Università
di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-2
Francesco
Sini
Documenti
sacerdotali di Roma antica
Sassari,
Libreria Dessì Editrice, 1983
pp. 234
Cap. IV
TRADIZIONE
DOCUMENTARIA SACERDOTALE E
CONTENUTI
DEI LIBRI E
DEI COMMENTARII
Sommario:
1. Una questione di metodo: la
gerarchia delle fonti. – 2. I termini libri e commentarii
nell’uso linguistico corrente (da Cicerone a Isidoro). – 3. Rilevanza di alcune testimonianze
epigrafiche. – 4. L’orazione
De domo sua di Cicerone e il
contenuto dei libri pontificii. – 5. Scrittura e tradizione sacerdotale
in età arcaica. – 6. I
materiali scrittorii. – 7. Significato coevo dei termini libri e commentarii. – 8. Dagli arcaici libri e commentarii agli
archivi tardo-repubblicani (continuità della tradizione documentaria
sacerdotale). – 9. La
terminologia e i contenuti. A) Limiti della dottrina dominante.
– B) Commentarii, libri e distinzione delle
rispettive materie. – 10. Libri e sistematiche sacerdotali. I libri
augurum e la sistematica
del ius augurium.
[p.
143]
Le importanti indicazioni ricavate
dall'analisi delle fonti non
possono tuttavia
essere pienamente utilizzabili per il nostro discorso sulla distinzione tra libri e commentarti sacerdotali, se prima non si affronta una questione piú
generale di critica delle
fonti: si tratta
di accertare il grado di attendibilità – riguardo ai materiali d'archivio –
delle fonti esaminate nel capitolo precedente; di stabilire, cioè, fra quelle fonti
una sorta di “gerarchia”, che consenta di valutare le
testimonianze antiche in ragione di intrinseche qualità, opportunamente individuate sul piano metodologico.
E’
bene comunque
chiarire, in via preliminare, che porsi il problema dell'attendibilità e del
valore di quelle fonti non significa, nel nostro caso, ripercorrere la strada
della “Quellenforschung”, particolarmente cara agli studiosi tedeschi del secolo scorso;
né
ridiscutere circa il grado di approssimazione del racconto annalistico tradizionale[1],
sviscerando i differenti filoni confluiti in tale tradizione[2]. A questo proposito basta aver individuato una sostanziale credibilità della
tradizione annalistica e antiquaria, quando riferisce di fonti giuridico
religiose più antiche[3]. Ciò non elimina, naturalmente, la
necessità di valutare caso per
caso il singolo testo, poiché bisogna tenere in massimo conto la profonda differenza – e quindi il diverso grado di attendibilità – esistente tra la
notizia che lo scrittore antico ci tramanda su istituzioni giuridico-religiose più risalenti
e l’interpretazione che egli propone
[p. 144]
di
tale notizia; in sede di interpretazione è, infatti, difficile
per l'autore prescindere della propria
ideologia o non dipendere dal proprio grado di approfondimento
scientifico.
Certo
un problema di così vasto respiro non si presta agevolmente ad essere
ristretto nel breve spazio di questo paragrafo.
Né è sicuro che gli strumenti del giurista siano da soli sufficienti a farci pervenire alla corretta soluzione
di esso. Eppure la possibilità
di acquisire qualche ragionevole certezza in merito alla distinzione tra libri e commentari sacerdotali
appare legata in maniera indissolubile
quanto meno alla conseguente impostazione di questo problema. Stabilire
una “gerarchia” fra le diverse fonti che citano libri e commentari
sacerdotali rappresenta già di
per sé un modo di superare l'opinione della dottrina dominante,
contraria alla distinzione tra i due
generi di documenti, poiché di questa dottrina si mette in discussione proprio il metodo di approccio
alle fonti, che consiste nell'utilizzare fonti diverse senza avere prima
determinato la qualità intrinseca di ciascuna di esse[4].
Mescolando in tal modo testi di differente
grado di attendibilità, la dottrina dominante ha infatti ricavato
un quadro assai confuso per quanto riguarda il materiale contenuto in libri e
commentarli ed una profonda incertezza perfino sulle questioni
terminologiche relative alla denominazione stessa dei documenti sacerdotali[5].
La dottrina si è orientata, insomma, in senso contrario alla possibilità di distinguere tra generi, non sulla base
di elementi in grado di evidenziare l'inesistenza e l'assoluta irrilevanza per gli antichi di una simile
distinzione, ma ponendo soprattutto l'accento sulle presunte confusioni terminologiche delle fonti considerate
nel loro complesso[6].
E' significativo, peraltro, che un simile atteggiamento emerga nell'ambito di quel più generale processo di revisione critica delle fonti proprio della seconda metà dell'Ottocento processo che ha condotto, come sappiamo, a radicali rifiuti della tradizione annalistica ed a fantasiosi quanto effimeri tentativi di ricostruzioni “alternative” delle vicende storiche della più antica Roma[7].
[p. 145]
Ma torniamo al problema della "gerarchia" delle
fonti. Le
argomentazioni esposte nel capitolo precedente mi pare abbiano dimostrato, seppure in maniera forse
sommaria, quanto diverso grado di
attendibilità possano avere i testi che citano libri e commentarii
sacerdotali. Basti pensare che fra
quei testi si trovano sia fonti primarie, sia fonti secondarie[8].
Ecco, dunque, individuato un primo livello di differenziazione. Da una parte abbiamo “fonti primarie”: documenti ufficiali dei collegi sacerdotali o loro frammenti pervenutici direttamente, senza cioè altra mediazione al di fuori della materia scrittoria che li ha conservati[9]; dall'altra stanno le “fonti secondarie”: l'insieme del materiale riferibile agli archivi sacerdotali contenuto in opere, di vario genere, scritte tra l'ultimo secolo della repubblica e l'ottavo secolo d.C.[10].
Per
quanto riguarda l'attendibilità di queste fonti, mentre quelle primarie, fatto salvo l'accertamento del
carattere autentico, si presentano
pressoché omogenee, molto diversa è la situazione di quelle secondarie. Fra la grande
massa di fonti che definiamo
secondarie bisogna, infatti, individuare ulteriori livelli di
differenziazione: a) al primo posto abbiamo le citazioni testuali di formule solenni o altro materiale proveniente da documenti sacerdotali[11]; b) al secondo posto sono da considerare tutte quelle notizie riferibili ai
collegi sacerdotali e alla loro tradizione
documentaria contenute in opere di sacerdoti, giuristi e antiquari,
comunque pervenuteci; c) vengono poi le
importanti testimonianze dell'annalistica; d) infine le informazioni
ricavabili dalle restanti opere letterarie.
L'utilizzazione di questa “gerarchia” delle
fonti (che non dovrà naturalmente
essere meccanica, considerato l'intreccio che sovente diversi livelli di differenziazione presentano
nello stesso passo[12], né priva dell'apporto specialistico della
filologia e della lessicografia[13]), in
quanto permette di graduare l’attendibilità
dei testi che citano libri e commentarii in scala di
valori ben definiti, consentirà dunque
di eliminare, attraverso un motivato
giudizio di merito, gli effetti negativi delle incongruenze e delle
confusioni pur presenti in alcuni di questi testi.
[p. 146]
La dottrina contraria alla distinzione di contenuto tra libri
e commentarii sacerdotali, affermatasi nella seconda metà dell'Ottocento con A. Bouché-Leclercq e P.
Regell, ha sempre insistito – e non senza qualche ragione – sul fatto che spesso nel linguaggio degli autori antichi libri e
commentari si presentano come
termini reciprocamente fungibili: «Adlatis exemplis –
scriveva il Regell –
satis, opinor, dilucide comprobatur, commentariorum nomen non
minus late pertinere quam librorum et utroquo promiscue nomine veteres, nullo
certo discrimina usos esse»[14].
Questa affermazione ha un suo valore generale innegabile. E' certamente vero, infatti, che nel I secolo a.C. i
termini libri e commentarii avevano
nell'uso linguistico corrente ormai significati
molteplici, ed erano utilizzati in accezioni più ampie e generiche rispetto all'originario significato[15]. Esemplare in questo senso appare il caso di liber, la cui
evoluzione semantica ha condotto il
vocabolo assai lontano dal primitivo significato:
Isidoro, Orig. 6,
13: De librorum vocabulis. Codex multorum librorum est; liber unius
voluminis. Et dictus codex per translationem a codicibus arborum seu
vitium, quasi caudex, quod ex se
multitudine librorum quasi ramorum contineat. Volumen liber est a volvendo
dictus, sicut apud Hebreos volumina Legis, volumina Prophetarum.
Liber est
interior tunica corticis, quae ligno cohaeret. De quo Vergilius sic 'Alta liber
haeret in ulmo'. Unde et liber dicitur in quo scribimus, quia ante usum chartae vel membranae
de libris arborum volumina fiebant, id est compaginabantur[16].
Dal primitivo significato di
liber (interior tunica corticis),
si è passati ad indicare genericamente con liber il materiale scrittorio
[p. 147]
(in quo scribimus) ed infine
qualsiasi opera letteraria o parte
compiuta di essa, come ci è attestato con meticolosa precisione
nelle Sententiae tradizionalmente attribuite al giurista Paolo:
Sent.
3,
6, 87: Libris legatis tam chartae volumina vel membranae et philyrae continentur: codices quoque debentur: librorum enim appellatione non volumina chartarum,
sed scripturae modus qui certo fine concluditur aestimatur[17].
Ma, in quale epoca
può dirsi concluso questo processo evolutivo
del termine liber? Di certo in età precedente rispetto a
quella di Varrone e Cicerone (nei cui passi si trovano le più risalenti
citazioni testuali di libri e commentarii sacerdotali, v. supra
Cap. III) poiché sia l'antiquario sia l'oratore utilizzano sovente nei loro scritti il termine libri nelle
sue varie e generiche accezioni[18].
Forse anche nell'età di Plauto[19]
tali accezioni erano
ormai comuni nell'uso linguistico corrente.
Si
direbbe quindi confermata l'opinione del Regell. Tuttavia, invece
di affrettarsi a conclusioni di questo tipo, conviene soffermarsi sulla
seguente considerazione: se le nuove e comuni accezioni
del termine liber, pur imponendosi largamente nelle diverse sfere del linguaggio
corrente, non hanno condotto
affatto alla totale obliterazione del significato originario, ancora presente nella coscienza colta
dell'età di Isidoro (VII sec.
d.C.); a maggior ragione si può presumere che esse non abbiano
avuto facile recezione in un linguaggio “specialistico” fortemente
conservativo, qual'era appunto il lessico religioso-giuridico dei documenti
sacerdotali romani.
Si
è osservato in
precedenza (Cap. III, § 9) come meriti più attenta riflessione la
terminologia utilizzata nelle titolature
[p.
148]
ufficiali
(o definizioni ufficiali delle funzioni) del personale ausiliario
dei collegi sacerdotali, attestataci da tarde iscrizioni dell'età
imperiale. Si è posto anche l'accento sul fatto che proprio il carattere recenziore di tali iscrizioni –
lungi dal renderle sospette
– costituisce motivo di conferma del perdurare in
seno agli archivi sacerdotali di una differenziazione fra generi
di documenti: alcuni denominati libri, altri denominati commentarii.
A questi ultimi sicuramente si riferisce la qualifica a commentariis
o commentarienses
attribuita ad alcuni
funzionari; qualifica attestata nelle
epigrafi non solo per il personale dipendente dei collegi sacerdotali, ma anche
per quello di altri importanti uffici[20].
Per quanto riguarda il termine libri
il discorso è
più complesso, sebbene alcune iscrizioni di
carattere ufficiale lascino intravvedere un uso non generico di esso.
Dall'esame di questi testi si possono, forse, ricostruire le specifiche
caratteristiche di quel genere
di documenti sacerdotali denominati libri.
Piuttosto
preciso mi pare il significato di libri
nel linguaggio legislativo del testo epigrafico della lex Acilia (?) repetundarum[21]:
CIL I (2a ed.), 583, 34: [De testibus tabulisque custodiendis. Is quei
petet, sei quos ad testimonium deicendum evocari]t secumve duxerit dumtaxat
homines III. earum re[rum causa, de quibus id ioudicium fiet... e]a,
quai ita conquaesiverit et sei qua tabulas, libros, leiterasve pop[licas preivatasve
produ]cere proferrequ[e volet][22];
dove libri, tabulae e litterae vengono usati insieme per indicare documenti scritti prodotti a conferma di testimonianze.
Lo
stesso discorso può farsi per quei libri
menzionati nella Tabula Heracleensis,
iscrizione solitamente identificata con
una lex Iulia Municipalis databile tra gli
anni 80 e
[p.
149]
li si doveva far pervenire
entro il termine stabilito ai magistrati incaricati del censimento nell'Urbe[24].
Nel caso della Tabula Heracleensis possono farsi due ipotesi sul
significato da attribuire al termine libri: la prima è che si
volesse indicare specificamente
un particolare materiale scrittorio (cosa che appare probabile per il testo della
lex precedente); la seconda è che più verosimilmente nel linguaggio tecnico-giuridico della
lex si usi libri nel preciso significato di «registri/
elenchi».
Quest'ultima ipotesi troverebbe ulteriore conferma sulla base di altre due iscrizioni (notevolmente
più tarde), contenenti atti ufficiali dell'Imperatore e del
Senato, in cui si menzionano un liber libellorum rescriptorum[25]:
CIL. 3,
12336: Bona Fortuna. Fulvio Pio et [P]o[n]tio Proculo cons(ulibus) XVII
Kal(endas) Ian(uarias) descriptum [e]t reco[g]nitum factum [e]x [li]bro [li]bellorum rescript[o]rum
a domino n(ostro) imp(eratore) Ca[e]s(are) M. Antonio Gordiano Pio Felice
Aug(usto);
ed un liber
sententiarum in senatu dictarum[26]:
CIL. 8,
23246: S(enatus) c(onsultum) de nundinis saltus Beguensis in t(erritorio) Casensi, descriptum et recognitum ex libro sententiarum in senatu dictarum Kani
Iuni Nigri, C. Pomponi Camerini co[n]s(ulum),
in quo scripta erant A[fr]icani iura et id quod i(nfra) s(criptum) est.
Come
appare evidente siamo di fronte a veri e propri registri
in cui venivano trascritti i senatus consulta e il testo delle richieste rivolte
all'imperatore con il relativo rescritto.
Non si
deve però pensare che l'aver individuato una utilizzazione del termine
particolarmente simigliante nelle tre iscrizioni, così distanti fra loro nel tempo, abbia di per sé risolto
il nostro problema; anche se
può apparire motivo di interesse la corrispondenza di significato tra questi libri (= elenchi/registri) e quei libri pontificii in cui erano
contenuti
[p.
150]
i
nomina
deorum (Cicerone, De nat. deor. 1, 84) et rationes ipsorum nominum (Varrone in Servio, Georg. 1, 21), cioè gli
indigitamenta.
In diverso modo va inteso, ad esempio, in un passo degli
acta fratrum Arvalium il termine libellus: il quale spesso
si sostituiva nell'uso a liber in ragione della sua forma o del
suo contenuto[27]. Negli acta Arvalium del 218
d.C. si legge che i sacerdoti
arvali nel compimento delle loro sacre cerimonie ricorrevano ad appositi libelli
per recitare l'antichissima ed ormai
quasi incomprensibile invocazione del carmen arvale:
CIL 6, 2104, 31-38: Aedes clausa e(st). Omnes foris exierunt. Ibi sacerdotes clusi,
succincti, libellis acceptis carmen
descindentes tripodaverunt in verba haec: enos lases iuvate... triumpe,
triumpe, trium[pe, tri]umpe. Post tripodationem
deinde signo dato publici introier(unt) et libellos receperunt[28].
La notizia di fonte sacerdotale, secondo cui la vetusta
formula del carmen degli arvali si tramandava in
libellis (cioè in libri
di piccolo formato) presso
l'archivio del sodalizio, è non soltanto una conferma
autorevolissima del fatto che si raccogliessero
e si conservassero da parte dei collegi sacerdotali testi (spesso, come
abbiamo visto, in forma originaria assai antica)
riguardanti formule solenni, preghiere e regolamenti del rituale; ma
costituisce un importante indizio circa la denominazione
ufficiale di queste raccolte: essa sembra essere stata, propriamente, libri.
Una
significativa conferma alle importanti indicazioni offerteci dalla
testimonianza epigrafica dei fratres Arvales, secondo
[p.
151]
cui
formule solenni e regolamenti del rituale sarebbero
stati contenuti in documenti sacerdotali
denominati libri, può essere tratta da alcuni passi
dell'orazione ciceroniana De domo sua[29], che
riguardano l'archivio del collegio dei pontefici.
Le
vicende della casa di Cicerone, la cui area era stata consacrata da Clodio[30] con l'intenzione di innalzarvi un tempio alla Libertas[31], sono troppo conosciute per doverle ricordare qui. Conviene semmai, al fine del nostro discorso,
sottolineare maggiormente il
carattere tecnico-giuridico dell'orazione, che nel complesso è da ritenere fonte assai
attendibile e certo
ben documentata in tema di ius
publicum e di ius pontificium[32]. Circa la profonda padronanza di Cicerone delle questioni relative alla
scientia pontificale ed all'absconditum pontificium ius
non devono, infatti, trarre in inganno le sue stesse affermazioni:
De domo 121: Nihil loquor de pontificio iure, nihil de ipsius
verbis dedicationis, nihil de religione et caerimoniis, non dissimulo me
nescire ea quae, etiamsi scirem, dissimularem, ne aliis molestus, vobis etiam
curiosus vederer, etsi effluunt multa ex
vestra disciplina, quae etiam ad nostras aures saepe permanant;
poiché
appaiono evidentemente rivolte a blandire i pontefici,
a non presentarsi immodesto e presuntuoso
proprio agli occhi degli esperti
ufficiali (i quali dovevano decidere delle richieste di Cicerone), come lascia ben intendere la seconda
parte del passo citato.
