Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-7
Francesco Sini
del
“diritto internazionale antico”
Sassari, Libreria
Dessì Editrice, 1991
pp. 304
Digesta
Iustiniani 1, 8, 6,
5
(Marcian. l. III inst.) ... sicut
testis
in ea re est Vergilius.
Fas e Nefas
Sommario: 1. Premessa.
– 2. Morfologia e etimologia del
termine fas. – 3. Varietà di usi
nelle fonti. – 4. Nefas e religio.
– 5. Valore
normativo del fas e sistema
giuridico-religioso romano: posizioni e limiti della dottrina romanistica
odierna. – 6. Georg. 1, 269 (fas et iura sinunt) e
le altre occorrenze di fas come
sostantivo. – 7. Le occorrenze di nefas come sostantivo. – 8. Valori giuridici e religiosi
delle espressioni nefas esse - fas esse. – 9. Conclusione: fas come sfera comune a uomini e
dèi.
[p. 83]
È noto che proprio in Virgilio troviamo
quella che, non a torto, può essere definita la
più famosa citazione del termine fas di
tutta la letteratura latina:
Quippe etiam festis
quaedam exercere diebus
fas et
aura sinunt[1].
Da questo testo deriva, per varie vie (Servio[2], Isidoro di Siviglia[3]), la
comune accezione del fas come lex divina (e la sua tradizionale contrapposizione allo ius, lex humana) che tanto ha influenzato il campo
degli studi romanistici contemporanei per
quanto riguarda i rapporti tra religione e diritto in Roma antica[4].
[p. 84]
Nel tentativo di precisare l'effettivo valore
delle nozioni di fas e del suo derivato nefas, non si presenta perciò priva
di motivazioni la scelta metodologica di muovere dall'analisi degli impieghi virgiliani delle due parole[5]; pur
senza nascondere che si tratta di un
approccio parziale e naturalmente incompleto, suscettibile dunque di
ulteriori verifiche con altre fonti.
Prima di esaminare la varietà di
accezioni che fas e nefas (e le
espressioni fas est - nefas
est) assumono nei versi virgiliani, pare
opportuno svolgere alcune considerazioni più
generali riguardanti la morfologia, l'etimologia e
l'uso di tali termini; nonché riflettere sul significato e
sul valore normativo del fas e del nefas nel
"sistema giuridico-religioso"[6] romano.
[p. 85]
Secondo l'opinione della dottrina dominante, in sintonia peraltro con quanto sostenevano grammatici antichi
di varia epoca e autorevolezza[7], fas sarebbe
sostantivo neutro indeclinabile[8]; su
tale opinione non mancano tuttavia seri dubbi da parte di altri studiosi[9],
né contrarie affermazioni nelle fonti[10].
Mette conto, comunque, notare che nell'età di Virgilio, qualunque fosse
stata la morfologia originaria della parola, il processo di sostantivazione di fas si presentava ormai completamente compiuto[11]: il poeta
ne dà addirittura la declinazione al genitivo, seppure dovendo utilizzare il gerundio del verbo fari[12].
[p. 86]
Anche per quanto riguarda l'etimologia la situazione
è piuttosto
controversa. Due teorie diverse si presentano infatti come ugualmente probabili, al punto da lasciare dubbioso
sulla scelta perfino un grande linguista come G. Devoto[13].
La prima di queste teorie, conforme ad una tradizione romana[14], ricollega fas alla greca qšmij: si tratterebbe in sostanza della «stessa voce greca deformata dalla
fonetica etrusca»[15]; fas deriverebbe da una radicale dha = qe ed avrebbe il senso di “porre”,
“fondare”, “stabilire”[16].
La seconda si rifà invece ad una radice bha = “apparire” (da cui il greco (fa…nw), connessa peraltro con una radice bha-s = “parlare” (da cui il greco fhm… ed il latino fari): sulla base di
[p. 87]
questa
etimologia fas dovrebbe
significare “cosa detta”, “apparizione”,
insomma manifestazione della volontà divina[17]. Anche
quest'ultima teoria, ma soprattutto la connessione fas-fari, rappresenta comunque
il pensiero di una parte autorevole della cultura romana[18]: l'aveva sostenuta il
grande Varrone nel suo De lingua Latina[19] ed era stata accettata
da Verrio
Flacco nella compilazione dei Fasti[20].
[p. 88]
Veniamo all'uso della parola fas. Nelle
fonti più risalenti si trova utilizzata
prevalentemente con valore attributivo in locuzioni impersonali (fas est...) per
indicare «la liceità di un determinato comportamento in relazione
ad un potere soprannaturale»[21]. Testimonianza, certo
antichissima, di quest'uso costituisce il calendario romano[22], in cui alcuni giorni
erano
[p. 89]
preceduti dalla
lettera F per significare che in quei giorni era fas[23] compiere
attività umane che non erano lecite nei giorni segnati con la lettera N (nefas). Questa distinzione tra dies fasti e dies
nefasti[24]
aveva, fra l'altro, notevole importanza anche per l'esercizio dei poteri magistratuali, sia in rapporto alla liceità di ius agere cum populo[25], sia alla pronuncia sine piaculo da parte dei praetores dei tria verba caratterizzanti la funzione
giusdicente: do, dico, addico[26].
[p. 90]
Nel primo secolo a. C. si fanno sempre più
numerosi
gli esempi
che attestano come abituale per l'epoca un uso obbiettivo della parola. Nella lingua di
Cicerone, di Livio e dello stesso
Virgilio troviamo fas utilizzato per esprimere il concetto astratto di lecito[27]: si tratta di esempi di un altro
impiego della
parola, che diviene equivalente di ciò che è lecito e da qui «per un ulteriore spiegabilissimo
processo di astrazione, diventa la norma stessa che esprime ciò che
è lecito e ciò che non è lecito»[28]. Non sarei tuttavia d'accordo con
l'Orestano[29] nel ritenere che questo fenomeno di
astrazione debba datarsi in età ciceroniana, poiché alcuni importanti
testi, a torto sottovalutati dallo stesso Orestano, costituiscono un ostacolo
abbastanza serio per la tesi
dell'illustre studioso.
I testi sono due: il verso di Accio, Trag. 593:
ibi fas, ibi cunctam anticam castitudinem[30],
che
indiscutibilmente offre una testimonianza del fenomeno di
[p. 91]
astrazione già per l'epoca
preciceroniana, pur trattandosi in effetti
«di anticipare di un poco l'inizio del nuovo uso»[31]; e il ben più rilevante passo di Livio, 1, 32, 6, in
cui lo storico patavino trascrive in prosa commatica il
solenne carmen della rerum repetitio, recitato nel ritus belli indicendi dal pater
patratus dei sacerdoti Fetiales[32]:
Legatus ubi ad fines eorum venit unde res
repetuntur, capite velato filo – lanae velamen est – Audi,
Iuppiter, inquit; audite, fines – cuiuscumque
gentis sunt, nominat –; audiat fas: ego sum publicus
nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque
meis fides sit[33].
[p. 92]
Inficiare l'attendibilità di questa formula dei feziali mi pare
opera assai difficoltosa. Non basta certo constatare che ci troviamo «di fronte ad una formula
rimodernata»[34],
poiché questo fatto di per sé non dimostra una qualche difformità
di contenuto rispetto alla formula originaria[35]; né più
convincente
[p. 93]
sembra essere l'argomentazione di chi ritiene, a proposito della
personificazione di fas, inverosimile per l'epoca arcaica «un siffatto grado di astrazione»[36];
debolissime infine si presentano le obiezioni di quegli studiosi
che giudicano sospetto il carmen della rerum repetitio in
ragione della mancanza di notizie circa la consistenza e la
conservazione dell'archivio dei Fetiales[37].
[p. 94]
Sull'attendibilità della
formula e sulla personificazione di fas in età arcaica, mette conto riferirsi – per
aderire – all'insegnamento di G. Dumézil: il grande studioso
francese ha scritto infatti, nella sua fondamentale opera sulla
religione romana, una pagina risolutiva sulla questione:
«c'est en vertu d'une conception
a priori, primitiviste,
infantiliste, de la religion et de la pensée romaines anciennes
qu'on déclare impossible la personnification
de ce fas, [...] les premiers Romains étaient certainement capables de cet effort, eux
qui avaient déjà animé, incarné
dans des prêtres le flamen neutre, l'augur neutre, et qui n'allaient pas tarder [...] à personnifier,
de façon plus stable que fas et en le féminisant, le venus neutre»[38].
L'impiego della parola fas come sostantivo può, dunque, datarsi in età risalente; ne è
conferma la presenza, oltre che nella lingua – peraltro fortemente conservatrice
– dei documenti
sacerdotali[39], anche nella tradizione giurisprudenziale:
Pomponio, Libr. sing. enchir. = D. 1, 2, 2, 24: captumque amore virginis omne fas
ac nefas miscuisse.
[p. 95]
Marciano, Libr. II inst. = D. 48, 18, 5: duplex crimen est, et
incestum, quia cognatam violavit contro fas, et adulterium vel stuprum adiungit[40].
Ciò
non toglie, ovviamente, che l'impiego come sostantivo abbia avuto sempre un'estensione minore rispetto all'uso di fas in funzione di predicato[41].
Per
quanto riguarda il significato di nefas, prevale ormai l’opinione che con tale termine gli
antichi Romani indicassero tutto quello «che non fosse possibile fare
senza incorrere nella reazione della natura stessa o nell'ira degli dei»[42];
da ciò consegue che il concetto di nefas rimanda a valori che
l'odierna dommatica giuridica definisce imperativi[43]
– il nefas è inteso
[p. 96]
sempre in senso obbligatorio – connessi con le sfere
del "vietato" e del "dovere"[44].
In merito alla derivazione della parola, i
linguisti concordano nel ritenere nefas «sorti de l'expression ne
fas est où il faut entendre ne-
comme négation de phrase et non comme préfixe»[45]. L'uso di nefas nell'arcaica forma ne
fas (est) si ritrova ancora negli antiquari di età
tardo-repubblicana ed imperiale, soprattutto
in testi che fanno riferimento a realtà religiose e giuridiche
antichissime.
Festo, p.
424 L.: At homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed,
qui occidit, parricidi non damnatur[46].
[p.
97]
Gellio, Noct. Att. 10, 15, 14: Pedes lecti, in quo cubat, luto tenui circumlitos esse oportet et de eo lecto trinoctium continuum non decubat neque in eo lecto cubare alium
fas est[47].
Il lungo frammento di Fabio Pittore sulle
prescrizioni religiose che regolavano la vita dei flamines Diales[48] presenta,
[p.
98]
sempre a proposito di nefas, un altro motivo d'interesse: in esso, infatti, a fronte di proibizioni
rese col termine nefas,
abbiamo
alcuni divieti espressi invece con la parola religio. Gellio,
Noct. Att. 10, 15, 3:
Equo Dialem flaminem vehi religio est[49].
[p. 99]
Questo passo presenta notevoli implicazioni
che ora possono appena accennarsi. Nella dottrina
romanistica contemporanea[50] si
è ampiamente discusso sulla natura del divieto in esso
contenuto, e sulle probabili motivazioni religiose che lo ispiravano, senza tuttavia pervenire a risultati
conclusivi[51]. Allo stesso modo
non si comprende il significato del divieto di
[p. 100]
montare a cavallo posto al dittatore[52]; ma
certo non può essere un fatto casuale che un divieto del tutto
simile vincolasse sia il flamen Dialis, cioè il
sommo sacerdote di Giove, sia il dictator (magister populi), cioè il magistrato cittadino col massimo
potere[53].
Nella prospettiva che qui interessa, il passo sembrerebbe comunque confermare la tesi dell'esistenza di uno
stretto rapporto semantico tra nefas e religio - religiosus, secondo il significato che a questi
termini viene dato da Festo (p.
Idem religiosum quoque esse, † qui non iam † sit
aliquid, quod ibi homini facere non liceat; quod si faciat, adversus deorum
voluntatem videatur facere[54].
[p. 101]
Ulteriore conferma offrono due testi di Macrobio:
Sat. 1, 16, 16: Nam, cum Latiar, hoc est Latinarum sollemne, concipitur, item diebus Saturnaliorum, sed et cum
mundus patet, nefas est proelium sumere[55].
[p. 102]
Sat. 1, 16, 18: Unde et Varro ita
scribit Mundus cum patet, deorum tristium atque
inferum quasi ianua patet. Propterea non modo proelium committi,
verum etiam dilectum rei militaris
causa habere ac militem proficisci, navem solvere, uxorem liberum quaerendorum causa ducere religiosum est[56].
In essi il medesimo divieto (di attaccare battaglia) viene espresso in un passo con nefas e nell'altro con religiosus.
Differenti opinioni coesistono nella dottrina romanistica
[p. 103]
riguardo al valore normativo del fas nel sistema
giuridico-religioso romano. Vi è chi ne sostiene il valore puramente
permissivo: è il caso di studiosi quali J. Paoli[57] e
A. Guarino[58]. Lo
studioso francese, ricollegandosi al concetto greco di Ósion, identifica il fas con la
«sphère des activités permises aux hommes par les dieux»[59]; per il Guarino il fas «vi stette a significare
ciò che gli dei lasciassero, per conseguenza, agli uomini di fare o di non fare a loro
scelta»[60].
