O. SACCHI*

AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AGER PUBLICUS NELLA TERMINOLOGIA DEI GIURISTI DELL’EPOCA CATONIANA**

1. Il mito del pius agricola è una motivazione di tipo ideologico che si inquadra storicamente nell’età appena successiva alla seconda guerra punica.

Il manifesto programmatico di tale ideologia è in due passi molto conosciuti, entrambi attribuiti a Catone[1]. In epoca catoniana si visualizzava così il mito del buon contadino, legato all’ideologia della città e ostile ad un’economia primitiva identificata nella pastorizia e ad una dimensione silvestre e palustre. Il contadino così idealizzato era il colono italico, rappresentante di un sistema in cui la villa diventò il microcosmo di una campagna controllata dai poli di riferimento dell’ordine romano: il municipio e la colonia. Siamo evidentemente in pieno clima graccano considerando le allusioni al contadino/soldato (viri et milites) e alla deduzione coloniaria (bonum agricolam bonumque colonum).

Guardando un passo altrettanto noto di Cicerone, ci rendiamo conto però che le cose non possono essere ridotte in termini così semplicistici[2].

In de off. 2. 25. 89 il retore riferendosi a Catone infatti afferma: a quo cum quaereretur, quid maxime in re familiari expediret, respondit: ‘Bene pascere’; quid secundum: ‘Satis bene páscere’; quid tertium: ‘Male páscere’; quid quartum: ‘arare’.

A questo punto mi chiedo. Come avrebbe potuto l’autore del de agri cultura esprimersi in questo modo e, nello stesso tempo, propugnare un primato della agricoltura sulla pastorizia a Roma in età arcaica?

Se la citazione di Cicerone è attendibile, Catone allora forse sta descrivendo fuor di retorica la realtà del suo tempo, una realtà in cui, come si cercherà di mettere in evidenza, gli speculatori impegnavano massicciamente i loro capitali nell’allevamento del bestiame. A mio avviso in questa apparente contraddizione c’è forse tutto il senso del contrasto tra l’agricoltura e la pastorizia in epoca post annibalica.

 

2. In estrema sintesi, l’ipotesi da cui vorrei partire per approfondire il tema di questa relazione è il seguente.

Fino al tramonto dell’arcaismo (IV secolo a. C.), e forse ancora oltre (l’età annibalica), il modo migliore per inquadrare la dialettica tra pastorizia ed agricoltura è quello di parlare di un’economia ‘mista’ o integrata, nel senso ancora descritto da Varrone quando scrive: quod a pastoribus qui erant orti in eodem agro et serebant et pascebant[3]; ma fuori da ogni suggestione però che porterebbe ad attribuire al legislatore romano delle improbabili riforme normative tese a regolamentare allevamenti su grande scala prima del III secolo a. C.

Anzitutto dobbiamo chiederci dove i Romani abbiano tratto ispirazione per la villa catoniana, cioè il modello strutturalmente tipico dell’economia agraria in cui il buon colono si esprime da protagonista. E’ opinione condivisa che questa si sia formata in conseguenza di una sequenza storica che prese avvio negli anni dal 262 al 256 a. C., quando i Romani conobbero le piantagioni della Sicilia e dell’Africa settentrionale con le loro costruzioni di tipo urbano in campagna, ossia gli aedificii. Si veda, ad es., l’uso del vocabolo in Cato de agri c. 3. 1 e in numerose attestazioni della legge epigrafica dove si legge: ager locum aedificium (linee 7, 8, 9, 10, 12)[4].

In seguito sarebbe cominciata l’importazione dei vitigni nel centro della penisola e poi l’esportazione del vino italico in Spagna e in Gallia come dimostra la diffusione dal 225 al 175 a. C. dell’anfora di tipo Dressel I (che è l’anfora tipica del vino italico)[5].

Con l’età catoniana il mito del pius agricola potrebbe invece aver aperto una nuova fase per la storia del processo dialettico tra agricoltura e pastorizia.