Nel
corso dell'orazione, per contestare la validità della dedicatio della sua casa, Cicerone adduce fra gli altri motivi
anche l’imperizia rituale del giovane pontefice L. Pinario Natta[33],
cognato di Clodio ed unico sacerdote che si prestò al
compimento della cerimonia; ma particolarmente
significativa è per noi la motivazione presentata dall'oratore:
De domo
139: Quae si omnia e Ti. Coruncanio scientia,
[p. 152]
qui peritissimus pontifex fuisse
dicitur, acta esse constarent, aut si M. Horatius ille Pulvillus, qui, cum eum multi propter
invidiam fictis religionibus impedirent, restitit et constantissima mente Capitolium dedicavit,
huiusmodi alicui dedicationi praefuisset, tamen in scelere religio non valeret; ne valeat id quod imperitus
adulescens, novus sacerdos, sororis precibus, matris minis adductus,
ignarus, invitus, sine collegis, sine libris,
sine auctore, sine fictore, furtim,
mente ac lingua titubante fecisse dicatur, praesertim cum iste
impurus atque impius hostis omnium religionum qui contra fas et inter viros
saepe mulier et inter mulieres vir fuisset, ageret illam rem ita raptim
et turbolente, uti neque mens neque vox neque lingua consisteret?
Dunque, fra le altre manchevolezze del pontefice Natta v'era anche quella
di aver operato sine libris. Orbene,
cos'altro potevano contenere questi libri a cui allude Cicerone se non le formule
solenni ed i rituali relativi alla dedicatio-consecratio[34]? Ecco che dall'orazione ciceroniana si ricava una
ulteriore precisa
indicazione sul contenuto dei
libri pontificii: da essi si traevano
sia i solenni verba dedicationis, sia l'insieme del procedimento rituale di esclusiva
competenza dei pontefici: «Illa
interiora iam vestra sunt: quid dici, quid praeiri, quid
tangi, quid teneri ius fuerit» (De
domo 138).
Si è però obiettato in dottrina[35] che nel citare
libri e
commentarii sacerdotali Cicerone avrebbe utilizzato i termini in senso generico, senza cioè alcuna
corrispondenza con documenti
ben determinati dell'archivio pontificale. L'obiezione, a ben vedere, appare scarsamente fondata sulla corretta
analisi dei passi; inoltre
riesce veramente difficile, a fronte del carattere tecnico-giuridico dell'intera orazione, che –
non si dimentichi – fu
pronunciata davanti ai pontefici[36], sostenere
una simile improprietà terminologica
proprio riguardo alla denominazione dei documenti d'archivio: ciò
farebbe torto non solo alla
precisione dell'esperto consolare, ma soprattutto all'esigenza di attenzione dei suoi autorevoli interlocutori.
[p. 153]
Possiamo
quindi concludere che dall'analisi del testo dell'orazione si ricavano spunti
notevoli, sia per l'individuazione/ricostruzione
dei materiali degli archivi dei pontefici raccolti in libri (a questo proposito mi pare particolarmente importante l'elencazione che Cicerone ne fornisce al
paragrafo 33: religio, res divinae, caerimoniae, sacra[37]); sia per quanto riguarda una
possibile distinzione tra questi
libri ed i
commentarii del
collegio, citati in De
domo 136[38] come raccolta di responsa
pontificali.
Il
fatto stesso che Cicerone potesse argomentare, proprio davanti al collegio dei
pontefici, l'inefficacia rituale dell'assistenza prestata a Clodio da L.
Panario Natta durante la controversa dedicatio-consecratio,
sostenendo fra l'altro che il giovane
pontefice aveva operato sine libris, costituisce una dimostrazione
incontrovertibile non solo dell'esistenza in seno ai collegi sacerdotali di una consolidata tradizione
documentaria, ma soprattutto della
prassi – ormai usuale in età ciceroniana – di utilizzare i materiali d'archivio
nell'espletamento delle funzioni religiose e giuridiche di ciascun sacerdozio[39]. Agli occhi
dei contemporanei doveva apparire quasi
indispensabile che i sacerdoti ricorressero all'ausilio dei documenti
conservati negli archivi per
avere la certezza del corretto esercizio delle proprie funzioni[40].
Questa
è dunque la situazione nell'ultimo secolo della repubblica.
E' possibile ricavare da essa indicazioni per l'età più
antica? Ed ancora: quali ragioni possono giustificare questo carattere
“sostanziale” della scrittura/documento nella celebrazione di sacra e caerimoniae basati essenzialmente sulla “gestualità” e sulla declamazione di solenni verba
concepta[41]?
Per
l'indagine volta a precisare i significati dei termini libri
e commentarii in età coeva
alle originarie compilazioni ed alle prime sistemazioni degli archivi sacerdotali,
la rilevanza
[p. 154]
delle
questioni poste appare, di certo, evidente: si tratta, infatti, non solo di individuare da un punto di vista
cronologico le origini di
queste compilazioni, ma di chiarire, al
tempo stesso, quali motivi
ideologico-culturali, oltre che pratici,
possano spiegare l'elaborazione, la raccolta e l'utilizzazione da parte dei collegi sacerdotali di Roma
arcaica di tutto quel materiale, che
le fonti di età tardo-repubblicana ed imperiale attestano contenuto
negli archivi.
Abbiamo già esposto in altro luogo[42] le ragioni di fondo
che inducono a far risalire l'inizio delle
compilazioni sacerdotali ad epoca assai antica della storia cittadina.
Tuttavia, senza voler aggiungere ulteriori argomentazioni su questo problema, conviene soffermarsi brevemente sul testo
epigrafico del carmen Arvale, in
quanto offre utili precisazioni circa l'adozione di tale cronologia per le “prime”
elaborazioni religiose e giuridiche
dei sacerdoti romani.
Sebbene
attestato da una epigrafe piuttosto tarda (però attendibilissima,
poiché si tratta pur sempre di un documento ufficiale della solidità dei fratres Arvales), il
testo in questione ci è
pervenuto in una forma linguistica molto antica (basti pensare alla struttura sintattica e grammaticale
del discorso ed all’assenza del
rotacismo della grafia[43]), forse addirittura
coeva alla stessa composizione[44].
CIL 6, 2104, 31-38: Enos
Lases iuuate / neue lue rue Marmar sins
incurrere in pleoris / satur fu fere Mars limen sali sta berber / semunis
alternei aduocapit conctos / enos Marmor iuuato / triumpe triumpe triumpe
triumpe triumpe[45].
Questo
vetustissimo carmen, l'unico che per una
fortunata combinazione siamo in grado di
leggere in forma assai vicina a quella originaria, conferma l'antichità
dell'utilizzazione della scrittura a scopo rituale da parte dei sacerdoti
romani: principalmente per conservare i testi delle formule solenni e dei carmina legati
al culto; testimonia anche la persistenza tenace
[p. 155]
delle
forme arcaiche, sia nelle pratiche cultuali, sia nel linguaggio religioso. D'altra parte, è noto che per la
validità di un rito o
l'efficacia di una solenne formula religiosa massima attenzione dovesse prestarsi al minuzioso e preciso compimento di atti prestabiliti, alla pronuncia esatta di
parole determinate. Ciò spiega
perché i sacerdoti, a differenza di antiquari e annalisti, i quali nel riportare antichi
documenti giuridico-religiosi sovente
intervenivano sulla forma linguistica al fine di renderli intelligibili ai lettori contemporanei, rifuggivano in
genere dal far opera di modernizzazione linguistica[46]; spesso a rischio di non
comprendere più
neppure essi stessi gli antichissimi carmina che
recitavano per i propri culti:
Quintiliano, Inst. orat. 1, 6,
39-41: Verba a vetustate repetita .... et Saliorum
carmina vix sacerdotibus suis satis intellecta.
Sed illa mutari vetat religio et consecratis utendum est[47].
Ad una datazione assai rilevante dell'inizio delle compilazioni
sacerdotali fanno pensare, seppure in maniera indiretta, anche le nuove
testimonianze archeologiche provenienti dai recentissimi scavi dell'area
laziale[48].
Attraverso
queste testimonianze, in sorprendente sintonia con la tradizione antica[49], emergono dal “buio” dei secoli
VIII e VII a.C. le immagini vive di comunità umane assai articolate dal punto di vista produttivo[50], socialmente stratificate[51]
e dotate di organizzazioni politiche per niente elementari: insomma, comunità capaci sia di esprimere
nel loro seno quella
“sapienza” comprensiva di “cose umane e divine” (teologica,
giuridica, tecnica), che fu tipica – almeno secondo la tradizione – dei collegi sacerdotali romani
in età arcaica[52]; sia di utilizzare diffusamente l'arte della
scrittura, quanto meno per atti ufficiali e pratiche cultuali[53].
Del resto, fra gli studiosi dell'ideologia romana arcaica
ormai da tempo si sostiene con maggiore
convinzione il carattere complesso delle “prime”
elaborazioni religiose e giuridiche
[p. 156]
dei grandi collegi sacerdotali. Valga per tutti l'esempio di G. Dumézil, massimo sostenitore
dell'eredità indoeuropea a Roma, il quale inizia quel suo libro intitolato Idées
romaines con queste
significative parole: «La pensée des plus anciens Romains
regagne l'estime qu'elle mérite»[54].
Analizzando diversi aspetti
della “Idéologie romaine ancienne”, l'illustre
studioso francese sostiene che essa, pur mancando di significative
espressioni letterarie paragonabili agli inni vedici, si presenta non
per questo meno ricca e strutturata di quella indiana; comunque, già in questa fase, appare perfettamente
in grado di fornire alla comunità romana una giustificazione
filosofica sia dell'organizzazione sociale, sia dell’ordine
dell'universo[55].
Potenzialità cosmica
dell'ideologia (religiosa e giuridica) romana arcaica, elevato
livello della civiltà materiale[56], assoluta necessità di
precisione nelle pratiche del culto: sono questi i principali elementi che
rendono massimamente credibile il complesso delle notizie, trasmesse dalle fonti,
circa la compilazione e la raccolta di documenti sacerdotali fin dall'età piú antica della storia cittadina.
Ma veniamo alla configurazione
materiale di questi antichissimi documenti. Anche a non voler ammettere che il papiro fosse già
conosciuto nella Roma dell'VIII e VII secolo a.C., come il Peruzzi ritiene
di poter dimostrare[57], delle diverse materie
scrittorie in uso prima della diffusione della carta, avvenuta in epoca
ellenistica, restano peraltro nelle fonti notizie precise: davvero
preziose appaiono, ad esempio, le informazioni tramandateci in proposito nella Naturalis historia
di Plinio il Vecchio, il quale
si avvale – è bene sottolinearlo – della vasta erudizione antiquaria e
“scientifica” di Varrone[58]:
Nat. hist. 13, 68-69:
Prius tamen quam digrediamur ab
[p. 157]
Aegypto, et papyri natura
dicetur, cum chartae usu maxime humanitas vitae constet, certe memoria. Et hanc Alexandri Magni vittoria
repertam auctor est M. Varro, condita in Aegypto Alexandria. Antea non fuisse chartarum usum: in palmarum
foliis primum scriptitatum, dein quarundam arborum libris. Postea publica monumenta plumbeis voluminibus,
mox et privata linteis confici coepta aut ceris; pugillarium enim usum fuisse etiam ante Troiana tempora invenimus
apud Homerum, illo vero prodente ne terram quidem ipsam, quae nunc Aegyptus intellegitur, cum in
Sebennytico et Saite eius nomo omnis
charta nascatur, postea adaggeratam Nilo.
Secondo
Varrone si scrisse, dunque, dapprima su foglie di palma, poi
su “libri” (corteccia) di alcune piante, ed in seguito su
altro materiale: lamine di piombo[59], lino[60], tavole cerate[61]. Mette conto
notare, tuttavia, che l'elenco (cronologico?) delle
materie scrittorie esposto da Varrone sembra riferirsi,
piuttosto che ai soli Romani, all'intera umanità; quindi, non tutti i
materiali menzionati saranno stati utilizzati nell'antichissimo
Lazio. La tradizione romana non pare conoscere, ad
esempio, l'uso scrittorio delle foglie di palma riferito alla
propria cultura, anche se non ignora il caso della Sibilla cumana,
che scriveva le risposte appunto su foglie[62]. E' certo invece,
almeno per quanto riguarda l'opinione degli antichi, il
collegamento della fase iniziale della scrittura romana con l'uso del liber
(=corteccia interiore d'albero).
Su questa
ultima questione fra gli studiosi moderni si hanno per la
verità opinioni meno unanimi. Per alcuni la genuinità
della tradizione latina sull'uso arcaico del liber trova l'argomento
più valido proprio nello stesso significato del termine[63]; per altri
è motivo di dubbio il non disporre di testimonianze
materiali di tale uso («mentre di foglie scritte, se pure
orientali e non greche o romane – scrive al riguardo il Concetti
– qualche esemplare ce ne è pervenuto, nessun esempio abbiamo di scrittura su corteccia»[64]; per altri ancora
[p. 158]
il rifiuto è più drastico: è il caso
del Peruzzi, il quale sostiene che nella
Roma delle origini «liber è il papiro» e che quindi «la
tradizione dell'uso primitivo di scrivere sul liber “quarundam
arborum” ha origine eziologica dal significato proprio di liber “lamina
fra il legno e il cortex”, e l'uso di tilia o philura attestato in epoca tarda non sarà la sopravvivenza
di
una consuetudine remotissima, bensì un falso arcaismo»[65].
La tesi del Peruzzi si oppone in tal modo a tutta la tradizione antica: ciò costituisce, ovviamente, la
debolezza intrinseca di essa, che non potrebbe
essere totalmente superata anche se risultasse esatto il dato linguistico da cui la
tesi si sviluppa: cioè, la supposta derivazione del termine liber, sia pure
attraverso un arcaico *libros,
dal
vocabolo greco bÀblov o bÖblov[66].
Convincenti appaiono invece alcune
osservazioni del
Tondo sul materiale scrittorio dei libri
regii: «Più in particolare, siccome è la tilia o philyra a essere comunemente adoperata per indicare tanto la corteccia
(Rindenbast) quanto il
materiale scrittorio, mi pare legittimo
argomentare che giusto
di corteccia interiore di tiglio fossero
fatti quegli antichi
libri. D'altra
parte, è noto che le liste ricavate dal tiglio si prestavano facilmente
a essere congiunte l'una con l'altra (si noti l'uso costante del plur. libri) ed
erano sufficientemente pieghevoli,
in modo cioè che il tutto potesse essere sistemato nella forma di un rotolo»[67].
A questo punto è abbastanza
inutile, al fine del nostro
discorso, proseguire nella discussione di queste differenti tesi; poiché tutte indistintamente
confermano un dato fondamentale:
cioè, l'univoco riferimento del termine liber, nel
suo originario significato, al materiale scrittorio.
Il dato in questione consente anche di precisare due altri importanti
elementi. Da una parte risulta, infatti, confermato che i
sacerdoti dell'età arcaica avevano la possibilità di scrivere testi
religiosi e giuridici su materie abbastanza maneggevoli per
l'uso, non difficilmente reperibili e per di più confezionabili
dell'estensione richiesta; in questo senso, può essere
[p. 159]
irrilevante voler precisare ora la configurazione
materiale di tali documenti, in quanto: siano stati essi scritti su
una comune materia
indigena, o sul più raro ed importato papiro, nulla cambia
riguardo alla sostanza della tradizione sacerdotale. D'altra parte, si precisa meglio, anche
tecnicamente, e perciò diventa ben credibile, la tradizione romana
che ci tramanda il ricordo sia
dell'esistenza di antichissimi libri dei sacerdoti[68], sia di una prassi documentaria sacerdotale pressoché
originaria.
Questi antichissimi libri avevano, dunque, pregnante riferimento (più che a contenuti determinati) a
particolari materiali
scrittori, da cui traevano la loro stessa denominazione e la specifica
individualità rispetto ad altri documenti, pur presenti negli archivi sacerdotali[69]. Tuttavia, anche i contenuti possono essere
facilmente intuiti: essi dovevano consistere per la
grandissima parte in solenni formule religiose ed in prescrizioni
rituali, tutte scritte in forma di carmina[70]. Solo più
tardi, le mutate condizioni della civiltà materiale hanno portato ad un ampliamento semantico
di liber come
termine genericamente scrittorio (nel senso di libro, opera letteraria, ecc.);
ma senza che ciò facesse obliare, come abbiamo già visto,
l'originario significato del termine.
Diversamente si presenta la situazione per quanto riguarda il termine commentarii:
Isidoro, Orig. 6, 8, 5: Commentaria
dicta quasi cum mente. Sunt enim interpretationes, ut commenta iuris, commenta Evangelii.
Dal testo di Isidoro, che per quanto
tardo è però conforme alla
precedente tradizione latina[71], emergono elementi sufficienti
per la definizione di questo genere di documenti
[p. 160]
(o di opere letterarie): in particolare viene posta
in evidenza l'attività intellettuale, speculativa, che presiede alla composizione dei commentarii;
i quali si caratterizzano soprattutto per il contenuto e lo scopo
dell'opera, senza riguardo alcuno al materiale scrittorio.
Proprio la mancanza di riferimento al materiale scrittorio fa intuire il carattere più recente dei
commentarii rispetto ai libri. Con ciò non si vuole negare in alcun modo l'esistenza di commentarii fra i materiali dei
più antichi archivi sacerdotali, poiché la stessa tradizione
annalistica conosce commentarii rituali riferiti all'età regia[72]: in essi, d'altra parte, si raccoglievano i risultati dell'attività speculativa
dei collegi, la quale formalmente si basava pur sempre
sull'autorità dei testi più antichi contenuti nei libri.
Si può così immaginare quali rapporti dovessero intercorrere tra libri e commentarii
sacerdotali: a fronte della sentita necessità di
tramandare fedelmente di generazione in generazione (trascritti in forma
originaria o supposta tale) i sacri testi dei libri,
stavano le esigenze concrete della realtà sociale, che richiedevano
spesso innovazioni cultuali considerevoli, recepite nei commentarii.