Altri individuano nel fas un valore, per così dire, obbligatorio: É. Benveniste[61], ad esempio, intende l'espressione fas est
nel
senso di «enonciation en paroles divines et impératives» di tutto ciò «qui est voulu par les
dieux». Nello stesso senso si orienta R. Schilling[62], per il quale le singole
manifestazioni
del fas sono «l'expression d'une volonté des
dieux».
Predominano tuttavia, pur con aggiustamenti e distinguo, le note tesi di R. Orestano[63]. Per l'illustre studioso, «fas sta
[p. 104]
ad
indicare la liceità di determinati atti o comportamenti»[64], connessi soprattutto con la
sfera religiosa; a tale concetto di liceità
sarebbe del resto conforme l'antichissimo impiego di ius: termine che, solo in un secondo tempo, col sorgere
della nozione astratta di norma, avrebbe cominciato ad esprimere anche
questa nozione, differenziandosi così dal fas, rimasto invece fermo nel significato originario[65]. Ma
sovente, secondo l'Orestano, alla nozione di
"liceità", espressa con fas est, non è estranea la nozione di
"necessità"; si hanno, infatti, dei casi in cui determinati atti o comportamenti
appaiono considerati non soltanto
leciti (= conformi alla volontà degli dèi), ma necessari (= espressamente
voluti dagli dèi): da ciò il valore incerto di fas, che oscilla – a parere dello studioso
– tra «il permesso e il dovere»[66].
A simili concetti mi pare si avvicinino anche altri storici del diritto come P. Noailles[67], quando qualifica il fas «ce qui est permis ou ordonné par les dieux»; o storici
della religione come
K. Latte, il quale nella sua Römische
Religionsgeschichte ricorre
ai verbi «dürfen», «können» e
«müssen» per definire il contenuto
religioso e giuridico del fas[68].
Nelle diverse accezioni di fas, pur
sommariamente esposte, si evidenzia
l'insufficienza dei concetti della moderna logica giuridica per la comprensione
delle categorie dello
ius
[p. 105]
divinum[69]: concetti deontici come
"obbligatorio", "permesso", "vietato"[70], si
presentano, in questo caso, inadeguati e parziali
per i molteplici contenuti che al fas
facevano capo nel sistema giuridico-religioso romano. Questa
preoccupazione era stata, peraltro,
già avvertita da P. Catalano nello studio del fas in
rapporto ad atti e procedure dello ius
augurium[71]. Pur
[p. 106]
ammettendo che nell'inauguratio la risposta divina al si est fas dell'augure «è, se positiva, un permesso», da cui consegue «il valore permissivo del fas in generale»[72]; lo studioso si mostra pienamente consapevole sia della molteplicità di contenuti del fas (che si esprime ad esempio «nel valore di autorizzazione, aumentativo, esortativo per dirla con Capitone, che ha il permesso divino espresso nell'inauguratio»[73]), sia della difficoltà di rendere in termini giuridici tale molteplicità di contenuti: «si potrebbe far leva – scrive al riguardo il Catalano – sul concetto di "permesso" come comprensivo dell’“obbligatorio” e del "potestativo": si dovrebbe cioè assimilare il concetto di fas al concetto di "permesso" (inteso come non proibito), e non a quello di "potestativo"; e si potrebbe dire che l'affermazione divina che alcunché è fas lasci incerti se sia obbligatorio o potestativo... Ma questo schema non ci rappresenterebbe la realtà romana nella concreta sovrapposizione dei motivi psicologici del permesso e dell'esortazione»[74].
[p. 107]
La varietà delle opinioni della dottrina suggerisce
infine alcune riflessioni conclusive.
A) In primo luogo va constatato che il significato ed il valore di fas non possono cogliersi appieno senza riferimento al segno antitetico espresso con nefas. Sebbene sul piano terminologico-concettuale questa parola sia derivata da fas, attraverso l'espressione ne fas est, in cui, com'è noto, ne- ha valore di negazione e non di prefisso[75]; tuttavia proprio alla definizione del nefas l’esperienza giuridica della comunità romana primitiva rivolgeva le sue prime e maggiori cautele[76]. Per preservare anzi tutto la pax deorum, che riposava sulla perfetta conoscenza di ciò che potesse turbarla, degli atti che mai dovevano essere compiuti, delle parole che mai dovevano essere pronunciate[77]. Emerge dunque il concetto di fas al
[p. 108]
negativo: è fas tutto quello
che non è nefas (sia
esso permesso, obbligatorio, autorizzato, consigliato).
B) Nell'antitesi fas/nefas si manifesta anche la peculiarità dei
rapporti tra uomini e dèi nel sistema giuridico-religioso romano, in cui proprio la distinzione tra il
"divino" e l’“umano” rappresenta,
com'è stato dimostrato, «la più antica concezione romana
del mondo»[78].
Su tale concezione del mondo, da cui risulta
evidente la cautela definitoria sacerdotale e la tendenza universalistica
della scienza pontificale[79],
si fonda del resto la stessa definizione di iurisprudentia accolta nei Digesta di Giustiniano[80],
nonché la summa divisio
[p. 109]
rerum[81] della giurisprudenza romana. Forse anche il grande Varrone nella strutturazione
delle sue Antiquitates, in divinae e
[p 110]
humanae[82], si riferisce a questa «più antica concezione romana del mondo».
L'antitesi fas/nefas (e quindi i
rapporti tra uomini e dèi) appare fondata in particolar modo sul sentimento che
spazio e tempo appartenessero agli
dèi: da ciò il convincimento di
una regolamentazione
divina dei rapporti umani, e dei rapporti tra uomini e divinità,
attraverso il manifestarsi di imperativi e permessi[83]
rilevabili di volta in volta nelle singole attività umane.
Risulta secondario, in questa prospettiva, distinguere riguardo alle manifestazioni divine tra
"rivelato" e "richiesto":
distinzioni che stava alla base della classificazione dei segni
[p 111]
augurali
in oblativi e impetrativi[84]. Mette conto, semmai, evidenziare come l'estendersi del potere di interrogare gli dèi assicurasse
una sempre maggiore sfera di libertà all'operare degli uomini[85].
Fra i passi virgiliani in
cui ricorre il termine fas quello certamente
più dibattuto, almeno fra i giuristi, è Georg. 1, 268-269:
Quippe etiam festis
quaedam exercere diebus
fas et iura sinunt,
in cui il poeta accosta il fas, usato come sostantivo, con gli iura. È noto che, nel commento al verso 269, il grammatico Servio
rende esplicita la definizione di fas:
Fas et iura sinunt id est divina humanaque
iura permittunt: nam ad religionem fas, ad homines iura pertinent[86];
e che sempre dal verso di Virgilio, seppure attraverso la definizione serviana, dipende con molta
probabilità l'identificazione del
fas con la lex divina
e la sua antitesi allo ius, lex
[p. 112]
humana, proposta da Isidoro di Siviglia in un passo delle Origines
assai famoso[87].
Sulla
base di questi testi la dottrina romanistica contemporanea ha teorizzato la
vigenza presso i Romani, fin
dall'antichissima età delle origini
della civitas, di due diversi sistemi normativi: uno, che faceva capo al fas, si configurava come diretta emanazione della volontà
divina; mentre l'altro, identificabile con lo ius, consisteva nell'insieme dei precetti
posti in essere dagli uomini[88].
Oggi, grazie ai risultati acquisiti dall'Orestano[89], la maggior parte degli studiosi tende a rigettare questa interpretazione (non mancano tuttavia eccezioni autorevoli[90]): il termine esprimerebbe in sostanza non tanto un sistema di norme, quanto piuttosto il concetto generico del "lecito" religioso[91]; si nega inoltre che possa ritenersi originaria la
[p. 113]
contrapposizione del fas allo ius, poiché tale parola sia da un punto di vista semantico, sia per la materia, si presentava nell'età arcaica ugualmente connessa con la sfera
del "sacro"[92]. Resta,
invece, tuttora controversa la questione relativa alla esatta determinazione dei
differenti campi che in origine sarebbero stati riservati al fas e allo ius[93].
Non
è oggetto di questa ricerca approfondire il complesso problema
del rapporto fas/ius; esso d'altra parte si presenta marginale nel contesto virgiliano,
poiché troviamo i due termini
citati insieme solo in un altro verso:
fas mihi Graiorum sacrata resolvere iura[94];
laddove però il vocabolo fas appare
usato con valore attributivo (est infatti è sottinteso) e non allude al concetto di
lecito, ma alla liceità religiosa
di quanto Sinone si accinge a rivelare[95].
[p. 114]
Merita semmai una notazione la studiata solennità
dell'espressione fas mihi...[96], che in qualche
modo sembra riecheggiare il linguaggio delle antiche preghiere catoniane: uti
tibi ius est[97].
Ma torniamo a Georg. 1, 269. Acutamente
è stato notato che nel passo non si trova traccia di una
contrapposizione tra fas e ius
nel senso di lex divina e lex humana, semmai «Virgile marque
la concordance des divina humanaque iura, et il faut entendre
par fas le domaine des activités concédées par les dieux
aux hommes, par ius la réglementation par les hommes à
l'intérieur de ce domaine»[98].
L'argomento trattato da Virgilio presentava,
in effetti, profonde implicazioni sia con il fas, sia
con gli iura (umani e divini), sia con la religio[99]:
[p. 115]
Quippe etiam festis
quaedam exercere diebus
fas et iura sinunt: rivos deducete nulla
relígio vetuit, segeti praetendere saepem,
insidias avibus moliri, intendere vepres
balantumque gregem fluvio
mersare salubri[100].
Il poeta enumera una serie di opere agricole consentite durante i dies festi, materia quindi di competenza pontificale[101], la cui regolamentazione costituiva parte del contenuto
dei libri del collegio, com'è attestato dal Servio
Danielino:
Sane quae feriae a quo genere hominum vel
quibus diebus observentur, vel quae festis diebus fieri permissa
[p. 116]
Sint, siquis scire desiderat, libros pontificales
legat[102].
Il tema inoltre era usuale fra gli scrittori
di agricultura; se ne era
occupato Catone il Censore:
Per ferias potuisse fossas veteres tergeri, viam publicam muniri, vepres recidi, hortum fodiri, pratum
purgari, virgas vinciri, spinas
eruncari, expinsi far, munditias fieri[103];
e dopo
Virgilio ne avrebbe trattato Columella[104].
[p. 117]
Orbene, proprio il testo di Columella contiene un'utile indicazione per comprendere quale sia il
significato di fas nel verso virgiliano,
e quale preoccupazione abbia spinto il poeta ad affiancarlo agli iura. Dal contesto del de re rust. 2, 21, si evince che Virgilio, nel descrivere quali attività
si potessero exercere nei giorni di festa, non si era strettamente attenuto alle prescrizioni pontificali, che pure dovevano essere
ormai improntate ad una pratica assai
permissiva, come insegnava il pontefice massimo e giurista Q. Mucio
Scevola[105]:
[p. 118]
Scaevola denique
consultus, quid feriis agi liceret, respondit:
quod praetermissum noceret[106].
Columella, infatti, dopo aver riportato testualmente i vv. 268-272, osserva però: quamquam
pontifices negant segetem feriis saepire debere. Virgilio
proponeva, dunque, una sua personale interpretazione[107] del quod
praetermissum noceret, più
estensiva rispetto alla dottrina
tradizionale dei pontefici; da ciò la cautela giuridico-religiosa
della terminologia virgiliana (fas
et
[p. 119]
iura sinunt..., nulla religio vetuit) e la finezza del richiamarsi al fas, «l'assise mystique» degli
stessi iura[108].
In maniera ugualmente appropriata, dal
punto di vista giuridico e religioso, la parola fas viene impiegata nel verso 3, 55 dell'Eneide:
Ille, ut opes fractae Teucrum et
fortuna recessit,
res Agamemnonias victriciaque arma secutus
fas omne abrumpit: Polydorum
obtruncat et auro
vi potitur. Quid non mortalia pectora cogis,
auri
sacra fames![109]
Anche in questo caso
il commento di Servio rende esplicita l'infrazione del fas che
Virgilio lascia soltanto intendere: Fas omne et cognationis, et iuris
hospitii[110].
Il riferimento al fas appare quindi assai appropriato, per le evidenti
implicazioni
[p. 120]
giuridiche
e religiose sottese all'episodio: da una parte riguardavano il rapporto di cognatio che legava Polidoro al suo uccisore[111]; dall'altra il mancato rispetto dello ius
hospitii[112], gravissima
offesa contro Iuppiter alla cui
tutela il rapporto era affidato, si
configurava in termini giuridici come violazione del fas, cioè dello stesso "fondamento" religioso della virtuale universalità dello ius fetiale[113], ius che – giova
ricordare – era considerato dai Romani «vigente verso tutti
i popoli»[114].
Veniamo infine agli altri due luoghi in cui Virgilio
utilizza fas come sostantivo. Nei versi che seguono
abbiamo l'espressione immortale fas:
O genitrix, quo fata vocas? aut quid petis istis?
mortaline manu factae immortale carinae
[p. 121]
fas habeant certusque incerta pericula lustret
Aeneas? cui tanta deo permissa potestas?[115];
condizione che Giove, nonostante le preghiere della madre Cibele, nega alle navi troiane proprio per il loro essere
manufatti umani[116].
Di
non facile precisazione pare il significato di
fas in questi altri due
versi dell'Eneide:
fas obstat, tristique palus inamabilis unda
alligat et noviens Styx interfusa
coërcet[117].