L’Elogio di Polla esprime molto bene il senso di questo contrasto quando, forse nel 132 a. C., il console Popilio Lenate farà incidere con orgoglio la frase famosa sul primato dell’agricoltura rispetto alla pastorizia (CIL. 1. 551=12. 638): primus fecei de agro poplico aratoribus cederent paastores.

In questa prospettiva, il contrasto tra agricoltori e pastori in età post annibalica, diventa così un problema che riguarda molto da vicino anche l’ager publicus. E questo fatto, come vedremo, non sarà privo di conseguenze per l’evoluzione del pensiero giuridico.

 

3. Una teoria recentemente formulata da A. Ziolkowski (un allievo di J. Kolendo), sul ruolo svolto dalla pastorizia nella società arcaica (o proto repubblicana) e sul ruolo svolto dai pecuarii nelle leges Liciniae Sextiae, forse aiuta a comprendere meglio il quadro storico di riferimento[6].

Secondo tali studiosi la clausola sulla limitazione dei capi di bestiame (la seconda) della parte delle leggi licinie-sestie dedicate all’ager publicus (che è riferita solo da Appiano) rivelerebbe la vera ragione d’essere della legge del 367 a. C.: l’ager publicus sarebbe stato utilizzato infatti quasi esclusivamente per il pascolo.

In altre parole, già dalla metà del IV secolo a. C., la pastorizia, basata per sua natura sulla mobilità delle greggi su spazi molto ampi, sarebbe stato il solo modo praticabile e più conveniente di sfruttamento delle terre pubbliche per chi disponesse di un sufficiente capitale iniziale; cioè di un gregge piuttosto grande di bovini e pecore. A partire quindi dalle leges Liciniae Sextiae e così, ancora, per tutto il terzo secolo a. C. ed oltre, fino all’età graccana, sarebbe stato quindi prevalente nel legislatore romano la preoccupazione relativa al come i pecuarii gestissero il godimento dell’ager publicus.

Evidentemente non è possibile discutere in dettaglio questa proposta così suggestiva, tuttavia il costante riferimento delle fonti ai possessori di terra con il termine ‘pecuarii’ ed inoltre la frequenza sistematica dei processi fatti a questi dal 296, fino alla legge Sempronia di Tiberio Gracco del 132 a. C., sono circostanze che fanno riflettere.

Si aggiunga a questo che Plinio in un passo molto noto dice che per lungo tempo l’unica forma di imposta sull’ager publicus sarebbe stata quella che avrebbe colpito i pascua publica: Plin. n. h. 18. 3. 11: Etiam nunc in tabulis censoriis pascua dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat.

Sembra del resto accertato che il bestiame servisse come mezzo di scambio e unità di misura per le multe anche in epoca storica, anche vigendo un’economia di tipo monetario[7].

 

4. Vediamo allora più da vicino chi sono questi pecuarii.

Le fonti dell’età repubblicana qualificano costantemente come tali i possessori di terra indivisa e riferiscono con puntualità degli abusi di coloro che esercitavano la pastorizia in spregio alle leggi. Varrone, ad esempio, ricorda ancora il comportamento di coloro che, violando le leggi, trasformavano i campi da coltivare in ager compascuus (contra leges ex segetibus fecit prata) alludendo forse agli assegnatari dei lotti agri colendi causa dell’epoca graccana[8].

Livio, inoltre, riferisce delle multe inflitte ai pecuarii nel 296 e nel 294 a. C.[9] Come si vede, i proventi sarebbero stati così ingenti da permettere la celebrazione dei giuochi, il deposito di una coppa d’oro molto preziosa ed anche, unitamente agli introiti delle decime provenienti dalla statizzazione del culto di Ercole attuata da Appio Claudio nel 312 a. C., la pavimentazione della via Appia fino a Bovillae.

Delle multe inflitte ai pecuarii riferisce però anche Ovidio. Ed anche in questo caso è rimasta la memoria storica di fatti clamorosi[10]. I ludi Florales del 28 aprile, sarebbero stati infatti celebrati dagli edíli plebei per la prima volta nel 241 a. C. proprio grazie alle multe inflitte ai numerosi sfruttatori di terra pubblica. E questo, insieme alla fondazione del tempio di Flora e del Clivus Publícius, ossia una ‘bretella’ che collegava il Foro Boario con l’Aventino.