Ma torniamo al carattere recenziore di questi ultimi. A ben vedere è la stessa tradizione
annalistica che suffraga uno stacco
cronologico fra libri e commentarii. E’ noto che nelle fonti la compilazione dei “primi”
libri sacerdotali si presenta strettamente
connessa con l'organizzazione religiosa voluta dal re Numa Pompilio[73];
anzi, se si riflette sul significato
del seguente testo liviano:
Livio 1, 20, 5:
Pontificem deinde Numan Marcium, Marci filium, ex
patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus,
ad quae templa sacra fierent, atque
unde in eos sumptus pecunia erogaretur[74],
tale compilazione deve essere considerata, anche materialmente, opera dello stesso re[75].
Del resto appare ben comprensibile
[p. 161]
l’esigenza di testi scritti che la riforma
religiosa di Numa dovette imporre, se solo si consideri la
complessità dei sacra e delle caerimoniae e la minuziosa
regolamentazione dei sacrifici, testimoniati a proposito della
religiosità di quell'epoca[76]. Che poi questi libri Numae
abbiano costituito il nucleo primitivo dei libri pontificum è sostenuto
anche dalla tradizione antiquaria[77].
Se invece poniamo mente alle
prime menzioni di commentarii dobbiamo arrivare ad
un'età piú recente: esattamente all'ultimo anno del regno di Tullo Ostilio ad al primo di Anco Marzio. I fatti sono narrati, ancora una
volta, da Livio e riguardano l'oscura vicenda della morte di Tullo:
1, 31, 8: Ipsum
regem tradunt volventem commentarios Numae, cum ibi
quaedam occulta sollemnia sacrificia Iovi Elicio facta
invenisset, operatum iis sacris se abdidisse; sed non rite initum aut curatum id sacrum esse, nec solum nullam ei oblatam caelestium speciem, sed ira
lovis sollicitati prava religione
fulmine ictum cum domo conflagrasse[78];
ed il successivo ripristino dei sacra
pompiliani (la cui osservanza doveva essere obliterata a tal punto da
rendersi necessaria la loro pubblicazione scritta) da parte del nuovo re Anco Marcio:
1, 32, 2: Qui ut regnare coepit, et avitae
gloriae memor, et quia
proximum regnum, cetera egregium, ab una parte haud satis prosperum fuerat, aut neglectis religionibus aut prave cultis, longe antiquissimum ratus
sacra publica ut ab Numa instituta erant
facere, omnia ea ex commentariis regiis pontificem in
album elata proponere in publico iubet.
In entrambi gli episodi abbiamo,
dunque, a che fare con dei documenti
chiamati commentarii (Numae o regii). Saranno stati
[p. 162]
gli stessi documenti altrove denominati libri? Oppure, è possibile un’altra
spiegazione?
La risposta sull'identità dei documenti citati
sarebbe ovviamente negativa, qualora si
seguisse quel filone della tradizione
confluita in Plutarco, secondo cui al momento della morte di Numa, per
sua stessa volontà, sarebbero stati sepolti assieme al suo corpo anche i
“libri sacri” da lui composti[79].
Peraltro, tale tradizione appare assai
sospetta, non solo perché non si trova conferma di essa nel racconto liviano, ma soprattutto perché si ha fondato motivo di ritenerla in
qualche modo determinata dalle
vicende dei famosi libri Numae trovati nel 181 a.C. ai piedi del Gianicolo
e ritenuti, stando alla versione ufficiale, apocrifi[80].
Anche a non voler accogliere la
versione plutarchea, mi pare che l'analisi
del dato testuale consenta questa plausibile soluzione:
i commentarii così malamente utilizzati da Tullo
Ostilio e quelli citati nel caso di Anco Marcio non sono da identificare con gli originali “libri
sacri” del re sabino; si trattava
invece di documenti esplicativi dei libri
Numae (sacra
omnia exscripta exsignataque), di fattura sacerdotale, insomma dei veri e
propri commentarci Numae, laddove
la specificazione non indica un genitivo di possesso, ma la definizione del
contenuto[81].
Che poi questi commentarii fossero compilati da
mani sacerdotali in età successiva a quella di Numa, per maggiore esplicazione dei riti, o su istruzione dello
stesso, come potrebbe suggerire un
passo di Plutarco[82], nulla toglie al fatto che
essi si configurino come documenti diversi
ed autonomi rispetto a quei sacra omnia exscripta exsignataque (cioè ai libri autografi di Numa), consegnati al collegio dei
pontefici e nucleo primitivo dei libri pontificum.
[p. 163]
A parere del
linguista Emilio Peruzzi, «la scoperta dei libri di Numa
(181 a.C.) fornisce la prova documentale che almeno nella seconda metà del sec. VIII la lingua greca, assieme
alla civiltà che con essa si esprime, era ormai diventata elemento importante della cultura sabina e
romana»[83]. L'opinione dello studioso (il quale non
tralascia però di avvertire che i grecismi della più antica terminologia latina non
permettono di stabilire «in quale
misura e in che modo la cultura ellenica
fosse giunta nel Lazio romuleo assieme con l'alfabeto»[84]) risulta in certo modo rafforzata dai più recenti
studi sulla civiltà micenea
nell'occidente mediterraneo; sulla base dei quali appare ormai certo che
popolazioni micenee intrattenessero rapporti
commerciali con gli abitanti delle coste italiche e che quindi, per quanto riguarda l'influenza greca
sulla penisola, si debba risalire ad età più antica di quella romulea[85]. Una simile prospettiva rivaluta
oggettivamente le fonti, la cui credibilità acquista forte
consistenza anche laddove esse
segnalano fra gli accadimenti dell'età di Numa perfino la composizione scritta dei sacra omnia; ma, a questo proposito, non bisogna neppure sottovalutare la
coerenza della tradizione annalistica, la
quale attribuiva all'opera di Numa, oltre
l'organizzazione religiosa della città, alcune fondamentali
istituzioni economiche e giuridiche della comunità romana[86].
Il discorso non può comunque
addentrarsi in problemi del genere, poiché lo scopo del lavoro non
è tanto quello di individuare
l'origine della tradizione documentaria dei collegi sacerdotali romani, quanto piuttosto quello di precisarne i generi di documenti e le articolazioni
sistematiche: non si tratta
quindi di risolvere il quesito del “quando” (per la prima volta) i
sacerdoti abbiano iniziato a redigere i loro documenti; bensì di
precisare, per quanto possibile, in "quale" fase dell'esperienza giuridico-religiosa
dei più antichi romani l'attività l’attività
speculativa dei sacerdoti (qualificabile, insieme, come pensiero
[p. 164]
politico e giuridico e come
ideologia) abbia acquisito quella struttura
(cioè, forma e contenuto) con la quale si caratterizzò poi
in età storica.
Più di dodici anni fa, l'eminente comparatista e storico della religione romana G. Dumézil affrontava la questione in
alcune penetranti pagine delle «Remarques préliminaires» del suo
libro intitolato Idées romaines: «Peut-on déterminer – si domandava l'illustre studioso
– à quelle époque la pensée romaine, par la combinaison de
l'héritage indo-européen et des produits de son
génie propre, a pris la forme originale que nous lui connaissons dès les
premiers textes littéraires et qui, jusqu’au temps d’Auguste, n'a guère varié? En particulier
à quelle époque le droit romain – droit
religieux et droit civil et aussi, par les fétiaux, droit
international – qui parâit bien être l’ouvrage le
plus caractéristique de Rome quand on la compare
aux autres sociétés indo-européennes, s'est-il
constitué, avec sa casuistique déliée, ses règles
raisonnées, colorant de proche en proche toute activité publique
et privée?»[87].
La risposta del Dumézil è – detta in
sintesi – che tale epoca vada collocata
nella tarda età regia o anche in età precedente:
a questo convincimento egli perviene sulla base di
un’originale interpretazione di due fra le più antiche
iscrizioni latine (quella del cippo arcaico del Foro[88]
e la cosiddetta iscrizione di
Duenos[89]), nelle quali crede di poter
identificare testi attinenti a precetti del ius
augurale e a pratiche del ius
civile ancora esistenti in età tardo-repubblicana[90].
Queste pagine del Dumézil, proprio nella misura in cui evidenziano
come dato ormai acquisito dalla ricerca «la constatation que
des techniques
aussi complexes que l'augurale ius et
le ius ciuile étaient constituées
dès la fin des temps royaux, avec la réglementation rigoureuse
que nous leur connaissons au seuil de l'Empire»[91],
sono di notevolissimo interesse per i nostri problemi
di datazione della tradizione documentaria dei collegi
sacerdotali
romani.
Non bisogna tuttavia dimenticare che perfino fra la sospettosa dottrina
ottocentesca v'erano già alcuni studiosi che
[p. 165]
ritenevano le prime compilazioni sacerdotali
databili in età regia: così, ad esempio, il
Bouché-Leclercq, pur rifiutando la tradizione annalistica a
proposito della legislazione di Numa e dei suoi “libri sacri”, pensava che la composizione scritta
della “loi
religieuse” si
dovesse attribuire all'epoca caratterizzata
dalla figura di Anco Marcio, o all'età immediatamente
successiva, ma in ogni caso «longtemps avant que les XII Tables eussent fixé de la même manière la loi civile»[92].
Significative conferme a queste ipotesi si ricavano dalla
controversa tradizione sulla raccolta di
leges regiae compilata dal pontefice
Papirio nei primi anni della libera res
publica[93]: raccolta che sarà detta in
seguito dal nome dell'autore ius Papirianum[94]. Anzi, sulla base della
ricostruzione qui prospettata – senza naturalmente approfondire il problema
della storicità
o meno del personaggio menzionato[95]
– quella stessa tradizione acquista un pregnante significato
intrinseco; poiché se si
rammenta quello che secondo alcuni autori antichi pare
essere stato il vero titolo della raccolta (o almeno, la
definizione del suo contenuto), cioè
De ritu sacrorum[96], si possono
perfino prospettare le probabili ragioni che indussero i
pontefici a quella compilazione. Si trattava, come lo stesso
titolo sembra suggerire, di dar risposta ad esigenze di
carattere cultuale (ma non per questo esclusivamente
“religiose”) legate forse ad una
duplice motivazione: da una parte vi era la necessità
di attribuire diverso fondamento a ciò che si riteneva
opportuno conservare dell'attività normativa dei
reges; dall'altra
stava invece la preoccupazione, certo impellente in quegli anni cruciali, di
ridefinire il ruolo del rex (probabilmente
in rapporto al ius augurale ed
al ius civile), il quale restava pur sempre
il più eminente personaggio dell'ordo
sacerdotum, nonostante
che i recenti mutamenti politici della città lo avessero r relegato esclusivamente ad sacra[97].
Alla stessa raccolta di tali leges sembra alludere anche il noto passo di Livio relativo alla riorganizzazione
degli archivi sacerdotali operata dopo l'incendio gallico: in quella occasione furono reperiti ed esposti in pubblico
i foedera, le XII
[p. 166]
Tavole e
quaedam regiae leges; mentre i documenti che più strettamente ad
sacra pertinebant furono
sì raccolti, ma tenuti
segreti negli archivi dei pontefici[98].
In entrambi gli episodi, insomma,
il racconto annalistico
mostra chiaramente di
conoscere la precedente esistenza di
materiale documentario riferibile agli
archivi sacerdotali.
L'aver individuato la probabile
fase storica in cui la tradizione
documentaria dei collegi sacerdotali si venne a precisare non elimina di per sé tutte le
difficoltà della presente
ricerca, le quali consistono soprattutto – come s'è altre volte detto – nel carattere recenziore delle fonti che
citano libri e
commentarii sacerdotali; un ostacolo assai grave mina la credibilità di queste fonti: esse appaiono poco
affidabili a causa
dell'ampio arco
temporale che intercorre tra l'epoca di sistemazione del materiale degli archivi (e di definizione dei
generi di documenti) e quella delle testimonianze che di tale materiale
riferiscono le frammentarie notizie.
Per l'individuazione/ricostruzione
dei materiali contenuti in libri
e commentarii
sacerdotali occorre
riesaminare i passi
del capitolo precedente
(questa volta alla luce delle considerazioni svolte sulla “gerarchia” delle fonti) e
riflettere inoltre
sui possibili modi di trasmissione dei
testi sacerdotali.
Cominciamo proprio da quest'ultimo
problema. Ciò implica
la necessità di muoversi almeno su due piani: il primo attiene
all'aspetto esteriore dei documenti (alla materia scrittoria ed alla sua conservazione), mentre il secondo verte
su aspetti più sostanziali, come contenuti e forma
linguistica. Per quanto riguarda il primo, s'è già
discusso quali fossero
le materie scrittorie
utilizzabili in età arcaica e quali le difficoltà nel conservarle, almeno fino alla
diffusione della
charta. E' più difficile invece precisare la trasmissione
degli arcaici documenti
sacerdotali quanto a forma linguistica e contenuti.
Abbiamo già rilevato come
antichissimi carmina siano
giunti integri fino ad età
imperiale avanzata[99] e
quanto il conservatorismo ed il formalismo dei sacerdoti consentisse la
conservazione di testi assai antichi (seppure trascritti) in forma
[p. 167]
pressoché originaria[100]. Tuttavia, altri testi dovettero sicuramente subire
ammodernamenti linguistici e adattamenti del contenuto,
affinché le regole rituali e le altre forme di culto fossero
rese praticabili ai contemporanei; lo stesso carattere “aperto”
degli archivi favoriva questo processo attraverso la recezione di quella prassi documentaria costante e minuziosa con cui i
sacerdoti registravano gli atti più significativi del loro operare quotidiano. Così, di generazione in
generazione, negli archivi si
accumulava sempre nuovo materiale, gran parte del quale costituito (almeno in
età ciceroniana) dai testi dei più importanti decreta e responsa
resi dai collegi sacerdotali[101].
A fianco di questo lavorio di composizione, trascrizione e
conservazione di testi giuridico-religiosi, le fonti ricordano vere
e proprie revisioni o sistemazioni dei materiali raccolti negli
archivi sacerdotali. Per di più, tali interventi ordinatori si
susseguono, stando alla tradizione, con sorprendente periodicità nel corso delle diverse epoche; ne abbiamo
due in età
regia: il primo
attribuito allo stesso Numa Pompilio seppure come
compilazione originaria (verso la fine del secolo VIII a.C.),
il secondo presentato come opera di Anco Marcio (metà del VII secolo a.C.); ancora due in età
repubblicana: uno
nei primissimi anni
della repubblica (il cosiddetto
ius Papirianum) e
l'altro immediatamente dopo l'incendio gallico (
Questi episodi, mentre spiegano
egregiamente i possibili
modi di trasmissione
dei documenti sacerdotali in forma originaria fino all'epoca delle nostre
fonti, avvalorano al tempo
stesso maggiormente la
tesi che vuole risalenti all'età regia i primi nuclei
degli archivi dei sacerdoti romani.
Tutto
ciò legittima ancora di più la convinzione che i
[p. 168]
sacerdoti-giuristi e gli antiquari degli ultimi secoli
della repubblica, nel
comporre le loro opere, abbiano attinto a materiali d'archivio di prim'ordine, proprio perché
ancora in quel tempo si potevano leggere copie fedeli di documenti
più antichi; i
frammenti di quelle opere sono dunque da ritenere non
solo degni di fede, ma di rilevante interesse per la soluzione dei problemi relativi a contenuti e terminologie dei
libri e dei commentarci sacerdotali.
Si è già chiarito,
nell'apposito paragrafo dedicato alla “gerarchia” delle fonti, come
la possibilità di distinguere tra libri e commentarii si presenti legata ad una chiara determinazione per ciascuna fonte che cita testualmente tali documenti
di un suo intrinseco valore; si è
anche detto che
ciò costituisce,
in ultima analisi, il
punto metodologicamente debole della
dottrina ottocentesca
contraria alla diversità di contenuto tra libri e commentarii. Mentre
proprio la mancata applicazione del metodo d'analisi proposto ha come risultato
l'ingiustificato livellamento di fonti, per altro, assai dissimili
quanto ad attendibilità.
Com'è possibile, infatti,
negare la differenza tra
libri e commentarii sacerdotali, contrapponendo (ma forse mal utilizzando) un
breve accenno di Seneca
(Ep. 108, 31)[104] o di Quintiliano (Inst.
orat. 8, 2, 12)[105], all’evidenza delle fonti epigrafiche
(primarie), le quali attestano invece il permanere di tale distinzione
ancora in età imperiale avanzata? Distinzione espressa – si noti
bene – assai significativamente proprio nel nome officii[106] di alcuni ausiliari dei collegi sacerdotali: fra i quali,
sulla base delle mansioni loro attribuite, ne troviamo qualificati sia a commentariis (commentarienses) sia a libris. Ad inficiare
il dato delle fonti epigrafiche non varrebbe certo l’obiezione che
solo la qualifica di commentarienses (a
commentariis)
[p. 169]
risulta attestata da una fonte primaria in senso tecnico (cioè da
un documento ufficiale dei fratres Arvales); mi sembrerebbe invero eccessivo, pur ritenendo concretamente
possibile nelle epigrafi funerarie il rischio di imprecisioni o di incertezze terminologiche[107], dubitare senza valida giustificazione
dell'attendibilità dei testi epigrafici citati, soprattutto per quel che riguarda la titolatura
dei personaggi[108].
Riguardo
alla valutazione delle fonti e alla completa valorizzazione dei molteplici dati testuali, fondate critiche possono invero essere rivolte anche ai fautori[109] della distinzione di contenuto tra libri e commentarii. In particolare costoro, invece di
valorizzare la complessità e la varietà delle indicazioni suggerite dalle pur scarne fonti, hanno sovente
utilizzato le testimonianze antiche come supporto di schemi divisori già prestabiliti, di cui nelle fonti si
cercava piuttosto la conferma
che la verifica. Detto in altre parole, questi studiosi, operando fra i passi una
discutibile selezione, finirono coll'attribuire
ai termini libri e commentarii significati non generici solo nei casi in cui risultassero menzionati in
contesti conformi
agli schemi di volta in volta presupposti[110].