Secondo E. Paratore[118] «collocato con forza all'inizio, il vocabolo sta a significare esplicitamente "la legge
divina"»; tuttavia, bisogna ricordare che Servio faceva
riferimento alla natura e leggeva fata in luogo di fas: fata obstant iura naturae[119].
Il poeta utilizza la parola sia come sostantivo,
sia in locuzioni verbali (nefas esse); in un caso perfino come
aggettivo[120]
[p. 122]
Poco rileva in questo luogo precisare i tempi in cui si venne affermando il fenomeno di
sostantivazione di nefas, peraltro ormai ben consolidato in età virgiliana[121];
fenomeno che deriva quasi sicuramente, come propone
R. Orestano[122], dalla sostantivazione di fas: dell'illustre
studioso non mi pare, tuttavia, da condividere
la tesi che si sarebbe trattato di un fenomeno
relativamente tardo[123]. Ma
torniamo agli impieghi virgiliani di nefas con funzione sostantivale.
Nel verso 505 del primo libro delle Georgiche il termine sembra doversi intendere nel senso generico di
"illecito"[124]:
Iam pridem nobis caeli te regia, Caesar,
invidet atque hominum
queritur curare triumphos,
quippe ubi fas versum atque nefas: tot
bella per orbem,
tam multae scelerum facies; non ullus
aratro
dignus honos[125].
[p. 123]
Nell'Eneide il poeta ricorre al termine nefas, anzi all'espressione tantumque nefas, per qualificare negativamente il proposito manifestato da Anchise di farsi abbandonare dai
suoi durante
l'incendio di Troia[126]; Enea risponde infatti in questo modo:
Mene ecferre pedem, genítor, te
posse relicto
sperasti tantumque nefas patrio excedit ore?[127],
cosciente che per un figlio un simile comportamento
sarebbe stato
senza dubbio uno scelus[128], «in netto contrasto con le leggi divine»[129] e con il dovere della pietas. Del contrasto semantico tra nefas e pius - pietas Virgilio si mostra
ben consapevole in Aen. 2, 183-184:
Hanc pro Palladio moniti, pro numine laeso
effigiem statuere, nefas quae triste piaret[130],
[p. 124]
quando presenta l'atto di piare quale rimedio al nefas triste[131].
Al significato di scelus rimandano
anche le espressioni dirumque nefas:
Illa dolos dirumque nefas in pectore
versar,
certa mori, variosque irarurn concitat aestus[132]:
in questo caso si presenta utile per la comprensione
dell'oggetto del nefas il
commento di Servio
Danelino: nefas,
quia sua manu peritura erat[133];
immane nefas:
Vendidit hic auro patriam dominumque
potentem
imposuit, fixit leges pretio atque
refixit;
hic thalamum
invasit natae vetitosque hymenaeos;
ausi omnes immane nefas ausoque potiti[134];
[p. 125]
maius nefas:
Quin etiam in silvas, simulato numine
Bacchi,
maius adorta nefas maioremque orsa
furorem
evolat et natam frondosis montibus abdit[135].
Allo stesso modo è definito nefas l'uxoricidio
delle Danaidi, inciso sul balteo di Pallante:
Et laevo pressit pede talia fatus
exanimem, rapiens immania pondera baltei
impressumque nefas: una sub nocte iugali
caesa manus iuvenum foede
thalamique cruenti,
quae Clonus Eurytides multo caelaverat auro[136];
gravissima violazione dei vincoli familiari, considerata
dai giurista romani un crimen
contra fas[137].
Abbiamo poi due testi in cui nefas appare utilizzato da Virgilio in accezioni del tutto insolite.
Nel primo troviamo il termine riferito a una
persona.
Non ita. Namque etsi nullum memorabile nomen
feminea in poena est nec habet victoria laudem,
extinxisse nefas tamen et sumpsisse
merentis
[p. 126]
laudabor poenas animumque explesse iuvabit
ultricis famae et cineres satiasse meorum[138].
Nel racconto di Enea la fatale Elena,
ritenuta dall'eroe troiano meritevole di morte, è
qualificata appunto nefas: mette conto rilevare come questo impiego virgiliano
rimandi, significativamente, alla condizione giuridica del homo sacer[139], il
[p. 127]
quale, dopo che la comunità lo aveva riconosciuto
colpevole, poteva essere messo a morte da chiunque.
Insolito è anche l'uso di nefas nel secondo testo virgiliano:
Non iam prima peto Mnestheus neque vincere certo;
quamquam o! — sed superent, quibus hoc, Neptune, dedisti;
estremos pudeat rediisse. Hoc vincite, cives,
et prohibite nefas[140].
Nell'enfasi dell'esortazione Mnesteo proclama
nefas per i Troiani classificarsi ultimi nella gara
delle navi[141].
[p. 128]
Resta infine da menzionare l'uso virgiliano
di nefas in forma esclamativa parentetica:
Te, Turne, nefas, te triste manebit
supplicium, votisque deos venerabere seris[142];
sequiturque (nefas) Aegyptia coniunx[143];
quosne (nefas) omnis infanda in morte reliqui[144].
Singolare il caso del verso 7, 73, sempre
dell'Eneide:
visa (nefas) longis comprendere crinibus
ignem,
dove l'espressione parentetica non indica un giudizio del
poeta, «ma l'impressione di sgomento e di orrore di chi assiste al
[p.
129]
miracolo»[145]. Lo
stesso sgomento, carico di scrupolo religioso e
di implicazioni giuridiche, che doveva pervadere i Romani al manifestarsi di eventi considerati nefas dal
collegio degli auguri[146]:
sacerdoti esperti di tecniche e riti mediante i
quali si riteneva di poter interpretare[147] la
[p. 130]
Volontà degli dèi e quindi preposti alla determinazione
del fas[148].
[p. 131]
Nei versi in cui Virgilio impiega nefas in funzione di predicato,
prevale un significato del termine sicuramente più tecnico-giuridico: l'espressione nefas est esprime, cioè, l'idea di un divieto categorico proveniente dalla
sfera divina, che comporta in caso di violazione precise sanzioni religiose e/o
giuridiche per i responsabili[149]. Assai convincente,
anche riguardo agli impieghi virgiliani, appare quanto
scriveva J. Paoli[150] nel suo stimolante
saggio Le monde juridique du paganisme romain: «L'idée
dominante qu'il faut trouver dans la phrase nefast est a été
certainement celle d'une défense divine ou religieuse, et
cette défense [...] apparaît comme une interdiction de
pénétrer, fût-ce seulement par la vue ou par la
pensée, dans un domaine réservé aux dieux».
Virgilio, ad esempio, considera nefas che Caronte trasporti nella sua tetra barca degli esseri viventi:
Umbrarum hic locus est, somni noctisque soporae;
corpora viva nefas Stygia vectare carina[151].
Per la teologia romana, infatti, un simile atto, mescolando
[p. 132]
le sfere contrapposte della vita e della morte,
perturberebbe lo stesso ordine del mondo, fondato appunto proprio sul fas[152].
Altrove, è nefas differre i sacra annuali
che il re Evandro soleva celebrare in onore di Eracle:
Interea sacra haec, quando huc venistis
amici,
annua, quae differre nefas, celebrate
faventes
nobiscum et iam nunc
sociorum adsuescite mensis[153].
Si avvertono in questi versi forti assonanze col linguaggio
sacerdotale[154]; da notare la precisa
connotazione del termine faventes, sicuramente ricalcato sul lessico religioso, come
peraltro annota il Servio Danielino: Ut in sacris 'favete linguis',
'favete vocibus'[155].
[p. 133]
Veniamo all'impiego della locuzione fas esse. Emerge chiaramente il valore polivalente di
tale espressione, al contrario del valore sempre imperativo di nefas (imperativo negativo = vietato), fas esse nel linguaggio virgiliano si riferisce non solo ad atti e comportamenti non vietati
né comandati, ma anche ad atti
e comportamenti ritenuti invece inderogabili sulla base del dovere religioso. Ciò risulta con
particolare evidenza analizzando i versi in cui il poeta impiega fas
in funzione di predicato.
Sovente la locuzione fas est - esse viene usata nell'Eneide, soprattutto quand'è in vario modo congiunta a fata, per significare la necessità di essere o di dover essere determinati comportamenti (di uomini e dèi) aderenti a un destino. Principalmente al destino di Enea e dei Troiani superstiti[156], la cui missione notava il Fustel de Coulanges[157] «est de sauver les Pénates de la cité», fondando una nuova Troia:
[p. 134]
Per varios casus, per tot discrimina rerum
tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas
ostendunt: illic fas regna resurgere Troiae[158];
ma anche
a quello di altri personaggi:
Me natam nulli veterum sociare procorum
[p. 135]
fas erat, idque omnes
divique hominesque canebant[159]
dove
è quest'ultimo verbo che suggerisce la vicinanza al concetto di fata[160].
Una
più attenta riflessione meritano i versi che seguono:
nulli
fas Italo tantam subiungere gentem:
externos
optate duces[161];
poiché in essi l'uso di fas, sebbene riferito ad ambiente etrusco ed ugualmente collegato ai fata svelati dal vecchio aruspice di Aen. 8, 499, suggerisce
singolari analogie con la cerimonia romana dell’inauguratio.
É noto che gli auguri (Cicerone, De leg. 2, 21) mediante l'inauguratio
miravano all'accertamento della volontà
divina, riguardo a persone e cose che si volevano destinare a rilevanti funzioni politico-religiose comunitarie. Della
inaugurazione relativa a persone, rex
e sacerdotes[162], Livio trascrive la formula solenne, seppure riferendola
all'assunzione del regno da parte di Numa Pompilio:
[p. 136]
Tum lituo in laevam manum translato, dextra in caput Numae imposita, precatus ita est: Iuppiter poter,
si est fas hunc Numam Pompilium, cuius
ego caput teneo, regem Romae esse,
uti tu signa nobis certa adclarassis inter
eos fines quos feci. Tum peregit verbis auspicio quae mitti vellet[163].
Rispetto a questa formula, di chiara
derivazione sacerdotale, il contesto virgiliano è alquanto
impreciso; ciò non impedisce
tuttavia di intravvedere gli elementi essenziali dell'inauguratio. Anzi tutto una "risposta divina" negativa su chi
potesse sostituire il re Mezenzio (nulli fas Italo); quindi l'offerta di scettro e corona a Evandro (Aen. 8, 105-106), il rifiuto di
questi
[p.
137]
«per la fredda vecchiaia» e la richiesta ad Enea
di essere ductor di
Teucri ed Italici (Aen. 8,
513); infine il manifestarsi dei signa (inviati da Venere) che inducono il titubante
troiano ad accettare il comando:
Namque inproviso
vibratus ab aethere fulgor
cum sonitu venit et ruere omnia viso repente
Tyrrhenusque tubae mugire per aethera
clangor.
Suspiciunt, iterum
atque iterum fragor increpat ingens:
arma inter nubem caeli in regione serena
per sudum rutilare vident et pulsa tonare [164].
Enea, ricordando le promesse della madre, riconosce in essi, correttamente da un punto di vista
augurale, l'espressione della volontà di Iuppiter: dice infatti ad Evandro (Aen. 8, 533) ego poscor Olympo.
Resta fuori dalla portata del presente lavoro
qualsiasi valutazione d'insieme sull'essenza e sul ruolo dei fata nell'Eneide,
nonché sulla più generale concezione virgiliana del fatum[165]: mette conto, tuttavia, sottolineare
l'antichità del culto
[p. 138]
dei Fata nell'area laziale, in particolare a
Lavinio, collegato peraltro al culto di Enea, come attestano molte
evidenze archeologiche databili nel III secolo a. C.[166].
Per
la religiosità virgiliana la sfera del fas
ha naturalmente anche una
valenza permissiva che si estende
a tutti i comportamenti umani, suscettibili di qualche interesse per la divinità. Talvolta, in questa prospettiva, la parola viene
usata come sinonimo dello stesso favore degli dèi:
Heu nihil invitis fas quemquam fidere
divis![167].
In altri versi fas sta invece a significare la concessione
ai mortali di facoltà
sovrumane:
Huic percussa nova mentem
formidine mater
Duc, age, duc ad nos, fas illi limina divom
tangere ait[168].
Ma dove il valore permissivo del fas emerge con maggiore
vigore è nelle formule di preghiera:
Di, quibus imperium
est animarum, umbraeque silentes
et Chaos et Phlegethon, loca nocte tacentia
late,
sit mihi fas audita loqui, sit numine vestro
[p.
139]
pandere res alta terra et caligine mersas[169];
oppure in espressioni interrogative quali: si fas est
dicere[170], si fas
est credere[171].
Sarebbe, tuttavia, errato credere che il fas
riguardi solo
[p. 140]
l'approvazione divina dei comportamenti umani: ad esso
secondo Virgilio si uniformano anche le azioni degli stessi dèi. Il fas sta alla base
dei rapporti reciproci tra divinità:
Aeolus haec contra: Tuos, o regina, quid
optes,
explorare labor; mihi iussa capessere fas est[172].
Così risponde il dio dei venti Eolo
alle richieste di Giunone. Altrove vediamo Venere suggerire alla stessa Giunone:
Tu coniunx, tibi fas animum temptare
precando[173].
In un altro passo è invece Nettuno che
rassicura Venere della sua totale
disponibilità:
Tum Saturnius haec
domitor maris edidit alti:
Fas omne est, Cytherea,
meis te fidere regnis,
unde genus ducis. Merui quoque: saepe furores
compressi et rabiem tantam caelique marisque[174].