 

5. La testimonianza di Ovidio va però esaminata più attentamente.

Anzitutto salta subito agli occhi un dato interessante. In appena 17 versi, il poeta, pur usando numerose espressioni inequivocabilmente tecniche come pecus, locuples, depascere, saltus, poena, vindice, in privato pascere, multam, rende tuttavia la parola terra con il vocabolo humus, quindi in modo non tecnico. Fra l’altro, questo termine è anche l’unico tra tutti questi appena elencati che non rileva affatto nel testo della legge epigrafica. Come se non bastasse, anche la formula ager publicus è resa con una perifrasi molto contorta iam de vetito quisque parabat opes. Anche in questo caso un accostamento di tipo tecnico, come si vede, non sembra possibile.

Quanto al contenuto, il passo descrive la situazione di chi si arricchiva illecitamente facendo pascolare il suo bestiame abusivamente su terre non sue e, questo malcostume sembra che sia stato praticato legalmente per molto tempo senza che nessuno fosse intervenuto (idque diu licuit, poenaque nulla fuit).

Ma c’è ancora un ultimo elemento a mio avviso degno di nota. Ovidio, definisce i proprietari terrieri col termine locuples e qui non può trattarsi certamente di una licenza poetica, dato che Plinio si esprime nello stesso modo. E’ sempre il passo di Plinio già citato sopra: n. h. 18. 3. 11: Hinc et locupletes dicebant loci, hoc est agri, plenos.

 

6. Quali conseguenze possono derivare da tutto ciò? Almeno tre.

Primo. La clausola di inalienabilità dei fondi assegnati della legge Sempronia del 132 a. C.[11], piuttosto che essere motivata, come afferma esplicitamente Appiano, dalla volontà di contrastare il latifondo (pediva makra;)[12], potrebbe essere stata dettata dalla volontà di contrastare le speculazioni dei pecuarii come sembra confermare anche Varrone: de re rustica 3. 1. 8: Haec nota et nobilis, quod et pecuaria appellatur, et multum homines locuplétes ob eam rem aut conductos aut emptos habent saltus.

Secondo. Ovidio sembrerebbe dire che fino al 238 a. C. non ci fu alcuna legge che avesse colpito gli abusi dei pecuarii e che le sanzioni, fino a questo momento, sarebbero state comminate caso per caso a titolo di pena nelle sentenze di condanna. Insomma, gli edíli per punire gli abusi dei pecuarii fino a questo momento sembra che abbiano dovuto celebrare sempre un processo. L’ipotesi è confortata etimologicamente dall’epitome paolina di Festo per cui in lingua osca multam significava ‘pena’: Paul.-Fest. sv. Multam (L. 127, 14): Multam Osce dici putant poenam. Il dato colpisce anche perché nella legge epigrafica la sanzione per le eventuali violazioni dei pecuarii appare invece già fissata nel suo ammontare.

Ma c’è di più. Appiano in 1. 8. 34 parla di una sanzione per le violazioni ad una legge de modo agrorum[13]. Se Ovidio riferisce ancora per il 238 a. C. di una situazione priva di adeguati referenti normativi (idque diu licuit, poenaque nulla fuit) dovremmo dedurne, se la notizia fornita dal poeta è attendibile, che la legge cui fa riferimento Appiano in 1. 8. 33 sia successiva a tale data[14].

Un altro argomento quindi per la tesi di coloro che pensano che Appiano in questo caso non stia parlando della legge del 367 a. C. Su questo tema però tornerò in altra sede.

 

7. Prima di concludere vorrei invece fermare l’attenzione sul terzo punto.

Si potrebbe infatti leggere in una nuova prospettiva il famosissimo (per noi storici del diritto) e altrettanto travagliato sintagma decemvirale familia pecuniaque[15].

Forse adesso abbiamo qualche elemento in più per comprendere meglio il valore etimologico di tale espressione.

