione dei nomi dei
consoli. Si tratta invero di un caso inspiegabile: noi sappiamo che, di norma,
quando le leggi erano registrate con i nomi di due consoli, il primo indicava
il princeps legis e il secondo l’adscriptor[5]. Di fronte
a questa strana oscillazione tra le due denominazioni, gli studiosi moderni
hanno adottato ora l’una ora l’altra. Nell’incertezza sul nome ufficiale, noi
terremo conto del fatto che nei fasti consolari[6] appare per primo il nome di Giunio Silano e per secondo
quello di Licinio Murena[7], sicché
chiameremo la legge col nome di lex Iunia Licinia.
Quanto al suo contenuto, le cinque attestazioni
ciceroniane informano unicamente su una parte delle conseguenze cui sarebbe
andato incontro chi avesse violato la prescrizione della legge: sarebbe stato
sottoposto a un iudicium publicum. Restano ignoti sia quale fosse la
prescrizione della legge, sia quale fosse la portata della condanna che i
giudici avrebbero, a norma di essa, emanato. Se su quest’ultimo aspetto nulla è
ormai possibile dire, e dobbiamo rassegnarci al non liquet[8],
viceversa alcune speculazioni sono consentite nel tentativo di ricostruire
quale sia mai stato il precetto della legge.
Infatti, lo Scolio Bobiense, in relazione a Cic. Sest.
64.135, e cioè a uno di quei passi, che abbiamo citato, in cui Cicerone
menziona la lex Iunia Licinia[9], si diffonde brevemente su di essa e fornisce una non
immediatamente chiara indicazione sul suo contenuto. Ecco Schol. Bob. Cic. p.
140 Stangl:
Licinia vero et Iunia consulibus auctoribus Licinio Murena et
Iunio Silano perlata illud cavebat ne clam[10] aerario legem ferri
liceret, quoniam leges in aerario condebantur.
Quello che possiamo a prima vista affermare, in base alla
lettura dello scolio, è che la lex Iunia Licinia sembra avere in qualche
modo riguardato la disciplina inerente al deposito presso l’erario delle leggi
comiziali.
Su una più precisa individuazione del precetto, tuttavia,
la dottrina è divisa. Si sono avanzate, a tale scopo, due interpretazioni del
passo. Secondo una prima, sostenuta già da Wilhelm Adolph Becker e Joachim
Marquardt[11], in
seguito pugnacemente[12] difesa
da Lando Landucci[13] e quindi
condivisa da Fritz von Schwind[14], da Fergus Millar[15], da Phyllis Culham[16] e, più recentemente, da Callie Williamson[17] e da
Andrew Dyck[18], dallo
scolio dovrebbe desumersi che l’obbligo previsto dalla legge per i rogatores
sarebbe stato quello di depositare all’erario i testi delle leggi, dopo la loro
approvazione ai comizi. In base a una seconda opinione, elaborata, in
opposizione a Becker e a Marquardt da Theodor Mommsen[19] e
condivisa da Giovanni Rotondi[20], da Jochen Bleicken[21], da
Eastland Staveley[22], da
Leonhard Alexander Burckhardt[23] e, più recentemente, da Wolfgang Kunkel e Roland
Wittmann[24], da
Michael Crawford[25] e da
Philippe Moreau[26], la lex
Iunia Licinia avrebbe invece previsto per i magistrati roganti l’obbligo di
depositare all’erario il testo del disegno di legge: il testo promulgato[27].
Vorrei proporre, con le presenti note, qualche
osservazione intorno a questa segnalata alternativa allo scopo di mostrare
quale delle due ipotesi possa apparire, alla luce delle fonti, la preferibile e
per quali motivi. Prima di entrare nel merito del commento dello Scolio
Bobiense (§4), tuttavia, ritengo ora opportuno offrire (§2) un sintetico quadro
delle altre fonti che, pur non menzionando la lex Iunia Licinia,
forniscono informazioni circa il deposito dei progetti di legge promulgati dai
magistrati e delle leggi approvate dai comizi, in Roma antica. Sarà necessario
anche esaminare (§3), nelle grandi linee, la procedura con la quale le leggi
giungevano all’approvazione, al fine di meglio considerare in che modo, lungo
lo svolgimento di tale cammino, potesse trovare luogo il deposito di atti e
documenti all’erario[28]. Infine (§5),
si offriranno alcune considerazioni generali sull’utilità e sulla funzione
dell’archiviazione delle leges nella Roma tardo-repubblicana.
2. – Fonti attestanti il deposito all’erario
dei progetti di legge e delle leggi
L’opera di Cicerone De legibus attesta che, almeno
per l’epoca in cui essa fu scritta – gli ultimi anni 50 [29] o gli
anni 40 a.C.[30] –, era
certamente in vigore in Roma l’obbligo di depositare all’erario i testi dei
progetti di legge promulgati. Vi sono inoltre tre passi, di tre diversi autori
antichi (tra cui, di nuovo, Cicerone nel De legibus), dai quali possiamo
complessivamente ricavare che a Roma esisteva, da età risalente, l’obbligo di
depositare all’erario i testi delle leggi approvate. Dal solo Zonara[31]
apprendiamo che dopo il 449 a.C., nel pieno del conflitto patrizio-plebeo, i
plebei avrebbero ottenuto che una copia delle leggi comiziali venisse
conservata, per cura dei loro edili, nel tempio di Cerere[32]:
tuttavia, sembra verosimile che questa ulteriore archiviazione, se mai esisté[33], sia nel
corso del tempo venuta meno[34] e nell’età tardo-repubblicana non fosse più prevista.
Incidentalmente ricordiamo che l’obbligo del deposito dopo l’approvazione
vigeva, con ogni probabilità e in modi su cui non siamo bene informati, anche
per i plebisciti[35] e, in
modi che invece conosciamo con una certa esattezza, per i senatoconsulti[36].
Per quanto concerne il primo tema, vale a dire l’obbligo
di depositare all’erario i testi dei progetti di legge promulgati, la fonte
rilevante è Cic. leg. 3.4.11.
Ci troviamo nel terzo libro di questa opera, che come è
noto consiste in un dialogo inventato tra lo stesso Marco Cicerone, il fratello
Quinto e Attico. Nel punto citato[37], il personaggio Marco recita una serie famosa di leggi
sul potere dei magistrati. Alcune di esse riguardano anche la procedura stessa
di approvazione delle leggi nei comizi e la loro custodia. Va precisato, seppur
si tratti di dato assai noto, che alcune delle leggi recitate da Marco erano
nella sostanza effettivamente già in vigore a Roma, mentre altre erano invece
soltanto auspicate da Cicerone. A noi interessa la norma sul deposito
all’erario dei progetti di legge. Essa è presentata, unitamente con altre, con
le seguenti parole:
Qui agent, auspicia servanto, auguri publico parento, promulgata
proposita in aerario cognita agunto; nec plus quam de singulis rebus semel
consulunto, rem populum docento, doceri a magistratibus privatisque patiunto.
Come si vede, è prescritto che coloro che agiranno col
popolo dovranno agere promulgata
proposita in aerario cognita.
Bisogna osservare innanzitutto
che secondo Mommsen[38], seguito da vari editori[39], il “cognita” dei manoscritti dovrebbe essere corretto in “condita”[40]. Altri autori, tra cui, di recente, Williamson[41], hanno invece difeso la lettera dei manoscritti.
La proposta di correzione è motivata dal fatto che in aerario condere è considerata espressione
tecnica, che appare anche nello Scolio Bobiense, come abbiamo visto.
Io rifletto intorno al fatto che, se si attuasse la
correzione, il senso della frase sarebbe il seguente: i magistrati roganti
«devono proporre argomenti promulgati, esposti e depositati all’erario».
Invece, se si accettasse il testo tràdito una possibile traduzione sarebbe:
«devono proporre argomenti promulgati ed esposti nell’erario, onde siano a
tutti noti». Mi pare che questa seconda traduzione sia nettamente preferibile,
perché in base alla prima non si comprenderebbe quale sarebbe stata la
differenza tra l’atto del promulgare e l’atto dell’esporre la proposta di
legge. In ogni caso, tuttavia, sia che si accolga il testo tràdito, sia che se
ne approvi la modifica, il senso complessivo dello stesso mi pare esattamente
il medesimo: si dovevano depositare all’erario i testi delle proposte di legge.
Dobbiamo stabilire se questo, enunciato da Marco nel dialogo del De legibus, fosse ius conditum oppure ius condendum e se in relazione a esso
avesse avuto un ruolo la lex Iunia
Licinia.
Coloro che, come Landucci[42], negano
quest’ultima ipotesi, sospettano o che Cicerone parlasse de iure condendo,
o che l’obbligo che egli afferma fosse antecedente al 62 a.C. e fosse stato
introdotto dalla consuetudine e confermato dalla lex Caecilia Didia del
98 a.C., che introdusse altresì l’obbligo del trinundinum e ribadì il
divieto di approvazione di leggi per saturam[43].
Ci concentreremo in seguito, dopo che avremo esaminato lo
Scolio Bobiense, sul ruolo della lex Iunia Licinia in relazione
all’obbligo che stiamo considerando. Per il momento, mi preme soltanto
evidenziare che il sospetto che quello enunciato da Cicerone fosse solo ius
condendum è privo di ragione. Nel seguito del dialogo, lo stesso Marco
commenta la legge e la indica a mio avviso espressamente come già in vigore[44]. Si
consideri Cic. leg. 3.19.43:
Sunt deinde posita deinceps, quae habemus etiam in publicis
institutis atque legibus: “auspicia servanto, auguri <publico>
parento”... Deinde de promulgatione, de singulis rebus
agendis, de privatis magistratibusve audiendis.
Quanto all’obbligo di deposito all’erario dei testi delle
leggi approvate, si propongono alla nostra attenzione, come dicevamo, tre
diverse testimonianze. Di queste, la prima che citiamo sono le Historiae di
Sisenna, di cui viene in rilievo il seguente frammento (117 Peter):
Idemque perseveraverunt, uti lex perveniret ad
quaestorem ac iudices quos vellent instituerent praefestinatim et cupide.
Pur nella sua concisione, questo passo sembra mostrare
che, all’epoca in cui l’autore scriveva, l’età della guerra sociale, esistesse
l’obbligo di depositare presso i questori, vale a dire all’erario, le leggi
dopo la loro approvazione.
Eguali considerazioni suscita, a mio avviso, il passo ad
Aeneidem 8.322 del grammatico Servio:
Legesque dedit atqui dixit “haud vinclo
nec legibus aequam”; intellegimus Saturnum dedisse leges, quibus adeo
obtemperaverunt, ut iam ita per naturam sine legibus viverent. Hunc sane deum
et leges recipere et legibus praeesse docet antiquitas; nam ideo et acceptae a
populo leges in aerario claudebantur, quoniam aerarium Saturno dicatum erat, ut
hodieque aerarium Saturni dicitur.
Questo
autore scriveva tra quarto e quinto secolo d.C. e questo potrebbe fare sorgere
qualche perplessità sulla sua affidabilità. Sta di fatto, tuttavia, che
anch’egli afferma che già in età antica si usava chiudere i testi delle leggi
nell’erario dedicato a Saturno, la divinità che delle leggi era considerata
protettrice. Ricaviamo dunque da questo testo la stessa informazione che
abbiamo verificato in Sisenna: e cioè che le leggi, dopo la loro approvazione,
erano custodite dai questori nell’erario.
Il terzo passo che ci informa circa l’obbligo di deposito
delle leggi approvate è contenuto, come abbiamo già accennato, nell’opera De
legibus di Cicerone, all’interno di quella stessa serie di leggi enunciate
da Marco, di cui già abbiamo considerato la norma sul deposito dei progetti di
legge. Qui consideriamo la norma sulla custodia delle leggi rogate. Essa è
l’ultima tra quelle che Marco presenta e appare così formulata (leg.
3.4.11):
Censoris fidem legum custodiunto. Privati ad eos acta referunto,
nec eo magis lege liberi sunto.
Poco oltre Cicerone commenta questa norma e afferma (leg.
3.20.46-47):
[46] Extremae leges sunt nobis non usitatae,
rei publicae necessariae. Legum custodiam nullam habemus, itaque eae leges sunt,
quas apparitores nostri volunt: a librariis petimus, publicis litteris
consignatam memoriam publicam nullam habemus. Graeci hoc diligentius, apud quos
nomophylakes crea<ba>ntur, nec ei solum litteras nam id quidem etiam apud
maiores nostros erat, sed etiam facta hominum observabant, ad legesque
revocabant. [47] Haec detur
cura censoribus, quando quidem eos in re publica semper volumus esse. Apud
eosdem, qui magistratu abierint edant et exponant, quid in magistratu
gesserint, deque iis censores praeiudicent. Hoc in Graecia fit publice
constitutis accusatoribus, qui quidem graves esse non possunt, nisi sunt
voluntarii. Quocirca melius est rationes referri causamque exponi censoribus,
integram tamen legem accusatori iudicioque servari.
Apprendiamo che la legge recitata, che abbiamo qui sopra
trascritta, non era tra quelle effettivamente in vigore a Roma, ma era soltanto
auspicata: Cicerone lamenta infatti che nella Roma dei suoi tempi, a differenza
che nella Grecia classica[45], la
custodia delle leggi non era affidata a magistrati[46], bensì
ai semplici ufficiali subalterni dei questori[47], gli apparitores[48], e
aggiunge che se qualcuno aveva bisogno di trarre copia del testo di una legge
doveva rivolgersi ai librarii, vale a dire gli scribae librarii o
scribae quaestorii[49], che
erano i pubblici scrivani dell’erario (e rientravano nel novero degli apparitores).
De iure condendo, egli propone invece che un tale importante e delicato
compito venga affidato ai censori[50].
Possiamo desumere, per quanto a noi più da vicino
interessa, che anche Cicerone documenta, come gli autori che abbiamo visto
sopra, che a Roma i testi delle leggi approvate – dall’opera di Cicerone è
assolutamente certo che si tratti dei testi delle leggi effettivamente
approvate, e non soltanto promulgate – erano effettivamente custoditi
all’erario. Egli aggiunge la considerazione che a suo avviso una tale custodia
non era bene organizzata[51].
Mommsen[52] ha correttamente osservato che l’obbligo di depositare
all’erario i testi delle leggi votate nei comizi non poteva che gravare sui
magistrati che le avevano rogate. Egli ha altresì rilevato che non è chiaro
dall’opera di Cicerone se tale obbligo dovesse essere adempiuto entro un certo
termine dall’approvazione delle leggi ovvero alla fine dell’anno di carica dei
magistrati, unitamente con il resoconto, ed egli propende per questa seconda
ipotesi. A questo proposito, vorrei osservare che il fatto che in leg.
3.20.47 Cicerone tratta, dopo avere parlato della custodia delle leggi, proprio
del resoconto dei magistrati ai censori, potrebbe forse indurre a ritenere che
l’obbligo del deposito all’erario dei testi delle leggi approvate sussistesse
alla fine dell’anno di carica dei magistrati roganti, come per tutti gli altri
documenti inerenti alla carica[53], che il magistrato aveva raccolto[54].
Dunque, prescindendo per il momento dal ruolo della lex
Iunia Licinia sulle norme inerenti alla conservazione delle leggi che
abbiamo sin qui considerato, possiamo limitarci ad affermare che nella Roma
tardo-repubblicana sussisteva senz’altro l’obbligo di deposito all’erario tanto
dei progetti di legge promulgati, quanto delle leggi rogate.
Per queste ultime, gli autori antichi citati fanno
risalire la prescrizione del deposito a tempi certamente antichi: è
interessante esaminare quanto antichi. Si suppone da Mommsen[55] che tale
obbligo non sia stato originariamente previsto da una legge, ma sia invalso in
modo consuetudinario nel corso del tempo[56], dato che l’erario non appare come un luogo
perfettamente deputato alla custodia delle leggi, visto che esso non era altro
che la cassa della città[57], ove se
ne custodivano le ricchezze, ove si conservavano le insegne militari e ove i
magistrati depositavano i libri contabili al termine dell’anno di carica.
Questa osservazione, che può apparire condivisibile nella sua conclusione, non
è tuttavia del tutto logica sotto il profilo argomentativo: se è vero che
l’erario non appare come il luogo migliore per essere stato individuato da una
legge quale tempio per la custodia delle leggi, non si vede perché avrebbe
dovuto invece bene assumere tale funzione per via consuetudinaria. In ogni
modo, a parte ciò, pare anche a me più corretto aspettarsi che, data l’alta
risalenza della prassi obbligatoria del deposito all’erario delle leggi rogate,
come sembrano indicare le testimonianze di Sisenna e di Servio, essa sia emersa
dalla prassi anziché essere stata introdotta con atto normativo deliberato dal
popolo. Possiamo pensare che l’obbligo del deposito sia antico quanto le leggi
comiziali, o forse poco meno. Possiamo però forse supporre, in aggiunta, che
tale antico obbligo sia stato successivamente riaffermato da una lex,
anche se non è possibile dimostrarlo.
È interessante sottolineare che i supporti che si
impiegavano per il deposito all’erario non erano, almeno nell’età
tardo-repubblicana, né il semplice legno inciso o verniciato, né tanto meno il
troppo costoso bronzo[58], ma la
tela oppure il papiro oppure la pergamena, oppure ancora le tavole lignee
scavate nel mezzo e riempite nell’incavo di cera (tavole cerate[59])
disposte in codices e numerate[60]: tutti materiali[61] che meglio si prestavano alla costituzione di un
archivio[62].