Ancora una notazione merita di essere fatta sui risultati ottenuti da
questo filone della dottrina ottocentesca. A parte, infatti, la
comune propensione a diversificare libri e commentarii, i contenuti
attribuiti a tali generi di documenti ebbero configurazioni assai varie e sovente contrapposte;
sicché questi studiosi non
pervennero a conclusioni veramente probanti, né ad una
definizione dei contenuti dei libri e dei commentarii
accettata da tutti. Non solo, ma al tempo stesso
evidenziarono dei testi antichi soprattutto
aspetti negativi e contraddittori, quale la supposta genericità delle fonti
nell'indicare l'esatta
denominazione dei documenti sacerdotali.
In tal modo, paradossalmente, furono questi stessi studiosi i maggiori critici delle proprie tesi; nelle loro
opere erano già presenti le
argomentazioni metodologiche e sostanziali con cui, in
seguito, altri studiosi contestarono l'ammissibilità di qualsiasi distinzione di
contenuto tra libri e commentarii sacerdotali.
[p.
170]
Tuttavia, anche i fautori di
così radicali rifiuti[111] non
valutarono in maniera
soddisfacente le molteplici indicazioni delle
testimonianze antiche; anzi, nelle loro tesi, esasperando al
massimo l'apparente contradditorietà terminologica di alcuni passi, finirono per negare il dato complessivo delle
fonti, le quali attestano
invece in maniera indubbia la diversità tra libri
e commentarii: sono semmai le ipotesi ricostruttive ad essere ostacolate dallo stato delle fonti, ma ciò
non tanto per la contradditorietà terminologica di esse, quanto
per il loro carattere
frammentario.
E' dunque la maniera casuale con
cui le fonti citano i
documenti sacerdotali,
a costituire il più grave ostacolo per una
sicura e indiscussa ricostruzione dei materiali giuridico-religiosi contenuti
nei libri e nei commentarii. Ostacolo tuttavia superabile, qualora si proceda alla
individuazione/ricostruzione delle materie muovendo solamente dai casi
concreti, cioè da quei libri e commentarii menzionati
testualmente nelle fonti.
Sarebbe del resto non solo errato da un punto di vista metodologico,
ma praticamente impossibile, voler definire prassi documentarie conformi
per tutti i collegi sacerdotali e
generi di documenti validi per ciascuno di essi, proprio generalizzando il dato testuale. E' noto, infatti,
che le fonti al riguardo, oltre ad essere assai lacunose,
contemplano anche rilevanti omissioni: basterà qui accennare
– a titolo d'esempio – solo al problema dell'archivio dei sacerdotes Fetiales[112]; dell'antichissima
sodalità ci sono pervenute formule solenni e
procedure rituali di indubitabile autenticità[113], eppure nelle
fonti non si ha
menzione, né notizia, di
libri, commentarii o altri generi di documenti ad essa attribuibili. Di fronte
a casi come
questo risulteranno abbastanza fuorvianti, in sede di configurazione dell'archivio,
sia il ricorso a sommarie simiglianze
con altri archivi sacerdotali, per sostenere poi che i feziali dovessero avere libri e commentarii propri[114];
sia la supposizione che i materiali
documentari di questi sacerdoti confluissero
negli archivi capitolini[115], negando di fatto alla sodalità
l'autonomia nella conservazione dei propri documenti.
[p. 171]
Si è piú volte menzionata
la fondamentale importanza delle fonti epigrafiche per la distinzione tra libri e commentarii; si è anche detto che la stessa
diversità terminologica in esse utilizzata non troverebbe alcuna
giustificazione se non sottendesse una diversità di materie raccolte nei due
generi di documenti. Inoltre, proprio dalle fonti
epigrafiche si possono ricavare gli esempi più significativi di commentarii sacerdotali: si tratta, com'è noto, dei commentarii degli arvali, più conosciuti con la denominazione di acta fratrum Arvalium[116], e di quelli relativi ai ludi
saeculares (estratti dei commentarci
dei quindecimviri sacris
faciundis[117]).
I pur estesi frammenti di tali commentarii interessano invero
più lo storico della religione che il giurista, poiché nel caso,
alla generale decadenza del ruolo politico e giuridico dei
principali collegi sacerdotali in età imperiale[118], deve aggiungersi
la funzione prevalentemente cultuale dei due sacerdozi; tuttavia i materiali contenuti nei citati commentarii
fanno pensare a veri
e propri rendiconti dell'attività pratica di quei sacerdoti,
compilati a testimonianza di avvenimenti, azioni e
cerimonie talmente importanti dal punto di vista rituale da dover essere
tramandati in forma scritta. Quanto alla loro
trascrizione su tavole marmoree, non le riterrei motivate tanto dall'esigenza
di conservazione durevole dei testi (per questo c'erano di certo altri materiali
più accessibili del marmo), ma piuttosto dall'uso invalso appunto nei secoli del
principato di glorificare, sempre e comunque, l'imperatore e
la famiglia imperiale.
Se dunque si può ritenere che la forma di
pubblicità di
questi commentarii sia in parte estranea all'età repubblicana, non
appare invece possibile dubitare del fatto che la struttura ed
i materiali contenuti fossero conformi alla prassi documentaria più
antica. Del resto, anche le fonti letterarie (nelle quali hanno
particolare rilievo i
commentarii degli auguri e dei pontefici)
confermano l'impressione che nei commentarii
si raccogliessero
[p. 172]
i
rendiconti e le memorie dell'attività sacerdotale (concretizzata
sovente in decreta e responsa[119]) e che questi
costituissero una
sorta di guida all'esplicazione pratica delle specifiche funzioni
dei collegi.
Veramente fondamentale si presenta al riguardo la testimonianza di Cicerone, il quale in vari passi mostra di
conoscere personalmente sia i commentarii del suo collegio sia quelli dei pontefici. Dai primi trascrive nel De divinatione (2, 42) il noto decreto
augurale: love tonante, fulgurante comitia populi habere nefas; decreto di certo riferito agli auspicia magistratuali, nell'ambito del controllo di
“legittimità” degli auspicia esercitato dagli auguri[120]. Degli altri tratta invece una volta in materia di dedicationes (De domo 136), per
ricordare ai pontefici che nei
loro commentarii si leggeva il
caso di un precedente responso del collegio, avente
per oggetto la controversa dedicatio della statua della Concordia da parte del censore C.
Cassio[121]; una
seconda volta a proposito dell'attività
giurisprudenziale ed oratoria del
grande T. Coruncanio (Brut. 55), primo pontefice massimo plebeo, i cui responsa erano conosciuti ancora al tempo di
Cicerone ex pontificum commentariis[122].
La testimonianza di Cicerone rivaluta i dati, conformi, delle
restanti fonti che citano testualmente i commentarii sacerdotali.
Così è per il passo pliniano (Nat.
hist. 18, 14) in cui
viene menzionato come materia dei
commentarii pontificum un
decreto sui tempi di celebrazione dell'augurio canario[123]; ugualmente
credibile si presenta il riferimento ai commentarii degli auguri per la specificazione delle aves augurales, secondo un tormentato passo di Festo (v. Sanqualis, p. 420 L.) ed uno piú
esplicito del Servio danielino (Aen. 1, 398)[124].
A questa individuazione/ricostruzione delle materie attinenti ai commentarii, non sono di ostacolo neppure quei passi in cui il termine ha un significato meno precisabile, al
punto da sembrare ad
alcuni studiosi generico o addirittura controverso.
Fra questi passi, mette conto esaminare uno fra i piú utilizzati
[p. 173]
dalla dottrina
contraria alla distinzione:
Livio 4, 3, 9: Obsecro vos, si non ad fastos, non ad commentarios pontificum admittimur, ne ea quidem
scimus quae omnes peregrini etiam sciunt, consules in locum regum
successisse nec aut iuris aut maiestatis quicquam habere, quod non in regibus ante fuerit?
Sulla base del testo liviano si è voluto sostenere
da parte di certa dottrina[125] l'impossibilità di distinguere tra libri e commentarii, in quanto il senso del termine sarebbe in questo caso assolutamente generico, utilizzato cioè in
accezione significante l'intero archivio dei
pontefici. Tuttavia un'analisi più approfondita
offre anche un'altra soluzione. In particolare va attentamente meditata la
contrapposizione esistente nel testo tra fasti e commentarii: in tale contrapposizione è
infatti possibile cogliere la vera distinzione
concettuale e di contenuto nell'uso dei due
termini: per fasti si intende la compilazione dell'arcaico calendario mobile[126] (le cui modalità stavano secondo altre fonti[127] in libri pontificales), mentre il termine commentarii appare distinto e contrapposto a quel genere di documenti e quindi contenutisticamente differente. Ciò
non significa negare che, nel contesto
liviano, il tribuno Canuleio volesse
effettivamente intendere l'esclusione dei plebei dalla conoscenza dell'insieme dei
documenti conservati negli archivi pontificali;
questa totalità dell'archivio non si concretizza però soltanto nel termine commentarii, ma
nell'insieme di fasti e commentarii: cioè la totalità è enfaticamente
espressa sia dalle regole relative alla divisione e numerazione del tempo,
definite nei libri, sia dai canoni interpretativi e
dalle precedenti memorie dell'attività pontificale, oggetto per
l'appunto dei commentarii.
Altro dato da tenere in
considerazione a proposito della distinzione tra commentarii e libri sacerdotali
è la conclamata antichità di questi ultimi. Mentre infatti
dei commentarii (pontificum)
è stata talvolta
evidenziata l'obscuritas[128], la tecnicità
[p. 174]
delle parole
che ne rendeva il linguaggio non solo differente da quello comune, ma addirittura di
difficile comprensione, dei libri colpisce invece la straordinaria risalenza, o meglio, per dirla con Cicerone, la antiquitatis effigies:
De orat. 1, 193: Nam, sive quem haec Aeliana studia delectant,
plurima est et in omni iure civili et in pontificum libris et in XII tabulis
antiquitatis effigies, quod et verborum
vetustas prisca cognoscitur et actionum genera
quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant.
L'antiquitas
e
la vetustas prisca[129] rimarcate
nel passo costituiscono un dato fondamentale,
ben al di là della rilevanza del testo, per la ricostruzione dei materiali raccolti
nei libri pontificum, i cui contenuti originari erano identificati dalla tradizione
con i sacra omnia excripta exsignataque attribuiti
all'opera di Numa e con le vetuste leges
regiae. Peraltro, lo stesso
Cicerone ci presenta i libri pontificum connessi in maniera non casuale con ius civile, XII Tabulae e genera actionum, dei
quali mette conto ricordare come, anche dopo la promulgazione delle tavole decemvirali, i pontefici
abbiano continuato per lungo tempo ad essere i soli depositari[130].
Il carattere assai risalente è del resto attestato
anche per i libri del collegio
degli auguri: da essi l'augure Cicerone traeva l'antica denominazione del dictator[131], chiamato in quei libri magister
populi; mentre l'antiquario Varrone vi leggeva la parola terra «scripta
cum R uno»[132].
Ancora una conferma, dunque, della forte
attendibilità della testimonianza di Cicerone, la quale rappresenta
l'elemento essenziale per stabilire la
divisione dei materiali d'archivio in commentarii e libri. Tuttavia, segnatamente al caso dei libri sacerdotum, tale testimonianza può
essere completata da altre importanti fonti: in primo luogo dal prezioso
apporto dell'indiscussa “cultura” antiquaria e teologica di
Varrone[133]; ma all'individuazione delle materie proprie dei libri
pontificali ed augurali concorrono utilmente anche un
certo numero di passi
[p. 175]
del grammatico
Servio e del Servio danielino[134],
autori di gusto enciclopedico, sensibili alle curiosità antiquarie ed alla religione tradizionale di Roma[135].
Fra i collegi sacerdotali, a parte un passo di Varrone in cui si
menzionano i libri saliorum[136] contenenti
quasi per certo gli arcaici carmina della
sodalità, le citazioni testuali riguardano i libri degli auguri e dei pontefici. Tuttavia per dimostrarne
la diversità di contenuto rispetto ai commentarii
sarà sufficiente esaminare o gli uni o gli altri;
poiché mostrando la possibilità di distinguere tra libri e commentarii di un collegio, automaticamente
cadrebbero le obiezioni metodologiche anche per gli altri.
Esamineremo,
perciò, solo i libri augurum, individuandone i
contenuti peculiari rispetto ai commentarii
e le implicazioni sistematiche delle
materie in essi raccolte. Dai passi discussi nel capitolo precedente si ricava la fondata impressione che si trattasse di materiali riguardanti le regole della
disciplina augurale: la quale,
nell'insieme di precetti e procedure, si presentava già alla fine dell'età regia o nei primissimi anni
della repubblica strutturata per parte considerevole in un sistema organico[137]. Questa opinione è stata da ultimo sostenuta con la consueta
autorevolezza dal Dumézil, del quale si è discussa alcune pagine indietro la tesi sul iuges auspicium[138].
La stessa epoca risulta indicata anche dai contenuti della
definizione dei genera
agrorum in De
lingua Latina 5, 33, nella quale il rilievo attribuito all'ager Gabinus[139] è totalmente immotivato per l'età storica più
recente; mentre acquista particolare senso nell'ambito
di quella tradizione che identificava nella città di Gabii un importante centro culturale del Lazio
arcaico[140].
Di certo allo
stesso periodo risale la composizione delle liste di quei nomina
deorum, o almeno della
maggior parte di
[p. 176]
essi, che
Cicerone conosce raccolti nei libri del collegio[141]: si trattava delle divinità per le quali gli auguri
celebravano cerimonie e sacrifici[142],
ed a cui indirizzavano quelle precationes
augurales citate
dai tardi grammatici con punte di compiacimento
erudito per i loro verba desueti[143].
Uguale discorso può farsi a proposito delle formule solenni
che gli auguri, fino alla estinzione della religione romana,
continuarono a pronunziare nel compimento delle inaugurationes[144], o nel rito di definizione del templum augurale[145]; così come più antica delle XII Tavole sembra essere stata la regolamentazione
del
tempus
augurii[146], cioè del tempo utile per l'osservazione dei signa auguralia.
Dei libri augurum è infine
ipotizzabile con buona approssimazione il
“sistema” ordinatorio, cioè la sistematica elaborata dai
sacerdoti per i materiali ivi contenuti. Ciò si rende possibile seguendo la descrizione delle funzioni
augurali che l'augure Cicerone
traccia nella parte del De legibus dedicata
a questi sacerdoti; quasi inutile sottolineare l'estrema attendibilità
del testo, anche se le vicende tormentate della tradizione manoscritta[147] rendono
il passo che segue di non facile lettura:
De leg. 2, 21: Interpretes
autem lovis optumi maxumi, publices augures, signis et auspicis postera vidento,
disciplinam tenento
sacerdotesque vineta virgetaque et salutem populi auguranto; quique agent rem duelli quique
popularem, auspicium praemonento ollique obtemperanto. Divorumque
iras providento sisque apparento, caelique fulgura regionibus ratis
temperanto, urbemque et agros et templa liberata et efflata habento. Quaeque augur iniusta nefasta vitiosa dira
deixerit, inrita infectaque sunto; quique
non paruerit, capital esto.
Pur non
superando tutte le difficoltà interpretative del passo, si ha la
netta sensazione di trovarsi di fronte a «dispositions
précises puisées certainement à un recueil officiel rédigé en terme de profession»[148];
si tratterebbe insomma di
[p. 177]
un testo trascritto da una raccolta ufficiale, destinata
probabilmente agli stessi auguri, o comunque su di essa improntato[149].
Se dunque la partizione delle funzioni augurali, sottesa al testo
ciceroniano, risulta tracciata in naturale adesione ad un testo
ufficiale del collegio, maggiori dovranno essere le possibilità che essa riflettesse
«des divisions authentiques»[150]
dei materiali raccolti nei libri augurum.
Tale
sistema può essere schematizzato come segue: 1. «Interpretes
autem Iovis optumi maxumi, publices augures, signis et auspicis postera vidento» (signa
e auspicia); 2. «disciplinam tenento» (disciplina); 3. «sacerdotesque vineta virgetaque et salutem
populi auguranto» (inaugurationes);
4. «quique agent rem duelli quique popularem, auspicium
praemonento ollique obtemperanto» (auspicia
dei magistrati); 5. «divorumque iras providento sisque
apparento» (nomina deorum?);
6. «caelique fulgura regionibus ratis
temperanto, urbemque et agros et templa
liberata et efflata habento» (definizione degli spazi).
La restante parte del testo, «quaeque augur iniusta
nefasta vitiosa dira
deixerit, inrita infectaque sunto; quique non paruerit,
capital esto», riguarda la pratica esplicazione delle funzioni
precedentemente indicate; quest'attività dava luogo all’emanazione di decreta e responsa, atti
raccolti, come s'è dimostrato,
nei commentarii. Non appare quindi senza
significato la collocazione di questa parte alla fine del
testo; cioè, in netta separazione, anche se
concettualmente dipendente, dalle materie
attribuibili ai libri augurum[151].
[1] La validità della tradizione annalistica ed il
valore storiografico delle fonti letterarie
sono ormai generalmente confermati dagli studi più recenti: vedi, ad esempio, R. M. OGILVIE, Early Rome and the Etruscans, Hassocks 1976, pp. 15 ss.; J. GAGÉ, La
chute des Tarquins et les débuts de la République romaine, Paris
1976; da ultimo, T. CORNELL, Alcune
riflessioni sulla formazione della
tradizione storiografica su Roma arcaica, in Roma arcaica e le recenti scoperte
archeologiche (Giornate di
studio in onore di U. Coli, Firenze, 29-30 maggio 1979), Milano 1980, pp. 19
ss.
[2] Per
un riesame dei “filoni di tradizione”, ma più in particolare
“dell'antietruschismo e del
filoetruschismo nella tradizione storiografica su Roma”, vedi la ricerca
di D. MUSTI, Tendenze nella
storiografia romana e greca su Roma
arcaica. Studi su Livio e Dionigi d'Alicarnasso, (Quaderni Urbinati di cultura classica, 10)
Urbino 1970.
[4] Così, soprattutto, A. BOUCHÉ-LECLERCQ Les pontifes de l'ancienne Rome, Paris
1871, pp. 19 ss.; M. VOIGT, Über
die Leges regiae, Il. Quellen und Authentie der Leges regiae, in Abhandlungen der
philologisch-historischen Classe der königlich sächsischen
Gesellschaft der Wissenschaften VII,
1873-79, pp. 647 ss.; P. REGELL,
De augurum publicorum libris, Vratislaviae 1878, pp. 30 ss.; R. BONGHI, Storia di Roma, II, Milano 1888, pp.