Infine nel verso Aen. 8, 397,
Vulcano ricorda sempre a Venere che
anche in altre occasioni fas nobis
Teucros armare fuisset.
Per questo assai opportunamente, nella vibrata
preghiera di Aen. 6, 63-65, il
poeta fa rivolgere Enea agli dèi richiamandoli al fas:
[p. 141]
Vos quoque Pergameae
iam fas est parcere genti,
dique deaeque omnes,
quibus obstitit Ilium et ingens
gloria Dardaniae[175].
A quanto di comune – secondo Virgilio
– hanno uomini e divinità nel sistema
giuridico-religioso romano.
[4] Così, ad esempio, RUDOLF VON
JHERING, L'esprit du droit romain,
I, Paris 1886 (rist. an. Bologna 1969), p. 267, vedeva la
caratteristica più rilevante della
«mission pour le monde juridique», tipica dei Romani, proprio nella separazione primordiale tra religione e
diritto, espressa da «l'antithèse du fas et du
ius». Cfr. anche G. PADELLETTI - P. COGLIOLO, Storia del diritto romano, 2a ed., Firenze 1886, pp. 21 ss.;
L. MITTEIS, Das römische Privatrecht bis auf die Zeit
Diokletians, I, Leipzig 1908, pp. 22 ss.; C. FERRINI, v. Fas, in Nuovo
Digesto Italiano, V, Torino
1938, col. 919; F. SCHULZ, I principii
del diritto romano, trad. it. a cura di V.
Arangio-Ruíz, Firenze 1949, pp. 22 s.
[5] I termini fas e nefas ricorrono in Virgilio rispettivamente 25 e 19 volte: nell'Eneide il primo è impiegato in 21 versi, il secondo in 18; nelle Georgiche
abbiamo 4 occorrenze
di fas e una di nefas. Cfr. H. MERGUET, Lexikon zu Vergilius, Leipzig 1912 (rist. an. Hildesheim - New York 1969), pp. 236 s., 446; D. FASCIANO, Virgile Concordance. Églogues,
Géorgiques, Énéide, Roma - Montreal 1982, pp. 329, 614.
[6] Riguardo all'uso del termine "sistema"
in luogo di "ordinamento" e della espressione
"sistema
giuridico-religioso", vedi le motivazioni offerte da P. CATALANO,
Linee del sistema
sovrannazionale romano, I, Torino 1965, pp. 30 ss., in part. 37 n. 75; Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano.
Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II. 16, 1, Berlin - New York 1978,
pp. 445 s.; Diritto e
persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57.
Il concetto di “ordinamento giuridico” viene invece utilizzato da F. FABBRINI, L'impero di Augusto come ordinamento sovrannazionale, Milano 1974 (cfr. p. 120, ivi in n. 210 la critica delle posizioni del Catalano), e riproposto con rinnovato vigore negli scritti più recenti di R. ORESTANO: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 348 ss. Sulla «nozione di ordinamento giuridico e sua applicabilità all'esperienza romana», vedi infine P. CERAMI, Potere ed ordinamento nell'esperienza enza costituzionale romana, Torino 1987, pp. 10 ss.
[7] Per una agevole consultazione di queste fonti, cfr. E. VETTER, v. Fas, in Thesaurus Linguae Latinae, VI, 1927, col. 287.
[8] Si vedano, per tutti, A. ERNOUT - A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de
la langue latine, 4a ed., Paris 1967, p. 217; É. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes,
2. Pouvoir, droit, religion,
[9] W. W. FOWLER, The religious experience of
the Roman people, London 1911, p. 487; R. ORESTANO, Dal
ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma
dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano 46, 1939, pp. 244 s.; H. FUGIER, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, p. 131.
[10] É il caso di Virgilio
Marone,
il grammatico,
per il quale, heri instar fas nonnulli putant nomina esse
inflectibilia, sed nos adverbia esse non ambigimus (= Gramm. Lat.
8, 188, 18-19, ed. Keil).
[13] G. DEVOTO, I problemi
del più antico vocabolario giuridico
romano,
in Atti del Congresso Internazionale di Diritto
romano, I, Pavia 1934, p. 25; nello stesso senso si orienta M. KASER, Das altrömische
ius,
Göttingen 1949, p. 30 n. 39.
[14] Cfr. Ausonio, Techn. 8, de diis,
1: Prima deum fas quae
Themin est Graiis; Paolo, Fest. ep., p. 505 L.: Themin deam putabant esse,
quae praeciperet hominibus id petere, quod fas esset,
eamque id esse extimabant, quod et fas est. Altri riferimenti in R. ORESTANO, Dal ius al fas, cit., p. 216 n. 46.
[15] U. COLI, Regnum, in Studia et documenta historiae
et iuris 17, 1951, ora in ID., Scritti di diritto romano, I, Milano 1973, p. 439: «Fas corrisponde a qšmij. La corrispondenza più
ancora che nel concetto sta nella parola,
poiché, a mio avviso, la voce latina è la stessa voce greca
deformata dalla fonetica etrusca»: cfr. inoltre ibidem n. 103.
[16] «Statuto,
legge divina», interpretava C. FERRINI, v. Fas, in Nuovo Digesto Italiano, cit., p. 918; cfr. nello stesso
senso C. GIOFFREDI, Diritto e processo nelle
antiche forme giuridiche romane, Roma 1955,
p. 25 n. 1; ma soprattutto H. FUGIER, Recherches sur l'expression du
sacré dans la langue latine, cit., pp. 142 ss.; e G. DUMÉZIL, Idées romaines, Paris 1969, p. 61; La religion romaine archaïque, 2a ed., Paris 1974, p. 144 (= trad. it. a cura di F.
Jesi, La religione
romana arcaica, Milano 1977, p. 127).
[17] Aderiscono, fra gli altri, a questa etimologia A. WALDE - J. B. HOFMANN, Lateiniscbes
etymologisches Wörterbuch, I,
dritte Auflage, Heidelberg 1938, p. 458; R. ORESTANO, Dal ius al fas, cit., p. 217; ID., I
fatti di normazione
nell'esperienza romana arcaica, Torino
1967, p. 106 s.; P. NOAILLES, Du droit
sacré au droit civil. Cours de droit romain approfondi 1941-1942, Paris 1949, p. 18; R.
SANTORO,
Potere ed azione nell'antico diritto romano, in Annali del Seminario giuridico
dell'Università di Palermo 30, 1967, p. 448 n.; R. SCHILLING, L'originalité
du vocabulaire religieux latin, ora in ID., Rites, cultes, dieux de Rome, Paris 1979, p. 44; A. GUARINO, L'ordinamento giuridico
romano, 4a ed., Napoli 1980, p. 93.
[18] Le fonti sono state
raccolte da G. WISSOWA, v. Fasti, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft 6, Stuttgart
1909, col. 2015; lo stesso Virgilio, del resto, lascia
intendere la connessione etimologica tra fas e fari in Aen.
1, 543.
[19] Varrone,
De
ling. Lat. 6, 29: Dies fasti, per quo,
praetoribus omnia verba sine
piaculo licet fari; 6, 53: Hinc fasti dies, quibus verba certa legitima sine piaculo praetoribus licet fari; ab
hoc nefasti, quibus diebus ea fari ius non est et, si fati sunt,
piaculum faciunt.
[20] C.I.L.
I, 1, 2a ed., Berolini 1893, p. 231 (Fast. Praen., ad
ian. 2):
<hic dies fastus
est. fasti dies appe>llantur, quod iis licet fari apud
<magistratus populi Romani ea sine quibu>s verbis lege agi non potest.
Sulla derivazione di tali fasti
da quelli di Verrio Flacco, vedi Svetonio, Gramm. 17; TH. MOMMSEN, in C.I.L. I, 1, p. 230; G. WISSOWA, v. Fasti, cit., col. 2017; J. PAOLI, Les définitions varroniennes des jours fastes et néfastes, in Revue historique de droit français et
étranger 29, 1952,
pp. 295 s.; A. DIHLE, v. Verrius, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft
Quanto poi al fatto che Varrone abbia costituito una fonte importante per le opere di Verrio, appaiono risolutive le argomentazioni svolte nell'importante lavoro di F. BONA, Contributo allo studio della composizione del "de verborum significatu" di Verrio Flacco, Milano 1964, pp. 35 ss.
[22] Per un rapido elenco dei calendari superstiti, vedi N.
TURCHI, La religione di Roma antica, Bologna 1939, pp. 320 s.; D. SABBATUCCI, La religione di Roma antica, dal calendario festivo
all'ordine cosmico, Milano 1988, p. 8; frammenti epigrafici in A. DEGRASSI, Inscriptiones
Italiae,
vol. 13: Fasti et elogia, Roma 1963.
Fra gli studi più recenti sull'antico calendario romano, mette conto ricordare: A. K. MICHELS, The Calendar of the Roman Republic, Princeton 1967, (cfr. la recensione di J.-C. RICHARD, Le calendrier préjulien, in Revue des études latines 46, 1968, pp. 54 ss.); CH. GUITTARD, Le calendrier romain des origines au milieu du V' siècle avant J. C., in Bulletin de l'Association G. Budé, 1973, pp. 203 ss.; H. HAUBEN, Some Osservations on the Early Roman Calendar, in Ancient Society 11-12, 1980-1981, pp. 241 ss.; A. W. J. HOLLEMAN, Zur Schaltung im vorjulianischen römischen Kalendar, in Rheinisches Museum für Philologie 124, 1981, pp. 55 ss.; ED. LIÉNARD, Calendrier de Romulus. Les débuts du calendrier romain, in L'antiquité classique 50, 1981, pp. 469 ss.; P. BRIND'AMOUR, Le calendrier romain. Recherches chronologiques, Ottawa 1983. Ma per il calendario religioso vedi anche P. DE FRANCISCI, Primordia civitatis, Roma 1959, pp. 322 ss.; M. LE GLAY, La religion romaine, Paris 1971, pp. 13 ss.; A. PASTORINO, La religione romana, Milano 1973, pp. 22 ss.; A. J. PFIFFIG, Religio etrusca, Graz 1975, pp. 91 ss.; G. DUMÉZIL, Fêtes romaines d'été et d'automne, suivi de dix questions romaines, Paris 1975 (ora in trad. it. a cura di M. Del Ninno: Feste romane, Genova 1989); ed infine D. SABBATUCCI, La religione di Roma antica, cit. supra in questa nota.
[23] G. WISSOWA, v. Fasti, cit., col. 2015; ID., Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, p. 438 n. 1; E. VETTER, v. Fas, in Thesaurus Linguae
Latinae, cit., col. 288; l'impiego di fas nel calendario pregiuliano rimanda
invece ad un uso sostantivale per P. CIPRIANO,
Varrone
e l'uso
"calendaristico" dei termini fas e nefas, in Atti del Cogresso internazionale di studi
varroniani, II, Rieti 1976, pp. 330 s.: «Nei calendari,
com'è infatti noto, compaiono due sigle F e N
che devono essere sciolte in fas e nefas; il che comporta, nonostante l'opinione
contraria di alcuni, l'interpretazione di fas e nefas come sostantivi anziché
come locuzioni»; EAD., Fas e nefas, Roma 1978,
pp. 73 s.
[24] Su tale distinzione, in generale, vedi J. PAOLI, Les définitions
varroniennes des jours fastes et néfastes, cit., pp. 293 ss.
[25] Livio 1, 19, 7: Idem nefastos dies fastosque fecit, quia aliquando nihil
cum populo agi utile futurum erat; cfr. anche Varrone, De ling.
Lat. 6, 29.
[26] Varrone, De ling. Lat. 6, 30: Contrarii horum vocantur dies nefasti, per quos dies
nefas fari praetorem "do," "dico," "addico";
itaque non potest agi: necesse est aliquo eorum uti verbo, cum lege quid
peragitur. Quod si tum imprudens id verbum emisit ac quem manumisit, ille
nihilo minus est liber, sed vitio, ut magistratus vitio creatus nihilo setius
magistratus. Praetor qui tum fatus est, si imprudens fecit, piaculari hostia
facta piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius aiebat eum expiari ut impium non
posse. Ovidio, Fast. 1, 47-48: Ille
nefastus erit per quem tria verba silentur; / Fastus erit, per quem lege
licebit agi. Gaio, Inst. 4,
29: praeterea quod nefasto quoque
die, id est quo non licebat lege agere,
pignus capi poterat. Cfr.
inoltre Festo, p.
[27] Cfr.,
ad esempio, Cicerone, De har. resp. 34; Verr. 6, 34;
Livio 1, 9, 13; 33, 33, 7; Virgilio, Georg. 1, 269.
505; ma anche Orazio, Carm. 1, 18, 10; Ovidio, Metam. 6, 585;
Ars am. 1, 739;
Quintiliano, Inst.
orat. 3, 8, 26; Servio, Ad Georg. 1, 269; Macrobio, Sat. 1, 7, 8.
[29]
Dal ius al fas, cit., p. 238: «È soltanto
dall'età ciceroniana in avanti che si trovano alcuni esempi accertati e probanti di un impiego del tutto nuovo della parola fas».
[30] E. VETTER,
v. Fas., in Thesaurus Linguae Latinae, cit., col. 288, ritiene
che il verso si retto da un verbo quale violare
o delere.