3. – La procedura di approvazione e la pubblicazione
delle leggi
È ora utile, prima di passare a esaminare il testo dello
Scolio Bobiense, considerare brevemente quale fosse la procedura di
approvazione delle leggi, che conduceva infine al loro deposito all’erario e
poteva altresì condurre alla loro pubblicazione, come vedremo.
L’approvazione delle leggi era competenza, da età antica,
dei comizi centuriati; in seguito – con ogni probabilità a partire dal quarto
secolo a.C. – fu concorrente con quella dei comizi centuriati la competenza dei
comizi tributi, che divenne nettamente prevalente nell’età della repubblica classica[63].
Poiché i comizi non avevano il potere di autoconvocarsi,
l’iniziativa legislativa spettava ai magistrati forniti del ius agendi cum
populo, cioè i consoli e i pretori. Le leggi proposte dai primi sono
riconoscibili in quanto di norma[64] recano due nomi, a differenza dalle altre, che ne
portano uno soltanto[65].
La proposta di legge, o rogatio, dopo essere stata
presentata dal magistrato rogante al senato, che l’approvava o la disapprovava
con senatoconsulto[66], veniva
esposta al pubblico. Era questa la promulgatio. La promulgatio era
espressione del ius edicendi del magistrato e difatti aveva luogo nella
forma edittale[67]. Come
ogni altro editto magistratuale, anche la rogatio veniva scritta con
pennello e vernice su tavole di legno imbiancate con la biacca[68] (tabulae
dealbatae), poste nel foro a un’altezza tale che chiunque, al livello del
suolo, fosse in grado di leggere bene la proposta di legge (unde de plano
recte legi possit[69]).
Il testo promulgato doveva di norma rimanere esposto al
popolo per il trinundinum, o trinum nundinum (anche nella
variante più tarda nundinium), vale a dire per il tempo che doveva di
norma[70]
intercorrere, in ogni caso in cui venissero riuniti i comizi, tra l’annuncio
della convocazione e l’effettiva riunione. L’espressione fa riferimento alle nundinae,
i mercati. Poiché questi ultimi si tenevano ogni otto giorni, si discute in
dottrina se il trinundinum dovesse protrarsi per tre periodi di otto
giorni, e durasse quindi ventiquattro giorni, o se fosse sufficiente che
comprendesse tre giorni di mercato: in questo caso sarebbe potuto durare
soltanto diciassette giorni[71]. Le fonti sul punto non sono chiare, ma Mommsen[72] ha
mostrato, in una delle sue mirabilmente dotte indagini, che è assai più
probabile la prima ipotesi, come anche noi riteniamo, anche non è possibile
darla per sicura[73]. Per un
lasso di tempo esteso (diciassette o) ventiquattro giorni, dunque, i cittadini
romani avevano modo di prendere conoscenza della proposta di legge e la
discutevano senza alcun ordine nelle concioni (contiones[74]), anche
alla presenza del magistrato.
La previsione del trinundinum era probabilmente
assai antica, tanto che doveva essere rispettata, tra l’altro[75], anche
per i comizi curiati che dall’età arcaica si occupavano delle adrogationes:
come lo stesso Mommsen ha mostrato[76], le proposte di adrogationes da approvarsi dai
comizi curiati, che si riunivano il 24 marzo e il 24 maggio di ogni anno[77],
dovevano essere rese note a partire dal primo del mese, vale a dire
ventiquattro giorni prima, con rispetto quindi del trinundinum[78].
Tuttavia, nel 98 a.C., la lex Caecilia Didia[79], che
abbiamo già nominato, probabilmente per rafforzare l’obbligo di rispetto del trinundinum,
evidentemente più volte violato[80], lo previde nuovamente, come riferiscono varie fonti
antiche[81]. Tale
legge riaffermò anche la disposizione (pure anteriore, in quanto certamente
attestata già nella lex repetundarum del 111 a.C.[82]) che le
leggi non venissero approvate per saturam: ogni legge doveva riguardare
soltanto un argomento, altrimenti sarebbe stata nulla[83].
Una copia della rogatio era, probabilmente
all’atto della promulgazione, trascritta su tela, pegamena o papiro e
depositata all’erario, presso i questori, come abbiamo visto in Cic. leg.
3.4.11. Il testo della rogatio non era più modificabile a opera del
proponente dopo la promulgatio. Egli, se avesse voluto, avrebbe potuto
unicamente ritirare l’intera proposta e l’iter sarebbe eventualmente
ripreso daccapo in futuro con un eventuale nuovo disegno di legge[84].
L’aspetto più interessante delle rogationes, che
qui dobbiamo, ai fini del nostro discorso, sottolineare, e che riprenderemo in
seguito, è che esse erano esposte nella forma di una interrogazione che
iniziava con le parole «velitis iubeatis, uti...», seguite da frasi
contenenti verbi al modo congiuntivo. Gellio (5.19.9) riporta il testo della rogatio
che si usava per i casi di adrogatio (come è evidente, quest’ultimo
termine deriva dal precedente):
Eius rogationis verba haec sunt: «Velitis, iubeatis, uti L.
Valerius L. Titio tam iure legeque filius siet, quam si ex eo patre matreque
familias eius natus esset, utique ei vitae necisque in eum potestas siet, uti
patri endo filio est. Haec ita, uti dixi, ita vos, Quirites, rogo».
Il giorno della votazione, prima orale, poi, dal corso
del secondo secolo a.C., scritta e segreta[85], i
cittadini nell’assemblea sceglievano se approvare la legge o rigettarla. Si
compiva il conto dei voti, diribitio, e, se la legge era stata
approvata, se ne dava pubblica lettura (lex deriva da legere): renuntiatio. Era questo
l’unico atto che conferiva alla legge la pubblicità, sicché, dopo la lettura
del suo testo, la legge poteva entrare immediatamente in vigore, senza vacatio,
a meno che essa non prevedesse per se stessa diversamente.
Non era previsto infatti, da norme dell’ordinamento, che
tutte le leggi, per la loro efficacia, dovessero essere, dopo la votazione,
pubblicate in forma scritta[86] e, anzi, possiamo dire che di norma non lo erano.
Esisteva un obbligo generale solo per i trattati internazionali e, conseguentemente,
per le leggi che li avessero confermati: esse erano conservate sul Campidoglio[87],
probabilmente nel tempio della Fides e nei templi circonvicini[88].
Talvolta esisteva un obbligo specifico in tal senso per una singola legge, ma
solo perché espressamente statuito in qualche atto normativo. Di tutte le leggi
che conosciamo, sappiamo con certezza che solo la lex de provinciis
praetoriis[89] fu
pubblicata per disposizione contenuta nella legge stessa[90]. In
tutti gli altri casi, in assenza di obbligo, era il magistrato proponente a
ordinare l’incisione e la pubblicazione delle leggi[91]. Le
leggi che rivestivano interesse per le province, per i municipi e per le
colonie prendevano da Roma la strada per la periferia e iniziavano il loro
viaggio verso quei luoghi dove noi talvolta le abbiamo ritrovate.
A Roma, per quelle leggi che venivano pubblicate a cura
dello Stato, i luoghi di esposizione erano i più vari. Di norma le leggi
riguardanti l’organizzazione o il funzionamento di un certo luogo, entro o nei
pressi di quel luogo venivano affisse. Il regolamento del tempio di Diana
sull’Aventino trovò spazio nel tempio[92]; la legge antica (probabilmente risalente al 463 a.C.)
che disciplinava il rito annuale di conficcare un chiodo nel tempio capitolino
di Giove era affissa nel tempio stesso presso l’edicola di Minerva[93]; la lex
Icilia de aventino publicando del 456 a.C. venne esposta nel tempio di
Diana Aventinense[94]; le
Dodici Tavole vennero pubblicate davanti ai rostri antichi nel foro[95]; è
possibile che la lex Cornelia de XX quaestoribus fosse esposta
all’erario, se in tal senso sono interpretabili le parole finali del frammento
superstite di tale legge[96]; una
legge di Clodio sulle adunanze del senato venne fatta appendere dal tribuno
sulla porta della curia[97]. Seppur non ci sono prove esplicite al riguardo, è
probabile a mio avviso che nell’età tardo-repubblicana il luogo più frequente
di pubblicazione delle leggi fosse il Campidoglio[98].
Il materiale di incisione per la pubblicazione delle
leggi nella Roma repubblicana non fu quasi mai la pietra, ma il metallo, di
solito il bronzo[99].
Proprio perché la pubblicazione delle leggi a opera dello
Stato avveniva di rado, era prassi che i cives che svolgevano attività
politica trascrivessero privatamente e conservassero nel tablinum della
loro casa i documenti di loro interesse[100], tra cui i testi degli atti normativi, e addirittura ne
spedissero copia a quegli amici che per una ragione o per l’altra non si
trovassero a Roma. In questo senso è molto istruttiva la corrispondenza tra
Celio e Cicerone conservata nell’ottavo libro ad familiares[101].
Cicerone stesso attesta che tabulae publicae relative al processo contro
Cornelio Silla erano state more maiorum affidate alla sua privata
custodia[102]. È
dunque altamente probabile che, nella Roma repubblicana, quando si aveva
bisogno di conoscere un testo ufficiale, di cui non si possedesse la copia, ci
si rivolgesse ad amici e parenti che conservassero a casa propria archivi ben
aggiornati[103].
Dopo l’approvazione della legge nei comizi, ovviamente,
la tabula dealbata contenente la rogatio diventava inutile ed era
probabilmente impiegata per nuovi scopi.
Il testo della legge doveva, come sappiamo dalle fonti
che abbiamo esaminato nel paragrafo precedente, essere invece sempre
obbligatoriamente depositato all’erario per cura del rogante. Come il testo
della rogatio, anche quello della legge era quindi scritto su tela,
pergamena, papiro o tavole cerate e in questa forma veniva archiviato.
Potrebbe essere interessante domandarsi se fosse davvero
utile questo deposito della legge approvata, visto che già si era dovuta
depositare la rogatio, se si tiene presente che, come abbiamo
specificato, all’atto della votazione nei comizi non potevano apportarsi
modifiche al testo promulgato.
La
risposta che si deve dare a un tale interrogativo è duplice.
Da una parte bisogna segnalare che il doppio deposito era
apparso necessario ed era stato pensato forse proprio per conservare una
traccia scritta dell’iter legis. Dato che la tabula dealbata dopo
il voto spariva, il doppio deposito all’erario era l’unico strumento che
avrebbe consentito, a chi si fosse voluto sobbarcare a tale compito, di operare
il necessario confronto tra i due testi.
Da un diverso punto di vista, occorre rilevare che, se è
pur vero che il testo della rogatio non poteva essere modificato nella
sostanza all’atto del voto, dal punto di vista formale lex e rogatio non
erano affatto identiche.
Innanzitutto, la lex conteneva, prima del testo
rogato una praescriptio, che andava a prendere il posto delle
parole «velitis iubeatis, uti...» e che conteneva l’indicazione dei
magistrati proponenti, della data in cui il popolo aveva approvato la legge e
di chi aveva votato per primo. Si è conservata, per via letteraria, in Frontino[104], l’unico
esemplare intero di praescriptio, riferito alla lex Quinctia[105], mentre
esemplari più o meno mutili si rintracciano in vari documenti epigrafici[106]. La praescriptio
tramandata da Frontino così recita: T. Quin<c>tius Crispinus
consul populum iure rogavit populusque iure scivit in foro pro rostris aedis
Divi Iuli{i} p<r(idie)> <k(alendas)> Iulias, tribu<s> Sergia
principium fuit, pro tribu{s} Sex.<...> L.f. Virro <primo scivit>.
In seconda istanza, nel passaggio da
rogazione a legge, tutti i verbi dipendenti dalla frase «velitis iubeatis,
uti...», e pertanto posti al modo congiuntivo, si dovevano convertire nel
modo imperativo, al tempo futuro, in quella forma in cui normalmente essi
appaiono nei testi di legge a noi noti. Questa conversione modale dei verbi
richiedeva un certo lavorio e una certa pazienza e rendeva in fine nettamente
distinguibile, anche a prima vista, il testo di una rogatio da quello di
una lex.
Per tutte queste ragioni, io ritengo che
il deposito all’erario del testo della legge approvata dal voto nei comizi, non
solo fosse obbligatorio in quanto imposto da norme giuridiche (come attestato
da Cicerone), ma fosse invero effettivamente necessario: questo perché rispetto
al testo del progetto di legge, già depositato all’erario al momento della rogatio,
il nuovo conteneva la praescriptio e aveva i verbi espressi
all’imperativo. Il nuovo testo, così modificato, era peraltro quello che veniva
pubblicato su bronzo ed esposto in forma imperitura al popolo, nei casi in cui
ciò fosse previsto da qualche norma o deciso dal magistrato che aveva proposto
la legge, come abbiamo detto.
Nel passaggio da rogatio a lex,
però, non tutto andava sempre per il meglio. Bastava che i delegati del
magistrato incorressero in qualche distrazione e si finiva con l’omettere di
convertire, in uno o in più punti del testo della legge, un verbo dal
congiuntivo all’imperativo: abbiamo l’attestazione epigrafica che ciò avvenne
nella conversione del testo della lex agraria[107], della lex de
provinciis praetoriis[108],
della lex Antonia de Termessibus[109], della lex
coloniae Genetivae Iuliae[110]
e di una delle leggi che compongono la Tabula Heracleensis[111]
(se si ritiene – come a me pare opportuno fare – che essa non contenga un’unica
legge[112]):
tutti casi che attestano verbi che sono stati dimenticati al congiuntivo, in un
contesto in cui i restanti verbi si trovano invece all’imperativo[113].
Ancora più interessante è notare che
alcune leggi (o plebisciti) di età tardo-repubblicana o augustea erano note già
in antico e sono poi state tramandate fino a noi per via epigrafica nella sola
forma della rogatio.
Tra questi casi, si ricorda comunemente il
fatto che nell’orazione Pro domo sua[114] Cicerone
commenta il testo del plebiscito riguardante il suo esilio e lo fa citando la rogatio.
Tuttavia, in questo caso specifico, non direi che ciò sia da addebitare al
fatto che Cicerone conoscesse solo il testo della rogatio e non quello
del plebiscito[115]:
propenderei per ritenere che l’oratore abbia citato in quel luogo il testo
della rogatio per maggiormente sottolineare di fronte ai pontefici la
responsabilità di Clodio, in quanto proponente della legge, anziché del popolo,
che aveva approvato la proposta del tribuno, in relazione al suo esilio.
Trovo molto importante, invece, a
proposito di questo tema, segnalare il fatto che ben tre leggi, o parti di
leggi, note per via epigrafica, la lex Gabinia Calpurnia de Insula Delo (58
a.C.)[116],
il Fragmentum Ephesinum (41 a.C. circa)[117] e la lex Valeria
Aurelia (20 d.C.)[118]
furono iscritte su bronzo nella forma della rogatio, anziché in quella
della lex[119].
In relazione a questi casi, non c’è alcun dubbio che queste leggi furono rese
note ai cittadini, ai loro tempi, nella forma di proposta di legge, pur dopo
l’approvazione nei comizi. Vorrei sottolineare che fatti del genere non
dovevano essere poi così rari: basti riflettere intorno al dato che tre leggi
rappresentano circa un decimo di tutte le leggi romane a noi note per via
epigrafica.
Ci si deve domandare quale possa essere
stata la ragione, per cui di alcune leggi si sia usato incidere, pubblicare e
così rendere noto il testo della rogatio anziché della legge vera e
propria. Tralasciando l’argomento meramente teorico, per cui gli assistenti dei
magistrati roganti, nel caso delle tre leggi citate (e delle altre che
ipotizziamo essere a noi non pervenute), non sarebbero stati in grado di
portare i congiuntivi a imperativi e avrebbero per ignoranza finito con
l’incidere su bronzo la rogatio anziché la lex, non vedo alcuna
altra spiegazione plausibile per il fenomeno che stiamo osservando, se non che
questi documenti testimonino una prassi, evidentemente tutt’altro che sporadica
nella tarda repubblica e nel primo impero, per cui i magistrati proponenti un
progetto di legge, anziché scrivere la rogatio sulla tabula dealbata
per il trinundinum, essendo poi obbligati a ricopiarla su bronzo dopo
l’approvazione comiziale onde poterla pubblicare in forma di lex,
trovavano più comodo incidere direttamente su una lamina di bronzo la rogatio
stessa, allorquando essi si ritenessero sicuri che essa sarebbe stata
approvata. Così incisa su bronzo, la rogatio restava esposta per il trinundinum.
Poi, dopo l’approvazione da parte del comizio, si sarebbe preposta la praescriptio
al testo della rogatio e a quel punto il gioco era fatto: si evitava di
dovere ricopiare l’intera legge e la si poteva esporre subito, anche se ci si
doveva accontentare di pubblicare una legge espressa al modo congiuntivo
anziché imperativo.
È utile considerare, a questo proposito,
una breve frase pronunciata da Cicerone nell’orazione Pro Milone (32.87),
in relazione ai progetti di legge di Clodio[120]. Afferma Cicerone,
riferendosi a ciò come a un comportamento illegittimo:
incidebantur iam domi leges quae nos servis nostris addicerent;
nihil erat cuiusquam, quod quidem ille adamasset, quod non hoc anno suum fore
putaret. Obstabat eius cogitationibus nemo praeter Milonem.