222 ss.; G. ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin
1936, pp. 16 ss.
[5] Sono
assai significative, in tal senso, le affermazioni del BOUCHÉ-LECLERCQ, Les
pontifes de l'ancienne Rome, cit.,
p. 22.
[6] Si
può ragionevolmente dubitare che nella più antica tradizione giuridico-religiosa dei sacerdoti romani vi fosse
un precipuo interesse ad ordinare per “generi” i materiali
da conservare negli archivi.
D'altra parte, un marcato disinteresse per i generi
letterari si riscontra nelle diverse fasi della cultura giuridica romana
(in particolare per quanto riguarda
«l'assenza, entro la cultura giuridica romana, di una sistematica delle opere letterarie in campo giuridico»,
vedi L. LANTELLA, Le opere della
giurisprudenza romana nella storiografia, Torino
1979, pp. 63 ss.), che a buon diritto si è soliti
considerare erede diretta di quella tradizione. Sullo
[p.
180]
stretto legame fra tradizione sacerdotale e cultura giurisprudenziale (di cui resta, peraltro, ancora coscienza nella definizione ulpianea della scienza giuridica: D. 1, 1, 10, 2: Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia; nel medesimo senso va intesa anche la qualifica di iudex atque arbiter rerum divinarum humanarumque che Verrio Fiacco, nel descrivere l’ordo sacerdotum, attribuisce al Pontefice Massimo: Festo, v. ordo, p. 200 L.) vedi, ora lo stimolante lavoro di A. SCHIAVONE, Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero giuridico nella Roma tardo-repubblicana, Bari 1976.
[7] Una convincente critica dei più significativi fra
questi moderni tentativi
di ricostruzione “alternativa” delle vicende storiche della
più antica
Roma, si trova nel
lavoro, ormai classico, di C. BARBAGALLO, Il
problema delle
origini di Roma da Vico a noi, Milano
1926 (rist. anast. Roma 1970);
sulla questione vedi
anche S. MAZZARINO,
Storia romana e
storiografia moderna, Napoli 1954. Altra
bibliografia supra p. 35 nn. 46
e 47.
[8] Per la terminologia, nonché per la definizione più
generale di fonti
primarie e secondarie,
seguo A. GUARINO,
Esegesi delle fonti
del diritto romano, a cura di L.
Labruna, I, Napoli 1968, p. 289.
Questa distinzione, seppure con denominazioni diverse, è comunque assai comune nella dottrina romanistica: cfr., fra gli altri, A. ROSENBERG, Einleitung und Quellenkunde der römischen Geschichte, Berlin 1921 (il quale divide le fonti in “Die Primärquellen”, pp. 1 ss., e “Die Historiker”, pp. 113 ss.); C. W. WESTRUP, Introduction to Early Roman Law, IV e V. Sources and Methods, London - Copenhagen 1950-1954 (“Primary Sources” IV pp. 9 ss.; “The Ancient Roman Tradition” V pp. 17 ss.); L. WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, p. 46 (“Urkundliche und literarische Quellen”); K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 3 s. (“Inschriften” e “Literarische Quellen”); K. CHRIST, Römische Geschichte: Einführung, Quellenkunde, Bibliographie, 3a ediz., Darmstad 1980, pp. 35 ss.
[9] Sulla base della materia scrittoria il GUARINO, Esegesi
delle fonti del diritto
romano, cit., pp. 290
ss., distingue tali fonti in: iscrizioni (ossia rappresentazioni grafiche effettuate su materiali durevoli:
pietra, marmo, bronzo
ecc.), papiri (tutte le rappresentazioni
grafiche operate su materiali di corrente scrittura nell'antichità: rotoli di papiro,
fogli di pergamena ecc.), e ritrovati archeologici (avanzi di case, di raffigurazioni
pittoriche o scultoree, suppellettili, monili, monete).
[10] Per le fonti letterarie si vedano: G. WISSOWA, Religion
und Kultus der Römer, 2a
ediz., München 1912 (rist. 1971), pp. 4 ss.; N. TURCHI, La
religione di Roma antica, Bologna 1939, pp.
337 ss.; K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 4 ss.; G. B. PIGHI, La
religione romana, Torino 1967,
pp. 27 ss., 41 ss.; cfr. inoltre G. DUMÉZIL, La
religion romaine archaïque, 2a ediz., Paris 1974, pp. 111 ss (cfr. trad. ital.
di Furio Jesi, Milano 1977, pp.
99 ss.).
[p. 181]
[11] Alla raccolta di questo tipo di fonti è
dedicata una mia
ricerca su formule ed altro materiale proveniente da documenti
sacerdotali nei
libri ab urbe condita di Tito Livio. La ricerca, che sarà oggetto di una
prossima pubblicazione, si inserisce nella più ampia
prospettiva di raccolta sistematica
dei materiali
provenienti dagli archivi dei collegi sacerdotali romani: la metodologia e gli intendimenti di tale ricerca sono esposti
in F. SINI, Documenti
sacerdotali e lessico politico- religioso di Roma arcaica, in
Atti del Convegno
sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze
dell'antichità (Suppl. al
vol. 113, Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino, II. Classe
di Scienze Morali, Storiche e
Filologiche), Torino 1980, pp. 127 ss., in part.
146 ss.
[12] Vedi, ad esempio, Cicerone, De
re publ. 1, 63 (supra cap. I n. 59).
Microbio,
Sat., 1, 12, 21-22 (testo supra
pp. 110 s.).
[13] Sull'apporto specialistico della
filologia, vedi G. PASCUCCI, Diritto e filologia, in Romanitas 9, 1970 (= Annales I Colloqui
Internationalis de iure Romano lingua litterisque Latinis), pp. 53 ss.; H. LE BONNIEC, La philologie latine au service de
l’histoire de la religion romaine, in Bulletin de l'Association G. Budé, 1979, pp. 389
ss.
Per quanto riguarda invece gli studi lessicografici,
un’ampia panoramica
di quelli attualmente
in corso è stata presentata nel convegno sulla lessicografia politica e giuridica, organizzato dal professor I.
Lana e dal “Gruppo
torinese di ricerca
sul pensiero politico antico” presso l'Accademia delle Scienze di Torino
(28-29 aprile 1978), i cui risultati sono di recente pubblicazione: Atti
del convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell'antichità, cit. in n. 11; particolarmente stimolante la relazione di
C. NICOLET, Lexicographie
politique et histoire romaine: problèmes de méthode et directions
de recherches, ibidem, pp. 19 ss.
[15] Per una rapida ed esauriente verifica si vedano le
relative voci del
Thesaurus linguae
Latinae: commentarius (red.
W. BANNIER), in Thesaurus l. L. III (1911), coll. 1856 ss.; liber (red. J. v. KAMPTZ), ibidem VII, 2 (1974), coll. 127 ss.
[17] Testo in
Fontes iuris Romani
antejustiniani, II (Auctores) ed., J. BAVIERA,
2a ediz., Firenze 1940 (rist. 1968), pp. 369 s. E' assai dubbio che l'autore
delle Sententiae sia
proprio il giurista Paolo; l'opinione prevalente nella
dottrina moderna ritiene, infatti, che l'opera fu sicuramente composta da
uno sconosciuto giurista postclassico, il quale però si sarebbe giovato per
il suo lavoro soprattutto di scritti paolini: in questo senso vedi, fra gli altri,
F. SCHULZ, History of Roman Legal Science, 2a ediz., Oxford 1953, pp.
176 ss. (cfr. trad. ital.:
Storia della
giurisprudenza romana, Firenze
1968, pp. 312 ss.); L. WENGER, Die
Quellen des römischen Rechts, cit.,
p. 518, ivi n.
307 ampia rassegna della bibliografia precedente; F. WIEACKER, Textstufen klassischer Juristen, Göttingen 1960, p. 453; B.
SANTALUCIA, I legati
[p. 182]
ad effetto liberatorio nel diritto romano (Università di Firenze. Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza, 2) 1964, p. 148 n. 74; C. A. MASCHI, La conclusione della giurisprudenza classica all'età dei Severi. lulius Paulus, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 15, Berlin-New York 1976, p. 680.
[18] Liber,
in Thesaurus linguae
Latinae,
VII, cit. supra in
n. 15. Per Cicerone
cfr., inoltre, v. liber
nei lessici curati da
H. MERGUET: Lexikon zu
den Reden des Cicero, III,
Jena 1882 (rist. an. Hildesheim 1962), p. 430; Lexikon zu den philosophischen Schriften Ciceros, 11, Jena 1892 (rist. an. Hildesheim -New York 1971), pp. 445
ss.
[19] Plauto, Bacchides 431-434 : Inde de hippodromo et
palaestra ubi revenisses domum, / cincticulo praecinctus in sella apud
magistrum adsideres / cum libro: legeres,
si unam peccavisses syllabam, / fieret corium tam maculosum quam est nutricis
pallium; cfr. C. LODGE, Lexikon
Plautinum, I, Leipzig 1924 (rist.
an. Hildesheim-New York 1971), p. 893.
Piú in generale, sull'opera di Plauto e sulla sua
epoca: M. SCHANZ- C. HOSIUS, Geschichte
der römischen Literatur, 1, 4a ediz., Múnchen 1927, pp. 55 ss.; P. E. SONNENBURG, Maccius, in Real-Encyclopädie
der classischen
Altertumswissenschaft 14, 1, Stuttgart 1928, coll. 95 ss.; F. DELLA CORTE, Da Sàrsina a Roma: ricerche plautine, 2'
ediz., Firenze 1967; I. LANA,
Aspetti della vita quotidiana e della società romana nel teatro di
Plauto, Torino 1960. Per la bibliografia piú recente si
vedano le rassegne curate da F.
BERTINI, Vent'anni di studi plautini in Italia (1950-1970), in
Bollettino di
studi latini 1,
1971, pp. 22 ss., e da D. FOGAZZA, Plauto 1935-
[20] Le testimonianze epigrafiche riguardano, invero,
soprattutto il periodo
imperiale, durante il quale la qualifica a commentariis o
commentarienses si
trova attribuita a funzionari di numerosi uffici, sia dell'amministrazione
centrale che di quella periferica. Sulla questione vedi E. DE RUGGIERO,
Commentarii, in Dizionario epigrafico di
antichità romane 2, rist.
anast., Roma 1961, p. 538; per i numerosi esempi, cfr. pp. 539 ss.
[21] Il testo epigrafico in questione, a partire dal Sigonio,
venne per lungo tempo
identificato con la legge di C. Servilio Glaucia; così ancora il primo editore dell'Ottocento: Fragmenta legis
Serviliae repetundarum ex
tabulis aeneis primum
coniunxit unxit restituit illustravit C.
A. C. KLENZE, Berolini 1825. Th. MOMMSEN,
nel commento all'edizione del Corp. Inscrip. Lat. I, Berolini 1863, p. 49 n.
Roman
Studies 59, 1969, pp. 129 ss.; The
Extortion Law of the Tabula Bembina, in Jour. of
L'opinione prevalente fra gli studiosi propende per l'identificazione del testo epigrafico con la lex iudiciaria di C. Gracco: in tal senso vedi, fra gli altri, G. TILIBETTI, Le leggi "de iudiciis repetundarum "fino alla guerra sociale, in Athenaeum 31, n. s., 1953, pp. 5 ss.; F. SERRAO, Appunti sui “patroni” e sulla legittimazione attiva all'accusa nei processi “repetundarum”, in Studi De Francisci, II, Milano 1954, pp. 480 ss.; ID., Repetundae, in Novissimo Digesto Italiano XV, Torino 1968, pp. 454 ss. (= Classi partiti e legge nella repubblica romana, Pisa 1974, pp. 240 ss., 212 ss.); C. NICOLET, L'ordo équestre à l'époque républicaine (312-43 av. J.C.), I. Définitions juridiques et structures sociales, Paris 1966, pp. 487 ss.; A. N. SHERVIN-WHITE, The Date of the Lex Repetundarum and its Consequences, in The Journal of Roman Studies 62, 1972, pp. 83 ss.; da ultimo C. VENTURINI, Studi sul “crimen repetundarum” in età repubblicana, Milano 1979, pp. 1 ss.
[22] Mi
pare convincente l'opinione di F. R. ROSSI, Libri, in Dizionario epigrafico di antichità romane 4, Roma 1958, p. 966, per il quale:
«Libri, in particolare, è
adoperato già qui per scritti su rotoli di qualsiasi materiale e
non solo di papiro».
[23] Corp. Inscrip.
Lat. I, 2, 2a ediz., p. 482 n. 593, 142-156; Fontes iuris Romani
antejustiniani, I (Leges), ed. S. RICCOBONO, Firenze 1941, p. 140 n. 13; per il
testo seguo quello accolto in: Les lois des Romains (7e édition des Textes de droit romain, Tome II, de P.
F. Girard et F. Senn) a cura di
V. Giuffrè, Camerino 1977, pp. 83 ss.
Quae municipia coloniae praefecturae c(ivium) R(omanorum) in Italia sunt erunt quei in eis municipieis coloneis / praefectureis maximum mag(istratum) maxim[a]mve potestatem ibei habebit tum cum censor aliusve / quis mag(istratus) Romae populi censum aget is diebus LX proxumeis quibus sciet Romae censum populi / agi omnium municipium colonorum suorum queique eius praefecturae erunt q(uei) c(ives) R(omanei) erunt censum / ag[i]to eorumque nomina praenomina patres aut patronos tribus cognomina et quot annos / quisque eorum habet et rationem pecuniae ex formula census quae Romae ab eo qui tum censum / populi acturus erit pro posita erit a[b]ieis iurateis accipito eaque omnia in tabulas publicas sui / municipi referunda curato eosque libros per legatos quos maior pars decurionum conscriptorum / adeam rem legarei mittei censuerint tum cum e[a] res consuleretur adeos quei Romae c[e]nsum agent / mittito curatoque utei quom amplius dies LX reliquei erunt antequam diem ei queiquomque Romae / censum age[t] finem populi ce(n)sendi faciant eos adea[nt] librosque eius municipi coloniae praefecturae / edant isque censor seive quis alius mag(istratus) censum populi aget diebus V proxumeis quibus legatei eius / municipi coloniae praefecturae adierint eos libros census quei abieis legateis dabuntur accipito / s(ine) d(olo) m(alo) exque ieis libreis quae ibei scripta erunt intabulas publicas referunda curato easque tabulas / eodem loco ubei ceterae tabulae publicae erunt in quibus census populi perscriptus erit condenda(s) curato /
[p. 184]
[24] Per le
modalità del censimento e più in generale sul significato del census si
vedano, fra i lavori piú recenti: J. SUOHLATI, The Roman Censors, Helsinki
1963, pp. 20 ss.; G. PIÉRI, L'histoire du cens
jusqu'à la fin de la République romaine, Paris 1968; C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Paris 1976: trad. ital. Il mestiere di cittadino
nell'antica Roma, Roma 1980, pp. 64 ss.
Notevoli erano anche gli aspetti religiosi connessi con il census, il quale terminava, com'è noto, con una solenne cerimonia religiosa celebrata dai censori nel Campo Marzio: il lustrum. Si trattava di una processione circolare e del sacrificio di un toro, di una pecora e di un maiale: sul significato di questa cerimonia, cfr. K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 119; R. M. OGILVIE, Lustrum condere, in The Journal of Roman Studies 51, 1961, pp. 31 ss.; G. PIÉRI, op. cit., pp. 77 ss.; C. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., p. 241 (cfr. trad. ital., cit., p. 210).
[25] A.
VON PREMERSTEIN, Libellus, in
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 13, 1,
Stuttgart 1926, col. 42; F. R. ROSSI, Libri, in Dizionario epigrafico, cit., p. 967.
[26] Di
senatus consulta raccolti in
libri abbiamo invero notizia anche per
la tarda età repubblicana: cfr. Cicerone, Ad
Att. 13, 33, 3: Reperiet
ex eo libro, in quo
sunt senatus consulta Cn. Cornelio L. (Mummio) cos. Sulla ragione di questa nuova e singolare denominazione,
vedi Th. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, III, rist. Basel-Stuttgart 1963, pp.
1009-1010: «In dieser Weise ist der Senatsbeschluss bis in die Kaiserzeit
hinein niedergeschrieben worden. Unter Hadrian und Pius aber wird dem
angenommenen Beschlussvorschlag der Name des Vorschlagenden (sententia dicta ab illo) beigefügt, wie denn auch das Beschlussbuch jetzt
liber sententiarum in senatu dictarum genannt wird» (cfr. Droit
public romain, VII, Paris
1891, p. 205).
[27] Isidoro, Orig. 6, 12, 1: Quaedam
genera librorum certis modulis conficiebantur. Breviori
forma carmina atque epistulae. At vero historiae maiori modulo
scribebantur; A. VON PREMERSTEIN, Libellus, cit., p. 27: «L(ibellus) ist Diminutiv zu liber; ob es wie dieses
ursprünglich die Bedeutung von "Bast" haben kann ( ... ) ist unsicher. Die gewöhnliche Bedeutung ist die eine kleineren
Papyrusstückes»; G. SAMONATI, Libellus, in Dizionario epigrafico di antichità romane, 4, Roma 1957, p. 801: «Libellus è
parola di molteplici significati, che si possono ridurre al concetto
materialmente fondamentale
di foglio o fogli scritti». Cfr. J. VON KAMPTZ, v. Libellus in Thesaurus
linguae Latinae,
VII, 2, cit., coll. 1262 ss.
[28] Gu. HENZEN,
Acta fratrum Arvalium
quae supersunt, Berolini
1874, p. CCIV; E. NORDEN, Aus
altrömischen Priesterbuchern, Lund-Leipzig
1939, pp. 109 ss. Il valore del testo epigrafico per sostenere
l'esistenza in seno
agli archivi
sacerdotali di una qualche diversità di contenuto fra i vari generi di
documenti (raccolte di formule solenni e di preghiere nei libri; altro materiale nel commentarii) risulta assai evidente. Mentre non mi pare del tutto convincente l’ipotesi proposta dal
PERUZZI, Origini di Roma, II, Bologna 1973,
[p. 185]
pp.