[31] Come lo stesso ORESTANO, Dal ius al fas, cit. p. 238, è costretto ad ammettere: «Anche a non voler accedere a quest'ultima ipotesi, rimane il fatto che il verso di Accio non appartiene certo alle più antiche testimonianze a noi pervenute e che una sola eccezione non può infirmare il valore probante e univoco di tutte le testimonianze più antiche, concordanti nell'unico significato di liceità. Al massimo si tratterebbe di anticipare di un poco l'inizio del nuovo uso».
[32] Per G. B. PIGHI, La poesia religiosa romana, Bologna 1959, p. 28, tutti i carmina Fetialium, conservati in prosa commatica
specialmente da Livio, «vengono, attraverso gli antiquari e i
giuristi del II e I secolo a. C., dai libri dei Feziali»; nello stesso senso,
ID., La religione romana, Torino 1967, p. 50. Del
resto già H. BORNEQUE, Tite-Live, Paris 1933, p.
76, peraltro assai critico sul problema
generale della tradizione, riteneva che Livio avesse
consultato direttamente documenti contenenti le formule dei feziali,
derogando in tal modo alla regola della storiografia latina di non verificare i documenti che si
credevano letti da storici precedenti.
[33]
Su questo carmen, ampiamente
discusso dalla dottrina, vedi fra gli altri: G. FUSINATO, Dei Feziali e del diritto
feziale. Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie dell'Accademia dei
Lincei, ser. III, vol.
13, 1883-1884, pp. 500 s.; C. ZANDER, Versus Italici antiqui, Lundae 1890, p. 32; G. APPEL, De Romanorum precationibus, Gissae
1909 (rist. an. New York 1975), p. 12;
F. BEDUSCHI, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, in Rivista italiana per le scienze giuridiche 10,
1935, pp. 265 s.; G. B. PIGHI,
La poesia religiosa romana, cit., p. 38; P. CATALANO,
Linee del sistema
sovrannazionale romano, I, cit.,
p. 30 n.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II, 2a ed., Napoli 1973,
pp. 50 s.; K.-H. ZIEGLER, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, I. 2, Berlin-New York
1972, pp. 102 s.; G. DUMÉZIL,
La religion romaine archaïque, cit.,
p. 105 (= La religione romana arcaica, cit., p.
95); A. CARCATERRA, Dea Fides e 'fides': storia di una laicizzazione, in
Studia et documenta historiae et iuris 50, 1984, pp. 215 ss.
[34] R. ORESTANO,
Dal
ius al fas, cit., p. 240. Assai simili sono invero le argomentazioni usate per negare
l'autenticità della formula da K. LATTE, Religiöse Begriffe im frührömischen
Recht, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte 67, 1950, p. 56; ID.,
Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 5 n. 1, 122
n. 2 (il quale pensa che la divinizzazione di fas
del passo liviano sia un fenomeno piuttosto recente,
legato con molta probabilità all'influenza greca); nello stesso
senso R. M. OGILVIE, A
Commentary
on Livy. Books 1-5, Oxford 1965, p. 130.
[35] Appare convincente, riguardo al passo
liviano, quanto scrive A. MAGDELAIN Quirinus et le droit (spolia opima, ius Fetiale, ius
Quiritium), in Mélanges
de l'École française de Rome 96, 1984, p. 213: «On
discute sur le degré de modernisation
des formules prononcées dans les différentes étapes de ce rituel, mais on admet le plus souvent que, si
la forme a été rajeunie,
l'ancien droit n'a pas été trahi».
Sulla
propensione, e necessità, da parte di annalisti
e antiquari ad intervenire sulla forma
linguistica, ma non sui contenuti, dei documenti giuridico-religiosi più antichi, si veda il mio Documenti sacerdotali di Roma antica, I.
Libri e commentarii, Sassari
1983, p. 155; cfr. anche F. SERRAO, Legislazione popolare nel V e IV
secolo a. C., in
AA.VV., Legge e società nella repubblica
romana, a cura di F. Serrao, I, Napoli 1981, p. XXIII (con
osservazioni
metodologiche più generali).
[36] C. GIOFFREDI, Diritto e
processo nelle antiche forme giuridiche romane, cit., p. 28 n. 15; ID., Il frammento di Fabio Pittore
in Gell. N. A., 10, 15, 1, e la tradizione antiquaria dei testi
giuridico-sacrali, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano 79, 1977, p. 32.
[37] L'assenza di testimonianze che
riferiscano di un qualche 'libro' dei feziali, induce W. W. FOWLER, The religious experience of the Roman people, cit., p. 488, a sospettare
dell'antichità della formula che personifica il fas: se infatti
tale formula provenisse dai libri pontificali, non si renderebbe necessario a parere dello studioso riferire la formula
ad età molto risalente; la personificazione dei fines suggerirebbe,
inoltre, ulteriori dubbi sulla genuinità dell'intera formula.
Per quanto riguarda la consistenza
dell'archivio dei feziali, non può negarsi
che nelle fonti non abbiamo citazioni testuali di libri, commentarii, o altro genere di documenti. Ciò non esclude, tuttavia, l'esistenza
di documenti della
sodalità; anzi, il fatto che ci siano pervenute alcune formule solenni
proprie dello ius Fetiale, oltre
che decreta e responso dati dai
feziali su casi di loro
competenza (Livio 31, 8, 2-3; 36, 3, 7-12), avvalora la tesi che anche questi sacerdoti conservassero la
documentazione attinente alla loro disciplina:
cfr. in tal senso, F. C. CONRADI, De
fecialibus et iure feciali populi Romani, Lipsiae
1734, pp. 30 sa.; M. V0IGT, De fetialibus populi Romani
quaestionis specimen, Lipsiae 1856, p. 16; A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Manuel des institutions
romaines, rist. an., Paris 1931, p. 543.
[38] G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., p. 106 (= La religione romana arcaica, cit., p. 95).
[39] Si
legga
in proposito quanto scrive E. PERUZZI, Aspetti culturali del
Lazio primitivo, Firenze 1978, p. 173: «Vi è una
differenza essenziale fra la lingua dei carmina sacerdotali e
la lingua delle leggi. La prima è immutabile
nel tempo, si che la formula deve recitarsi come è scritta anche se
più non la si intende. Il latino giuridico, invece, vive nella scuola e
nella pratica, e muta seguendo, se pur con ritmo
più lento, la naturale evoluzione della lingua
comune». Sulle peculiarità delle due "lingue", vedi ora
C. DE MEO, Lingue tecniche del latino, Bologna 1983,
pp. 67 ss., 133 ss.; per quanto riguarda,
invece, la tradizione documentaria sacerdotale, cfr. il mio Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 153 ss.
[40] Mi pare
francamente riduttivo negare ogni valore a questi due testi
dei Digesta, come
mostra di fare R. ORESTANO, Dal ius al fas, cit., p. 241, il quale, data
per evidente la derivazione letteraria del testo pomponiano, non tenta peraltro neppure di
giustificare la sua sfiducia nei confronti del frammento di Marciano.
[41] Neppure
Virgilio costituisce un'eccezione: nelle sue opere abbiamo,
infatti, solo cinque versi in cui la parola fas non si
presenta con valore attributivo (Georg. 1, 269. 505; Aen. 3, 55; 6, 438; 9, 96); cfr. H.
MERGUET, Lexikon zu Vergilius, cit., pp. 236 s.
[42] Così A.
GUARINO, L'ordinamento giuridico romano, cit., p. 93; di questo studioso cfr. anche Storia del
diritto romano, 7a ed.,
Napoli 1987, pp. 119 ss.
[43] Per un primo
approccio alla nozione di nefas vedi
J. PAOLI, Le monde juridique du paganisme romain. Introduction à l'étude du domain interdit des dieux dans le
temps (nefas), in Revue historique de
droit français et étranger 23, 1945, pp. 1 ss.; H. FUGIER, Rechercbes sur l'expression du
sacré dans la langue latine,
cit., pp. 127 ss.
[44] Cfr. in tal senso P.
CATALANO, Contributi
allo studio del diritto augurale, Torino 1960, p. 326 e n. 10;
seguito da F. CORDERO, Riti e sapienza del diritto, Bari 1981, p. 272.
[45] La frase è di
É. BENVENISTE, Le vocabulaire des
institutions indo-européennes, 2,
cit.,
p. 136; ma già prima, nello stesso senso: A. WALDE -
J. B. HOFMANN, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, cit., p. 458; A. ERNOUT - A. MEILLET, Dictionnaire
étymologique de la langue latine, cit., p. 217.
[46] Sull'importante
passo verriano, e sulle molteplici questioni da esso poste, vi è stata un'ampia discussione nella dottrina
romanistica contemporanea. Darne
conto compiutamente in questa nota non sarebbe certo possibile –
né opportuno per l'economia del discorso – ; basteranno alcuni
rinvii: M. KASER, Das altrömische ius, cit.,
pp. 48 ss.; D. SABBATUCCI, Sacer, in
Studi e materiali di storia delle religioni 23,
1951-1952, pp. 91 ss.; ID., Lo
stato come conquista culturale, Roma 1975, pp. 167 ss.; C. GIOFFREDI, Diritto e processo nelle antiche
forme giuridiche romane, cit., pp. 16 n. 39,
29; P. FREZZA, Preistoria e storia della 'lex
publica', in Bullettino dell'Istituto di diritto romano 59-60,
1956, pp. 55 ss.; H. FUGIER, Recherches sur l'expression du
sacré dans la langue latine, cit., pp. 244 s.; S.
TONDO, Il 'sacramentum militiae' nell'ambiente
culturale romano-italico, in
Studia et documenta historiae et iuris 29, 1963, pp. 43 ss.; É. BENVENISTE, Le
vocabulaire des institutions indo-européennes, 2, cit.,
p. 189; P. MAROTTOLI, 'Leges sacratae', Roma
1979, pp. 120 ss.; C. MORANI, Lat. 'sacer' e il rapporto uomo-dio nel lessico religioso latino, in
Aevum 55, 1981, pp. 40 s.; G. CRIFÒ, 'Exilica causa, quae
adversus exulem agitur'. Problemi dell’‘aqua et igni interdictio', in
AA.VV.,
Du châtiment dans la
cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Collection de l'École française de Rome 79,
Rome 1984, pp. 456 ss.
[47] W. PÖTSCHER, Flamen Dialis, in Mnemosyne 21, 1968, pp. 227 ss., ritiene doversi
individuare la ragione di un simile divieto nel fatto che nel letto del flamen si consumava
ritualmente la sacra unione tra il cielo e la terra;
nello stesso senso G. MARTORANA,
Osservazioni sul 'flamen Dialis', in fil…aj
c£rin. Miscellanea
di studi in onore di E. Manni,
IV, Roma
1980, p. 1466: «il letto diveniva una sorta di giaciglio sacro e questo
doveva essere preservato da presenze estranee». Cfr. anche I. CHIRASSI,
Dea Dia e
Fratres Arvales, in Studi e materiali di storia delle religioni 39, 1968, p. 204.
[48] Gellio, Noct. Att. 10, 15, 1-25: Caerimoniae
impositae flamini Diali multae, item castus multiplices, quos in libris, qui da
sacerdotibus publicis compositi sunt, item in Fabii Pictoris librorum primo
scriptos legimus. Unde haec ferme sunt, quae commeminimus: Equo Dialem flaminem
vehi religio est; <item religio est> classem procinctam extra pomerium,
id est exercitum armatum, videre; idcirco rarenter flamen Dialis creatus consul
est, cum bella consulibus mandabantur; item iurare Dialem fas numquam est; item
anulo uti nisi pervio cassoque fas non est. Ignem e "flaminia", id
est flaminis Dialis domo, nisi sacrum efferri ius non est. Victum, si aedes
eius introierit, solvi necessum est et vincula per impluvium in tegulas subduci
atque inde foras in viam demitti. Nodum in apice neque in cinctu neque alia in
parte ullum habet. Si quis ad verberandum ducatur, si ad pedes eius supplex
procubuerit, eo die verberari piaculum est. Capillum Dialis, nisi qui liber homo est, non detondet. Capram et carnem
incoctam et hederam et fabam neque tangere Diali mos est neque nominare.
Propagines e vitibus altius praetentas non succedit. Pedes lecti, in quo cubat,
luto tenui circumlitos esse oportet et de eo lecto trinoctium continuum non
decubat neque in eo lecto cubare alium fas est. Apud eius lecti fulcrum capsulam esse cum strue atque ferto oportet.
Vnguium Dialis et capilli segmina subter arborem felicem terra operiuntur. Dialis cotidie feriatus est. Sine apice sub divo esse licitum non est.
[...] Farinam fermento inbutam adtingere ei fas non est. Tunica intima nisi in
locis tectis non exuit se, ne sub caelo tamquam sub oculis Iovis nudus sit.
Super flaminem Dialem in convivio, nisi rex sacrificulus, haut quisquam alius
accumbit. Uxorem si amisit, flamonio decedit. Matrimonium flaminis nisi morte
dirimi ius non est. Locum, in quo bustum est, numquam ingreditur, mortuum
numquam attingit; funus tamen exsequi non est religio.
Per una puntuale analisi di questo testo vedi, fra la
letteratura più recente:
R. FILHOL, Usurpatio trinoctii (Aulu-Gelle,
Nuits Attiques, X, 15), in Hommages à
Léon Herrmann, Bruxelles - Berchem 1960, pp. 359 ss.; W. PÖTSCHER,
Flamen Dialis, cit., pp. 215 ss.; C. GIOFFREDI, Il frammento di
Fabio Pittore in Gell. N. A., 10, 15,
1, e la tradizione antiquaria dei testi
giuridico-sacrali, cit., pp. 27 ss.; G. MARTORANA,
Osservazioni sul
'flamen Dialis', cit., in nota precedente, pp. 1449 ss.