Incidebantur
domi leges è dunque l’addebito rivolto a Clodio.
Ma che cosa vuol dire? E dove stava l’illegittimità di un tale atto? Anche su
questo punto abbiamo due interpretazioni differenti, una di Mommsen e l’altra
di Landucci. Secondo quest’ultimo, Cicerone si riferirebbe, nel passo citato,
alle leggi approvate. Ha scritto Landucci: «Cicerone dice soltanto che Clodio,
sicuro in precedenza d’ottenerne con le sue male arti l’approvazione dai comizi
tributi, faceva già inciderne il testo; vi parla delle leggi e non della
promulgazione, la quale avrebbe fatta certamente (posto che la cosa fosse vera
e non una diceria di cui l’oratore si valeva per il suo fine) nel modo
consueto, con un editto scritto nell’albo»[121]. Secondo Mommsen[122], invece, questa frase di Cicerone sarebbe relativa
non alle leggi approvate, ma ai soli progetti di legge di Clodio e mostrerebbe
che l’iscrizione e la pubblica esposizione del testo della rogatio su tavole di bronzo negli ultimi tempi della
repubblica avevano luogo già all’atto della promulgatio in
quei casi in cui era previsto che, dopo la votazione, la legge dovesse essere
pubblicata; una volta che la legge fosse stata votata, poi, la tavola bronzea
sarebbe stata completata con l’aggiunta della praescriptio e
sarebbe quindi stata esposta in via definitiva.
Di queste due opinioni, entrambe in linea
di principio ammissibili, la prima ha il difetto di non spiegare esattamente
quale fosse l’illecito che Cicerone addebitava a Clodio e ai suoi seguaci.
Anche ammettendo che Clodio incidesse a casa propria su bronzo, prima
dell’approvazione da parte dei comizi, i testi delle leggi da lui proposte, in
vista di una rapida pubblicazione delle stesse, che cosa ci sarebbe stato di
male in ciò, purché egli avesse rispettato il regolare iter di
approvazione delle leggi, che prevedeva che durante il trinundinum esse
fossero esposte nel foro in forma edittale? Allora, è molto meglio seguire,
anche su questo punto, l’opinione di Mommsen, che mi pare possa trovare
conferma in quanto abbiamo poco sopra constatato in relazione a quelle leggi di
cui ci è giunta l’iscrizione su bronzo in forma di rogatio. Come si vede,
Cicerone impiegava nel passo considerato il termine leges per indicare
non già le leggi approvate, ma le semplici proposte di legge. È evidente che
una tale prassi, di incidere le proposte di legge direttamente su bronzo[123],
era ampiamente censurabile e in tal senso si possono bene comprendere le
sintetiche parole di Cicerone.
4. – Il ruolo della lex
Iunia Licinia sulla conservazione delle leges
Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, possiamo
a questo punto concentrarci sul passo dello Scolio Bobiense che abbiamo citato
in principio e rivolgerci a tentare di individuare, nei limiti del possibile,
il ruolo che ebbe la lex Iunia Licinia nella storia della legislazione
romana. Abbiamo già segnalato che tutte le testimonianze di primo secolo a.C.
che la menzionano informano unicamente che chi avesse violato la prescrizione
della legge sarebbe stato sottoposto a un iudicium publicum. Ci resta da
indagare appunto quale fosse tale prescrizione.
Come
abbiamo detto in principio, secondo alcuni studiosi moderni, la legge prevedeva
l’obbligo di deposito all’erario dei testi dei disegni di legge promulgati;
secondo altri, invece, imponeva il deposito dei testi delle leggi approvate.
Incomincerò con il considerare più da vicino questa
seconda ipotesi, perché mi pare che essa presti il fianco a più di
un’obiezione. Dopo Becker e Marquardt, Landucci soprattutto ha ampiamente
insistito su di essa, sottolineando il fatto che l’autore dello Scolio Bobiense
ha utilizzato le parole “lex” e “leges”. Da ciò, egli ha
affermato che «chi legga questo passo non può non riferire la innovazione
introdotta dalla legge Licinia Giunia alle leges nel senso tecnico ed il
più stretto della parola»[124] e ha desunto quindi che il passo farebbe riferimento
all’obbligo di deposito all’erario delle leggi già approvate. Tuttavia, noi
abbiamo visto che l’obbligo di depositare le leggi approvate all’erario
esisteva da età ben più antica del primo secolo a.C. Come contemperare allora questo
dato con la lettura dello scolio proposta da Landucci? L’autore ha una risposta
anche per questo: egli non nega che quella di depositare all’erario le leggi
approvate fosse un’antica consuetudine (a essa egli ritiene espressamente
riferite le parole finali dello scolio, quoniam
leges in aerario condebantur), ma ritiene che la lex Iunia Licinia
avrebbe trasformato in obbligo legislativo tale antica consuetudine, prevedendo
un processo criminale a carico di chi avesse violato la norma[125]. Resta
però ancora un problema: noi abbiamo visto da Cic. leg. 3.4.11 che nel
primo secolo a.C. esisteva anche l’obbligo di depositare all’erario i progetti
di legge. Quando e come sarebbe allora stato introdotto questo obbligo, se si
esclude al riguardo ogni ruolo della lex Iunia Licinia? Landucci in
effetti non nega che «il deposito all’erario doveva avvenire e del progetto di
legge e del testo della legge votata»[126], ma prospetta l’idea che «il deposito all’erario era
stato reso obbligatorio dalla legge Cecilia Didia per i progetti di legge; la
legge Licinia Giunia lo dichiarò obbligatorio anche per le leggi approvate e lo
circondò di convenienti garanzie»[127].
Quali sarebbero state allora, secondo Becker, Landucci e
gli altri autori che hanno condiviso la stessa opinione, le novità, per
introdurre le quali si sarebbe approvata la lex Iunia Licinia? Le novità
sarebbero state due: oltre alla previsione del iudicium publicum e di
una certa pena (oggi a noi ormai definitivamente ignota) per i casi di
omissione di deposito di leggi approvate, la legge avrebbe imposto di compiere
il deposito alla presenza di testimoni, vale a dire con debite garanzie, in
modo che – per usare ancora le parole di Landucci – «avvenisse a dovere e non
si potesse negare in alcun modo»[128]. All’obbligo della presenza di testimoni al momento del
deposito presso l’erario del testo della legge approvata, farebbero
riferimento, secondo questi autori[129], le parole dello scolio ne clam aerario legem ferri liceret, dove clam sarebbe avverbio e indicherebbe che le leggi
non potevano depositarsi all’erario “di nascosto”, dal che si deduce a contrario l’esigenza della presenza dei testimoni[130].
Un’ipotetica
traduzione dello scolio, seguendo questa ipotesi interpretativa[131],
potrebbe essere allora la seguente: «La legge Licinia Giunia, approvata per
iniziativa dei consoli Licinio Murena e Giunio Silano, prevedeva che non fosse
lecito che fosse depositata all’erario una legge di nascosto, poiché le leggi
si custodivano all’erario»[132].
Ora: questa interpretazione si basa fondamentalmente
sull’asserita esigenza di tradurre la parola latina lex con “legge”,
intendendo con questa parola la legge approvata e non quella promulgata. Sta di
fatto, tuttavia, che i Romani usavano la parola lex per indicare anche
la semplice proposta di legge, la rogatio, come abbiamo visto sopra
commentando Cic. Mil. 32.87 e come si può desumere da una messe di testi[133].
Se si muove dunque dal punto di partenza che la parola lex
nei testi latini può tranquillamente indicare anche solo il progetto di
legge, potremo finire con il concludere che è assai più probabile che la lex
Iunia Licinia prevedesse l’obbligo del deposito dei progetti di legge
promulgati e che a tale previsione della legge facciano riferimento le parole ne clam aerario legem ferri liceret, come cercheremo di mostrare. In effetti,
mi pare che, per tutta una serie di ragioni, l’ipotesi interpretativa dello
Scolio Bobiense proposta da Becker e condivisa da Landucci non possa essere
accolta. Queste ragioni sono in parte di natura logica e in parte di natura
grammaticale. Provo a elencarle.
In primo luogo, vorrei
osservare che se qualcuno volesse, in ipotesi astratta, statuire con una norma
l’obbligo di depositare un documento alla presenza di testimoni (o volesse dare
conto di una tale statuizione normativa) probabilmente non direbbe che la legge
ha vietato di depositare quel tale documento “di nascosto” (clam), ma direbbe espressamente
che dovrebbe farlo alla presenza di testimoni.
In secondo luogo, depositare
una legge all’erario “di nascosto” è una frase che non ha senso comune: fa
pensare a qualcuno che di notte si intrufola nell’erario e, anziché
impadronirsi di qualcuna delle ricchezze ivi custodite, nasconde sotto una pila
di pergamene il documento che intende depositare[134]. È evidente che nessuna legge avrebbe espresso la
propria statuizione in tali termini e non si può addebitare al povero anonimo
scoliasta una tale ingenuità.
In terzo luogo, normalmente
una legge che preveda l’obbligo del deposito di un certo documento presso un
certo ufficio non si preoccupa certo del destino del futuro depositante, per il
caso che questi si dimentichi di procurarsi la prova dell’avvenuto deposito e
non gli suggerisce quindi di portarsi con sé i suoi testimoni: sarà il
depositante stesso a doversi fare parte diligente e cautelarsi nel pretendere
la prova dell’avvenuto deposito presso l’ufficio depositario (con testimoni o,
se possibile, anche con documenti), al fine di poter dimostrare,
all’occorrenza, di avere depositato ed evitare così di incorrere nella prevista
sanzione.
In quarto luogo, legem ferre è un’espressione tecnica, che
non significa “depositare una legge”, ma “portare una legge all’approvazione
(dei comizi)”, come è possibile desumere da vari testi[135] e come
ci mostra il passo stesso di Schol. Bob. Cic. p. 140 Stangl, che reca dapprima
la parola (lex) perlata, da perferre, per indicare una legge
approvata e reca in fine le parole leges
in aerario condebantur per
indicare le leggi depositate all’erario. Osservo che il verbo condere, che ho qui tradotto come “depositare”, regge correttamente l’ablativo
anziché l’accusativo, perché non indica un moto a luogo, ma uno stato in luogo,
talché la frase può meglio tradursi in italiano con le parole “le leggi erano
custodite all’erario”. Se si volesse riferire le parole legem ferre (precisamente legem ferri, nel testo dello Scolio Bobiense) all’atto
del deposito presso l’erario, il verbo ferri dovrebbe essere
corretto in <in>ferri, come del resto è stato proposto da Halm[136], come si legge nell’edizione di Stangl[137] e come ritengono alcuni tra coloro che condividono
l’interpretazione dello scolio difesa da Landucci[138]. Ma non si può logicamente correggere ferri in <in>ferri, se
non partendo dal presupposto che lo scolio significhi che la lex Iunia Licinia introdusse l’obbligo di
depositare all’erario le leggi votate nei comizi: senonché questo è il thema probandum. Se invece ci si accosta al
testo dello scolio senza muovere da pregiudizi, non si può che ritenere che le
parole legem
ferri facciano
riferimento all’iter legis e quindi alla procedura di approvazione delle
leggi.
Per rafforzare queste
obiezioni, che abbiamo mosso, è opportuno considerare il modo in cui si compiva
il deposito all’erario e, alla luce di esso, è forse possibile domandarsi se
dunque sia logico che una legge imponesse al depositante di farsi assistere dai
testimoni, per non incorrere nelle sanzioni che quella stessa legge aveva
previsto per il caso che fosse stata violata. Possiamo trarre le nostre
informazioni più importanti su questo tema da Plutarco, che nella vita di Marco
Porcio Catone Uticense riporta, in un ampio squarcio (Plut. Cat. Min. 16-18[139]), alcuni aneddoti relativi all’anno in cui tale
personaggio ricoprì la carica di questore (il 65 o forse il 64 a.C.)[140]. Plutarco descrive innanzitutto gli scribi
dell’erario e li ritrae come personaggi loschi[141], che maneggiavano in continuazione leggi e altri
documenti pubblici e, sfruttando la normale inesperienza e disinformazione dei
questori che si succedevano annualmente nell’esercizio della carica e avevano
bisogno di essere indirizzati e guidati, non premettevano loro di esercitare
appieno la loro carica, ma, di fatto, finivano con il sostituirli[142]. L’autore allora descrive Catone come un modello
di moralità, che a più riprese si scontrò con gli impiegati dell’erario,
cacciandone uno per frode[143], citandone un altro in
giudizio per malversazione[144] e impedendo ai suoi colleghi
questori di compiere false registrazioni[145]. Il quadro che viene dipinto
è dunque quello di un erario in cui, a causa degli scribi disonesti, era
abbastanza generalizzato ricorso al falso, il che combacia con le informazioni
che ricaviamo da Cicerone e tutto sommato ci porta a comprendere le ragioni che
indussero all’approvazione della lex Iunia
Licinia, che stiamo
commentando.
Dell’ampio stralcio
plutarcheo, il tratto per noi più interessante è rappresentato dai paragrafi
17.3-4, in cui l’autore mostra come i questori esercitassero la loro funzione
di magistrati delegati alla supervisione degli atti di deposito e di
registrazione di documenti presso l’erario:
œpeita gr£mmata [tîn] pollîn oÙ proshkÒntwj ¢naferÒntwn kaˆ
dÒgmata yeudÁ paradšcesqai c£riti kaˆ de»sei tîn protšrwn e„wqÒtwn, oÙdn aÙtÕn
œlaqe genÒmenon toioàton, ¢ll' Øpr ˜nÒj pote dÒgmatoj ™ndoi£saj e„ kÚrion
gšgone, pollîn marturoÚntwn oÙk ™p…steusen oÙd katštaxe prÒteron À toÝj
Øp£touj ™pomÒsai paragenomšnouj.
Plutarco racconta che Catone
respingeva regolarmente il deposito di documenti non conformi alla legge e di
senatoconsulti falsi e riporta che in una occasione gli fu sottoposto per il
deposito il testo di un particolare senatoconsulto. Egli non lo conosceva
personalmente, essendo relativo a una riunione del senato anteriore alla sua entrata
nella carica di questore e ne sospettò la falsità. Non si fidò dei molti che
testimoniavano sull’autenticità dell’atto e non lo pose negli archivi
fintantoché i consoli non diedero conferma della sua autenticità sotto
giuramento.
Da questo testo, mi pare,
apprendiamo abbastanza bene che semmai vi era bisogno di testimoni all’atto del
deposito di un documento presso i questori, la loro presenza non era imposta da
una legge nell’interesse dei depositanti, al fine di consentire loro di provare
di avere depositato, bensì poteva essere richiesta dai questori, se non
riconoscevano l’atto come autentico[146].
Sulla scorta di tutte queste
considerazioni, possiamo allora esaminare l’ipotesi interpretativa proposta da
Mommsen[147], e ripresa da Crawford e dagli altri citati
autori, secondo i quali l’intero passo dello scoliaste farebbe riferimento
all’obbligo, che sarebbe stato appunto introdotto dalla lex Iunia Licinia, di depositare il testo dei
progetti di legge subito dopo la promulgazione. Secondo Mommsen[148], dunque, le parole lex e leges nel passo considerato farebbero riferimento alle
leggi soltanto promulgate, vale a dire ai progetti di legge. La lex Iunia Licinia avrebbe quindi previsto
l’obbligo del deposito all’erario dei progetti promulgati, in quanto dal
momento della promulgatio essi non potevano più essere modificati, e il
deposito del testo promulgato era necessario per il caso che, in futuro, fosse
occorso procedere a un confronto tra tale testo e quello successivamente
approvato, visto che il divieto di modificare il testo del progetto di legge
dopo la promulgatio
era
frequentemente violato[149]. Secondo questa lettura dello scolio, clam non sarebbe avverbio, bensì
preposizione e il passo significherebbe pertanto che era vietato per qualunque
magistrato rogante portare all’approvazione dei comizi un progetto di legge (legem ferre) di nascosto all’erario, vale
a dire di nascosto ai questori[150], cioè senza avere ottemperato
al deposito, che da quel momento veniva reso obbligatorio. Siffatto obbligo di
deposito non sarebbe esistito prima del 62 a.C. e sarebbe stato appunto
introdotto dalla lex Iunia
Licinia, mentre
l’obbligo di deposito all’erario delle leggi approvate era assai più antico e
non fu da essa toccato.
Questa
potrebbe essere la traduzione dello scolio, se si segue l’opinione di Mommsen e
Crawford: «La legge Licinia Giunia, approvata per iniziativa dei consoli
Licinio Murena e Giunio Silano, prevedeva che non fosse lecito che una proposta
di legge fosse approvata all’insaputa dell’erario, poiché le proposte di legge
si custodivano all’erario» [così traduce, in inglese, Crawford la parte finale
dello scolio: «...provided that it should not be lawful for a statute to be
voted without the knowledge of the aerarium, since statutes (= rogationes)
were deposited in the aerarium»[151]].
A me pare che questa lettura
sia nettamente più apprezzabile della precedente, in quanto spiega in modo
perfettamente condivisibile l’espressione ne clam aerario legem ferri liceret, che acquista pieno
significato solo se riferita ai progetti di legge promulgati. Tuttavia, mi
sembra che pure l’interpretazione mommseniana non colga perfettamente nel
segno. Mi riferisco soprattutto al significato che viene attribuito alle parole
finali dello scolio, quoniam leges in aerario condebantur. Come può essere logico che
il passo che stiamo analizzando dicesse che la lex Iunia
Licinia introdusse
l’obbligo di deposito dei progetti di legge promulgati, poiché i progetti di legge
promulgati erano custoditi all’erario? Al massimo avrebbe detto che la lex introdusse l’obbligo di
deposito dei progetti di legge, affinché essi fossero custoditi all’erario.