163 s., il quale ritiene che dal testo degli Arvali possa ricavarsi la
prova «che almeno le singole parti delle norme sacre pompiliane saranno state
distribuite, in copia, ai collegi sacerdotali a cui si riferivano, che a loro volta ne
avranno tratto breviari, copie, ecc.».
[29] Sull'orazione
De domo sua (valutazioni storico-giuridiche e letterarie, bibliografia
precedente) rimando alle introduzioni dell’edizione francese curata
da P. WUILLEUMIER:
Ciceron, Discours,
XIII, Paris 1952, e di
quella italiana curata da G. BELLARDI, Le
orazioni di M. Tullio Cicerone, III, Torino
1975; cfr., inoltre, R. J. GOAR,
Cicero and the State
Religion, Amsterdam 1972, pp. 45 ss.
[30] Per un
inquadramento generale, vedi A. W. LINTOTT, Violence in Republican Rome, Oxford
1968, pp. 77 ss.; E. S. GRUEN, The Last Generation of the Roman
Republic, Berkeley
1974, pp. 433 ss.; quanto ai dati prosopografici, cfr. invece T. R. S.
BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, II, New
York 1952, pp. 194 s. Gli aspetti religiosi dell’azione del tribuno
sono ben evidenziati nel lavoro di C. GALLINI, Politica religiosa di Clodio, in Studi e materiali di
storia delle religioni 33, 1962, pp. 258 ss.; mentre
per quanto riguarda gli aspetti politici e sociali si vedano, fra gli altri,
H. KÜHNE, Die stadtrömischen Sklaven in den Collegia des
Clodius, in Helikon 6,
1966, pp. 95 ss., e J. M. FLAMBARD, Clodius, les
collèges, la plèbe et les esclaves. Recherches
sur la politique populaire au milieu du Ier siècle, in Mélanges de l'École
française de Rome 89, 1977, pp. 115 ss.
Sui difficili
rapporti fra Clodio e Cicerone, vedi infine: R. SEAGER, Clodius, Pompeius and the Exile
of Cicero, in Latomus 24, 1965, pp.
519 ss.; W. K. LACEY, Clodius and Cicero. A
Question of dignitas, in Antichton 8, 1974, pp. 85 ss.; W. M. F. RUNDELL, Cicero and Clodius: the
Question of Credibility, in Historia 28, 1979,
pp. 301 ss.
[31] Altre fonti sull'episodio: Cicerone, De
leg. 2, 42; Plutarco, Cic.
33; Cassio Dione 38, 17,
6.
Il culto della
Libertas ebbe ufficialmente inizio nella seconda metà del
III secolo a.C.; proprio in quegli anni, infatti, fu dedicato a questa
divinità
un tempio nell'Aventino
da parte di Ti. Sempronio Gracco, console dell'anno 238 (Livio 24, 16, 19). Cfr. G. WISSOWA, Religion
und Kultus der Römer, cit., p. 138 s.; K.
LATTE, Römische
Religionsgeschichte, cit.,
p. 256; C. KOCH, Libertas, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 13, 1, Stuttgart 1926, coll. 101 ss.; R. F. ROSSI, Libertas
Dea, in Dizionario epigrafico di antichità
romane 4, Roma 1958, p. 903.
Sugli aspetti politici più generali della libertas
vedi, per tutti, C.
WIRSZUBSKI, Libertas.
Il concetto politico di libertà a Roma tra repubblica e impero, trad. ital., Bari 1957; G. CRIFÒ, Su
alcuni aspetti della libertà in Roma, in
Archivio Giuridico 154, 1958, pp. 3 ss.; J. HELLEGOUARC'H, Le
vocabulaire latin des
relations et des partis politiques sous la République, 2e ediz., Paris
1972, pp. 546 ss.; C.
NICOLET, Il mestiere di cittadino nell'antica Roma, cit.,
pp. 404 ss.
Circa la diversa concezione della libertas
da parte dei populares
rispetto agli
scrittori aristocratici, cfr. F. DE MARTINO, Storia
della costituzione romana, III, 2a ediz., Napoli
1973, pp. 138 ss.; valide considerazioni anche in
[p. 186]
A. WEISCHE, Studien zur
politischen Sprache der römischen Republik, Munster Westf. 1966, pp. 57 ss.; ma
soprattutto C. VENTURINI, “Libertas” e “dominatio”
nell'opera di Sallustio e nella pubblicistica dei “populares”, in
Studi per Ermanno Graziani, Pisa
1973, pp. 636 ss.
[32] Il valore dell'orazione in rapporto al ius pontificium è ben
sotto lineato da P. VUILLEUMIER nell'introduzione a: Ciceroni Discours, XIII, cit.
in n. 29. Sulla connessione ius publicum - ius pontificium, e piú in generale tra
diritto pubblico e diritto sacro, vedi da ultimo lo stimolante lavoro di A. HEUSS, Zur Thematik republikaniscber “Staatsrechtslehre”, in Festschrift für Franz Wieacker zum 70. Geburtstag, Góttingen 1978,
pp. 71 ss.
[33] Sul personaggio, vedi L. R. TAYLOR, Cesar's
Colleagues in the Pontifical
College, in American
Journal of Philotogy 63,
1942, pp. 396 s.; F. MÜNZER,
Pinarius, in
Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft 20,
2, Stuttgart 1950,
coll. 1402 s.; T. R. S. BROUGHTON, The
Magistrate of the Roman Republic, II, cit., p. 199.
[34] Solitamente si compiva una dedicatio-consecratio ed operavano congiuntamente
magistrato e pontefice. Sebbene la dedicatio propriamente
detta, per la quale non era rilevante alcuna qualifica “religiosa”,
ma solo la designazione
del populus, potesse
dirsi atto di ius
publicum (ius publicum dedicandi definisce la
materia Cicerone), vi era una specifica competenza pontificale per quanto
riguardava invece la consecratio: atto per il cui
compimento necessitava la
qualifica sacerdotale.
Sul procedimento rituale di questi atti, si vedano per tutti: J. MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III, Leipzig 1885, pp. 269 ss. (cfr. Le culte chez les Romains, I, Paris 1889, pp. 321 ss.); G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, cit., p. 385; per gli aspetti connessi con inaugurazione, ius augurium e poteri magistratuali, vedi soprattutto P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, Torino 1960, pp. 275 ss.
[35] Così, ad esempio, G. ROHDE, Die KuItsatzungen der römischen Pontifices, cit., p. 15: «... und Cicero de domo 136 offenbar etwas wie acta
pontificum damit
meint»; cfr. inoltre pp. 17 s.
[36] Che l'orazione sia stata pronunciata proprio davanti ai
Pontefici risulta chiaramente dal testo: De domo 127; cfr. Ad Att. 4, 2, 2; Cassio Dione
39, 11.
[37] Cicerone, De domo 33: Quid est enim aut
tam adrogans quam de religione, de rebus divinis, caerimoniis, sacris
pontificum conlegium docere conari, aut tam stultum quam, si quis quid in
vestris libris invenerit, id narrare vobis, aut tam curiosum quam ea scire
velle de quibus maiores nostri vos solos et consuli et scire voluerunt?
[38] De domo
136: Sed ut revertar ad ius publicum
dedicandi, quod ipsi pontifices semper non solum ad suas caerimonias sed etiam ad
populi iussa adcommodaverunt, habetis in commentariis vestris C. Cassium
censorem de signo
[p. 187]
Concordiae dedicando
ad pontificum conlegium rettulisse, eique M. Aemilium pontificem maximum pro
conlegio respondisse, nisi eum populus Romanus nominatim praefecisset atque
eius iussu faceret, non videri eam posse recte dedicari. Quid? cum Licinia,
virgo Vestalis summo loco nata, sanctissimo sacerdotio praedita, T. Flaminio Q.
Metello consulibus aram et aediculam et pulvinar sub Saxo dedicasset, nonne eam
rem ex auctoritate senatus ad hoc conlegium Sex. Iulius praetor rettulit? cum
P. Scaevola pontifex maximus pro conlegio respondit: «Quod in loco
publico Licinia Licinia, Gai filia, iniussu populi dedicasset, sacrum non
viderier».
[39] Sul problema dell’utilizzazione di materiali
scritti, conservati negli
archivi sacerdotali,
per l’espletamento di funzioni cultuali, vedi C. APPEL, De
Romanorum precationibus, Gissae
1909 (Rist. an. New York 1975), p. 206; G. ROHDE, Die
Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., pp. 64 ss.
[40] Mette conto sottolineare il fatto che – appena una
generazione più
tardi – nel
corso della grande “restaurazione” della religione romana promossa da Augusto (fra la sterminata mole della
bibliografia, vedi: per quanto
riguarda gli aspetti politico-sociali, R. SYME, La
rivoluzione romana, trad. ital.,
Torino 1962 (rist. 1974), pp. 442 ss., e C. PARAIN, Augusto, trad. ital.,
Roma 1979, pp. 113 ss.;
per il riflesso politico-costituzionale, F. DE MARTINO, Storia
della costituzione romana, IV, 1, 2a
ediz., Napoli 1974, pp. 230
ss.; per la materia
propriamente religiosa, J. BAYET,
La religione romana, trad. ital., Torino 1959, pp. 185 ss., e K. LATTE, Römische
Religionsgeschichte, cit., pp. 294 ss.) fu dato ampio spazio, in concomitanza
con la rifondazione di alcuni
collegi, alla sistemazione (o ricostruzione) degli archivi sacerdotali.
Il caso più conosciuto è certamente quello della sodalità degli Arvales e del relativo archivio: G. WISSOWA, Arvales fratres, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 2, 2, Stuttgart 1896, coll. 1463 ss.; J. SCHEID, Les frères arvales. Recrutement et origine sociale sous les empereurs julo-claudiens, Paris 1975, pp. 335 ss.; ma la riforma interessò tutti i sacerdozi, alcuni dei quali avevano conosciuto una vistosa decadenza nell'ultimo secolo della repubblica, come ad esempio i feziali (su questa sodalità si veda il recente lavoro di Chr. SAULNIER, Le rôle des prêtes fétiaux et l'application du “ius fetiale” à Rome, in Revue historique de droit français et étranger 58, 1980, pp. 171 ss.; della studiosa francese non mi pare, tuttavia, accettabile la tesi che la costituzione dei feziali in sodalità non sarebbe stata anteriore alla riforma religiosa ed alla riorganizzazione dei sacerdozi operata da Augusto).
[41] Tuttavia, riguardo alla declamazione dei verba
concepta, conviene meditare
sulle osservazioni del linguista E. PERUZZI, Aspetti
culturali del Lazio
primitivo, Firenze 1978, p.
172: «Pregare solennemente, in latino, è concipere
uerba. L'espressione
significa “recitare parole tratte da una fonte scritta” (uerba concepta, cfr. Luce. 6.628 “umorem magno conceptum ex aequore”),
secondo la pratica di
uerba (o uerbis, carmen,
carminibus, precationem ecc.) praeire
(o praefari) alicui (de scripto) per opera di un sacerdote o di
uno scriba addetto a leggere il testo che dovrà essere ripetuto ad alta voce senza la minima
difformità, ciò che un altro assistente è appunto
[p.
188]
Incaricato di controllare: Plin. n.h. 28.11 “uidemus certis precationibus obsecrasse summos magistratus et, ne quod uerborum praetereatur aut praeposterum dicatur, de scripto praeire aliquem rursusque alium custodem dari qui adtendat”».
[43] Per l'analisi linguistica, metrica e strutturale del carmen
degli arvali rimando
al lavoro di E. NORDEN,
Aus altröemischen
Priesterbüchern, cit.,
pp. 229 ss. Sul rotacismo vedi, brevemente, G. DEVOTO, Storia
della lingua di Roma, Roma 1940, p. 90.
[44] Quale prova ulteriore dell'antichità del carmen, che in dottrina si è
soliti datare tra il VI
secolo (vedi, per tutti, G. DEVOTO,
Storia della lingua di Roma, cit.,
p. 72; A. ROSTAGNI,
Storia della
letteratura latina, I. La repubblica, 3a
ediz., Torino 1964, p. 30) ed il IV secolo a.C. (così G. B. PIGHI, La
poesia religiosa romana, Bologna
1958, p. 49), mette conto evidenziare
il fatto che l'arcaico testo non doveva, ormai, risultare comprensibile ai Romani del III secolo (l’iscrizione
è del 218 d.C.): ciò è testimoniato sia dagli errori di copiatura, sia dalle incertezze
che si rilevano sull’iscrizione;
basti pensare, per esempio, al caso di una stessa parola, che ripetuta
per tre volte nel testo epigrafico, si presenta sotto tre forme differenti.
[45] Ho riportato ciascun verso una sola volta, senza attenermi
in ciò all'iscrizione, che, com'è noto, ripete ogni verso
per tre volte. Quanto al
testo ho seguito
quello accettato da E. NORDEN,
Aus altrömischen
Priesterbüchern, cit., p. 263.
[46] Ciò rendeva i testi sacerdotali profondamente
differenti perfino
dallo stesso
linguaggio giuridico; si legga in proposito quanto scrive il PERUZZI,
Aspetti culturali del
Lazio primitivo, cit.,
p. 173: «Vi è una differenza essenziale
fra lingua dei carmina sacerdotali
e lingua delle leggi. La prima
è immutabile
nel tempo, sì che la formula deve recitarsi come è scritta anche se più non la si intende. Il latino giuridico,
invece, vive nella scuola
e nella pratica, e muta
seguendo, se pur con ritmo più lento, la naturale evoluzione
della lingua comune. Anche le più vetuste leges
regiae trascritteci da
Festo presentano qualche arcaismo, ma sono linguisticamente moderne rispetto
al latino del cippo del Foro, più prossimo all'indoeuropeo che alla lingua
di Cicerone». E’ bene ripetere, ancora una volta, che rilevare
l'opera di modernizzazione linguistica non significa naturalmente
mettere in discussione il valore intrinseco della tradizione giuridica,
antiquaria ed annalistica:
a proposito di
quest'ultima, vedi le giuste considerazioni metodologiche di
F. SERRAO, Legislazione popolare nel V e IV secolo a. C., in
Legge e società
nella repubblica romana I (a cura di F. Serrao), Napoli 1981, p. XXIII:
«Livio e Dionigi o, magari, le loro fonti, descrivono talvolta
con termini, espressioni e concetti dei loro tempi, e sovente presi a prestito,
dal vocabolario
politico e
costituzionale degli ultimi due secoli, i fenomeni della più antica repubblica.
Con ciò essi non inventano accadimenti o fenomeni mai avvenuti,
ma danno (come, in certo senso, ad ogni storico accade) degli avvenimenti
[p.
189]
di un passato ormai lontano un'interpretazione comprensibile ai loro contemporanei».
[47] Non lontana dal vero appare dunque la giustificazione del
tradizionalismo rituale
delle società antiche proposta, ormai più di un secolo fa,
dal grande storico e comparatista francese N. D. FUSTEL DE COULANGES,
La cité antique.
Étude sur le culte, le droit, les institutions de
[48] Alla bibliografia citata nella n. 52 del cap. I, si
aggiungano le recenti
rassegne di J. POUCET, Latium
protohistorique et archaïque à la lumière des découvertes archéologiques récentes, in L'antiquité classique 47, 1978, pp. 566
ss., e 48, 1979, pp. 177
ss.; gli atti del seminario di studio sulla formazione della
città nel Lazio arcaico, tenuto a Roma dal 24 al 26 giugno 1977, pubblicati col titolo: La
formazione della città nel Lazio = Dialoghi d'Archeologia 2, n.s., 1980; vedi inoltre, M. GUAITOLI, Considerazioni
su alcune città ed insediamenti del
Lazio in età protostorica e arcaica, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts (Röm. Abt.) 84, 1977, pp. 5 ss.; G.
DURY-MOYAERS, Énée et Lavinium. A propos des
découvertes archéologiques récentes, Bruxelles 1981, special. pp. 95 ss.
[49] Su questa sintonia fra tradizione e nuove scoperte
archeologiche, «purché sagacemente interpretate»,
insiste in particolar modo M. PALLOTTINO, Lo
sviluppo socio-istituzionale di Roma arcaica alla luce dei nuovi documenti epigrafici, in
Studi romani 27, 1979, pp. 1 ss.; cfr. anche Servius
Tullius à la
lumière des nouvelles découvertes archéologique et
épigraphiques, in Comptes
rendues de l'Académie des
Inscriotions et Belles-Léttres, 1977,
pp. 216 ss. Più cauto si mostra invece
sull’argomento J. POUCET, Archéologie, tradition et histoire: les origines et les
premiers siècles de Rome, in Les études classiques 47, 1979, pp. 201 ss. e 347 ss., il
quale si occupa precipuamente di «correspondances entre l'archéologie et la
tradition» nelle pp. 352 ss.
[50] Sull'articolazione dei settori produttivi fondamentali
(agricoltura -artigianato), si leggano i due penetranti studi di C.
AMPOLO, Le condizioni
materiali della produzione. Agricoltura e paesaggio agrario, in
La formazione della città nel Lazio, cit., pp. 15 ss., dove si approfondiscono le condizioni della cerealicoltura, della pastorizia e della
coltivazione dell'ulivo
e della vite; Periodo
IV B (640/30 -
[p.
190]
l'esistenza
di quei mestieri
(collegia artificum)
la cui lista, attribuita
dalla tradizione all'età di Numa, ci
è pervenuta attraverso Plutarco (Numa, 175, 1-4); tuttavia, a
suo parere, ben difficilmente potrebbe farsi risalire a tale, periodo la loro organizzazione. Su questo punto, cfr. anche J. C. RICHARD, Sur les prétendues corporations
numaïques: à propos de Plutarque, Num. 17,3, in Klio 60, 1978, pp. 422 ss.