Più in generale, sul flamine di Iuppiter
cfr.
G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 504 ss.; N. TURCHI, La
religione di Roma antica, cit., pp. 49 ss.; K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit.,
pp. 202 ss., 402 s.; G. DUMÉZIL, La
religion romaine archaïque, cit.,
pp. 163 ss. (= La religione romana
arcaica, cit.,
pp. 146 ss.).
[49] Motivazioni
del divieto in Paolo, Fest. ep., p.
[50] Cfr. G.
WISSOWA, Religion und Kultus der
Römer, cit., pp.
503, 505; E. ESPÉRANDIEU, v. Flamen, in Dizionario o epigrafico di
antichità romane 3, Roma 1922, p. 142; K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 402.
[51] Da ultimo G. MARTORANA,
Osservazioni sul
'flamen Dialis',
cit.,
p.
1463: «Era religio che il flamen andasse a cavallo: viene alla mente il mito di Virbio-Ippolito, divinità ove è facile
scorgere la figura del potnios hippon mediterraneo, in cui interviene l'interdizione del cavallo.
Si palesa così il primo segno utile all'indicazione del flamen Dialis
come
espressione religiosa legata ad una divinità, Dius – da cui prenderebbe il nome e che trova la sua corrispondenza femminile nella dea Dia
dei
fratelli Arvali – figura, secondo una documentata ipotesi, dell'antica divinità
maschile non indoeuropea, che con Virbio sembra mantenere tratti mitici
similari». Nello stesso senso, in precedenza, M. MARCONI,
Riflessi mediterranei
nella più antica
religione laziale, Messina-Milano
1939, pp. 359 ss.; I. CHIRASSI, Dea
Dia e Fratres Arvales, cit., p. 263.
[52] Livio 23, 14, 2: Et dictator Iunius Pera rebus divinis perfectis latoque, ut solet, ad populum, ut equum estendere
liceret; cfr. Plutarco, Fab. 4, 1; Zonara 7, 14. Esauriente
esame della dottrina precedente in G. VALDITARA,
Perché il
dittatore non poteva montare a cavallo, in Studia et documenta historiae et iuris 54, 1988, pp. 226 ss.
[53] Già L. LANGE, Römische Alterthümer, I, 3a ed., Berlin 1876, p. 761, aveva rilevato il carattere
religioso dei due divieti: così anche D. COHEN, The Origin of the Roman Dictatorship, in Mnemosyne 10, 1957, pp. 314 s.; brevemente F. SINI, A proposito del carattere religioso del 'dictator'
(note metodologiche sui documenti
sacerdotali), in Studia et documenta
historiae et iuris 42, 1976, pp. 422 s. (ora in AA.VV., Dittatura degli antichi
e dittatura dei moderni, a cura di G. Meloni, Roma 1983, p. 127);
da ultimo, nello stesso senso,
G. MELONI, Dottrina
romanistica, categorie giuridico-politiche
contemporanee e natura del potere del `dictator', in Dittatura degli antichi
e dittatura dei moderni, cit., pp. 85, 105 n. 60. Il carattere
religioso del divieto posto al dictator
è stato
solitamente negato dalla moderna dottrina romanistica,
pur con varietà di motivazioni: vedi per tutti (con ampi riferimenti agli studiosi precedenti) A. GUARINO, Il dittatore appiedato, in Labeo
25,
1979, pp. 9 ss.; e G. VALDITARA, Op.
cit. in n. precedente.
[54] F. FABBRINI,
Res divini iuris, in Novissimo Digesto Italiano, XV, Torino 1968, p. 523: «Dato
il timore provocato dalla presenza numinosa,
religio ha spesso anche il senso di "difesa", di
"impedimento": religiosum est
sarebbe allora sinonimo di nefas est: ciò che non si può fare, che non si può toccare, altrimenti si è impuri»;
cfr. dello stesso autore, Dai 'religiosa loca' alle 'res
religiosae', in Bullettino
dell'Istituto di diritto romano 73,
1970, p. 209.
Non mi pare,
al contrario, accettabile la conclusione di C. GIOFFREDI, Il frammento di Fabio Pittore in Gell. N. A., 10,
15, 1, e la tradizione antiquaria dei testi giuridico-sacrali, cit., pp. 42 s., il quale
(poiché «religio est, piaculum est, fas non est ... sono termini che si possono
scambiare» e poiché «religio e piaculum hanno il significato di qualcosa
che impone comportamenti, astensioni o cautele»)
ritiene che nel contesto gelliano anche fas abbia uguale
significato: «dunque non esprime soltanto il valore di
"lecito", ma, in nuce, anche quello
di lex
divina, nella specie la legge che regola
la vita del
Flamen».
[55] Lo stesso divieto si evince dal lemma festino mundus, tratto dal VI libro De iure pontificio
di
Ateio Capitone, che riporta anche la definizione data da Catone nei Commentaria iuris civilis:
Festo,
p.
Sull'interpretazione
del Mundus esistono,
com'è noto, profonde divergenze tra gli studiosi: vedi, fra gli altri, C. O. THULIN,
Die etruskische Disciplin, III, Göteborg 1909 (rist. an. Darmstadt 1968), pp. 17 ss.; G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 234 s.; S. WEINSTOCK, "Mundus patet", in Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts
(Rom. Abt.) 45, 1930, pp. 111 ss.; L. DEUBNER, Mundus, in Hermes 68, 1933, pp. 276 ss.; H. LE BONNIEC, Le culte de Cérès
à Rome,
Paris 1958, pp. 175 ss.;
K. LATTE, Römische
Religionsgeschichte, cit., pp. 141 ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., pp. 356 ss. (= La religione
romana arcaica, cit., pp. 310 s.); A. MAGDELAIN, Le 'pomerium' archaïque et le
'mundus',
in Revue des études latines 54, 1976, pp. 71 SS.; J. PUHVEL, The origins of Greek `Kosmos'
and Latin 'Mundus', in American Journal of Philology 97, 1976, pp. 154 ss.; J. RYKWERT, The Idea of a Town (Princeton 1976), cit. in trad. it.:
L'idea della città, Torino 1981, pp. 55 s.; infine P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano, cit., pp. 452 ss.
[56] In questo passo Macrobio trascrive un testo di Varrone, forse tratto
dal libro VIII (de feriis) delle "Antichità
divine"; non lo comprende però tra i frammenti B. CARDAUNS, M. Terentius Varro
Antiquitates rerum divinarum, Wiesbaden 1976, 1, p. 55, con la motivazione che (II, p. 176): «Die Angaben bei Macrobius stammen aus Grammatikertradition und können verschiedenen Schriften entnommen sein»; tuttavia
«Herkunft aus RD VIII ist
möglich».
[57] J.
PAOLI, Le monde juridique du
paganisme romain. Introduction à l'étude du domaine interdit des
dieux dans le temps (nefas), cit., pp. 1 SS.; ID., Les définitions
varroniennes de jours fastes et néfastes, cit., supra in n. 20.
[59] J. PAOLI, Le monde juridique du paganisme romain, cit., p. 5; cfr. Les définitions
varroniennes des jours fastes et néfastes, cit., pp. 308, 314 n. 1.
[60] A. GUARINO,
L'ordinamento giuridico
romano, cit., p. 93.
[63] R. ORESTANO, Dal ius al
fas. Rapporto tra diritto divino e umano in
Roma dall'età primitiva all'età classica, cit. supra in n. 9; Elemento divino ed elemento umano nel diritto di Roma, in Rivista internazionale di filosofia del diritto 21, 1941
(la numerazione delle pp. è quella dell'estratto); I fatti di
normazione nell'esperienza romana arcaica, cit. supra in n. 17.
[68] K. LATTE, Römische
Religionsgeschichte, cit., p. 38.
[69] Sul diritto divino, vedi A. BERGER, v. Ius divinum, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 10, 1, Stuttgart 1917, coll. 1212 ss.; P. CATALANO, Per
lo studio dello ius divinum, in
Studi e materiali di storia delle religioni 33, 1962, pp. 129 ss. Più in
particolare sul diritto sacro si vedano: P. NOAILLES, Du droit sacré au droit civil, cit. in n. 17; M. KASER, Das
altrömische ius, cit.,
pp. 336 ss.; P. Voci, Diritto
sacro romano in età arcaica, in Studia et documenta historiae et iuris 19, 1953, ora in ID., Scritti di
diritto romano, I,
Padova
1985, pp. 211 ss.; limitatamente ad alcuni aspetti di esso R. DÜLL, Rechtsprobleme im Bereich des römischen Sakralrechts, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, I. 2,
Berlin-New York 1972, pp. 238 ss.
[70] Su
tali concetti vedi, per tutti: N. BOBBIO, Teoria
della norma giuridica, Torino
1958, pp. 154 ss.; G. KALINOWSKI, Introduzione alla
logica giuridica, trad. ít. a cura di M. Corsale,
Milano 1971, pp. 157 ss.; G. Di BERNARDO, Introduzione
alla logica dei sistemi normativi, Bologna 1972, pp. 69 ss.
Quanto poi all'inadeguatezza delle moderne categorie del diritto per la comprensione dell'esperienza giuridica romana, mette conto sottolineare la validità dell'insegnamento di R. ORESTANO, ribadito ancora di recente nell'ultima edizione della sua Introduzione allo studio del diritto romano, cit., p. 408: «Nell'impiego imprescindibile del "nostro" bagaglio concettuale è infatti ognora insito il pericolo di trasposizioni di significati e di concetti fra altre esperienze e la propria, trasposizioni nei due sensi e che per l'uno o per l'altro rischiano di rendere deformi e inutilizzabili le indagini».
[73] P. CATALANO, Contributi allo studio del
diritto augurale, cit., p. 326. Nello stesso senso, vedi
anche F. CORDERO, Riti e sapienza del diritto, cit., p. 272: «Bivalenti anche le tecniche
augurali, obiettivamente prognostiche o normative:
l'auspicio fausto segnala un permesso, l'infausto un divieto; l'impresa riesce bene o male perché gli
dèi vi consentono o no; i verbi ‘admitto’ e
‘addico’, nonché formule quali "si per auspicia
liceret" o "si datur... si
prohibes", riconducono l'augurium-accrescimento di potenza a una scelta
divina; "est fas"; essendo lecito, l'atto conseguirà l'esito a
cui mira, ma niente esclude che sia non tanto permesso quanto dovuto (la
seconda qualifica implica la prima); gli interessati sciolgono eventuali dubbi
circoscrivendo il quesito; la risposta affermativa "si est nefas... non
esse" rivela un obbligo».
[75] Il
più antico prefisso negativo non era, in generale, ne- ma in-: cfr. É. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2, cit., p. 136.
[76] J. PAOLI, Le monde juridique du
paganisme romain. Introduction à l'étude du domaine interdit des
dieux dans le temps (nefas), cit., pp. 1 ss.; A. GUARINO, L'ordinamento giuridico romano, cit., pp.
100 s.; contro R. ORESTANO, I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, cit., p. 172 n. 1.
[77] Da
condividere quanto scrive, in proposito, R. ORESTANO, I
fatti di
normazione nell'esperienza romana arcaica, cit., p. 114: «In queste condizioni tutta la vita privata e quella pubblica
erano dominate dall'assillo ansioso e ininterrotto di operare in accordo
con queste "forze" o "deità", di procurarsi il loro ausilio, di propiziarsi il loro
assenso, di mettersi al riparo dalle
loro influenze ostili, di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore
o una loro reazione. La paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o comportamento potesse rompere la pax deorum da cui dipendevano
il benessere dell'individuo, della famiglia, della comunità, rendeva il
romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della natura i segni della
volontà divina».
[79] Cfr.
la qualifica, certo antichissima, attribuita nell'ordo sacerdotum al pontefice massimo (per la risalenza vedi G.
DUMÉZIL, La
religion romaine
archäique, cit., p. 155 =
La religione romana arcaica, cit., pp. 138 s.): Festo, pp. 198-200 s. L.: Ordo sacerdotum
aestimatur deorum <ordine ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex,
dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex
maximus. Itaque in soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra
Martialem, et Quirinalem; Martialis supra proximum; omnes item supra
pontificem. Rex, quia potentissimus: Dialis, qui universi mundi sacerdos, qui
appallatur Dium; Martialis, quod Mars conditoris urbis parens; Quirinalis,
socio imperii Romani Curibus ascito Quirino; pontifex maximus, quod iudex
atque arbiter habetur rerum divinarum humanarumque. Sul testo vedi, da ultimo, F. D'IPPOLITO, Giuristi e sapienti in
Roma arcaica, Roma-Bari 1986, pp.
91 s.; ma anche M. BRETONE, Storia
del diritto romano, Roma-Bari
1987, p. 108.
[80] D. 1, 1, 10, 2 (= Ulpiano,
Libr. I regularum): Iuris
prudentia est divinarum atque humanarum
rerum notitia, iusti atque iniusti scientia, cfr. Inst.