Per questa ragione, e tenendo
conto del fatto, che abbiamo già rilevato, che la parola lex poteva essere impiegata
invariabilmente per indicare tanto le leggi promulgate quanto le leggi
approvate, e tenendo conto altresì dell’altro fatto, che pure abbiamo
considerato, per cui già da tempi lontani le leggi approvate si custodivano
all’erario, io proporrei di intendere lo scolio nel senso che nell’espressione ne clam aerario legem
ferri liceret la parola lex intendesse i progetti di legge
(o leggi promulgate), che si dovevano depositare all’erario immediatamente dopo
la promulgazione, mentre nella frase quoniam leges in aerario condebantur intendesse le leggi
approvate. Possiamo pertanto così tentare di tradurre il passo: «La legge Licinia Giunia, approvata per iniziativa dei
consoli Licinio Murena e Giunio Silano, prevedeva che non fosse lecito che una
proposta di legge fosse approvata all’insaputa dell’erario, dato che le leggi
si custodivano all’erario». È certamente una frase un po’ ellittica, ma mi
sembra che faccia riferimento alla ragione per cui fu emanata la lex Iunia
Licinia e con essa fu deciso di obbligare i magistrati a depositare all’erario
i testi delle leggi che proponevano: la ragione era che l’erario era il luogo
ove già si depositavano da tempo antico le leggi approvate. Era quindi logico
che lì confluissero anche i progetti di legge, in modo tale che i questori
fossero in grado di controllare che i testi delle leggi approvate coincidessero
con quelli delle leggi promulgate o che altri soggetti, eventualmente
interessati a compiere analogo controllo, potessero farlo accedendo all’unico
luogo luogo, in cui tutte le leges (promulgate o approvate) erano
archiviate.
5. – Riflessioni conclusive: il senso e le ragioni
dell’archiviazione delle leges all’erario
Siamo
dunque giunti a stabilire, sulla base dell’analisi delle fonti fin qui considerate,
che dopo il 62 a.C. a Roma esisteva un duplice obbligo di deposito all’erario
in relazione alle leges. Il primo obbligo era quello di depositare i
progetti di legge subito dopo la promulgazione ne clam aerario legem ferri liceret, ed era stato introdotto per la prima volta dalla lex Iunia
Licinia. Il secondo obbligo era quello di depositare le leggi approvate dai
comizi, subito dopo la renuntiatio, ed era assai più antico del
precedente, essendo stato introdotto nell’ordinamento romano dalla consuetudine
o da un provvedimento normativo risalente, che non siamo in grado di
individuare. Abbiamo anche chiarito che l’esigenza alla base dell’emanazione
della lex Iunia Licinia nel 62 a.C. fu quella di rendere possibile un eventuale
controllo dell’identità tra leggi promulgate e leggi approvate.
Prima
di concludere queste note, vorrei ora dedicare qualche ulteriore riflessione a
un tema un poco più ampio: e cioè quali furono le ragioni per le quali a Roma
sussisteva, fin da età antica, l’obbligo di depositare all’erario i testi delle
leggi approvate. È anche interessante domandarsi perché il deposito delle leggi
fosse previsto proprio all’erario, che, come abbiamo visto, era un tempio
originariamente destinato a tutt’altri scopi.
In
linea di massima potrebbe pensarsi – e nella dottrina si è invero pensato – a
quattro ragioni, che avrebbero potuto indurre alla scelta di prevedere il
deposito obbligatorio delle leggi all’erario.
La
prima ipotesi è che il deposito fosse parte integrante del procedimento atto ad
attribuire validità alle leggi: in assenza, esse non sarebbero state valide. La
seconda ipotesi è che esso avesse funzioni di pubblicità: mirasse a rendere
pubblici, noti e immediatamente accessibili ai cittadini i testi delle leggi
approvate. La terza è che rispondesse a esigenze religiose, fondate sulla
credenza degli antichi Romani che il deposito in templi di testi legislativi
scritti servisse a prevenire comportamenti arbitrari da parte dei magistrati.
La quarta ipotesi, infine, è che il deposito servisse semplicemente alla
conservazione, potremmo dire all’archiviazione dei testi ufficiali delle leggi,
consentendone eventualmente anche la consultazione.
Proviamo
a sondare la bontà di queste quattro ipotesi e incominciamo a considerare la
prima che abbiamo enunciato. Essa è stata argomentata in modo articolato da
Landucci, secondo il quale la delazione delle leggi all’erario sarebbe stata un
requisito formalmente stabilito per la loro validità[152].
Per approdare a una determinazione intorno a questo punto
è utile considerare, come del resto ha fatto il citato autore, le norme, che
possiamo dire di conoscere con una certa precisione, relative al deposito dei
senatoconsulti.
Sappiamo infatti che, prima che Cesare[153] avesse
introdotto l’obbligo (poi abolito da Augusto[154]) di
compilare e pubblicare un processo verbale ufficiale degli atti del senato[155], il
testo dei senatoconsulti doveva, al termine della procedura di approvazione,
essere redatto in forma scritta alla presenza di almeno due[156] o tre[157] (ma
spesso più[158])
senatori come testimoni[159] e quindi
era depositato, fin da età antica, presso i questori all’erario[160]. Nel 449
a.C. i consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato, nell’esigenza di
fronteggiare i tumulti di quell’anno, avevano inoltre istituito l’obbligo che
una copia dei decreti del senato venisse consegnata anche agli edili della
plebe, i quali l’avrebbero custodita nel tempio di Cerere[161].
Peraltro, sembra verosimile che l’esigenza di questa doppia archiviazione[162] sia nel
corso del tempo, sopitosi il conflitto patrizio-plebeo, venuta meno[163] e in
ogni caso negli ultimi secoli della repubblica si ritrova traccia nelle fonti
unicamente e con una certa insistenza dell’obbligo del deposito all’erario[164].
Quali dunque le conseguenze per il caso dell’omissione di
tale deposito, per i senatoconsulti? Numerose fonti, vale a dire precisamente
Livio, Cicerone, Svetonio, Flavio Giuseppe e Tacito, sono tutte concordi ed in
varia misura esplicite nell’affermare che, in mancanza del deposito all’erario,
le decisioni del senato non sarebbero state valide, o forse dovremmo meglio
dire efficaci. Livio riporta che nel 187 a.C. il console Marco Emilio Lepido
depositò all’erario un senatoconsulto che si era svolto in assenza del numero
legale[165]: lo storico
sembra affermare che, in assenza del deposito, il senatoconsulto non avrebbe
dovuto avere efficacia. Svetonio è ancora più chiaro quando racconta che nel 63
a.C. un prodigio accaduto a Roma era stato interpretato come se la natura
stesse per generare un re per il popolo romano, sicché il senato aveva deciso
di non fare allevare nessuno dei nati quell’anno: i senatori che sapevano di
avere la moglie incinta, tuttavia, fecero in modo che il senatoconsulto non
venisse recato all’erario, il che non può che voler dire che gli impedirono di
assumere efficacia[166].
Cicerone, nella prima Catilinaria, pronunciata in senato l’8 novembre
dei quello stesso anno 63 a.C., attacca il suo avversario, ricordando che
esiste da venti giorni un senatoconsulto che lo condanna a morte, ma che, non
essendo mai stato depositato all’erario, non è ancora efficace[167]; lo
stesso, un ventennio dopo, nella quinta Filippica accusa Antonio di
avere fatto registrare senatoconsulti in realtà mai votati, evidentemente per
renderli validi[168]. Flavio
Giuseppe è una fonte assai esplicita: riferisce che il senatoconsulto del 9
febbraio del 44 a.C. intorno agli Israeliti dovette essere rinnovato dopo la
morte di Cesare, a opera dei consoli Publio Dolabella e Marco Antonio, perché
non era stato compiuto il rituale deposito all’erario[169]. Tacito
ricorda negli Annali che nel 21 d.C. un senatoconsulto stabilì che i
decreti del senato di condanna a morte di cittadini non fossero depositati
all’erario se non dopo dieci giorni dalla deliberazione, in modo che di tanto
fosse prosticipata l’esecuzione della pena capitale[170].
È evidente che per gli acta senatus si era posto
fin da età risalente un serio problema di integrità e anche di pubblicità, come
è logico desumere dal fatto che il popolo non partecipava alla loro
approvazione. Il problema fu risolto prevedendosi l’obbligatorietà del deposito
all’erario dei testi dei decreti, sotto la pena dell’inefficacia di quelli, in
modo che essi fossero pienamente validi solo se ai cives fosse data la
teorica possibilità di conoscerne il disposto.
Se tutto questo, corroborato da tanta abbondanza di
fonti, vale per i senatoconsulti, all’inverso dobbiamo dire che non esiste una
singola testimonianza che documenti lo stesso per le leggi comiziali.
L’affermazione di Landucci[171], secondo cui «è assurdo ammettere che un apposito atto
di pubblicazione fosse richiesto quale elemento essenziale della loro validità
per i senatoconsulti, semplici pareri, e non fosse necessario per le leggi,
obbligatorie nel senso più rigoroso della parola, la cui conoscenza era
supposta sempre e che rappresentavano nel modo più alto e solenne l’autorità
politica, il comando e la volontà del popolo», sembra un debole argumentum e
silentio, che lo stato delle nostre attuali conoscenze non consente di
approvare.
Viceversa,
il quadro dell’iter legis, che ci è possibile delineare, conduce
piuttosto a ritenere che le leggi, in quanto approvate in presenza di tutto il
popolo, a differenza dei senatoconsulti potessero essere valide immediatamente
fin dal momento della loro pubblica lettura, la renuntiatio comiziale,
indipendentemente dal deposito all’erario: e questo pare oltremodo comprovato
dalla normale assenza di vacatio per la loro entrata in vigore[172].
Tutto
ciò, naturalmente, non vale in alcun modo a negare che il deposito tanto dei
progetti di legge, quanto delle leggi fosse obbligatorio, che è invece un dato
inequivoco. Del resto, come abbiamo osservato in principio, dalle testimonianze
ciceroniane relative alla lex Iunia Licinia si trae che i colpevoli del
mancato deposito dei progetti di legge all’erario erano puniti (in modo a noi
ignoto) a seguito di un iudicium publicum e possiamo supporre che
analoga disciplina trovasse luogo, a maggior ragione, per i magistrati che
avessero omesso di depositare i testi delle leggi approvate dai comizi. E, se
tutto questo è vero, possiamo altresì osservare che sia la lex Iunia Licinia,
sia l’altra più antica ignota lex, la cui esistenza abbiamo
supposto[173], relativa
al deposito delle leggi approvate, prevedevano una pena per i soggetti autori
della violazione normativa, ma non statuivano la nullità delle leggi, in
relazione alle quali non fossero stati compiuti i rituali depositi: per
utilizzare la nota terminologia dei Tituli ex corpore Ulpiani, possiamo
dunque dire che si trattava di leges minus quam perfectae[174].
Siamo
dunque giunti a stabilire che, mentre per i senatoconsulti il deposito
all’erario integrava il procedimento di entrata in vigore degli stessi, per le
leggi invece questo deve essere escluso.
Proviamo allora a verificare se l’archiviazione
obbligatoria dei testi delle leggi all’erario rispondesse a esigenze di
pubblicità, punto di vista, anche questo, sostenuto da Landucci[175].
A questo proposito, in verità, abbiamo già ampiamente
rilevato che la pubblicità delle leggi riposava su elementi affatto diversi. In
primo luogo, assolveva pienamente tale incombenza la lettura che dei testi
legislativi si compiva nei comizi (ricordiamo la derivazione del termine lex
dal verbo legere). In aggiunta a ciò, poteva servire allo scopo, nei
casi in cui fosse prevista, l’incisione dei testi di legge su lastre di bronzo
e la loro esposizione in Campidoglio o in altri luoghi della città.
Inoltre, si deve riflettere intorno alla natura del luogo
in cui i testi delle leggi erano custoditi: l’erario, vale a dire un tempio
salvaguardato, che custodiva i tesori della comunità e al quale i cittadini non
potevano liberamente accedere. Come ha osservato Culham[176], «a cynic could suggest that
depositing leges or consulta at the aerarium might
represent an effort to make such things inaccessible rather than the reverse». Possiamo anche ricordare le parole con cui Serv. Aen. 8.322 riferiva del deposito delle leggi
all’erario: leges in aerario
“claudebantur”, il che non fa
pensare propriamente a un atto compiuto a scopi di pubblicità.
Vediamo allora se sia sensato pensare che solo esigenze
religiose fossero alla base dell’obbligatoria delazione delle leggi all’erario.
Quest’ipotesi è stata sviluppata dallo stesso Culham[177], il
quale ha rilevato che la pratica di depositare testi normativi in un tempio
sacro quale l’erario non sembra rispondesse in alcun modo né a scopi di
pubblicità, come abbiamo anche noi rilevato, né a scopi di archiviazione (che è
la nostra quarta ipotesi, che considereremo subito in seguito): a suo avviso, i
Romani dell’età repubblicana erano completamente privi del concetto moderno di
archiviazione, fondato sulla possibilità, per i funzionari preposti, di
reperire facilmente i testi originali archiviati e di consegnarne copia al
pubblico. Egli si è allora basato su una testimonianza di Livio[178],
riferita al quinto secolo a.C., da cui si apprende che i plebei nutrivano la
convinzione che la redazione scritta di un testo legislativo e la sua custodia
in un luogo sacro li avrebbe salvati dagli arbitrii dei magistrati. Da queste
esigenze, si sarebbe previsto il deposito delle leggi all’erario.
Mi pare tuttavia che questa ricostruzione si esponga a
diverse obiezioni, tra le quali la principale – e dirimente – è che il testo di
Livio può servire a documentare un’esigenza emersa in un determinato periodo
storico e in un determinato contesto politico-sociale, quale quello delle lotte
patrizio-plebee del quinto secolo a.C. e dei secoli anteriori, ma non è
possibile traslare sic et simpliciter una tale osservazione, che
descrive una realtà molto risalente, al primo secolo a.C. Del resto, abbiamo
visto che a una connessione religiosa con il deposito delle leggi all’erario
per l’età antica allude anche Serv. Aen. 8.322, con le parole hunc sane deum (scil. Saturnum) et
leges recipere et legibus praeesse docet antiquitas. E poi bisogna aggiungere che se la ragione del deposito delle
leggi all’erario era quella di rassicurare i plebei, essi già si rassicuravano
da soli, visto che, a quanto pare, depositavano sia le leggi, sia i
senatoconsulti, sia ovviamente i plebisciti al loro tempio di Cerere (prassi
alla quale peraltro rinunciarono in un’epoca imprecisabile, in cui il solo
deposito dei testi legislativi rimase quello all’erario). Pertanto, io non
escluderei che la pratica del deposito dei testi di legge in forma scritta nei
templi assolvesse, in un’ottica arcaica, funzioni anche religiose, ma non mi
pare possibile affermare che queste ragioni fossero ancora prevalenti nell’età
della repubblica matura.
Non resta allora che prendere in considerazione la quarta
ipotesi, che è quella che vorrei proporre, secondo la quale il deposito serviva
semplicemente alla conservazione e all’archiviazione dei testi ufficiali delle
leggi, altrimenti altrove non conservati, consentendone eventualmente la
consultazione da parte dei cives.
A una tale ipotesi si è contrapposto fortemente Culham,
come abbiamo visto, in quanto ha rilevato che il deposito all’erario non risponde
ai moderni criteri di archiviazione. Egli ha aggiunto che «no one is said to
have consulted or retrieved texts at the aerarium; no one is said to
have looked to it as the repository of a master text»[179] e ha sottolineato
che la prassi della tarda repubblica e del primo principato di custodire nelle
case archivi privati con copie di testi ufficiali sembra altresì smentire una
tale ricostruzione.
A queste obiezioni, vorrei controbattere in primo luogo
che non è vero che non ci siano prove della possibilità del ricorso all’erario
per consultare le leggi. Al contrario, questo è documentato assai chiaramente
da Cic. leg. 3.20.46 (eae leges
sunt, quas apparitores nostri volunt: a librariis petimus...) dove si descrive la prassi di ricorrere
all’erario per conoscere i testi delle leggi e si lamenta il cattivo
funzionamento dell’ufficio. Nello stesso senso non è da trascurare anche la
testimonianza di Plut. Cat. Min. 16-18. La prassi, citata da Culham, di
conservare archivi privati di testi pubblici[180] da un lato conferma il malfunzionamento
dell’erario, ma, dall’altro, non può indurre a pensare che essa fosse l’unico
mezzo con cui si conservava la memoria dei testi
normativi nell’antica Roma[181].