Soprattutto
agli arcaici modi di possedere la terra sono dedicati i recenti lavori di E. HERMON, Réflexions sur la propriété
à l'époque royale, in
Mélanges de l'Ecole
française de Rome 90, 1978, pp. 7 ss., e di L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Alcuni problemi di storia romana arcaica: ager publicus, gentes e
clienti, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano 83, 1980, pp.
29 ss.
Per
quanto riguarda infine gli aspetti più generali dell'economia romana arcaica, si vedano M. H. CRAWFORD, The Early Roman Economy, 753-280 B. C., in L'Italie
préromaine et la Rome républicaine (= Mélanges
offerts à Jacques
Heurgon)
I, Roma 1976, pp. 197 ss.; C. NICOLET,
Rome et la conquête du monde méditerranéen,
I. Les structures de l'Italie romaine, 2a ediz., Paris 1979, pp. 91 ss.;
ed ora la mirabile opera di sintesi di F. DE MARTINO, Storia
economica di Roma antica, I, Firenze 1979, pp. 1 ss.
[51] Importanti contributi allo studio delle strutture sociali
del Lazio arcaico
in: P. DE FRANCISCI, Primordia
civitatis,
Roma 1959, pp. 107 ss.; ID., Variazioni
su temi di preistoria romana, Roma
1974, pp. 35 ss.; A. BERNARDI,
Dai populi Albenses ai Prisci Latini nel
Lazio arcaico, in Athenaeum 42, 1964, pp. 233 ss.; C. AMPOLO, Su alcuni mutamenti sociali nel Lazio tra l'VIII e il V secolo a.C., in
Dialoghi d'Archeologia 4-5, 1970-1971, pp. 37 ss.; ID.,
Periodo IV B, cit.
supra in n. precedente, pp. 185 ss.; M. TORELLI, Tre studi di storia
etrusca, I. Terra e forme di dipendenza: Roma ed Etruria in età
arcaica, in
Dialoghi d’Archeologia 8, 1974-75, pp. 3 ss.; J. GAGÉ, Mettius
Fufetius: un nom ou un double titre?
Remarques sur les structures de l'ancienne société albaine, in Revue de droit
Français et étranger 53,
1975, pp. 201 ss.; G. COLONNA,
Un aspetto oscuro del Lazio antico: le
tombe del VI-V secolo a.C., in Lazio
arcaico e mondo greco (= La parola del passato 32, 1977), II. L'Esquilino e il Comizio, pp. 131 ss.; ID., Nome gentilizio e società, in Studi
etruschi 45, 1977, pp. 175 ss.
[52] L'utilizzazione del termine “sapienza”,
seppure non usuale per i sacerdoti,
trova la sua giustificazione nel significato più risalente del vocabolo latino sapientia, il
quale, similmente al verbo sapere, veniva riferito in origine quasi esclusivamente alla sfera dell'attività pratica ed
era comunque con essa più o
meno direttamente collegato; così ancora per Plauto «sapiens è colui che sa vivere e la sapientia è intesa
essenzialmente come ars vivendi»: G. GARBARINO, Evoluzione semantica dei termini
“sapiens” e “sapientia”
nei secoli III e II a.C., in Atti dell'Accademia
delle Scienze di Torino (II.
Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche), vol. 100, 1965-66, p. 254. Una
significativa conferma di questa pregnante accezione originaria, riferita tuttavia a diverso contesto culturale,
nelle pagine introduttive di G.
COLLI, La sapienza greca, I, Milano 1977, pp. 15 ss.
Non bisogna del resto dimenticare che a Roma la
"sapienza" sacerdo tale aveva anche
funzioni tecnico-pratiche, soprattutto per quanto riguarda
[p.
191]
le
antichissime attività produttive: cfr. E. PAIS,
I pontefici, l'agricoltura e I"'annona". “Leges regiae” e
“leges sumptuariae", in
Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, I, Roma 1915, pp. 423 ss. Piú in generale
sul rapporto (strettissimo nella religione romana arcaica) tra feste,
stagioni e ciclo produttivo, si veda il
recente lavoro di G. DUMÉZIL, Fêtes romaines d'été et d'automne, suivie de
dix questions romaines, Paris 1975.
[53] A pratiche cultuali sembra riferirsi, ad esempio,
l'iscrizione lapidaria recentemente
scoperta nel tempio di Satrico, nel corso degli scavi organizzati dall'Istituto Olandese sotto la direzione di C. M. Stibbe. Si
tratta di un blocco di pietra
contenente su due righe la seguente iscrizione inizialmente incompleta (per gli aspetti propriamente
archeologici del ritrovamento, si
veda ora C. M. STIBBE, The archaeological Evidence, in Lapis Satricanus. Archaeological, epigraphical,
linguistic and historical aspects of the new
inscription from Satricum, by C. M. STIBBE, C. COLONNA, C.
DE SIMONE and
H. S. VERSNEL with an Introduction by M. PALLOTTINO, Archeologische Studien van het Nederlands Instituut te Rome. Scripta Minora V, 1980):
... eisteteraipopliosioualesiosio
suodalesmamartei
L'iscrizione
suscita, com'è naturale, numerose questioni sia di ordine linguistico, sia di definizione cronologica. Per
quanto riguarda la datazione è
opinione prevalente (la confermerebbe la forma delle lettere) che essi
debba essere posta al più tardi nei primi decenni del V secolo: cfr. M.
Pallottino, Lo sviluppo socio-istituzionale di Roma arcaica
alla luce dei nuovi documenti epigrafici, cit.,
p. 12; G. COLONNA, L'aspetto
epigrafico, in Lapis Satricanus, cit., pp. 41 ss.; si mostra
invece dubbioso A. L. PROSDOCIMI, Studi sul latino arcaico, II. Sull'iscrizione
“Popliosio Valesiosio” di
Satricum,
in Studi etruschi 47, 1979,
pp. 183 ss. Certissimo pare inoltre
che la lingua sia assai arcaica, come
dimostrerebbero il genitivo in –osio, simile al latino primitivo del territorio falisco, e la forma suodales per sodales; cfr., in tal senso E. PERUZZI, On the Satricum Inscription, in La
parola del passato 33, 1978, pp.
346 ss.; G. BONFANTE, La nuova
iscrizione di Satricum e il genitivo
in -osio,
in Rendiconti dell'Accademia dei Lincei 33, 1978 (1979), pp. 269 ss.
Il testo conterrebbe una dedica al dio Marte (l'italico
Mamars) da parte di un gruppo di persone identificate come sodales di un certo Publio Valerio. Orbene proprio il nome di questo
personaggio, certamente eminente, ha
indotto alcuni studiosi ad avanzare l'affascinante ipotesi che il personaggio
in questione altri non sarebbe che il famoso
Valerio della tradizione romana:
così il PERUZZI, op. cit., p. 346, il quale scrive «The
date is assured by the mention of P.
Valerius, who was elected consul for the
first time in 509 and who died in 503», e con argomentazione più pregnanti il PALLOTTINO, op. loc. cit.; ma su tutto ciò vedi H. S.
VERSNEL, Historical implications,
in Lapis Satricanus, cit.,
pp. 128.
[54] G. DUMÉZIL, Idées
romaines, Paris 1969, p. 9.
[55] C.
DUMÉZIL, Idées romaines, cit., p. 10: «L’idéologie romaine ancienne qui s'est
dégagée de ces enquêtes est d'une bonne qualité
intellectuelle. Si ceux qui la pratiquaient, aux premiers siècles de la
ville et jusqu'assez avant dans les temps républicains, n'ont
pas éprouvé le besoin ou n'ont pas eu le talent de lui donner
une expression littéraire du niveau des hymnes védiques, elle n'en
était pas moins riche, nuancée, structurée, habile à la distinction et à
l'agencement, apte à fournir à l'organisme social une justification déjà
philosophique de lui-même et aussi du monde, dans la mesure limitée où le
monde l'intéressait. Il faut souligner que pendant longtemps, en dépit de profondes
influences étrusques et surtout grecques et après de grands changements
politiques et sociaux, cette idéologie a conserve, tout en évoluant, de larges
provinces, et d'abord la province centrale définie par le groupement de Jupiter,
de Mars et de Quirinus, où les principaux traits de "l'héritage
indo-européen" étaient non seulement intelligibles, mais actifs sur les
esprits et explicatifs des événements de l'actualité».
[56] Per la definizione concettuale di «civilisation matérielle
ou vie matérielle» è veramente illuminante
ciò che scrive Fernand BRAUDEL: «La vie
matérielle, ce sont des hommes et des choses, des choses et des hommes. Etudier
les choses – les nourritures, les logements, les vêtements, le luxe, les
outils, les instruments monétaires, les cadres du village ou de la ville –, en somme tout ce
dont l'homme se sert, n'est pas la seule façon de prendre la
mesure de son existence quotidienne»: Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVe-XVIIe siècle, I. Les Structures du
quotidien: le possible et
l'impossible, Paris 1979, p. 15 (questo primo tomo della monumentale opera dell'eminente storico
francese era peraltro già apparso nel 1967: Civilisation matérielle et capitalisme, trad. ital. di C. Vivanti, Capitalismo e civiltà
materiale, Torino 1977); per una valutazione del lavoro, vedi la recente nota di J. C. PERROT, Le présent et la durée dans l'oeuvre de Fernand Braudel, in Annales ESC 36, 1981, pp. 3 ss.
Per quanto riguarda l'influenza sulle scienze dell'antichità, archeologia soprattutto, vedi S. CLEUZIOU, J-P. DEMOULE, A. e A. SCHNAPP, Renouveau des méthodes et théorie de l'archéolgie, in Annales 28, 1973, pp. 35 ss.; A. CARANDINI, Archeologia e cultura materiale, Bari 1975, 2a ediz. 1979.
[57] E. PERUZZI,
Origini di Roma, II, cit., pp. 141-142: «*Libros
è il nome del papiro, cioè l'adattamento latino di B…bloj, e poi, scomparso il papiro,
ha denominato genericamente ogni materia scrittoria che formava il volumen
e quindi l'opera
stessa che vi si conteneva». Quasi inutile dire che
l'opinione della dottrina dominante rifiuta una datazione così risalente cfr.,
per tutti, C. CENCETTI,
Lineamenti di storia
della scrittura latina, Bologna 1954, p. 24; H. FOESTER, Abriss
der lateinischen Paläographie, Stuttgart 1963, p. 45.
[58] Sull'argomento vedi, da ultimo, F. DELLA CORTE, Il
debito di Plinio verso Varrone, in
Varron, grammaire
antique et stylistique latine, Paris 1978, pp. 149 ss.
[59] Sulle lamine di piombo e sugli altri
metalli usati come materia scrittoria, si
veda L. WENGER, Die
Quellen des römischen Rechts, cit., pp. 65 ss.
[60] Il lino come supporto per la scrittura (ancora presente
in età tardo-antica, vedi le
linteae mappae menzionate in una costituzione di Costantino contenuta
nel Codice Teodosiano: C. Th. 11, 27, 1; o i libri
lintei dell'imperatore Aureliano, in
quibus ipse cotidiana sua scribi praeceperat: Vopisco,
Aurel. 1, 6-7) dovette avere larga utilizzazione non solo a
Roma, ma in tutta l’area italica, prima della diffusione del
papiro. Anzi, stando alle fonti,
è da ritenere
che fosse questo la materia ordinaria per gli scritti ufficiali di
una certa estensione (Livio 4, 7, 12; 4, 20, 8; 4, 23, 2; 10, 38, 6): cfr. L.
WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, cit., pp. 100 s.; C. CENCETTI,
Lineamenti di storia
della scrittura romana, cit.,
p. 19; R. M. OGILVIE,
A Commentary on Livy.
Books 1-5, Oxford 1965, pp.
544 s.; E. PERUZZI,
Origini di Roma, II, cit., p. 141 n.
96.
[61] Per
le modalità d'uso, cfr. WENGER, Die
Quellen, cit., pp. 55 ss.; CENCETTI, Lineamenti, cit., pp. 21 s. Sull'antichità
dell'espressione tabulis cerave contenuta nella formula dei feziali riportata da Livio 1, 24, 7 (e quindi sulla sicura utilizzazione di queste tabulae
già in età arcaica)
si veda E. PERUZZI, Origini di Roma, cit., pp. 45 ss.
[62] Servio, Aen.
3, 444: Fata
canit foliisque notar et nomina mandat tribus modis futura praedicit: aut voce,
aut scripto, aut signis, id est quibusdam notis, ut in obelisco Romae videmus; vel, ut alii dicunt, notis
litterarum, ut per unam litteram significet aliquid. In foliis autem palmarum Sibyllam scribere solere
testatur Varro; cfr. Aen. 6, 74.
[63] Cfr.
Th. BIRT, Das antike Buchwesen, Berlin 1882, pp. 13-14: «Bei den Römern vertritt liber den griechischen Terminus. Auch liber ist kein Abstractum, es bedeutet wiederum ein Material, freilich
eigentlich nur den Baumbast, welcher nach der – vielleicht nur
hypothetischen – Darstellung der römischen Antiquare einer uncultivirten
prähistorischen Periode genügt hatte; er gab nach der Adoption des ägyptisch-griechischen
Buchwesens seinen Namen an die Papyrusrolle ab, deren Fasergewebe
mit Bast dock nichts mehr zu
thun hatte».
[68] Del resto, per la vicina area etrusca, l'osservazione di
alcuni monumenti figurati
databili nel V secolo fornirebbe «una prova dell'estensione allora
raggiunta dagli usi giuridico-amministrativi della scrittura»:
così G. COLONNA, Scriba cum rege sedens, in
L'Italie préromaine et la Rome
[p. 194]
républicaine = Mélanges offerts à Jacques Heurgon, I, cit., p. 190. Ma all'utilizzazione della scrittura non sembrano neppure estranee le attività religiose, come il Colonna dimostra in maniera convincente analizzando il gruppo funerario di Chianciano: «databile nell'ultimo trentennio del secolo, mostra la dea Vanth assisa al banchetto del defunto, nell'atto di esibire un liber parzialmente srotolato. Non si tratta di un fatto puramente esteriore, come potrebbe essere l'imitazione di un modello greco, poiché l'iconografia religiosa dei greci non conosce il tema della divinità con il rotolo. Qualunque sia stato il contenuto specifico attribuito in questa figurazione al liber di Vanth, esso non può non richiamare alla mente la vasta letteratura religiosa degli etruschi, di cui una parte rilevante sappiamo essere stata di argomento funerario (libri Acherontici). ... Il liber di Vanth accerta, se non erro, che simili testi avevano già assunto in quell'epoca una forma letteraria, circolavano come libri, dando credito alla tradizione sui libri Sibyllini, che erano custoditi in Roma nel tempio capitolino fin dai tempi della sua fondazione. E vorrei aggiungere, tornando al gruppo di Chianciano, che l'attribuzione del liber alla dea sul piano psicologico e culturale in genere significa, di nuovo, una esaltazione del valore e del potere della scrittura, considerata questa volta nelle sue implicazioni sacrali: segno della partecipazione della classe sacerdotale alla utilizzazione e alla propagazione delle litterae» (op. cit., pp. 191-192).
[69] L'esempio
più significativo è costituito dagli annales
dei pontefici, i quali secondo
Cicerone, De
orat. 2, 52, datavano ab initio rerum Romanarum, ed erano confezionati
utilizzando tabulae dealbatae, che venivano poi conservate negli archivi del collegio: cfr. Servio Dan., Aen. 1, 373:
ita autem annales conficiebantur: tabulam dealbatam quotannis pontifex
maximus habuit, in qua praescriptis
consulum nominibus et aliorum magistratum digna memoratu notare
consueverat domi militiaeque terra marique gesta per singulos dies.
[70] Sul significato di
carmen in età arcaica, vedi A. ROSTAGNI, Storia della
letteratura latina, I, cit., p. 41; A.
RONCONI, “Malum
Carmen” e “malus
poeta”, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, p. 959; R. SCHILLING,
Religion et magie à Rome, in Rites,
cultes, dieux de Rome, Paris 1979,
pp. 201 s.
[73] Per quanto riguarda le fonti, vedi
Livio 1, 20; Dionigi d'Alicarnasso 2, 64-73;
Plutarco, Num. 9-13.
Fra gli studiosi che si sono occupati delle riforme
religiose attribuite a Numa si vedano (oltre
il vecchio lavoro di J. B. CARTER, The
Religion of Numa, and other Essays on
the Religion of Ancient Rome, London
1906, pp. 1 ss.) F. RIBEZZO, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione
primitiva di Roma, in Rendiconti
dell'Accademia dei Lincei 5,
1950, pp. 553 ss.; E. M. HOOKES,
The Significance of Numa's Religious
Reforms,
in Numen 10, 1963, pp. 87 ss.; piú in generale sulla figura
di Numa, cfr. K. GLASER,
[p. 196]
Numa Pompilius, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft 15, 1, Stuttgart 1936, coll.
1242 ss.; J. GAGÉ, Apollon
romain,
Paris 1955, pp. 297 ss.; S. ACCAME, I re di Roma nella leggenda e nella storia, Napoli s. d. (ma 1965), pp. 206 ss.; R. M. OGILVIE, A Commentary on Livy, cit.,
pp. 90 ss.; J. POUCET, Recherches sur la légende sabine des origines
de Rome, Kinshasa 1967,
pp. 138 ss.
[74] Sul passo e sul particolare significato da attribuire
all'espressione exscripta
exsignataque, vedi E. PERUZZI, Origini di Roma, II, cit., pp. 162 ss.
[75] Conforme alla tradizione liviana, vedi
Plutarco, Num.
22, 2: πυρὶ
μὲν οὖν οὐκ
ἔδοσαν τὸν
νεκρὸν αὐτοῦ
κωλύσαντος, ὡς
λέγεται, δύο
δὲ ποιησάμενοι
λιθίνας σοροὺς
ὑπὸ τὸ
Ἰάνοκλον ἔθηκαν,
τὴν μὲν ἑτέραν
ἔχουσαν τὸ
σῶμα, τὴν
δὲ ἑτέραν
τὰς ἱερὰς
βίβλους ἃς
ἐγράψατο
μὲν αὐτός,
ὥσπερ οἱ
τῶν Ἑλλήνων
νομοθέται
τοὺς κύρβεις.