Potremmo infatti a questo punto chiederci: perché le fonti tardo repubblicane per definire i proprietari terrieri usano la parola locupletes? (il termine è tecnico perché anche il legislatore del 111 a. C. ne fa ampio uso). Perché per definire l’oggetto dell’antica hereditas nella cd. versione retorica viene usato il sintagma familia pecuniaque? Ancora, perchè Ovidio, che è una fonte del principato, definisce l’oggetto della ricchezza nel 238 a. C., usando la frase hinc etiam locuples, hinc ipsa pecunia dicta est; e quindi definisce la ricchezza degli uomini più facoltosi di Roma (in un contesto non certo disattento alla terminologia giuridica) giocando sul contrasto tra i termini locuples e pecunia?

Se pensiamo all’emersione della villa catoniana nel corso della sequenza storica cui si faceva riferimento prima (cioè tra il 256 e la metà del II secolo a. C.), possiamo ipotizzare che il modello del cittadino/coltivatore/soldato, quale padrone/capo degli schiavi che lavoravano in casa e sulla terra come ‘appendici’ o ‘prolungamenti della famiglia’, può essere stato il modello cui avrebbe potuto ispirarsi un giurista contemporaneo per descrivere l’oggetto dell’antica hereditas in una versione aggiornata.

In altre parole, accettando la derivazione etimologica mutuata dalla lingua osca, ossia familia<famulus<famel=schiavo, potremmo attribuire, in questo quadro storico, al sostantivo familia il significato di ‘insieme di coloro che rendevano produttivo un fondo’.

Sul significato di pecunia in età catoniana ci siamo già soffermati.

Ritorniamo allora al familia pecuniaque del versetto decemvirale.

La dottrina contemporanea al riguardo si interroga giustamente sulla migliore rispondenza al contenuto/sostanza del precetto/testo decemvirale del V secolo della versione ciceroniana piuttosto che quella giuridica riportata da Gaio e Pomponio basata sul concetto di res[16].

Condividendo l’idea di coloro che ritengono la versione retorica di tale precetto normativo comunque la più antica e vicina delle conosciute al contenuto/sostanza del precetto decemvirale del V secolo a. C. forse si potrebbe anche tentare di individuare il momento in cui può essere comparso nel linguaggio dei giuristi repubblicani il sintagma in questione, che, ripeto, è forse un adeguamento, in chiave aggiornata, della sostanza originaria del precetto antico[17].

L’epoca della cristallizzazione nel lessico giuridico di familia pecuniaque potrebbe infatti coincidere con l’età catoniana che è anche l’età di Sesto Elio e dei suoi Tripertita. La pubblicazione di questo testo sembra potersi attestare tra il 184 e il 167 a. C. (Sesto Elio sembra aver vissuto non oltre il 155 a. C.)[18].

All’epoca di tale giurista la ricchezza di un pater familias non poteva essere che la familia e la pecunia; ossia, da un lato, coloro che ‘rendevano produttivo il fondo’ del pater familias in possesso più o meno precario e, dall’altro, il bestiame/denaro, cioè l’unità di misura del valore, e nello stesso tempo bene fungibile, costituito dal gregge.

Evidentemente, all’epoca di Sesto Elio, la terra non era ancora disponibile per i privati e quindi non poteva far parte ex lege del patrimonio di un pater familias.

Solo in epoca successiva (almeno età graccana/post-graccana) il significato di ricchezza potrebbe essersi allargato tanto da far dire ad Ovidio, Plinio e Varrone che i ricchi erano i pecuarii, ossia i possessori di denaro/bestiame (da pecunia) e i possessori di terra, ossia i locupletes, da locus=terra, che è un’espressione che usa diffusamente anche il legislatore del 111 a. C. (20 citazioni su 105 paragrafi di legge)[19]. Forse, alla nozione di ager che è tipica del diritto augurale, il diritto laico potrebbe aver gradatamente sovrapposto quella di locus/locupletes[20].

Ed allora faccio questo ragionamento. Come si può pensare che P. Mucio, uno degli ispiratori delle riforme graccane, ma anche il caposcuola di uno dei più eminenti circoli giuridici della sua epoca, abbia potuto contemplare un modello di ricchezza agraria definendolo con il termine familia quando, nel linguaggio tecnico giuridico a lui contemporaneo, tale vocabolo non appare; mentre, all’opposto, espressioni come ager, locus ed aedes sono termini ampiamente diffusi nel linguaggio tecnico ufficiale?