Alla luce di tutto ciò, io ritengo che sia possibile, in
definitiva, affermare che nella repubblica matura il deposito all’erario
serviva a custodire in un luogo sicuro i testi di tutti quegli atti normativi
che erano redatti in forma scritta a tutela della certezza del diritto. Era
dunque un deposito compiuto a scopo di archiviazione, ma anche di conservazione
e – di più – di custodia: le leggi dovevano essere depositate all’erario, in
modo che lì, sicuramente ed eternamente, ne fosse custodito il testo originale
(appunto, il master text), affinché, in caso di dubbi, i cittadini (o,
più in particolare, i magistrati) veramente interessati a conoscere con
esattezza un testo legislativo, di cui avessero smarrito il ricordo o di cui
non avessero privatamente annotato e conservato il testo, che neppure
trovassero pubblicato al Campidoglio o altrove, potessero chiedere ai
magistrati preposti e ai loro ausiliari informazioni[182].
L’obbligo ulteriore previsto nel 62 a.C. dalla lex Iunia Licinia circa
il deposito delle rogationes, poi, fu introdotto per uno scopo ulteriore
alla conservazione: il controllo. Mirava a consentire la verifica ai questori o
ai cittadini eventualmente interessati, che il testo promulgato coincidesse
esattamente con quello votato.
Bisognava
però che i cittadini fossero davvero interessati e motivati a conoscere il
testo di una legge e del suo progetto. Infatti, il funzionamento dell’erario
era purtroppo inaffidabile e criticabile. Era stato reso possibile ai cittadini
il ricorso a esso per conoscere i testi normativi, ma le relative consultazioni
non erano state rese né agevoli, né immediate. Di qui, la prassi collettiva di
mantenere gli archivi privati e di tentare di compiere gli accessi all’erario
solo se strettamente necessari, mettendo anche in conto qualche difficoltà e
qualche attesa.
Ma
tutto ciò si comprende se si pone mente al fatto, che ho cercato di
sottolineare e di portare in primo piano, che il deposito dei testi normativi
all’erario non aveva innanzitutto la funzione di pubblicare quei testi, o di
offrire un servizio al pubblico, ma di conservarne l’originale, per i casi in
cui non fosse diversamente possibile procurarsi il testo, perché non pubblicato
attraverso l’incisione su bronzo.
Da
tutto questo sistema, mi sembra che derivi in fondo un paradosso tipico del
sistema legislativo romano classico, in relazione ai casi di tutte quelle leggi
di cui non fosse prevista la pubblicazione su bronzo: quello per cui la
conoscenza e la reperibilità delle leges erano assai più agevoli
fintantoché esse fossero allo stato di leggi promulgate, o rogationes,
scritte su tabulae dealbatae ed esposte nel foro, mentre lo erano assai
meno dopo la loro approvazione nei comizi, quando venivano soltanto “in
aerario conditae”.
[1]
La datazione si ricava dal nome dei consoli (cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the
Roman Republic, II, 99 B.C.-31 B.C., New York 1952, 172). Vd. comunque sul tema E. Badian, An Unrecognised Date in
Cicero’s Text?, in H.D. Evjen (ed.),
Mnemai. Classical Studies in Memory of Karl K. Hulley, Chico (Calif.) 1984,
97-101.
[3]
Cic. Vatin. 14.33; Sest. 64.135 (e tale denominazione si ritrova,
ovviamente, in Schol. Bob. Cic. p. 140 Stangl, che cito subito appresso nel
testo, e che è relativo appunto a Cic. Sest. 64.135).
[5] Come
ha ben mostrato J.L. Ferrary, Princeps
legis et adscriptores: la collégialité des magistrats romains dans la procédure
de proposition des lois, in RPh 70 (1996), 217-246 (per l’uso dei
termini princeps legis e adscriptor si vd. Cic. leg. agr. II 5.13 e 9.22; nell’opera di Ferrary la considerazione del caso della
nostra legge è a p. 226).
[6] CIL.
I.1, 2a ed., (T. Mommsen, Fasti
Consulares ab A.U.C. CCXLV ad A.U.C. DCCLXVI qui supersunt inter se collati),
79 ss., part. 156 s. sulla nostra legge.
[7] Sui
fasti consolari repubblicani, basti citare qui E. Pais, Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma,
II, Sui Fasti consolari, Roma 1916; G. Costa,
I fasti consolari romani dalle origini alla morte di C. Giulio Cesare,
I.1 Studio delle fonti, e I.2 Materiali per lo studio delle fonti,
Milano 1910 (di entrambi rist. anast. Roma 1971). Sull’ordine dei due consoli
nelle liste ufficiali (che seguiva presumibilmente l’ordine di elezione), L.R. Taylor, T.R.S. Broughton, The Order of the Two Consuls’ Names in the
Yearly Lists, in Mem. Amer.
Acad. in Rome 19 (1949), 3-14; Iid., The Order of the Two Consuls’
Names in Official Republican Lists, in Historia 17 (1968), 166-172;
J. Linderski, Constitutional
Aspects of the Consular Elections in 59 B.C., in Historia 14 (1965),
423-442 (ora anche in Id., Roman
Questions. Selected Papers, Stuttgart 1995, 71-90, con pertinente addendum
a p. 635); A. Drummond, Some
Observations on the Order of the Consuls’ Names, in Athenaeum 66
(1978), 80-108. Sull’elezione dei magistrati nei comizi, di ricente, A. Yakobson, Elections and Electioneering in Rome. A Study in the Political System of
the Late Republic, Stuttgart 1999 e, da ultimo, N. Rampazzo, Quasi praetor non fuerit. Studi sulle elezioni
magistratuali in Roma repubblicana tra regola e eccezione, Napoli 2008, 32
ss.
[8] Si
sospetta, da parte di alcuni studiosi, che in un iudicium publicum svoltosi
nel 58 a.C. contro Publio Vatinio, che era stato questore nel 59 a.C., l’accusa
contro l’imputato fosse di avere violato, durante la sua questura, la lex
Iunia Licinia. Le fonti sul punto (Suet. Iul. 33.1 [che parla
genericamente di aliquot crimina]; Quint. inst. or. 6.3.60; Tac. dial.
21.2, 34.7), tuttavia, sono avare di informazioni specifiche e non ci
consentono né di confermare la supposizione, né di trarre dettagli utili in
relazione alla nostra tematica. Vd. sul punto M.C. Alexander, Trials in the Late Roman Republic, 149 BC to 50
BC, Toronto-Buffalo-London 1990, 125 s. e, da ultimo, O. Licandro, In magistratu damnari.
Ricerche sulla responsabilità dei magistrati romani durante l’esercizio delle
funzioni, Torino 1999, 298 s., 327, con indicazione della bibliografia
precedente.
[9] Rectius:
Cicerone chiama la legge in quel passo Licinia Iunia. Di qui, la
denominazione che si ritrova nel testo dello scolio, come abbiamo detto.
[10] Il
manoscritto riporta clac. Direi che non v’è dubbio che vada emendato in clam.
Riporto altre correzioni: clauso (Klotz), clanculo (Krause). Da
considerarsi anche la correzione, proposta da Halm, di ferri in <in>ferri,
su cui ritorneremo più avanti nel testo (§4). Su tutto ciò, T. Stangl, Ciceronis orationum
scholiastae. Commentarii, Wien 1912 (rist. Hildesheim 1964), 140. Tra le
edizioni precedenti, da tenere presente almeno P. Hildebrandt, Scholia in Ciceronis orationes Bobiensia,
Lipsia 1907 (rist. 1971), 106.
[11] W.A. Becker,
J. Marquardt, Handbuch der
römischen Alterthümer nach den Quellen bearbeitet, II.3, Leipzig 1849, 59.
[12] In
opposizione a Mommsen, che nel frattempo si era contrapposto a Becker e a
Marquardt, come dico subito appresso.
[13] L. Landucci, La pubblicazione delle
leggi nell’antica Roma, in Atti e Memorie della Regia Accademia di
scienze, lettere e arti di Padova 12 (1896), 119-149.
[14] F. von Schwind,
Zur Frage der Publikation im römischen Recht: mit Ausblicken in das
altgriechische und ptolemäische Rechtsgebiet, München 1940, 26 ss.
[15] F. Millar,
The Aerarium and its Officials under the Empire, in JRS 54
(1964), 33-40, part. 34.28.
[16] P.
Culham, Archives
and Alternatives in Republican Rome, in CPh 84 (1989), 100-115, part. 107 e
108.35.
[17] C. Williamson,
Law-Making in the comitia of Republican Rome, Diss. London 1984, 210
ss.; Ead., The Laws of the
Roman People. Public Law in the Expansion and Decline of the Roman Republic,
Ann Arbor 2005, 395 s.
[19] T. Mommsen, Sui modi usati da’
Romani nel conservare e pubblicare le leggi ed i senatusconsulti, in Annali
dell’Istituto di corrispondenza archeologica 39 (1858), 181-212 (anche in Id., Gesammelte Schriften, I-VIII.1, 1905-1913, rist. 1965, part. vol. III, 290-313, a p. 294.2); Id., Römisches Staatsrecht, I3-II3-III, Leipzig 1887-1888 (rist. Basel
1953), part. II3, 546.2 e III, 371.3; qui di seguito faccio riferimento
all’opera citando dalla trad. fr. di P.F. Girard,
Le droit public romain (che
abbrevierò d’ora innanzi come Mommsen,
DP), I-VII, Paris 1889-1896 (ora, II ed. Paris 1984, con pref. di Y. Thomas), part. IV, 246.2 e VI.1, 426.1.
Bisogna per la verità precisare che, nel primo di questi luoghi citati (Gesammelte Schriften, III, 294.2),
l’illustre autore ha affermato la sua opinione che la lex Iunia Licinia imponesse
il deposito dei progetti di legge, ma l’ha fatto basandosi unicamente su Cic. leg.
3.4.11 (su tale passo, qui, infra, §2, nel testo) e osservando invece
che l’autore di Schol. Bob. Cic. p. 140 Stangl e, in aggiunta a lui, anche
Svetonio, in Iul. 28.3 (passo ritenuto da Mommsen pertinente anch’esso
al tema della lex Iunia Licinia), gli sembrano «indubitatamente pensare
ad una delazione della legge dopo la rogazione» (su Suet. Iul. 28.3, infra,
ntt. 58, 123, 135, 149). Nel secondo dei luoghi dell’opera di Mommsen che
abbiamo citato (DP, IV, 246.2), lo stesso autore ha ribadito la medesima
opinione intorno al contenuto della legge, ma ha ritenuto di argomentarla,
questa volta, oltre che su Cic. leg. 3.4.11 anche su Schol. Bob. Cic. p.
140 Stangl e su Suet. Iul. 28.3. In DP, VI.1, 426.1, infine, lo
studioso tedesco ha citato a supporto della sua tesi solo lo Scolio Bobiense e
il passo di Cicerone. Si rileva dunque come Mommsen abbia cambiato nel tempo la
propria opinione: non sul contenuto della lex Iunia Licinia, che ha
sempre ritenuto riferita al deposito dei progetti di legge, ma
sull’interpretazione di Schol. Bob. Cic. p. 140 Stangl. Infatti, nel 1858 egli
aveva interpretato tale scolio come riferito al deposito delle leggi (ritenendo
che lo scoliaste non avesse compreso bene il contenuto della legge Iunia
Licinia), mentre qualche decennio più tardi, nello Staatsrecht, ha riferito il testo dello scolio proprio al
deposito dei progetti di legge.
[20] G. Rotondi, Leges publicae populi
Romani. Elenco cronologico con una introduzione sull’attività legislativa dei
comizi romani, Milano 1912 (rist. Hildesheim
- Zürich - New York 1990), 383 s.
[21] J. Bleicken,
Lex publica. Gesetz und Recht in der römischen Republik, Berlin - New
York 1975, 444 s., 453.
[23] L.A. Burckhardt,
Politische Strategien der Optimaten in der späten römischen Republik,
Stuttgart 1988, 215.
[24] W. Kunkel,
R. Wittmann, Staatsordnung und
Staatspraxis der römischen Republik, II, Die Magistratur, München
1995, 519.
[25] M. Crawford,
General Introduction, in Id.
(ed.), Roman Statutes (d’ora innanzi, semplicemente RS),
London 1996, 9.
[26] P. Moreau, Sublata priore lege. Le retrait des rogationes comme mode d’amendement aux
propositions de loi, à la fin de la république, in P. Sineux (ed.),
Le législateur et la loi dans l’antiquité. Hommage à Françoise Ruzé. Actes
du colloque de Caen, 15-17 mai 2003, Caen 2005, 201-213 (pubblicato anche,
in russo, con il titolo Sublata рriоrе lеgе. Отвод
rоgаtiоnеs как
способ
внесения
поправок к
законодательным
проектам в
конце
Республики, in VDI 4 [2004], 154-166), part. 202.
[27] Solo
per un errore L. Fezzi, Falsificazione
di documenti pubblici nella Roma tardorepubblicana (133-31 a.C.), Firenze
2003, 13, può avere scritto che «la lex Iunia Licinia de legum latione rese
obbligatoria, per il testo delle rogationes, precedentemente alla promulgatio,
la delatio ad aerarium».
[28]
Sull’erario, in generale, Mommsen,
DP, IV, 161 ss., 183, 234 ss., 245; S.B. Platner, T. Ashby,
A Topographical Dictionary of Ancient
Rome, Oxford 1929, 506 ss.; A.H.M. Jones,
The Aerarium and the Fiscus, in JRS 40 (1950), 22-29 (anche in
Id., Studies in Roman Government and Law, Oxford 1960, 101-114); F. Millar,
The Aerarium, cit.; M.
Corbier, L’aerarium saturni et l’aerarium militare. Administration et
prosopographie sénatoriale, Roma 1974, 674 ss.; S. Roda, Il senato nell’alto impero romano, in Il
Senato nell’età romana, Roma 1998, 129 ss., part. 167 s. Sull’erario come
luogo deputato all’archiviazione di documenti, G. Cencetti, Gli
archivi dell’antica Roma nell’età repubblicana, in Archivi 7 (1940), 7 ss. (anche in Id.,
Scritti archivistici, Roma 1970, 171
ss.); P. Culham, Archives, cit.; E. Lodolini,
Lineamenti di storia dell’archivistica
italiana. Dalle origini alla metà del sec. XX, Roma 1991, 17 ss.; P. Delsalle, Une histoire de l’archivistique, Québec 1998, 28 ss.; S. Tarozzi, Ricerche in tema di registrazione e certificazione del documento nel
periodo postclassico, Bologna 2006, 1 ss. Si sostiene da parte di alcuni
studiosi, tra cui la stessa Tarozzi (5.7, ma senza citare fonte alcuna) e M. Bats, Les débuts de l’information
politique officielle à Rome au premier siècle avant J.C., in AA.VV., La mémoire perdue. À la
recherche des archives oubliées, publiques et privées, de la Rome antique, Paris 1994, 19 ss., part. 29.48,
sulla base di CIL. VI, 1314 (= ILS. 35) e di CIL. VI, 1315
(= ILS. 59; ma quest’ultima testimonianza non è pertinente), che a
partire dal 78 a.C. per iniziativa di Quinto Lutazio Catulo (autore della
ricostruzione del Capitolium a seguito dell’incendio dell’83 a.C.; cfr.
Gell. 2.10) l’erario, in quanto archivio, sarebbe stato sostituito dal tabularium
annesso al tempio capitolino di Giove (su cui, R. Delbrück, Hellenistische Bauten in Latium, I,
Strassburg 1907 [rist. Perugia 1979], 23 ss.; G. Lafaye, s.v. Tabularium, in C. Daremberg, E. Saglio, Dictionnaire des Antiquités
grecques et romains, V, Paris 1919, 14 ss.; S.B. Platner, T. Ashby,
A Topographical Dictionary of Ancient
Rome, Oxford 1929, 507; E. Sachers,
s.v. Tabularium, in PWRE., IV.A.2, Stuttgart 1932, 1962 ss.; G. Lugli, Roma antica. Il centro municipale, Roma 1946,
44 ss.; F. Coarelli, Il Foro romano. II. Periodo repubblicano e augusteo, Roma 1986, 209). Di questo non mi
pare esistano le prove. CIL. VI, 1314 a mio avviso può testimoniare
soltanto che il tabularium capitolino si aggiunse all’erario di Saturno,
in funzione di deposito, essendo l’erario ormai pieno, senza tuttavia mai
sostituirlo. Seguo sul punto T. Mommsen,
Sui modi, cit., 309 ss., cui rinvio.
[29] E. Kalbe, Quibus temporibus M. Tullius
Cicero libros de legibus III scripserit, Dresdae 1934, 1 ss.; P.L. Schmidt, Die Abfassungszeit von
Ciceros Schrift uber die Gesetze, Roma 1969 (ma 1970), 259 ss.; E. Rawson, The Interpretation of
Cicero’s De legibus, in H. Temporini
(ed.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.4, Berlin -
New York 1973, 334-356 (anche in Ead.,
Roman Culture and Society. Collected Papers, Oxford 1991, 125 ss.); L. Perelli, Il pensiero politico di
Cicerone. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana, Firenze
1990, 113; F. Fontanella, Introduzione
al De legibus di Cicerone, I, in Athenaeum 85 (1997), 487 ss., part.
487-488.5.
[30] E.A. Robinson, Cornelius Nepos and the
Date of Cicero’s de legibus, in TAPA 71 (1940), 524 ss.; Id., Did Cicero Complete the de
legibus?, in TAPA 74 (1943), 109 ss.; A. Grilli, Data e senso del De legibus di Cicerone, in PP
45 (1990), 175 ss.
[31] Zon.
7.15: OÛtw mn oÙn ¹ tîn dhm£rcwn dunaste…a sunšsth. OŒj kaˆ
¢goranÒmouj dÚo prose…lonto, oŒon Øphrštaj sf…sin ™somšnouj prÕj gr£mmata.