1, 1, 1. Assolutamente non condivisibile appare la valutazione del passo proposta
da F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, trad. it.
di G. Nocera, Firenze 1968, p. 242
(«La definizione di giurisprudenza parimenti viene
dall'arsenale greco; essa è assolutamente priva di valore, particolarmente come caratterizzazione della giurisprudenza romana»), pur se
collocata nel contesto della scienza romanistica del tempo: cfr. F. SENN, Les
origines de la notion de jurisprudence, Paris 1926; F. STELLA MARANCA, Intorno alla definizione della giurisprudenza, in Historia 8, 1934, pp. 640
ss. Si mostra più cauto R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, p. 341 n. 543, pur dubbioso sulla buona
qualità del testo; mentre sembra
coglierne pienamente il valore G. NOCERA, "Iurisprudentia".
Per una storia del pensiero giuridico romano, Roma 1973, pp. 9 ss., quando
parla di «interpretazione autentica della nozione di
'giurisprudenza'», non trascurando, peraltro, di sottolineare le
affinità tra quanto scrive Festo del pontifex
maximus e la definizione ulpianea della
iuris prudentia: «L'accostamento tra la giurisprudenza,
quale divinarum humanarumque rerum notitia, e il supremo sacerdozio, quale iudex atque arbiter rerum divinarum
bumanarumque, mostra di per sè solo, attraverso
l'eloquenza del linguaggio, l'estensione dell'influenza sacerdotale sul mondo del diritto
più antico, e di riflesso su quello del diritto
successivo» (p. 12). Sul testo ulpianeo, vedi infine G. CRIFÒ, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in
Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt, II. 15, Berlin-New York 1976,
pp. 708 s., per il quale non vi è in esso «nonostante
le apparenze, nulla di astratto, di trascendente, di
astorico»; vi traspare al contrario «la pienezza della coscienza
storica di chi sa da dove viene e verso dove va e perché vi si dirige».
[81] Gaio, Inst. 2, 2 (= D. 1, 8, 1 pr.): Summa itaque rerum divisio in duos articulos diducitur: nam aliae sunt
divini iuris, aliae humani. Sebbene nelle istituzioni gaiane questa
summa divisio sia preceduta dalla divisione tra cose quae
vel in nostro patrimonio sunt vel extra nostrum patrimonium habentur (Inst. 2, 1), non pare
possa dubitarsi del carattere più risalente della summa divisio in res divini iuris e res bumani iuris; forse questa convinzione ha guidato
i compilatori del Digesto nell'ordinare
il titolo VIII del I libro, De divisione rerum et qualitate, in cui la
summa divisio appare ripristinata nella sua priorità sistematica. Su tale divisio vedi F. FABBRINI, v. Res divini iuris, cit., pp. 510 ss.,
con ampia rassegna del dibattito nella dottrina precedente e della bibliografia; brevemente G. GROSSO, Problemi sistematici nel diritto romano.
Cose-Contratti, Torino
1974, pp. 22 s.; riguardo al significato
dell'espressione summa divisio, sempre in riferimento a Gaio, vedi invece F. GORIA, Schiavi, sistematica delle
persone e condizioni economico-sociali nel principato, in AA.VV., Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976,
pp. 339 ss.; sull'influenza dell'ideologia religiosa vedi, infine, L. LANTELLA, Il lavoro sistematico nel discorso giuridico
romano (Repertorio di strumenti per una lettura ideologica), ibid., pp. 244 ss.
[82] Per la sistematica delle Antiquitates varroniane, in generale, vedi
H. DAHLMANN, v. M. Terentius Varro, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. 6, Stuttgart 1935, coll. 1229 ss.; ID., Zu Varros antiquarisch-historischen
Werken, besonders den Antiquitates rerum humanarum et divinarum, in Atti del Congresso internazionale di studi varroniani, I, Rieti 1976, pp. 163 ss.; J. COLLARI, Varron grammairien latin, Paris 1954,
pp. 275 ss. Più in particolare sulle 'Antichità divine': A. G. CONDEMI, Proemium a M. Terenti Varronis
Antiquitates rerum divinarum. Librorum I-II
fragmenta, Bologna 1965, pp. VII ss.; B. CARDAUNS, M.
Terentius Varro Antiquitates rerum divinarum, II. Kommentar, Wiesbaden 1976, pp. 125 ss.; P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso
romano, cit., pp.
446 ss.; brevemente anche F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 210 ss.
[85] Cfr. P. CATALANO, Contributi allo
studio del diritto augurale, cit., pp. 164
ss.; seguito da F. CORDERO, Riti e sapienza del
diritto, cit., pp. 212 ss.
[87] Isidoro,
Orig. 5, 2: De legibus divinis et humanis. Omnes autem leges aut divinae sunt, aut humanae. Divinae natura, humanae moribus constant; ideoque haec discrepant, quoniam aliae
aliis gentibus placent. Fas lex divina est, ius lex humana. Transire per alienum fas est, ius non est.
[88] Così,
ad esempio, L. CAPUANO, I primi del diritto romano, Napoli 1878 (rist. an. Roma
1978), pp. 101 s.; M. VOIGT, Die XII Tafeln, I, Leipzig 1883, pp. 101 ss.; R. VON JHERING, L'ésprit du droit
romain, trad. frane. di O. De Meulenaere,
Paris 1886-88, I, pp. 266 ss.; II, pp. 49 ss.; P. KRÜGER, Geschichte der Quellen und Literatur des
römischen Rechts,
2a ed.,
Leipzig 1912, p. 5; S. PEROZZI, Istituzioni di diritto
romano, 2a ed., I,
Roma 1928,
p. 83; V. SCIALOJA, Teoria
della proprietà, I, Roma 1928, p. 188; C. FERRINI, v. Fas, cit., p. 919.
[90] Cfr. P. NOAILLES, Du
droit sacré au droit civil,
cit., pp. 18 ss.; U. COLI, Regnum, cit., p. 438.
[91] R. ORESTANO, Dal
ius al fas, cit., pp. 216 ss.; ID., I fatti di normazione
nell'esperienza romana arcaica, cit.,
pp. 106 ss.; nello stesso senso anche C. GIOFFREDI, Diritto
e processo nelle antiche forme giuridiche romane, cit., p. 25 ss.; B. ALBANESE, Premesse allo studio del diritto privato romano, cit., p. 127.
[92] Sull'etimologia
del termine ius e sulla
sua connessione con la sfera religiosa, la letteratura
è troppo vasta per poter pensare di darne conto in
questa nota. Vedi, perciò, oltre gli autori citati in n. precedente: M. KASER,
Das
altrömische ius, cit., pp. 27 s.; P. DE FRANCISCI,
Primordia
civitatis, cit., p. 378 ss.; É. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2,
cit., pp. 111 ss.; G. DUMÉZIL, Idées romaines, cit.,
pp. 31
ss.; A. GUARINO, L'ordinamento giuridico romano, cit., pp. 96 ss.
[93] Per una esauriente esposizione delle tesi presenti in
dottrina, vedi
C. GIOFFREDI, Diritto e
processo nelle antiche forme giuridiche romane, cit., pp. 25 ss.; R. SANTORO, Potere ed azione nell'antico diritto romano, cit., pp. 449-450 e relative nn.; adde G.
DUMÉZIL, La
religion romaine archaïque, cit., pp. 144 s. (= La
religione romana arcaica, cit.,
pp. 127 s.).
[94] Aen. 2, 157.
[95] Servio Dan., Ad Aen. 2, 157: Aut 'fas mihi' ideo,
quia non licet solvere sacramentum militare adversariis vel hostibus; ideo
dixit `liceat arcana dicere'.
Et cum ostenderit, se rem dicere quam non licet, ei facilius credetur; cfr. E. PARATORE (a
cura di), Virgilio, Eneide, I (Libri I-11), Milano 1978, p. 280. Sull'episodio
di Sinone vedi, fra i più recenti lavori, B. MANUWALD, Improvisi aderunt. Zu Sinon-Szene in
Vergils Aeneis (2, 57-198), in Hermes 113, 1985, pp. 183 ss.; J. H. MOLYNEUX, Sinon's Narrative in Aeneid II, in Latomus 45, 1986, pp. 873 ss.; C. DEROUX, v. Sinone, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 885 ss.
[96] Cfr. anche Aen. 1, 77; 4, 113; 6, 266.
[97] Catone, De agr. 139: Locum conlucare romano more
sic oportet: porco piaculo facito, sic verba
concipito: "Si deus, si dea es quoium illud sacrum est, ut tibi ius
est porco piaculo illiusce sacri coercendi ergo harumque rerum ergo, sive ego sive quis iussu meo fecerit, uti id
recte factum siet, eius rei ergo te hoc porco piaculo immolando bonas
preces precor uti sies volens propitius mihi, domo familiaeque meae liberisque
meis; harumce rerum ego macte hoc porcum piaculo immolando esto".
[99] Da intendere nel senso di 'culto degli
dei', come insegnava Cicerone, De nat.
deor. 2, 8: C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud
Trasumenum scribit magno cum rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui
religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis,
ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est
cultu deorum, multo superiores. Una diversa definizione è data invece da Servio, Ad
Aen. 8, 349: Religio, id est
metus, ab eo quod mentem religet dicta religio.
Per quanto riguarda significato e valore della religio si vedano,
fra i contributi più recenti, H. FUGIER, Recherches sur l'expression du sacré
dans la langue latine, cit., pp. 172 ss.; É. BENVENISTE, Le vocabulaire des
institutions indo-européennes, 2,
cit., pp. 265 ss.;
R. MUTH, Von
Wesen römischen ‘religio’,
in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt, II. 16, 1, Berlin-New
York 1978, pp. 290 ss.
[100] Georg.
1, 268-272; sui quali
vedi. W. W. FOWLER,
Roman Essays and
interpretations, Oxford 1920, pp. 79 ss.
[101] Cfr., al riguardo, A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome, Paris 1871, pp. 113 ss.; G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 432 ss.; G. ROHDE, Die
Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin
1936, pp. 95 ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine
archaïque, cit., pp. 551 ss. (= La
religione romana arcaica, cit.,
pp. 478 ss.).
[102] Ad Georg. 1, 270; cfr. Macrobio, Sat. 3,
3, 10-12. Sulle implicazioni
del testo del Servio Danielino in rapporto ai contenuti dei libri pontificum, vedi, con differenti
valutazioni, G. ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., pp. 40 s.; F. SINI, Documenti sacerdotali
di Roma antica, cit., pp. 109 s.
[104] Columella, De re rust. 2, 21 (Quae per ferias liceat agricolis et quae
non liceat facere): Sed cum tam otii quam negotii rationem reddere maiores nostri
censuerint, nos quoque monendos esse agricolas existimamus, quae feriis facere,
quaeque non facere debeant. Sunt enim, ut ait poeta, quae «... festis ...
exercere diebus / fas et iura sinunt: rivos deducere nulla / religio vetuit,
segeti praetendere saepem, / insidias avibus moliri, incendere vepres, /
balantumque gregem fluvio mersare salubri». Quamquam pontifices
negant segetem feriis sepiri debere; vetant quoque lanarum causa lavari oves,
nisi propter medicinam. Virgilius qui liceat feriis flumine abluere gregem
praecepit, et idcirco adiecit, «fluvio mersare salubri», id est
salutari; sunt enim vitia, quorum causa pecus utile sit lavare. Feriis autem
ritus maiorum etiam illa permittit, far pinsere, faces incidere, candelas
sebare, vineam conductam colere; piscinas, lacus, fossas veteres tergere et
purgare, prata sicilire, stercora aequare, foenum in tabulata componere,
fructus oliveti conductos cogere, mala, pira, ficos pandere, caseum facere,
arbores serendi causa collo vel mulo clitellario adferre; sed iuncto advehere
non permittitur, nec adportata serere, neque terram aperire, neque arborem
collucare; sed ne sementem quidem administrare, nisi prius catulo feceris; nec
foenum secare aut vincire aut vehere. Ac ne vindemiam quidem cogi per religiones
pontificum feriis licet; nec oves tondere, nisi si catulo feceris. Defrutum
quoque facere et defrutare vinum licet. Uvas itemque olivas conditui legere
licet. Pellibus oves vestiri non licet. In horto quicquid olerum causa facias,
omne licet. Feriis publicis hominem mortuum sepelire non licet. M. Porcius Cato
mulis, equis, asinis nullas esse ferias dixit. Idemque boves permittit
coniungere lignorum et frumentorum advehendorum causa. Nos apud pontifices
legimus, feriis tantum denicalibus mulos iungere non licere, ceteris licere.
[105] Sull'elaborazione teologica
e giuridica di Q. Mucio Scevola, pontefice
massimo e sommo giurista dell'età repubblicana, vedi fra gli altri: G.
LEPOINTE, Quintus Mucius
Scaevola, I. Sa vie et son oeuvre juridique. Ses doctrines sur le droit pontifical, Paris
Per
quanto riguarda la teologia muciana, theologia
tripertita, che notoriamente
sta alla base del pensiero teologico varroniano, vedi il
saggio di G. LIEBERG, Die
"Theologia tripertita" in Forschung und Bezeugung, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, I. 4, Berlin-New York 1973, pp. 63 ss. (a pp. 107 ss. sono
raccolte le fonti fondamentali per la conoscenza della theologia tripertita), in cui sono discussi i contributi
anteriori al 1970. Adde:
A. SCHIAVONE, Quinto
Mucio teologo, in Labeo 20, 1974, pp. 315 ss. (= Nascita della giurisprudenza, cit., pp. 5 ss.); J. PÉPIN, Remarques sur les sources
de la "theologie tripertita" de Varron, in Varron. Grammaire antique et stylistique latine (Recueil offert à J.