Cicerone (che studiava a memoria i versetti decemvirali) in de inv. 2. 50. 148 usa l’espressione familia pecuniaque, ma forse lo fa in modo già anacronistico per la sua epoca. Probabilmente perché questo era il linguaggio di Sesto Elio, autore dell’opera giuridica più importante sulle XII tavole della sua epoca.

Ma c’è di più. Forse il germe della nozione di res per indicare il ‘patrimonio familiare’ (ossia l’oggetto dell’antica hereditas in senso esclusivamente patrimonialistico) nella versione ‘aggiornata’ del relativo versetto decemvirale (uti legassit suae rei) in sostituzione di familia pecuniaque, è già presente nell’espressione in re familiari usata da Cic. in de off. 2. 25. 89, opera che fu scritta, come è noto, nel 44 a. C.[21] Non c’è bisogno di aggiungere che Cicerone, dopo la morte di Q. Mucio áugure (88 a. C. circa), studiò il diritto civile prendendo lezioni anche da Q. Mucio il pontefice[22].

Per tutte queste ragioni, per la trasformazione nel lessico giuridico del versetto di cui alla tab. 5. 3 di familia pecuniaque in res, propongo di considerare come dies post quem l’età della probabile pubblicazione dei Tripertita (184/167 a. C.) o della morte del suo autore, cioè di Sesto Elio (il 155 circa a. C.). Mentre, come dies ante quem l’età di Q. Mucio il pontefice, se è vero che Pomponio, nella prima parte di D. 50. 16. 120 (come afferma M. Bretone), cita letteralmente questo giurista[23].

 

8. Mi avvio a concludere.

Il presunto secolare contrasto (parlerei piuttosto di una dialettica) tra agricoltori e pastori, tema molto presente nel dibattito delle fonti antiquarie e storiche dell’epoca medio/tardo repubblicana, può essere quindi considerato come esclusivo dell’età graccana quando, a partire dal II secolo a. C., il sorgere dell’allevamento su larga scala (in chiave di sfruttamento speculativo, quindi deteriore) può aver contribuito ad idealizzare forse l’immagine del pius agricola rispetto al rozzo pastore (come nell’Elogio di Polla). Forse qui siamo anche all’inizio del fenomeno del pastoralismo.

Le notizie relative alla costituzione delle prime piantagioni in Campania e all’esportazione del primo vino in Spagna e Gallia tra il 225 e il 175 a. C., insieme alla sequenza storica della lotta dello Stato romano contro i pecuarii, forse dimostrano invece che proprio in questi anni potrebbe aver avuto inizio una fase di separazione netta tra i due sistemi.

Uno degli aspetti più significativi di quest’epoca può essere stato infatti il carattere specializzato della nuova pastorizia che, a differenza di quella antica, poteva essere esercitata solo in modo nettamente differenziato dall’agricoltura. Perché, come si è visto, per essere redditizia questa doveva presupporre una forte disponibilità di capitali, ossia di pecunia.

A. Carandini si chiede (senza trovare risposta) come mai, tra il 146 (quando cadde Cartagine e fu dato ordine dal Senato di tradurre i trattati agronomici di Magone) e il 135 a. C., circa, quando cominciò la produzione delle anfore di tipo Dressel I, le case coloniche abbiano cominciato a trasformarsi in grosse fattorie. Cioè assumendo la forma della villa perfecta di Varrone che contemplava anche delle stanze decorate in modo ‘urbano’ per accogliere il dominus[24].

Se è vero che una delle motivazioni delle leges Semproniae fu quella di costituire un ceto medio di agricoltori/soldati (colonizzazione pianificata), in alternativa al fenomeno dilagante dell’impresa speculativa degli allevatori (capitalismo senza regole), allora, per la determinazione del fenomeno della trasformazione della villa catoniana nella villa perfecta di Varrone (preludio al vero dilagare del latifondo), può aver avuto un ruolo non irrilevante proprio la riforma dei Gracchi.