P£nta g¦r t£ te par¦ tù pl»qei kaˆ t¦ par¦ tù d»mJ kaˆ tÍ boulÍ grafÒmena
lamb£nontej, éste mhdn sf©j tîn prattomšnwn lanq£nein, ™fÚlasson (i
passi in greco contenuti in questo testo sono scritti con il carattere
Wingreek). Il passo di Zonara riguarda, come si vede, anche i plebisciti e i
senatoconsulti. A questo proposito è singolare che Mommsen abbia considerato
tale fonte soltanto a proposito dei plebisciti e dei senatoconsulti, ma non a
proposito delle leggi (T. Mommsen,
Sui modi, cit., 293.1 e 297.1). L. Landucci,
La pubblicazione, cit., e P.
Culham, Archives, cit., hanno completamente ignorato
il passo di Zonara. Esso è invece
considerato in M. Bonnefond Coudry,
Sénatus-consultes et acta senatus:
rédaction, conservation et archivage des documents émanant du Sénat, de
l’époque de César à celle des Sévères, in AA.VV., La mémoire perdue, cit., 65-102, part. 67.
[32] In tema, R.M. Ogilvie, A Commentary
on Livy (Books 1-5), Oxford 1965 (rist. 1984), 101 s., 406, 503.
[33] Il
dubbio sussiste per il fatto che la testimonianza di Zonara (peraltro assai
tarda e difficilmente del tutto affidabile), che pur riguarda anche i
plebisciti e i senatoconsulti, mentre per questi altri atti normativi è
confortata da altre fonti (D.1.2.2.21 [Pomp. l.s. enchir.] per i
plebisciti e Liv. 3.55.13 per i senatoconsulti: si vedano le note subito
seguenti), invece per le leggi non trova riscontro altrove.
[34] Questo
almeno è ciò che Dio Cass. 54.36.1 (passo riferito all’anno 11 a.C.) lascia
intendere a proposito dell’archiviazione dei senatoconsulti a opera degli edili
plebei.
[35]
L’obbligatorietà del deposito per i plebisciti, almeno in età risalente, presso
il tempio di Cerere, e non presso l’erario, si ricava da D.1.2.2.21 (Pomp. l.s.
enchir.: Itemque ut essent qui aedibus praeessent, in quibus omnia scita
sua plebs deferebat, duos ex plebe constituerunt, qui etiam aediles appellati
sunt), oltre che dal già citato Zon. 7.15, se è corretto interpretare tali
fonti in questo senso. Vd. sul tema F. von
Schwind, Zur Frage, cit., 30. Per l’opinione che in età arcaica i
plebisciti fossero più agevolmente consultabili delle leggi, A. Watson, Roman Private Law around 200
B.C., Oxford 1971, 8 ss. Se dopo l’equiparazione dei plebisciti alle leggi
le norme riguardanti queste ultime si siano estese ai primi è un punto su cui
vi è incertezza in dottrina. Vd. T.
Mommsen, Sui modi, cit., 293 e Id.,
DP, IV, 168.1, che osserva, per altro verso, che dopo la lex
Hortensia del 287 a.C. la prassi di depositare i plebisciti al tempio di
Cerere sarebbe cessata.
[37] Il
passo che citiamo fa parte di un tratto più lungo del testo, che si estende
lungo i paragrafi 3.3.6-3.4.11 del De legibus.
[39] Cfr.
ad es. F. Cancelli, Marco
Tullio Cicerone. Le leggi, Milano 1969, 222 s. Una discussione sul
tema è ora in A.R. Dyck, A
Commentary, cit., 476, ove si considera la possibilità di altre
integrazioni, che, tuttavia, da un lato fanno entrare il dibattito sul terreno
della mera possibilità, dall’altro non paiono né necessarie, né adeguatamente
motivate.
[40] Non
sono dubbie invece le parole «in aerario». Si consideri T. Mommsen, Sui modi, cit.,
294.2, che polemicamente scriveva che i «numerosi tentativi de’ ciabbattini
letterarj attaccanti... le parole in aerario non meritano veruna
considerazione».
[44] Così
anche E. Rawson, The
Interpretation, cit., 353.63. Contra, ma immotivatamente, A.R. Dyck, A Commentary, cit., 477.
W. Kunkel, R. Wittmann, Staatsordnung, II,
cit., 519, sostengono che Cic. leg. 3.4.11 e Att. 2.9.1
varrebbero a provare che la lex Iunia Licinia imponeva il deposito delle
rogationes, anziché delle leggi approvate. In realtà, l’osservazione non
è logica: da un canto, Cic. leg. 3.4.11 serve solo a provare (unitamente
con leg. 3.19.43, come abbiamo sostenuto nel testo) che al tempo di
Cicerone le rogationes si depositavano all’erario, ma nulla dice su un
eventuale ruolo avuto in proposito dalla lex Iunia Licinia; d’altro
canto, Cic. Att. 2.9.1 è irrilevante in proposito (sul punto,
opportunamente, A.R. Dyck, loc.
cit.).
[45] Su cui
un panorama è in J. Sickinger, Public
Archives and Records in Classical Athens, Chapel Hill - London 1999.
[46] In
Grecia questi magistrati erano detti nomophylakes. Vd. A. Krebs, s.v. Nomophylakes, in C. Daremberg, E. Saglio, Dictionnaire des Antiquités
grecques et romains, IV.1, Paris 1907, 102 ss.; G. De Sanctis, I nomophylakes di Atene, in Entaphia.
In memoria di Emilio Pozzi, Torino 1913, 3 ss.; A. Biscardi, s.v. Nomophylakes, in NNDI, XI,
Torino 1965, 312 ss.; L. O’Sullivan,
Philochorus, Pollux and the Nomophulakes of Demetrius of Phalerum, in JHS
121 (2001), 51 ss.; C. Bearzot, I
nomophylakes in due lemmi di Polluce (VIII 94 nomophylakes e VIII 102 oi
endeka), in C. Bearzot, F. Landucci,
G. Zecchini (eds.), L’Onomasticon di Giulio Polluce. Tra lessicografia e antiquaria, Milano 2007, 43-68. Da ultimo, A. Banfi,
Sovranità della legge. La legislazione di Demetrio del Falero ad
Atene (317-307 a.C.), Milano, in corso di stampa, cap. V.
[47] Vd. W.A. Becker,
Handbuch der römischen Alterthümer nach den Quellen bearbeitet, I,
Leipzig 1843, 27 s.
[48] Vd. T. Mommsen,
De apparitoribus magistratuum Romanorum, in RhM 6 (1848) 1-57,
part. 51 ss.; Id., DP, I,
380 ss.; W. Liebenam, Städteverwaltung im römischen Kaiserreiche,
Leipzig 1900, 277 ss.; J.P. Waltzing,
Étude historique sur les corporations
professionelles chez les Romains depuis les origines jusqu’à la chute de
l’Empire, I-IV, Bruxelles 1895-1900, rist. Hildesheim - New York 1970, part. IV, 130 s.; N. Purcell, The apparitores. A Study in
Social Mobility, in PBSR 54 (1983), 154-160; B. Cohen, Some Neglected ordines: The
Apparitorial Status-Groups, in C. Nicolet
(ed.), Des ordres à Rome, Paris 1984, 23-60. Sugli apparitores
municipali, A.T. Fear, La
lex Ursonensis y los apparitores municipales, in J. González (ed.), Estudios sobre Urso Colonia Iulia Genetiva,
Sevilla 1989, 69-78; J.F. Rodríguez
Neila, Apparitores y personal servil en la administración local de la
Bética, in SHHA 15 (1997), 197-228; S. Giorcelli Bersani, Ceti medi e impiego pubblico nella
Cisalpina occidentale: il caso degli apparitores, in A. Sartori e A. Valvo (eds.), Ceti medi
in Cisalpina (Atti del Colloquio internazionale, Milano 14-16 settembre 2000),
Milano 2002, 59-66; G. Bandelli, M.
Chiabà, Le amministrazioni locali della Transpadana orientale dalla
Repubblica all’Impero. Bilancio
conclusivo, in C. Berrendonner,
M. Cebeillac Gervasoni, L. Lamoine (eds.), Le quotidien
municipal dans l’Occident romain. Actes du Colloque tenu a Clermont-Ferrand et
a Chamalieres du 19 au 21 octobre 2007, Clermont-Ferrand 2008, 19 ss.,
part. 33 s.; J.M. David, Les
apparitores municipaux, ivi, 391-403.
[49] Sugli scribae
(non solo quaestorii) a Roma, vd. T. Mommsen, Ad legem de scribis et viatoribus et de
auctoritate commentationes duae, Kiliae 1843 (quindi anche in Kritische
Jahrbücher für deutsche Rechtswissenschaft 15 [1844], 475 s. e ora in Id., Gesammelte Schriften, III, cit., 455 ss.); A.H.M. Jones, The Roman Civil Service,
in JRS 39 (1949), 38-55 (ora anche in Id.,
Studies in Roman Government and Law, Oxford 1960, 153-175); J. Muñiz Coello, Empleados y
subalternos de la administración romana, I, Los scribae, Huelva
1982; E. Badian, The scribae of the Roman Republic, in Klio 71(1989), 582-603; N. Purcell, The ordo scribarum: A Study
in the Loss of Memory, in MEFRA 113 (2001), 633-674. Sugli scribae
nelle comunità locali [cfr. Tabula Heracleensis (RS nr. 24),
ll. 80-81; lex Coloniae Genetivae (RS nr. 25), cap. 62; lex
Irnitana cap. 73, ll. 32-35], vd. J.F. Rodríguez
Neila, Administración financiera y documentación de archivo en las
leyes municipales de Hispania, in Cahiers Glotz 14 (2003), 115-129;
G. Bandelli, M. Chiabà, Le
amministrazioni, cit., 33 s.
[50] Sul
tema, E. Rawson, The
Interpretation, cit., 352 ss.; A.R. Dyck,
A Commentary, cit., 549. Sul pensiero politico di Cicerone, in generale,
soprattutto L. Perelli, Il
pensiero politico di Cicerone. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica
romana, cit., 113 ss. (e, del medesimo, già Il pensiero politico di
Cicerone. Antologia dagli scritti politici, Torino 1965, e Il De
republica e il pensiero politico di Cicerone, Torino 1977). Su Cic. leg.
3.20.47 vd. anche P. Cerami, Potere
ed ordinamento nella esperienza costituzionale romana, Torino 19963, 39
ss.; Id., Rapporti
endogovernativi e coordinamento politico nel pensiero di Cicerone, in F. Salerno (ed.), Cicerone e la
politica. Atti del convegno di diritto romano, Arpino 29 gennaio 2004,
Napoli 2004, 39 ss., part. 50 ss. [e cfr. altresì P. Cerami, Favor populi e comparatio dignitatis in
mandandis magistratibus, in AUPA 41
(1991), 5 ss. e in Esercizio del potere e prassi della consultazione. Atti
dell’VIII Colloquio internazionale romanistico-canonistico (10-12 maggio 1990),
Città del Vaticano 1990, 191 ss.]; F. Fontanella,
Introduzione al De legibus di Cicerone, II, in Athenaeum 86
(1998), 179 ss., part. 187; G. Valditara,
Attualità del pensiero politico di Cicerone, in Cicerone e la
politica, cit., 83 ss., part. 112 s.; Id.,
Riflessioni su principi fondamentali e
legge nella repubblica romana, in L.
Labruna (dir.), M.P. Baccari, C.
Cascione (cur.), Tradizione
romanistica e Costituzione, Napoli 2006, 547 ss.; A. Maffi, Il controllo sui magistrati nei progetti costituzionali nei progetti di
Platone e di Cicerone, ivi, 425
ss.
[51] P.
Culham, Archives, cit., 104; P.
Moreau, La mémoire fragile: falsification et destruction des documents publics
au Ier s. av. J.-C., in AA.VV., La
mémoire perdue, cit., 121-147, part. 121.
[53] In età
repubblicana le annotazioni compiute dai magistrati nel corso della loro carica
erano dette in età tardo-repubblicana commentarii (vd. A. von Premerstein, s.v. Commentarii, in PWRE, IV.1,
Stuttgart 1900, 726 ss.) e, quando depositati, erano considerati tabulae
publicae (op. cit., 755 s.).
Cfr. Cic. Verr. sec. 1.46.119 e 3.79.183; Sull. 14-15.42. Cfr.
anche Att. 7.3.7.
[54]
Naturalmente, ciò potrebbe porre un problema, perché, se si ritenesse –
seguendo Landucci – che ancora dopo il 62 a.C. non esistesse (ex lege Iunia
Licinia o per altra fonte normativa) l’obbligo di deposito per i progetti
di legge, si dovrebbe desumere che delle leggi approvate non venisse custodita
alcuna copia del testo, tra il momento della loro approvazione e quello
dell’uscita dalla carica dei magistrati che le avevano rogate, a meno che le
stesse non fossero state pubblicate. Possiamo tuttavia superare questo
problema, in quanto, come già s’è detto e come affermo immediatamente appresso
anche nel testo, a prescindere dal ruolo che deve essere riconosciuto alla lex
Iunia Licinia, noi riteniamo, facendo affidamento su Cic. leg.
3.4.11, che tra il 50 e il 40 a.C. l’obbligo di deposito dei progetti di legge
esistesse sicuramente.
[56] A
prescindere – ripetiamo – dal ruolo della lex Iunia Licinia, la quale,
se pertinente al deposito delle leggi rogate (secondo l’opinione di Landucci),
potrebbe avere ribadito l’antico obbligo consuetudinario: affronteremo questo tema
nel §4.
[58] Contra
L. Fezzi, Falsificazione,
cit., 9, sulla base del già citato passo di Suet. Iul. 28.3 (Acciderat autem, ut is legem de iure
magistratuum ferens eo capite, quo petitione honorum absentis submovebat, ne
Caesarem quidem exciperet per oblivionem, ac mox lege iam in aes incisa et in
aerarium condita corrigeret errorem), che, tuttavia, io non ritengo possa
attestare il deposito di tavole bronzee all’erario, secondo una prassi di cui
diremo infra, §3, e come mi propongo di dimostrare ex professo in
altra sede.
[59] Tabulae publicae. Cfr. Cic. Verr. sec. 3.79.183; Flacc. 18.43; Arch.
4.8-9. I senatori incaricati di mettere ordine nell’erario nel 16 d.C. furono
infatti chiamati curatores tabularum publicarum: CIL. X, 5182 (= ILS.
972); CIL. XI, 6163 (= ILS. 967); CIL. VI, 916 (= CIL.
VI, 31201). Cfr. Dio Cass. 57.16.2. Vd. M. Hammond,
Curatores tabularum publicarum, in L.W. Jones (ed.), Classical and Medieval Studies in Honor of
Edward Kennard Rand, New York 1938, 125-131; F. Millar, The aerarium, cit., 34 s. Sulla grandissima
importanza della tavole cerate nel mondo romano in generale vd. G. Lafaye, s.v. Tabella, in C. Daremberg, E. Saglio, Dictionnaire des Antiquités
grecques et romains, V, cit., 1-5; E. Kornemann, s.v. Tabulae publicae, in PWRE, IV.A, Stuttgart 1932, 1957-1962; E. Sachers, s.v. Tabula,
in PWRE, IV.A.2, Stuttgart 1932, 1881-1886; L. Wenger, Die Quellen des
römischen Rechts, II, Wien 1953, 74 ss.; S. Augusti, Sulla natura e
composizione delle tavolette cerate, in RAAN
37 (1962), 127-128; R. Marichal, Les tablettes à écrire dans le monde romain,
in E. Lalou (ed.) Les
tablettes à écrire de l’antiquité à l’époque moderne (Colloque CNRS, Paris 1990), Turnhout 1992, 165-185. La
dottrina romanistica ha dedicato particolare attenzione alla tabulae di
cera, con riferimento ai rapporti privati. Vd. in tal senso soprattutto V. Arangio-Ruiz, Documenti probatorii e dispositivi in diritto romano, in Atti del terzo Congresso di diritto
comparato, II, Roma 1953,
353 ss.; M. Talamanca,
s.v. Documentazione e documento (diritto romano), in Enciclopedia del Diritto, XIII, Milano 1964, 548 ss.; R. Büll (unter Mitw. von E. Moser, K. Kühn), Vom Wachs. Hoechster Beiträge zur Kenntnis der Wachse, I.9, Wachs als
Beschreib und Siegelstoff. Wachsschreibtafeln und ihre Verwendung,
Frankfurt a.M. 1968, 785 ss.; M. Amelotti,
G. Costamagna, Alle origini
del notariato italiano, Roma 1975 (rist. Milano 1995), 8 ss.; M. Amelotti, s.v. Notaio (diritto romano), in Enciclopedia del Diritto, XXVIII, Milano 1978, 553 ss.; Id., Notariat und Urkundenwesen aur
Zeit des Prinzipats, in H. Temporini
(ed.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.13, Berlin -
New York 1980, 386-399; M. Amelotti,
Documentazione privata e prova. Periodo classico, in Atti
del XVII Congresso internazionale di Papirologia, III, Napoli 1984, 1145
ss.; Id., Negocio, documento y
notario en la evolucion del derecho romano, in Anales de la Academia
Matritense del Notariado 29 (1987),137-145; Id., Genesi del documento e prassi negoziale, in Contractus
e pactum. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova
riproduzione della littera Florentina, Napoli 1990, 309-324 (alcuni di
questi scritti riprodotti anche in Id.,
Scritti giuridici, a cura di L. Migliardi
Zingale, Torino 1996); L. Bove,
Documentazione privata e prova. Le
tabulae ceratae, in Atti del XVII
Congresso internazionale di papirologia, III, Napoli 1984, 1190 ss. [anche
in Labeo 31 (1985), 155-167].