Collart), Paris 1978, pp. 127 ss.; G. LIEBERG, Die theologia tripertita als Formprinzip antiken Denkens, in Rheinisches Museum für Philologie 125, 1982, pp. 25 ss.
[106] Macrobio, Sat. 1, 16, 11 = PH. E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, editio quinta, Lipsiae 1886, p. 15 fragm. 12;
F. P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae
quae supersunt, I, Lipsiae
1896, p. 57 fragm. 2. Sul testo vedi G. LEPOINTE,
Quintus Mucius Scaevola, cit.,
pp. 93 s.; G. ROHDE, Die
Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., p. 41.
[107] Così J.
PAOLI, Les définitions varroniennes des jours fastes et néfastes, cit., p. 314 n. 1.
[108] G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., p. 144 (= La religione
romana arcaica, cit. p. 127). Più in
generale, sulla forte connotazione religiosa delle Georgiche e
sugli aspetti della religiosità romana in esse presenti, vedi L. ALFONSI, Problematica religiosa e sociale nelle
"Georgiche" virgiliane, in Studi in onore di B.
Biondi, I, Milano 1965, pp. 428
ss.; e la più recente rassegna
di P. BOYANCÉ, La religion des "Georgiques"
à la lumière des travaux
récents, pubblicata postuma a cura di P.
Grimal, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 1, Berlin-New York 1980, pp. 549 ss.
[109] Aen. 3, 53-57. Commento al testo di R. D. WILLIAMS, P. Vergili Maronis Aeneidos, liber tertius, Oxford 1962, p. 65: «fas omne
abrumpit: 'broke all his sacred
obligations'. Fas
omne has particular reference to the ties of kinship (he was Priam's son
– in – law) and of hospitality and good faith». Su Polidoro vedi, invece J.-L. POMATHIOS,
Le pouvoir politique et sa
représentantion dans l'Énéide de Virgile, Bruxelles
1987, pp. 29, 37; F. CAVIGLIA, v. Polidoro, in Enciclopedia Virgiliana, IV,
cit., pp. 162 ss.
[111] Abbiamo già visto come la
violazione della cognatio fosse considerata crimen contra fas dal giurista Marciano: D.
48, 18, 5.
[112] Sullo ius hospitii e più in generale
sull'istituto dello hospitium vedi, per
tutti, l'ampia sintesi di F. DE
MARTINO, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 23 ss.; e da ultimo il saggio di M. LEMOSSE,
“Hospitium”, in Sodalitas. Scritti in
onore di Antonio Guarino, 3, Napoli 1984, pp. 1296 ss., del quale però non mi sento di condividere la notazione
sull'impiego virgiliano (p. 1273 n. 15): «A plusieurs reprises, Virgile parle d'hospitium [...] mais
à l'évidence ces textes correspondent trop à des pratiques
et des conceptions religieuses empreintes
d'influence hellénique pour être utilisés sans
précaution».
[113] G. DUMÉZIL, La
religion romaine archaïque, cit.,
p. 106 (= La
religione romana arcaica, cit., p. 95). Circa la profonda connessione esistente nel sistema giuridico-religioso romano tra fas e atti e procedure dei sacerdotes Fetiales, vedi: brevemente C. FERRINI v. Fas, in Nuovo Digesto
Italiano,
cit., p. 928; in maniera più
approfondita G. DUMÉZIL, Idées romaines, cit., pp. 61 ss.
[116] Servio, Ad Aen. 9, 95: Fas habeant ius; nec enim
possunt aeterna esse quae ab hominibus facta sunt. Cfr. H. FUGIER, Recherches sur
l'expression du sacré dans la langue latine, cit., pp. 141 s.;
per la studiosa francese fas, in relazione al mondo
inanimato, avrebbe il significato di «nature, statut existentiel».
[117] Aen. 6, 438-439.
[120] Aen. 3, 365-367: sola
novom dictuque nefas Harpya Celaeno / prodigium canit et tristis denutiat iras
/ obscenamque famem.
[123] Contro tale tesi cfr. P. CIPRIANO, Fas e Nefas, cit., pp. 82 ss.; EAD., Varrone e l'uso calendaristico dei termini fase nefas, in Atti del Congresso internazionale di studi varroniani, II, cit., pp. 330 s.; E. PERUZZI, Mycenaeans
in Early Latium, Roma 1980, p. 20; da ultimo A. CARCATERRA, Dea Fides e 'fides': storia di una
laicizzazione, cit., pp. 216 ss.
[124] Significativo, al riguardo, appare il commento di Servio, Ad
Georg. 1, 505: Fas versum atque nefas
apud homines scilicet, qui spernunt licita, appetentes inlicita.
[125] Georg. 1, 503-507. Per un
più completo inquadramento ideologico di questi versi, vedi
ora V. PÖSCHL,
Virgil
und Augustus, in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt, II. 31, 2, Berlin-New
York 1981,
pp. 721 s.
[126] Aen. 2, 634-649.
[127] Aen. 2, 657-658. Cfr. Aen. 4, 305-306: Dissimulare
etiam sperasti, perfide, tantum / posse nefas tacitusque
mea decedere terra? Commenti al nefas del v. 306: R. G. AUSTIN, P. Vergili Maronis Aeneidos
liber quartus,
4a ed., Oxford 1982, p. 99 («something
contrary to God's law only do the deed but could hope to conceal
it»); G. PUCCIONI, Il libro di Didone, in ID., Saggi virgiliani, Bologna 1985, p. 127 («A
questo stesso scopo concorre nefas che può indicare qualsiasi
"peccato" o "colpa", ma indica originariamente il "sacrilegio", e quindi Didone può
aver usato a bella posta questo termine per impressionare di più
il pius Aeneas»).
[129] E. PARATORE, Virgilio, Eneide, I, cit., p. 354: «Enea s'affretta a giudicare in netto contrasto con le
leggi divine il proposito del padre; la legge della pietà s'afferma subito
apertamente».
[130] Cfr. Servio, Ad Aen.
2, 184.
[131] Per i rapporti tra fas e pietas,
relativamente a Aen. 2,
184, vedi H. FUGIER, Recherches
sur l'expression du sacré dans la langue latine, cit., p. 376; cfr., più in generale, le considerazioni di F. BEDUSCHI, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, cit., p. 229:
«Vediamo che in origine, anche i latini, non dovettero avvertire la differenza che corre tra un crimine come il parricidio, l'omissione di una formalità
rituale, l'infezione da morbo e simili cose, se non
con una differenza quantitativa o di grado. Vediamo che in tutta questa materia compaiono con insistenza tutta
una serie di vocaboli formati dalla radice di piens, in modo tale da lasciare supporre una qualche relazione
continua tra fas e pietas».
[133] Servio Dan., Ad Aen. 4, 563: Et est dubitatio quos dolos vel quod nefas:
an sibi nefas, quia sua manu peritura erat, an sorori dolos, quibus eam
fallebat: utrumque in Aeneam, ut postea aut non potui abreptum divellere corpus et cetera: nam omnia, sicut dictum est,
sequens versus confirmat ‘certa mori’, ut sibi mortem excogitet,
in Aeneam iras moliatur.
[136] Aen. 10, 495-499. Per una breve
esposizione della fabula delle Danaidi,
si legga Servio Dan., Ad Aen.
10, 497. Su questo episodio dell’Eneide,
e più in generale sul mito delle Danaidi in Virgilio, vedi G. B. CONTE, Il balteo di Pallante. Modelli
antropologici e rettorica letteraria, in ID., Virgilio. Il genere e i suoi confini, s. l., 1984, pp. 97 ss.
[138] Aen. 2, 583-587. Questi versi appartengono all'episodio
di Elena (vv. 567-588) di cui non si trova traccia nei codici poziori, né commento nelle opere di Servio, del
Servio Danielino e di Tib. Claudio Donato. Di essi si discute perciò, con varie posizioni in dottrina, anche l'attribuzione a Virgilio: in senso positivo vedi, fra gli
altri, E. PARATORE, Virgilio, Eneide, I, cit., pp. 340 s.; R. LESUEUR, Quelques réflexions sur
l'épisode d'Hélène (Énéide 2, 567-588), in Bulletin de la Société
toulousaine d'études classiques 185-186, 1983-1984, pp. 1 ss., il
quale pensa ad uno stadio antico della redazione del poema, quando Virgilio restava ancora molto influenzato dai suoi modelli ellenici; G. B. CONTE, L'episodio di Elena nel secondo
libro dell’“Eneide”. Modelli strutturali e critica
dell'autenticità, in ID., Virgilio. Il genere e i
suoi confini, cit., pp. 109 ss., con bibliogr. più recente a p. 110 n. 2; ritiene trattarsi
invece di una interpolazione,
seppure di ottima fattura poetica,
G. PUCCIONI, Il II libro dell'Eneide, in ID., Saggi
virgiliani, cit., pp. 85 ss.
[139] Sulla
figura del homo sacer, con gli studiosi citati supra in n. 46, vedi anche E. LÜBBERT, Commentationes pontificales, Berolini 1859, pp. 142 ss.; A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., p. 198; R. VON JHERING, Esprit du droit romain, I, cit., pp. 280 ss.; G. WISSOWA, Religion und Kultus
der Römer, cit., p. 388; H. BENNET, Sacer esto, in Transactions and Proceedings of the American Philological Association 61, 1930, pp. 8 s.; P. Voci, Diritto sacro romano in età
arcaica, cit., pp. 61 s. (= Studi
di diritto romano, I, cit., pp. 237 s.); E. PóLAY, Differenzierung der Gesellschaftsnormen im antiken Rom,
Budapest 1964, pp. 69 ss.; infine i recenti
studi di B. SANTALUCIA: Alle origini del processo penale romano, in Iura 35, 1984 (ma 1987), pp. 69 ss.; Il processo penale nelle XII tavole,
in Società e diritto nell'epoca decemvirale. Atti del Convegno di
diritto romano. Copanello, 3-7 giugno 1984, Napoli 1988, pp. 242 ss.; Diritto
e processo penale nell'antica Roma, Milano 1989, pp. 4 ss.; e di L.
GAROFALO, Sulla condizione di "homo sacer" in età arcaica (relazione presentata a Sassari, il 22 maggio
[140] Aen. 5, 194-197. Commento al
verso
[141] Sul significato religioso dei
giochi, vedi W. W. FOWLER, Roman Essays and Interpretations, cit., p. 190; E. PARATORE,
Virgilio, Eneide, III, cit., p. 145, sostiene la
derivazione dell'episodio
da un indiscutibile modello omerico: «alla corsa dei cocchi, la principale di quelle descritte nel lib. XXIII dell'Iliade, Virgilio ha sostituito, dedicandole un'analoga
ampiezza di movimento, una regata,
l'unica di cui abbiamo
la rappresentazione in tutta l'antichità». Per
la localizzazione della regata, vedi F. DELLA CORTE, La mappa dell'Eneide, Firenze 1972, pp. 95 ss., il quale ritiene che la gara abbia avuto luogo nelle acque di
Drepano; a parere dell'illustre studioso la scelta di questa
località sottende un
preciso riferimento di Virgilio ad un episodio della prima
guerra punica: un tale rapporto non era, del resto, sfuggito a Servio, Ad
Aen. 5, 114 (a proposito dell'istituzione delle naumachie): Prima certamina Punico bello primum naumachiam
ad esercitium instituere Romani coeperunt,
postquam probarunt gentes etiam navali certamine plurimum posse: ad quam
rem in hoc certamine plurimum adludit poeta.
[143] Aen. 8,
[144] Aen. 10, 673.
[146] Cicerone, De div. 2, 42: Itaque
in nostris commentariis scriptum habemus: “love tonante, fulgurante comitia
populi habere nefas” (= F. A. BRAUSE, Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875, p. 44 fragm. 1; cfr. ibidem p. 38; P. REGELL, Fragmenta auguralia, Hirschberg 1882, p.
21 fragm. 17); cfr. In Vat. 20; Phil. 5, 7; De nat. deor. 2, 65. Per quanto riguarda la
dottrina, si vedano: P. REGELL, De augurum publicorum
libris, Vratislaviae 1878,
pp. 40 s.; G. WISSOWA,
v. Augures, in Real-Enciclopädie der classischen
Altertumswissenschaft II, 2, Stuttgart 1896, col. 2335; ID., Religion und Kultus
der Römer, cit., p. 533 n. 1; A. S. PEASE, M. Tulli Ciceronis De divinatione libri duo, Darmstadt 1968 (rist. dell'edizione del
1920-1923), pp. 424 s.; P. CATALANO, Contributi allo studio del
diritto augurale, cit., p. 44; da ultimo F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 96 e 172.
[147] Quanto l'interpretazione degli auguri fosse sentita vincolante, lo si può evincere dal notissimo passo di Cicerone, De legibus, 2, 20-21: Interpretes autem Iovis optumi maxumi, publici augures, signis et auspiciis postera vidento, disciplinam tenento sacerdotesque, vineta virgetaque et salutem populi auguranto; quique agent rem duelli quique popularem, auspicium praemonento ollique obtemperanto. Divorumque iras providento sisque apparento, caelique fulgura regionibus ratis temperanto, urbemque et agros et templa liberata et efflata habento. Quaeque augur iniusta nefasta vitiosa dira d