[76] Di alcune delle prescrizioni rituali pompiliane abbiamo
notizia da Plutarco,
Num. 14, 6-7; esse riguardano: l'obbligo di sacrificare un numero dispari di vittime agli dei celesti ed un numero
pari a quelli inferi (cfr. Servio,
Ecl. 5, 66; Servio Dan., Ecl. 8, 75; Macrobio, Sat. 1, 13, 5); il divieto di libare agli dei con vino (sul quale vedi
G. PICCALUGA, Numa e il vino, in
Studi e materiali di storia delle
religioni 33, 1962, pp. 99 ss.);
il divieto di sacrificare senza farina; la
necessità di pregare e adorare la divinità compiendo un giro su se stessi (cfr. Livio 5, 21, 16;
Svetonio, Vit. 2). Si
aggiunga a ciò l'attribuzione a Numa della composizione degli indigitamenta,
testimoniata da Arnobio, Adv. Nat. 2, 73, 17-18: Non doctorum
in litteris continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta
nescire?
[78] In questa versione della fine di Tullo Ostilio (che
secondo i più sarebbe invece perito per opera di Anco Marcio:
cfr. Dionigi d'Alicarnasso 3, 35, 1-4)
può forse scorgersi una duplice preoccupazione pontificale: da una parte si cercava di fugare i sospetti dallo
stesso Anco Marcio e dall'elemento sabino di Roma; dall'altra si tentava
di accreditare l'immagine dei pontefici quali unici depositari ed interpreti
autentici delle sacre norme del cerimoniale religioso. Per altre considerazioni
vedi E. PERUZZI, Origini di Roma,
II, cit., pp. 168 ss.
[79] Su tale tradizione, Plutarco, Num. 22, 2: ἐκδιδάξας
δὲ τοὺς ἱερεῖς ἔτι ζῶν τὰ
γεγραμμένα καὶ πάντων
ἕξιν
τε καὶ γνώμην ἐνεργασάμενος
αὐτοῖς, ἐκέλευσε
συνταφῆναι μετὰ τοῦ σώματος,
ὡς οὐ καλῶς ἐν ἀψύχοις
γράμμασι
φρουρουμένων τῶν ἀπορρήτων.
[81] Sul genitivo definitivo vedi, per tutti, M. LEUMANN - J. B.
HOFMANN - A. SZANTYR,
Lateinische Grammatik, Il. Lateinische Syntax und Stilistik (Handbuch der Altertumswissenschaft
II. 2, 2), München 1972, pp. 62 ss.
[85] Alle
evidenze archeologiche che potrebbero testimoniare l'esistenza di
rapporti tra il Lazio arcaico e popolazioni micenee è stata dedicata una sezione
della recente mostra su Enea e il Lazio, organizzata a Roma (Campidoglio, 22 settembre - 31 dicembre 1981) in occasione
del bimillenario
virgiliano: cfr. il
relativo catalogo:
Enea nel Lazio.
Archeologia e mito, Roma 1981,
pp. 85 ss. Agli effetti del nostro discorso risultano invero probanti anche
le caute conclusioni di R. P(ERONI),
Contatti tra il Lazio
e il mondo miceneo, in
Enea nel Lazio, cit., p. 88: «Con tutto questo però, pur
progredendo sensibilmente
verso un più approfondito inquadramento storico degli eventi
che ci interessano, non si è fatto un solo passo avanti verso una loro
specifica interpretazione: il sorgere di una aristocrazia gentilizia, i suoi rapporti
col mondo egeo, l'intervenire di un momento critico seguito da una
ristrutturazione delle comunità, la comparsa di nuove concezioni religiose e rituali introdotte dall'importazione di arredi di
culto di fabbricazione
orientale, questa sequenza, di fatti (o piuttosto di ipotesi di fatti)
può, certo, leggersi come la risultante dell'arrivo di genti
forestiere sulle coste
del Lazio verso il XII
secolo, ma non costituisce affatto la prova archeologica, potendosi altrettanto legittimamente scorgere in
essa il riflesso di semplici
contatti, di traffici più o meno diretti, di influenze culturali
più o meno mediate». Riguardo ai materiali micenei
d'importazione, vedi inoltre
F. BIANCOFIORE - O.
TOTI, Monte Rovello. Testimonianze dei Micenei nel Lazio, Roma
1973; L. VAGNETTI,
Mycenaean Imports in
Central Italy, appendice
a E. PERUZZI, Mycenaeans in Early Latium, Roma 1980, pp.
151 ss.
In diversa prospettiva si muove E. PERUZZI nel lavoro
appena citato, che costituisce peraltro un momento di sintesi e di
rielaborazione delle
numerose ricerche parziali dedicate in
precedenza agli stessi argomenti. Questo studioso, il quale ha analizzato in maniera
particolarmente penetrante gli aspetti
del problema relativi all'influenza linguistica e religiosa, ritiene infatti
che la presenza dei micenei nel Lazio sia attestata, almeno finora, «più
che da modeste tracce archeologiche, da sicuri grecismi di età micenea nella
lingua di Roma, che danno conferma a ciò che le fonti ricordano degli arcadi insediati nel Palatino»: Aspetti culturali del Lazio primitivo, cit., p. 7 (ivi p. 5 altra bibliografia dell'autore). Va
anche aggiunto, che la prospettiva e
le conclusioni dell'eminente linguista cominciano ad interessare, in sede di ricostruzione istituzionale
della più antica società romana, anche
[p. 197]
qualche giurista: così S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, I, Milano 1981, pp. 39 ss.
[86] Particolarmente
importante si presenta, in questo senso, la notizia riferita da
Dionigi d'Alicarnasso 2, 74, 2-4 e confermata da Plutarco, Numa 16, 3 ss., secondo la quale Numa Pompilio intraprese, fra
l'altro, un'opera
di vasto riordinamento
amministrativo al fine di stabilire i limiti della proprietà fondiaria; la sua azione avrebbe interessato
sia gli agri privati sia
l'ager publicus. Questa limitatio, che secondo
Plutarco, Numa 16, 6 sarebbe stata accompagnata
ad una ripartizione del territorio romano in distretti chiamati
pagi ed
amministrati da sovrintendenti ed ispettori (cfr. Dion. d'Alicar. 2,
76, 1-2), si presenta significativamente connessa con l'istituzione del culto
del Terminus (sul quale vedi soprattutto G. PICCALUGA, Terminus. I segni di confine
nella religione romana, Roma 1974; cfr. G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit.,
pp. 210 ss. – trad. ital., cit., pp. 185 ss. –) e saldamente
tutelata nell'arcaico sistema giuridico-religioso; v'era, infatti, una lex assai risalente, non a caso attribuita anch'essa a Numa
dalla tradizione,
che comminava la
sacertà a chiunque violasse i segni dei confini: Paolo, Fest. ep., v.
Termino, p. 505 L.:
Termino sacra faciebant, quod in eius tutela fines agrorum esse putabant.
Denique Numa Pompilius statuir, eum, qui terminum exarasset, et ipsum et boves
sacros esse. L'insieme
dei provvedimenti legati alla citata
limitatio sono
parsi a taluni studiosi un anacronismo mirante a retrodatare all'età regia quei problemi agrari tipici
della società romana a partire
dalla metà del
II secolo a.C.: così, ad esempio, F. DELLA CORTE, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, pp. 16 ss.; altri invece parlano addirittura di
“catasto pompiliano”, la cui compilazione sarebbe pienamente
credibile, soprattutto per analogia con il catasto della Pilo
micenea: cfr. E. PERUZZI,
Origini
di Roma, II, cit., pp. 152 s.
Sull'istituzione ed organizzazione dei collegia artificum, attribuita sempre dalla tradizione alla legislazione numana (Plinio, Nat. hist. 34, 1; Plutarco, Numa 17, 3), v'è invece nella dottrina un orientamento negativo pressoché uniforme: vedi, per tutti, L. CLERICI, Economia e finanza dei Romani, Bologna 1943, pp. 101 ss.; F. M. DE ROBERTIS, Storia delle corporazioni e dei regimi associativi nel mondo romano, I, Bari s. d. (ma 1972), pp. 35 ss.; F. DE MARTINO, Storia economica di Roma antica, I, cit., p. 7; cfr. inoltre J.-C. RICHARD, Sur les prétendues corporations numaïques: à propos de Plutarque, Num. 17, 3, cit. supra in n. 49.
[88] L'illustre studioso francese riconferma la sua nota
interpretazione
dell'arcaico testo
epigrafico nel recente lavoro dedicato all'analisi comparativa del matrimonio nell'area culturale indoeuropea: Mariages
indo-européens, suivi de quinze questions
romaines, Paris
1979, pp. 259 ss.
[89] Quanto alla data dell'iscrizione, gli studiosi paiono in
generale concordi nell'attribuirla al VII secolo a.C. o all'inizio
del VI: cfr. G. COLONNA, Duenos, in
Studi etruschi 47, 1979, pp. 163 ss. (ivi p. 164 n. 7 ampia rassegna della
bibliografia essenziale sulle diverse ipotesi interpretative).
[p. 198]
Fra le piú recenti revisioni critiche del testo mette conto ricordare: A. E. GORDON, Notes on the Duenos Vase Inscription in Berlin, in California Studies in Classica( Antiquities 8, 1975, pp. 53 ss.; A. L. PROSDOCIMI, Studi sul latino arcaico, Note epigrafiche sull'iscrizione di Dueno, in Studi etruschi 47, 1979, pp. 173 ss.
[90] I frammenti dell’iscrizione del
Lapis Niger conterrebbero, secondo il DUMÉZIL,
una prescrizione della disciplina augurale (conosciuta anche da Cicerone, De
div. 2, 77: Huic simile est, quod nos augures praecipimus, ne iuge(s) auspicium obveniat, ut iumenta iubeant diiungere) in base alla quale gli auguri, mentre si
recavano all’auguraculum posto
sul Campidoglio, davano disposizione ai calatores di precederli
ordinando che si staccassero i buoi aggiogati, affinché non si verificasse appunto un iuge(s) auspicium (sul quale vedi la definizione di Paolo, Fest. ep., p.
[93] Le principali fonti sono costituite da Dionigi
d'Alicarnasso 3, 36, 4; e da Pomponio, D.
1, 2, 2, 2; 1, 2, 2, 36.
[94] Così Pomponio, D.
1, 2, 2, 2: Et ita leges quasdam et ipse curiatas ad populum tulit: tulerunt et
sequentes reges. Quae omnes conscriptae exstant in libro Sexti Papirii, qui
fuit illis temporibus, quibus Superbus Demarati Corinthii filius, ex
principalibus viris. Is liber, ut diximus, appellatur ius civile Papirianum,
non quia Papirius de suo quicquam ibi adiecit, sed quod leges sine ordine latas
in unum composuit; cfr. Macrobio, Sat. 3, 11, 5; Paolo, D. 50, 16,
144.
Sul ius Papirianum la mole della bibliografia è veramente notevole, conviene pertanto limitare le citazioni ai lavori
di questi ultimi anni (per la dottrina piú risalente, vedi M.
SCHANZ - C. HOSIUS, Geschichte der römischen
Literatur,
I, cit., pp. 35 s.), quasi tutti
invero assai critici nei confronti
della tradizione tramandataci dallo storico d'Alicarnasso: S. DI PAOLA, Dalla
"lex Papiria" al "ius Papirianum", in Studi
Solazzi,
Napoli 1948, pp. 631 ss.; C. W. WESTRUP, Introduction to Early Roman Law, IV, 1, cit., pp. 57 ss.; L. WENGER, Die
Quellen des römischen Rechts, cit., pp. 356 ss.; E. GABBA, Studi su Dionigi
d'Alicarnasso, I. La costituzione di Romolo, in
Athenaeum 38, n. s., 1960, pp. 201 ss.; ID., Considerazioni sulla tradizione letteraria
sulle origini della Repubblica, in
Les origines de la République romaine (Entretiens sur
l'antiquité class., XIII), Vandoeuvres-Genève 1966, p. 161; M. BRETONE, Ius Papirianum, in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino 1963, pp. 386 ss. Fra i pochissimi
studiosi favorevoli alla tradizione, mette
[p. 199]
conto
ricordare R. PARIBENI, Storia di Roma. Le origini e
il periodo regio, Bologna 1954, pp. 13 s.; E. M. HOOKES, The Significante of
Numa's Religious Reforms, cit.
supra in n. 73; ma soprattutto S. TONDO, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, pp. 35 ss., il quale,
superate dopo attento riesame dell'intera tradizione
sul ius Papirianum sia le apparenti contraddizioni delle fonti, sia
le contrarie obiezioni della dottrina, ritiene «d’avere a
sufficienza dimostrato che le fonti convergono
tutte a rinsaldare la tradizione del ius Papirianum, quale esposta da Dion. Hal.
3, 36, 4» (p. 55); cfr. anche Profilo
di storia costituzionale romana, cit., pp. 272 ss.
[95] Le stesse fonti sono discordi sul prenome di questo
Papirio (Gaius
per Dionigi d'Alicarnasso 3, 36,
4; Sextus in un passo di Pomponio, D. 1, 2, 2, 2; Publius in altro passo del
medesimo giurista, D. 1, 2, 2, 36): sul problema vedi A. STEINWENTER, Papirius, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft
18, Stuttgart 1949, coll. 1006.
Una diversa soluzione è proposta da S. TONDO, Leges regiae e paricidas, cit., pp. 52 ss., il quale tenta di conciliare Dionigi e Pomponio ipotizzando che si
trattasse di due casi distinti,
cioè di due Papirii (Sesto e Gaio) autori entrambi, in tempi
diversi, di una raccolta di leges regiae.
[96] Sul significato di
ritus vedi Festo, p. 364 L.: Ritus
est nos comprobatus in administrandis
sacrificiis (in questo senso si
orienta, anche la dottrina piú
recente: cfr. M. PIANTELLI, Una
ricerca su "ritus" in epoca arcaica, in
Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino 1974, pp. 234 ss., in part. 289 ss.,
per il quale il termine ritus «appare specialmente connesso con l'esecuzione dei sacra
e delle cerimonie cultuali in
genere»). Si precisa così assai meglio quale dovesse essere
la materia della raccolta, il cui titolo è indicato espressamente come De ritu sacrorum da
Macrobio, Sat. 3, 11, 5, e da Servio Dan., Aen. 12,
836 (Quod
ait “morem ritusque sacrorum adiciam” ipso titulo legis Papiriae
usus est, quam sciebat de ritu sacrorum publicatam): materia che si accorda perfettamente con il contenuto attribuito alle leges Numae da Dionigi d'Alicarnasso 3, 36,
4. Sulla identificazione della lex
Papiria citata da Servio danielino con il ius Papirianum si era già espresso a suo tempo P. KRÜGER, Geschichte der
Quellen und Literatur des römischen Rechts, 2a ediz., Leipzig
1912, p. 4, n. 8; ma ora vedi soprattutto le argomentazioni del TONDO, Leges
regiae e paricidas, cit.,
pp. 47 s.
[97] Sulle implicazioni storiche e giuridiche del passaggio
dal regnum
alla res publica, vedi per tutti: A. MOMIGLIANO, Le origini della Repubblica
romana,
in Rivista storica italiana 81,
1969, pp. 5 ss.; F. DE MARTINO,
Storia della costituzione romana, I, cit., pp. 215 ss. (ivi ampio esame della
tradizione e delle diverse ipotesi moderne); ID., Intorno all'origine della
repubblica romana e delle magistrature, in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt, I. 1, Berlin-New York 1972, pp. 217 ss. Per una
visione d'insieme risultano assai utili il lavoro di G. POMA, Gli
studi recenti sull'origine della repubblica
romana. Tendenze e prospettive della ricerca 1963-1973, Bologna 1974, e quello più recente di J. C. RICHARD, Les origines de la plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme
patricio-plébéien (Bibliothèque des Ecoles Françaises d'Athènes et de Rome, CCXXXII),
Rome 1978, pp. 433 ss.
[98] Livio, 6, 1,
9-10: Hi ex interregno cum extemplo magistratum inissent, nulla de re prius quam de religionibus senatum
consuluere. In primis foedera ac leges
– erant autem eae duodecim tabulae et quaedam regiae leges –
conquiri, quae comparerent, iusserunt; alia ex eis edita etiam in
volgus: quae autem ad sacra pertinebant a
pontificibus maxime ut religione obstrinctos haberent multitudinis animos
suppressa.
[100] Per la conferma della permanenza negli archivi di
documenti redatti in forma
linguistica assai antica, cfr. Cicerone,
De re pubi. 1, 63; Varrone,
De ling. Lat. 5, 21; 7, 51; Festo, v. Paludati, p.
[101] Un'opinione simile era già stata espressa da F. A.
BRAUSE, Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem
scriptorum reliquiae (pars I), Lipsiae 1875, p. 16; e P. REGELL, De
augurum publicorum libris, cit.,
p. 24.
[102] Livio, 10, 6, 6; 10, 9, 2; cfr. G. ROTONDI,
Leges publicae populi Romani, rist. Hildesheim 1964, p. 236.
[103] II riferimento a P. Mucio Scevola si
ricava da Cicerone, De orat. 2, 52: Erat
enim historia nihil aliud nisi annalium confectio, cuius rei memoriaeque publicae retinendae causa ab initio rerum
Romanarum usque ad P. Mucium pontificem maximum
res omnis singulorum annorum mandabat litteris pontifex maximus efferebatque in album et proponebat
tabulam domi, potestas ut esser populo cognoscendi, eique etiam
nunc annales maximi nominantur.
[104] Per tale interpretazione del passo, vedi A. BOUCHÉ-LECLERCQ
Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., pp. 21 s.
[105] P. REGELL, De augurum publicorum libris, cit., p. 33, sosteneva che nel passo di Quintiliano il termine commentarii fosse utilizzato per designare gli
annali dei pontefici; una delle tante prove, quindi, dell'impossibilità
di distinguere tra libri e commentarii sacerdotali sulla base
delle testimonianze antiche. Così anche G. RODHE, Die Kultsazungen
der römischen Pontifices, cit., p. 15.