Il successo di tale progetto legislativo, nonostante la fine tragica dei due protagonisti, è infatti ampiamente dimostrato dalla presenza di numerose testimonianze epigrafiche (cippi graccani) lungo tutta la penisola italiana.

О. САККИ

ЗЕМЛЕДЕЛИЕ, СКОТОВОДСТВО И AGER PUBLICUS В ТЕРМИНОЛОГИИ ЮРИСТОВ ЭПОХИ КАТОНА

(РЕЗЮМЕ)

Автор при исследовании данной темы отталкивается от следующего обстоятельства. Чтобы наилучшим образом очертить диалектику между скотоводством и земледелием вплоть до конца архаической эпохи (IV в. до н. э.), а вероятно и далее (эпоха ганнибаловых войн), следует говорить о «смешанной» или интегрированной экономике, в том виде, как ее описывал еще Варрон (R. R. III. 1. 7): quod a pastoribus qui erant orti in eodem agro et serebant et pascebant. Однако следует исключить всякое внушение, которое может привести к приписыванию римским законодателям каких-либо маловероятных реформ, направленных на регламентацию широкомасштабного скотоводства, ранее III в. до н. э. Поэтому с наступлением эпохи Катона миф о pius agricola мог, вероятно, начать новый этап в истории диалектического процесса между земледелием и скотоводством. Очень хорошо отражает суть этого противопоставления тот факт, что, вероятно, в 132 г. до н. э. консул Попилий Ленат с гордостью приказал высечь знаменитую фразу о превосходстве земледелия над скотоводством (CIL. 1. 551=12. 638): primus fecei de agro poplico aratoribus cederent paastores. Таким образом, с этой точки зрения, противопоставление между земледельцами и пастухами в эпоху после Ганнибаловых войн становится проблемой, которая очень близко соприкасается также с ager publicus. И этот факт оказал определенное влияние на дальнейшее развитие юридической мысли.

Далее речь в статье идет о роли, которую скотоводство играло в архаическом (или дореспубликанском) обществе, и о роли pecuarii в leges Liciniae Sextiae. Клаузула (вторая) об ограничении голов скота части законов Лициния – Секстия, посвященных ager publicus (которую передает только Аппиан), вероятно, позволяет открыть действительную причину создания закона 367 г. до н. э.: ager publicus мог использоваться почти исключительно для пастбищ. Другими словами, уже с середины IV в. до н. э. скотоводство, основанное по своей природе на способности стад перемещаться на больших пространствах, могло быть единственным практически выполнимым и наиболее удобным способом использования общественных земель для тех, кто располагал достаточным начальным капиталом.

То, что в источниках землевладельцы постоянно обозначаются термином pecuarii, а кроме того, то, с какой частотой происходили процессы над ними с 296 г. вплоть до закона Семпрония 132 г. до н. э., – это обстоятельства, которые заставляют задуматься. К этому надо прибавить тот факт, что Плиний в известном фрагменте говорит, что в течение долгого времени единственной формой налога на ager publicus был налог, которым облагались pascua publica: Plin. n. h. 18. 3. 11: Etiam nunc in tabulis censoriis pascua dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat.

Анализируя источники республиканской эпохи, автор показывает, кем являлись эти pecuarii.

Автор останавливается также на особом аспекте юридического языка катоновской эпохи, который, как представляется, связан с тем, что было сказано выше. А именно, предлагается прочтение с новой точки зрения известнейшей синтагмы Законов XII таблиц familia pecuniaque: Cic. De inv. II. 50. 148 = Rh. ad Her. 1. 13. 23: paterfamilias uti super familia pecuniaque sua legassit, чтобы лучше понять этимологический смысл этого выражения.

Для трансформации в юридической лексике familia pecuniaque в res предлагается рассматривать как dies post quem время вероятной публикации Tripertita (184/167 гг. до н. э.) или время смерти их автора, Секста Элия (около 155 г. до н. э.), а в качестве dies ante quem – время Кв. Муция понтифика, если верно, что Помпоний в первой части D. 50. 16. 120 (как утверждает М. Бретоне) дословно цитирует этого юриста.