[60] In
tema, C.H. Roberts, The Codex, in PBA 40 (1954), 169-204. Cfr. CIL.
X, 7852 (= ILS. 5947), ll. 1-4; CIL. XI,
3614 (= ILS. 5918a); Cic. Att. 13.33.
[61] Su di
essi, complessivamente, si vd. la trattazione di G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina,
Bologna 1954, 18 ss. (ora, riedizione a cura di G. Guerrini Ferri, Lineamenti di storia della scrittura
latina: dalle lezioni di paleografia, Bologna, a. a. 1953-54, Bologna 1997,
21 ss.); da ultima, M. Spallone, Giurisprudenza
romana e storia del libro, Roma 2008 (ma 2009).
[62] Vd.
sul tema, in generale, C. Nicolet, Avant-Propos. À la
recherche des archives oubliées: une contribution à l’histoire de la
bureaucratie romaine, in AA.VV., La mémoire perdue, cit., I-XVIII. Vd. anche J.F. Rodríguez
Neila, Archivos municipales en las provincias occidentales del
Imperio Romano, in Veleia 8-9 (1991-1992), 145-174.
[63] Tra le
trattazioni istituzionali sulla formazione delle leggi e sulla competenza dei
comizi, mi limito qui a citare G. Scherillo,
A. Dell’Oro, Manuale di Storia
del Diritto romano, Milano 1987, 199 ss.; F. Càssola, L. Labruna, in AA.VV. (sotto la direzione di M. Talamanca), Lineamenti di storia del
diritto romano, Milano 19892, 225 (comizi tributi); M. Talamanca, ibid., 226 ss.
(struttura della legge comiziale). Circa le funzioni legislative dei comizi
tributi, G.W. Botsford, The
Roman Assemblies. From
their Origin to the End of the Republic, New York 1909 (rist. New York 1968 e Union [N.J.]
2001), 283 ss. Da tenersi presente anche L.R. Taylor, The Voting Districts of
the Roman Republic. The Thirty-five Urban and Rural Tribes, Rome
1960; Ead., Roman Voting
Assemblies from the Hannibalic War to the Dictatorship of Caesar, Ann Arbor
1966 (rist. 1990). Vd. altresì G. Nocera,
Il potere dei comizi e i suoi limiti, Milano 1940; D. Daube, Forms of Roman Legislation, Oxford 1956; G. Chicca, Rilievi sul processo formativo della norma
giuridica in seno alla comunità quirite, in RIFD. 37 (1960), 132
ss.; C.Z. Mehesz, La
ley y el romano, in La ley 129 (1968), 4-9; A. D’Ors, La ley romana, acto de magistrado, in Emerita
37 (1969), 137-148; F. Serrao,
s.v. Legge (diritto Romano), in Enciclopedia del diritto, XXIII,
Milano 1973, 794-850; Id., s.v. Lex, in Enciclopedia Virgiliana,
III, Roma 1987, 199-202; A. Watson,
Law Making in the Later Roman Republic, Oxford 1974; Id., The Evolution of Western
Private Law, Baltimore 2001, 1-18; A. Magdelain,
La loi a Rome. Histoire d’un concept, Paris 1978; J.L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’epoca repubblicana, in L. Firpo (dir.), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, I, L’antichità classica, a cura di L. Bertelli (et al.), Torino 1982,
723-804, part. 724-731; G.I. Luzzatto, Appunti sulla
pubblicazione delle leggi nell’impero romano. A proposito della lex Tarentina
recentemente pubblicata, in Archeîon idiotikoû dikaíou 16 (1983, Studi
Pringsheim), 86-93; M. Ducos,
Les Romains et la loi, Paris 1984; A. Biscardi,
Sul concetto romano di lex, in Estudios J. Iglesias, I, Madrid
1988, 157-166; H. Mouritsen, Plebs
and Politics in the Late Roman Republic, Cambridge 2001, 63 ss.; K. Sandberg, Magistrates and
Assemblies. A Study of Legislative
Practice in Republican Rome, Rome
2001, part. 1 ss., 41 ss.; F. Reduzzi
Merola, Iudicium de iure legum. Senato e leggi nella tarda repubblica,
Napoli 2001, part. 1-22, 141 ss.; Ead.,
Aliquid de legibus statuere. Poteri del senato e sovranità del popolo nella
Roma tardorepubblicana, Napoli 2007, part. 1-28, 149 ss. Alcuni studi
generali sul tema sono stati recentemente raccolti in AA.VV., Senatus
populusque Romanus. Studies in Roman Republican Legislation, Helsinki 1993
(tra essi richiamo qui U. Paanen,
Legislation in the comitia centuriata, 9 ss.; J. Vaahtera, On the Religious Nature of the Place of
Assembly, 97 ss.; K. Heikkilä,
Lex non iure rogata: Senate and the Annullment of Laws in the Late Roman
Republic, 117 ss.) e in P. Sineux (ed.),
Le législateur et la loi dans l'antiquité, cit. Per una bibliografia
ragionata su singole leggi, di recente, T. Lecaudey,
Les lois de la république et du haut-empire romains, s.l. 2002.
[65] C. Williamson, The Laws, cit.,
table 1.15, riporta un elenco degli «sponsors of public law by office», 90-44
a.C. Sul tema vd. anche G. Valditara,
Gai. 3,128 – I. 4, 3, 15 e l’evoluzione del concetto di legislator, in Nozione,
formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze
moderne. Ricerche dedicate al Professor Filippo Gallo, II, Napoli 1997, 481
ss. (ora anche in Id., Studi di diritto pubblico romano, Torino 1999, 89
ss.).
[66] Vd. C. Nicolet,
Le sénat et les amendements aux lois à la fin de la république, in Revue
historique de droit française et étranger 36 (1958), 260-275.
[67] Da
ricordarsi la curiosa spiegazione del termine promulgari indicata da Paul.Fest. s.v. “Promulgari” (p. 251 Lindsay) secondo cui Promulgari leges
dicuntur, cum primum in vulgus eduntur, quasi provulgari.
[68] Vale a
dire, con una sostanza colorante bianca costituita da carbonato basico di
piombo, oggi ritenuta nociva.
[69] Lex
repetundarum, RS nr. 1, ll. 15 e 18; Tabula Heracleensis, RS
nr. 24, ll. 13-16. Cfr. anche L. Landucci,
La pubblicazione, cit., 134.46.
[70] Le
eccezioni al rispetto del trinundinum, segnalate in Mommsen, DP, VI.1, 432.9, si
avevano principalmente quando i consoli erano, per motivi di emergenza,
autorizzati da un senatoconsulto a convocare i comizi primo quoque tempore (o
die). Cfr. Liv. 4.58.8, 27.33.9, 41.14.3, 42.28.1, 43.11.3, 44.17.2. In
Liv. 24.7.11, 25.2.4, 27.6.2 non vi è menzione dell’autorizzazione senatoria,
ma Mommsen sospetta che essa sia omessa dalla fonte. In Liv. 6.37.12 è
rappresentato un caso di rinvio dell’adunanza dei comizi, per la votazione di
varie proposte in materia costituzionale, pur essendo possibile l’immediato
svolgimento della riunione comiziale. Cfr. anche Macrob. 3.17.7 (lex Licinia
sumptuaria) e la lex Valeria Aurelia, RS nr. 37, Tabula
Siarensis, frg. (b), col. II, ll. 27-30, con M. Crawford, RS, 10, 536.
[71] Per la
prima ipotesi, A.K. Michels, The
Calendar of the Roman Republic, Princeton 1967, 191 ss. Per la seconda, L. Lange, Die promulgatio trinum
nundinum, die lex Caecilia Didia un nochmals die lex Pupia, in RhM
30 (1875), 350 ss. (anche in Id.,
Kleine Schriften aus dem Gebiete der classischen
Alterthumswissenschaft, II, Göttingen 1887, 214-270); A.W. Lintott, Trinundinum, in CQ
15 (1965), 281-285; Id., Nundinae
and the Chronology of the Late Roman Republic, in CQ 18 (1968),
189-194; F. Pina Polo, Las
contiones civiles y militares en Roma, Zaragoza 1989, 96 ss.; W. Kunkel, R. Wittmann, Staatsordnung,
II, cit., 76.79. Sul tema, in generale, M. Crawford,
RS, 9 s.; N. Rampazzo, Quasi
praetor, cit., 45 s.
[72] Per
gli argomenti si veda T. Mommsen,
Die Römische Chronologie bis auf Caesar, Berlin 1859, 230, 243; Mommsen, DP, VI.1, 430 s.
[73] Il
principale argomento contrario è rappresentato da Macrob. Sat. 1.16.34, che implica che le rogationes erano esposte al
popolo a partire dal terzo giorno di mercato anteriore alla data del voto, dal
che si deduce che il termine di esposizione potesse ridursi a soli diciassette
giorni. Vd. sul tema da ultimo M. Crawford,
RS, 10, con attento e preciso riesame della questione.
[74] Sulle contiones nella repubblica (e tarda
repubblica) romana, tra i contributi più recenti, E. Noe, Per la formazione del consenso nella Roma del I
secolo a.C., in Studi di storia e storiografia antiche per E. Gabba,
Como 1988, 49-72; F. Pina Polo, Las
contiones, cit.; Id., Contra
arma verbis. Der Redner vor dem
Volk in der späten römischen Republik,
trad. tedesca di E. Liess,
Stuttgart 1996 (quindi, F. Pina Polo,
Contra arma verbis. El
orador ante el pueblo en la Roma tardorrepublicana, Zaragoza 1997), 48 ss. (cfr.
anche Id., Procedures and
Functions of Civil and Military contiones in Rome, in Klio 77
[1995], 203 ss.; Id., I rostra
come espressione di potere della aristocrazia romana, in G. Urso [ed.], Popolo e potere nel
mondo antico. Atti del Convegno internazionale, Cividale del Friuli, 23-25
settembre 2004, Pisa 2005, 141 ss.); E. Flaig,
Entscheidung und Konsens. Zu den
Feldern der politischen Kommunikation zwischen Aristokratie und Plebs, in M. Jehne
(ed.), Demokratie im Rom? Die Rolle des Volkes in der Politik der römischen
Republik, Stuttgart 1995, 77-127; K.J. Hölkeskamp,
Oratoris maxima scaena. Reden vor dem Volk in der politischen Kultur der
Republik, ivi, 35 ss.; Id.,
Senatus populusque Romanus. Die politische Kultur der Republik, Dimensionen
und Deutungen, Stuttgart 2004, 234 ss.; H. Mouritsen, Plebs, cit., 38 ss.; P. Moreau, Donner la parole au peuple? Rhétorique et manipulation des contiones à la fin de la
République romaine, in S. Bonnafous, P. Chiron, D. Ducard,
C. Lévy (eds.), Argumentation
et discours politique. Antiquité grecque et latine, Révolution française, monde
contemporain. Actes du colloque international de Cerisy-la-Salle, Rennes,
Rennes 2003, 175-189; F. Salerno,
Le contiones dalla lex Hortensia a Cesare, in Index 35 (2007),
151 ss. [a proposito di D. Hiebel,
Rôles institutionnel et politique de la contio sous la République romaine (287 avant J.-C. - 49 avant J.-C.),
Paris (thèse) 2004]; C. Tiersch, Politische Öffentlichkeit statt
Mitbestimmung? Zur Bedeutung der contiones in der mittleren und späten
römischen Republik, in Klio 91
(2009), 40-68 (part. 50, sui progetti di legge).
[75] Mommsen, DP, VI.1, 432 elenca
vari altri casi antichi, in materia di approvazioni di leggi (Dio Cass. 10.3),
di elezioni di magistrati (i decemviri legibus scribundis in Liv.
3.35.1) e di processi criminali (Dio Cass. 7.58 e 10.35).
[79] C. Bardt, Zur
lex Caecilia Didia und noch einmal: Senatssitzungstage der späteren Republik,
in Hermes 9 (1875), 305-318; L. Lange,
Die promulgatio, cit.; Id.,
Römische Alterthümer, I, Einleitung und der Staatsalterthumer,
Berlin3 1876 (rist. Hildesheim - New York
1974), 365 s.; B. Levick, Professio,
in Athenaeum 79, n.s. 59 (1981), 378 ss., part. 384 s.; L. De
Libero, Obstruktion. Politische Praktiken im Senat und in der
Volksversammlung der ausgehenden romischen Republik (70-49 v. Chr.),
Stuttgart 1992, 89 ss.; R. Stewart,
Public Office in Early Rome. Ritual Procedure and Political Practice, Ann Arbor 1998, 108-110; A. Lintott, The Constitution of the
Roman Republic, Oxford 1999, 44.
[81] Cfr. Cic. Phil. 5.3.8; Sest.
64.135. Vd. altresì Cic. Mur. 8.17; Att. 2.9.1; Schol. Bob.
Cic. p. 140 Stangl (Caecilia est autem ed Didiam, quae iubebant in
promulgandis legibus trinundinum tempus observari).
[82] Vd. RS
nr. 1, l. 72, ove è scritto che la partecipazione all’assemblea liberava in
certi casi il cittadino da altri doveri pubblici, a meno che nell’assemblea non
si approvasse un provvedimento in saturam: sei quid in saturam
feretur.
[83]
Cicerone si sofferma sul divieto di approvare leges saturae in due sue
opere. Nel De legibus si riferisce a esso come a un dato assolutamente
normale per l’ordinamento romano, in tema di approvazione delle leggi: nec
plus quam de singulis rebus semul consulunto (leg. 3.4.11) e de
singulis rebus agendis (leg. 3.19.43). Nell’orazione Pro domo sua,
l’oratore attacca Clodio per avere ottenuto l’approvazione di varie leggi
mancanti di unità d’oggetto (pluribus de rebus uno sortito rettulisti:
Cic. dom. 19.50; tra tali leggi, ve n’era, in particolare, una contro
Cicerone stesso: dom. 20.51-53). Sulla definizione delle leggi saturae,
come leggi in cui venivano approvate contemporaneamente norme relative a
materie diverse, vd. Diom. (vol. I, p. 486 Keil: a lege satura quae uno
rogatu multa simul comprehendat); Lucil. fr. 1.15 Charpin (= 48 Marx). Per
queste fonti, Mommsen, DP,
VI.1, 383.2. Vd. anche Fest. s.v. Satura, (p. 416 Lindsay) e Paul.Fest. s.v. “Satura” (p. 417 Lindsay).
[84] Vd. in
tema P. Moreau, Sublata priore
lege, cit. Ogni volta che si apportavano modifiche a un progetto di legge,
esso doveva essere ridepositato di nuovo e, ovviamente, il trinundinum doveva
essere calcolato per intero dal nuovo deposito.
[85] Vd. M.
Nicolet, Il mestiere di cittadino nell’antica Roma [1976 e 19792], trad. it.
di F. Grillenzoni, Roma 1980, 342
ss.; F. Salerno, Tacita
libertas. L’introduzione del voto segreto nella Roma repubblicana, Napoli
1999, 123 ss. (su cui la rec. di G.
Luraschi, Sull’introduzione del voto segreto nella Roma repubblicana,
in Index 29 [2001], 185-198); F. Salerno,
Cicerone e il voto segreto, in Id.
(ed.), Cicerone e la politica, cit., 131 ss.; Id., Una riflessione in
margine a Cic. De amic. 12.41: libertas populi e segretezza del voto, in L. Labruna (dir.), M.P. Baccari, C. Cascione (cur.), Tradizione romanistica, cit., 775 ss.;
R. Soscia, Il voto segreto ad
Arpino in un accenno ciceroniano, in Cicerone e la politica, cit.,
157 ss.; P. López Barja de Quiroga,
Imperio legítimo. El
pensamiento político romano en tiempos de Cicerón, Madrid, 2007, 82 ss.
[86] Il
termine tecnico era figere. Cfr.
ad es. Cic. Phil. 1.1.3, 12.5.12; fam. 12.1.1; Att.
14.1.1; Plin. Ep. 8.6.16. Vd. soprattutto Mommsen, DP, VI.1, 482.1. Cfr.
M. Bats, Les débuts, cit.,
30.56.
[87] La
fonte più chiara sul punto è Suet. Vesp. 8.5, che fa espressamente
riferimento appunto solo a trattati internazionali, non, come i più ritengono
(W.A. Becker, Handbuch, I,
cit., 27; P. Culham, Archives, cit., 107), alle leggi in generale. È però possibile che altre
leggi, anche non inerenti a trattati internazionali, trovassero spazio al
Campidoglio e la cosa è confermata, almeno, da Liv. 7.3 e da Plut. Cic.
34; Cat. min. 40; Dio Cass. 39.21.1-2.
[88] T. Mommsen, Sui modi, cit., 303
ss., con indicazione delle fonti rilevanti; L. Landucci, La pubblicazione, cit., 124.
[90] Copia
di Delfi, Blocco B, ll. 24-26. Altri testi fanno riferimento all’obbligo di
pubblicare liste o altri dati con essi correlati: lex repetundarum (RS
nr. 1, ll. 165-166); Fragmentum Tarentinum (RS nr. 8, ll.
14-19); lex de XX quaestoribus (RS nr. 14, col. II, ll. 38-41); Tabula
Heracleensis (RS nr. 24, ll. 13-16). Vd. Mommsen, DP, VI.1, 481; M. Crawford, RS, 20.
[91] Vd.
Liv. 3.55.7 per le leggi delle XII Tavole. Per le leggi di età tardo-repubblicana,
vd. soprattutto Cic. Phil. 1.10.26; Att. 3.15.6 (= SB 60.6). Per
i senatoconsulti, Plin. Ep. 8.6.13. T. Mommsen,
Sui modi, cit., 299.
[96] RS
nr. 14, col. II, ll. 38-41. Nel senso da me accennato nel testo, T. Mommsen, Sui modi, cit., 300
(cui rinvio in generale per una trattazione sulla pubblicazione delle leggi). Contra,
E. Gabba, M. Crawford, RS, 298, 300.
[98] Vd.,
con riferimento alle leggi di Clodio, Plut. Cic. 34; Cat. min.
40; Dio Cass. 39.21.1-2. Non è da escludersi che qualche indizio in tal senso
possa implicitamente trarsi da Suet. Vesp. 8.5, nonostante le
perplessità di T. Mommsen, Sui
modi, cit., 303. Vd. anche Cic. Phil. 2.36.91, 5.4.12. W.A. Becker, Handbuch, I, cit., 27.
[100] Plin. nat.
35.2.7 (tabulina codicibus implebantur et monimentis rerum in magistratu
gestarum); Fest. s.v. “Tablinum” (p.
490 Lindsay: proxime atrium locus
dicitur, quod antiqui magistratus in suo imperio tabulis rationum ibi habebant
publicarum rationum causa factum locum). Cfr. anche Paul.Fest. s.v. “Tablinum” (p. 491 Lindsay) e,
sulla disposizione dei locali all’interno delle case private, Vitr. 6.4. Vd. W. Gell,
Pompeiana: The Topography, Edifices and Ornaments of Pompeii, II, London
1837, 98; W. Smith, A
Dictionary of Greek and Roman Antiquities, London 18532, s.v. Domus,
II, Roman, 426 ss., part. 428; A. Wallace-Hadrill,
The Social Structure of the Roman House, in BSR 56 (1988), 43-97;
Id., Houses and Society in
Pompeii and Herculaneum, Princeton 1994, 5 ss.; J.R. Clarke, The
Houses of Roman Italy, 100 B.C.-A.D. 250. Ritual, Space, and Decoration,
Berkeley 1991, 4; H.I. Flower, Ancestor
Masks and Aristocratic Power in Roman Culture, Oxford 1996, 203 ss.; M. George,
Repopulating the Roman House, in B. Rawson,
P. Weaver (eds.), The Roman Family in Italy. Status, Sentiment, Space, Oxford 1999, 299 ss., part. 305 s.; S.P. Ellis, Roman Housing, London
2002, 36 ss.; G. Achard, La
communication à Rome, Paris 20063, 22.
[101] Vd.
soprattutto Caelius in Cic. fam. 8.1.1, 8.2.2, 8.11.4. Su questo tema,
anche P. Culham, Archives, cit., 104 s.
[103] Vd. in tema R. Besnier,
Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps du rois,
in Studi in memoria di E. Albertario, II, Milano 1953, 7-27.
[106] Vd. G. Ries,
Prolog und Epilog in Gesetzen des Altertums, München 1983, 127 ss.; M. Crawford, RS, 15.
[112] Il
dibattito sul tema è molto complesso e articolato. In questa sede sia
sufficiente il rinvio alla trattazione di C. Nicolet,
M. Crawford, RS, 355 ss.,
ove ampio resoconto bibliografico.
[119] Cfr.
ancora M. Crawford, RS,
10, che aggiunge alla lista la lex per Druso Cesare (RS nr. 38) e
la lex de imperio Vespasiani (RS nr. 39).
[120] Sul
passo e sulla vicenda da esso rappresentata, in generale, H. Lehmann, Ein Gesetzentwurf des P. Clodius zur Rechtsstellung der Freigelassenen,
in BIDR 83 (1980), 254-261; L. Peppe, Ancora a proposito di
Cicerone Mil. 87 e della legislazione di Clodio, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, IV, Napoli 1984,
1675-1687. Sulla legislazione tribunizia di Clodio, di recente, i contributi di
W.J. Tatum, The Patrician
Tribune. Publius Clodius Pulcher, Chapel Hill - London 1999, 114 ss.; L. Fezzi, La legislazione tribunizia di
Publio Clodio Pucro (58 a.C.) e la ricerca del consenso a Roma, in SCO 47.1
(1999), 245-341; Id., Il
tribuno Clodio, Roma-Bari 2008, 52 ss.
[123] La
prassi appare documentata a mio avviso anche da Suet. Iul. 28.3, di cui,
come ho detto sopra, mi propongo di trattare espressamente altrove.
L’interpretazione di Suet. Iul. 28.3 ha suscitato in effetti notevoli
incertezze nella dottrina. Nel senso da me qui sostenuto si è pronunciato T. Mommsen, DP, IV, 246.2 e VI.1,
425.5 (Mommsen si è così espresso dopo avere cambiato idea; in precedenza,
infatti, nell’opera Sui modi, cit., 294.2, aveva affermato che Svetonio
gli sembrava «indubitatamente pensare ad una delazione della legge dopo la
rogazione»: vd. supra, nt. 19). Analogam., ora, A. Lintott, Cicero as Evidence: A
Historian’s Companion, Oxford 2008, 435. Nel senso che la fonte faccia
invece riferimento alla pubblicazione su bronzo di una legge approvata, vd. L. Landucci, La pubblicazione,
cit., 135.46; E. Meyer, Caesars
Monarchie und das Principat des Pompejus. Innere Geschichte Roms von 66 bis 44
v. Chr., 3a ed., Stuttgart-Berlin 1922, 243; M. Cary, H.E. Butler, C. Svetoni Tranquilli Divus Iulius,
Oxford 1927 (rist. 1970), 79-80; M. Crawford, RS, 9; C. Williamson, Law, cit., 169 ss.,
202 ss.; A.R. Dyck, A Commentary,
cit., 477; L. Fezzi, Falsificazione,
cit., 78 ss.
[129] W.A. Becker,
J. Marquardt, Handbuch,
II.3, cit., 59 («ein Verbot, dass neue Gesetze nicht ohne Zeugen in das aerarium
aufgenommen werden sollten»); L. Landucci,
La pubblicazione, cit., 145 s.
[131] Vorrei
segnalare che hanno seguito Landucci nell’opinione che lo scolio indichi
l’obbligatorietà della presenza di testimoni al momento del deposito dell’atto
all’erario anche gli stessi G. Rotondi,
Leges publicae, cit., 383 e J. Bleicken,
Lex publica, cit., 453, i quali pur hanno ritenuto che l’atto in
questione, del cui deposito si tratta, sia la proposta di legge promulgata e
non la legge già approvata.
[132] Una
versione esattamente letterale dello scolio sarebbe: «Invero (la legge) Licinia
e Giunia, approvata ecc.». Per migliore chiarezza, preferisco però rendere le
parole iniziali dello scolio secondo la traduzione, formalmente un poco più
libera, che ho scritto qui sopra nel testo.
[133] Mi
limiterò a indicare Cic. Pro Cornelio de maiestate, I, fr. 32 Puccioni,
in Ascon., In Cornel., p. 72 Cl.; Caes. civ. 3.20.5-21.1; Prop.
2.7.1a-2; Ascon. 58-59 Cl. Ampia trattazione sul tema è in P. Moreau, Sublata priore lege,
cit., passim e part. 207.
[136] C. Halm, M. Tulli Ciceronis Orationes,
I.2, M. Tulli Ciceronis Oratio Pro P. Sestio, Lipsiae 1845.
[138] Ma non
Landucci stesso: L. Landucci, La
pubblicazione, cit., 141.59. Recentemente, invece, si è espresso a favore
della correzione A.R. Dyck, A
Commentary, cit., 477. Da
considerarsi anche la più invasiva correzione di Nipperdey, clam
legem ferri <aut> aerario <inferri>, che tuttavia non porta il
passo ad assumere un senso apprezzabile.
[139] Sulla
vicenda, anche per quegli aspetti su cui noi qui non ci soffermeremo, ora una
chiara e sintetica trattazione è quella di L. Fezzi,
Falsificazione, cit., 51 ss. Vd. anche E.
Gabba, Cicerone e la
falsificazione dei senatoconsulti, in SCO
10 (1961), 89-96; E. Fallu, Les règles de la comptabilité publique à
Rome à la fin de la République, in H. van
Effenterre (ed.) Points de vue sur la fiscalité antique 14, Paris 1979, 98-112; M. Bonnefond Coudry, Le
sénat de la république romaine. De la guerre d’Hannibal à Auguste:
pratiques délibératives et prise de décision, Rome 1989, 570-571; Ead., Sénatus-consultes,
cit., 71; A. Lintott, Judicial
Reform and Land Reform in the Roman Republic: A New Edition, with Translation
and Commentary of the Laws from Urbino, Cambridge 1992, 8; E. Badian, Tribuni plebis and res
publica, in J. Linderski (ed.),
Imperium sine fine: T. Robert S. Broughton and the Roman Republic,
Stuttgart 1996, 187-213, part. 211.
[148]
Ribadiamo: il Mommsen dello Staatsrecht. In precedenza, nell’opera Sui
modi, cit., 294.2, l’autore aveva interpretato il passo diversamente: supra,
nt. 19.
[149] Su
questo insiste Mommsen, DP,
VI.1, 426.2, sulla base soprattutto di Cic. Sest. 33.72 e di Suet. Iul.
28.3.
[150] Contra
A.R. Dyck, A Commentary,
cit., 477, secondo cui «clam would require the personal ablative».
L’osservazione non è dirimente, perché ovviamente clam aerario dovrebbe
intendersi, seguendo Mommsen, come «di nascosto (alle persone che lavorano)
all’erario», cioè «di nascosto ai questori».
[155] Per
una possibile, seppur dubitabile, attestazione nel senso di una maggiore
risalenza di una prassi in tal senso, Caelius in Cic. fam. 8.9.4.
[158] Vd. E.
Volterra, s.v. Senatus
consulta, in NDI XII, Torino 1940, 25-44; Id., s.v. Senatus consulta, in NNDI, XVI,
Torino 1969, 1047-1078 (ora anche in Id.,
Scritti giuridici, V, Napoli 1993, 193 ss., part. 211 ss.).
[160] Si
ritiene da parte di alcuni studiosi che anche i consoli provvedessero, nell’età
tardo-repubblicana, a un’autonoma registrazione dei senatoconsulti, ma non è
ben chiaro dove questi supposti registri dei consoli venissero conservati. Le fonti a tale proposito sono Flav.
Ioseph. 14.10.10 e R.K. Sherk, Roman Documents from the Greek East.
“Senatus consulta” and “epistulae” to the Age of Augustus, Baltimore 1969,
nr. 28B e 29 (= J. Reynolds, “Aphrodisias” and Rome. Documents from the
Excavations of the Theatre at “Aphrodisias” conducted by Professor Kenant T.
Erim, Together with some related texts, London 1982, nr. 8). Vd. in
dottrina, su questo punto, per me assai dubbio, J. Reynolds, op. cit., 54-91 e M. Bonnefond Coudry, Sénatus-consultes, cit., 65 ss.
[162]
Secondo Mommsen, DP, IV,
246, si sarebbero registrati al tempio di Cerere, fin dal 449 a.C., soltanto i
senatoconsulti che riguardavano la ratifica dei plebisciti.
[163] In tal
senso è forse interpretabile Dio Cass. 54.36.1 (riferito all’anno 11 a.C.).
Abbiamo già osservato lo stesso a proposito della supposta doppia archiviazione
delle leggi comiziali: supra, §2.
[164] Su
queste tematiche, più ampiamente, W.A. Becker,
Handbuch, I, cit., 29 ss; W.A. Becker,
J. Marquardt, Handbuch der
römischen Alterthümer nach den Quellen bearbeitet, II.2, Leipzig 1846, 444
ss.; Ae. Hübner, De senatus populique Romani actis, Lipsiae 1859,
8-38; [W.] Kubitschek, s.v. Acta, in PWRE, I, Stuttgart 1893, 285 ss., part. 287-290; O. Hirschfeld, Die römische
Staatszeitung und die Akklamationen im Senat, in Sitzungsberichte der
Deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin (1905), 930 ss. (ora in Id., Kleine Schriften, Berlin 1913, 682 ss.); E. De Ruggiero, s.v. “Acta” (1. Acta senatus), in Dizionario
Epigrafico di Antichità Romane, I, Romae 1895, 45-48; [A.] O’Brien Moore, s.v. Senatus
consultum, in PWRE Suppl. VI, Stuttgart 1935, 800 ss.; E. Gabba, Cicerone e la falsificazione
dei senatoconsulti, cit.; R.K. Sherk,
Roman Documents, cit., 2-19; Y. Thomas, Cicéron, le sénat et les tribuns de la plèbe, in RD 55 (1977), 189-210; R. Talbert, The
Senate of Imperial Rome, Princeton
1984, 303-337; M. Bonnefond
Coudry, Le sénat, cit., 565 ss.; Ead.,
Sénatus-consultes, cit., 65 ss.; T.
Spagnuolo Vigorita, Le nuove
leggi. Un seminario sugli inizi dell’attività normativa imperiale, Napoli
1992, 47 ss.; F. Arcaria, Senatus
censuit. Attività giudiziaria ed attività normativa del Senato in età imperiale,
Milano 1992, 146 ss.; W. Kunkel,
R. Wittmann, Staatsordnung,
II, cit., 519; M. Pucci Ben Zeev, Caesar’s Decrees in
the Antiquities: Josephus’ Forgeries or Authentic Roman senatus consulta?,
in Athenaeum 84 (1996), 71-91; G. Mancuso,
Il senato romano, I, Dalla monarchia alla Repubblica, Catania
1997, 98 ss.; F. D’Ippolito, Le
origini del Senato e la prima età repubblicana, in Il Senato nell’età
romana, cit., 29 ss., part. 82 s.; L. Fanizza,
Senato e società politica tra Augusto e Traiano, Roma-Bari 2001, 12 ss.,
48 ss.; L. Fezzi, Falsificazione,
cit., 9.35. Sulla discussa questione della validità normativa dei
senatoconsulti nell’età repubblicana, si vd., con diversi orientamenti, B. Loreti Lorini, Il potere legislativo del senato romano, in Studi Bonfante, IV, Milano 1930, 379 ss.; G. Crifò, Attività
normativa del Senato in età repubblicana, in BIDR 71 (1968), 31 ss. Sulla pubblicità e sulla diffusione dei
senatoconsulti nei primi secolo dell’impero si vd. M. Giua, Strategie della comunicazione ufficiale.
Osservazioni sulla pubblicità dei senatoconsulti in età giulio-claudia, in RAL
13.1 (2002), 95-138; J.L. Ferrary,
After the Embassy to Rome: Publication and Implementation, in C. Eilers (ed.), Diplomats and
Diplomacy in the Roman World, Leiden 2009, 127-142.
[165] Liv.
39.4.8: Verum enimvero cum sint notissimae sibi cum consule inimicitiae,
quid ab eo quemquam posse aequi exspectare, qui per infrequentiam furtim
senatus consultum factum ad aerarium detulerit, Ambraciam non videri vi captam.
[166] Suet. Aug.
94.3: Auctor est Iulius Marathus, ante paucos quam nasceretur menses
prodigium Romae factum publice, quo denuntiabatur, regem populo Romano naturam
parturire; senatum exterritum censuisse, ne quis illo anno genitus educaretur;
eos qui grauidas uxores haberent, quod ad se quisque spem traheret, curasse ne
senatus consultum ad aerarium deferretur.
[167] Cic. Catilin. 1.4.11: At vero nos vicesimum
iam diem patimur hebescere aciem horum auctoritatis. Habemus enim eius modi
senatus consultum, verum inclusum in tabulis, tamquam in vagina reconditum, quo
ex senatus consulto confestim te interfectum esse, Catilina, convenit.
[169] Flav.
Ioseph. 14.10.10: PÒplioj Dolabšllaj M©rkoj 'Antènioj Ûpatoi lÒgouj ™poi»santo perˆ
ïn dÒgmati sugkl»tou G£ioj Ka‹sar Øpr 'Iouda…wn œkrinen kaˆ e„j tÕ tamie‹on
oÙk œfqasen ¢nenecqÁnai, perˆ toÚtwn ¢ršskei ¹m‹n genšsqai, æj kaˆ Popl…J
Dolabšllv kaˆ M£rkJ 'Antwn…J to‹j Øp£toij œdoxen, ¢nenegke‹n te taàta e„j
dšltouj kaˆ prÕj toÝj kat¦ pÒlin tam…aj, Ópwj front…swsin kaˆ aÙtoˆ e„j dšltouj
¢naqe‹nai diptÚcouj.
[170] Tac. Ann.
3.51: Igitur factum senatus consultum ne decreta patrum ante diem
<decimum> ad aerarium deferrentur idque vitae spatium damnatis
prorogaretur. Cfr. sullo stesso episodio anche Dio Cass. 57.20.4.
[181] E,
naturalmente, ricorrere ai “concetti moderno di archiviazione” per
controbattere a tutto ciò sarebbe fuori luogo.