 

 



* Сакки Освальдо – доктор римского права юридического факультета Второго университета г. Неаполя (Италия).

[1] Cato in Plin. n. h. 18. 5. 26: Principio autem a Catone sumemus: «Fortissimi viri et milites strenuissimi ex agricolis gignuntur minimeque male cogitantes»; Plin. n. h. 18. 3. 11: Agrum male colere censorium probrum iudicabatur, atque, ut refert Cato, cum virum laudantes bonum agricolam bonumque colonum dixissent, amplissime laudasse existimabantur. Hinc et locupletes dicebant loci, hoc est agri, plenos. Pecunia ipsa a pecore appellabatur. Etiam nunc in tabulis censoriis pascua dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat. Multatio quoque non nisi ovium boumque inpendio dicebatur […].

[2] Cato in Cic. de off. 2. 25. 89: Ex quo genere comparationis illud est Catonis senis: a quo cum quaereretur, quid maxime in re familiari expediret, respondit: ‘Bene pascere’; quid secundum: ‘Satis bene pascere’; quid tertium: ‘Male pascere’; quid quartum: ‘arare’.

[3] Varro r. r. 3. 1. 7: Agri culturam primo propter paupertatem maxime indiscretam habebant, quod a pastoribus qui erant orti in eodem agro et serebant et pascebant: quae postea creverunt pecunia diviserunt, ac factum ut dicerentur alii agricolae, alii pastores.

[4] Cato de agri c. 3. 1: Prima adulescentia patrem familiae agrum conserere studere oportet. Aedificare diu cogitare oportet, conserere cogitare non oportet, sed facere oportet. Ubi aetas accessit ad annos XXXVI, tum aedificare oportet, si agrum consitum habeas. Ita aedificies, ne villa fundum quaerat. Per la legge epigrafica del 111 v. S. Riccobono, Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (in 3 voll.) (Florentiae 1968) 102(=FIRA. 1. 102 ss.): lin. 7: ..i]n terra....Italia IIIvir dedit adsignavit reliquit inve formas tabulasve retulit referive iusit: ager locus aedificium omnis quei supra scriptu[s est....extra eum agrum locum de quo supra except]um cavitu[mve est, privatus esto..; 8: ..eiusque locei agri aedificii emptio venditi]o ita, utei ceterorum locorum agrorum aedificiorum privatorum est, esto; censorque queicomque erit fa[c]ito, utei is ager locus aedificium, quei e[x hace lege privatus factus est, ita, utei ceteri agri loca aedificia privati, in censum referatur,.....deque eo agro loco aed]ificio eum, quoium is ager locus aedificium erit, eadem profiterei iubeto, quae de cetereis agreis; 9: loceis aedificieis quoium eorum quisque est profiterei iusserit....est; neive quis facito, quo, quoius eum agrum locum aedificium possesionem ex lege plebeive scit[o ess]e oportet oportebitve, eum agrum l[ocum aedificium possesionem minus oetatur fruatur habeat possideatque .....n]eive quis de ea re ad sen[atum referto..; 10: ..nevie pro magistratu inpe]riove sententiam deicito neive ferto, quo quis eorum, quoium eum agrum locum aedificium pose[sio]nem ex lege plebeive scito esse oport[et oportebitve......eum agrum locum aedificium possesionem minus oetatur fruatur habeat possid]eatque quove possesio invito, mor[tuove eo heredibus eius inviteis auferatur. Quei ager publicus populi Romanei in terram Italiam P. Muucio L. Calpurnio cos. fuit; 12: ....extra]que eum agrum, quem ex h. l. venire dari reddive oportebit. Quei ager locus aedificium ei, quem in [vi]asieis vicanisve ex s(enatus) c(onsulto) esse oportet oportebitve, [ita datus adsignatus relictusve est eritve....quo magis is ag]er locus aedificium privatus siet, quove mag[is censor, queiquomque erit, eum agrum locum in censum referat.

[5] Cfr. A. Carandini, La villa romana e la piantagione schiavistica, in A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma 4 (Torino 1989) 113 s.

[6] A. Ziolkowski, Storia di Roma (Milano trad. it. 2000) 97.

[7] Cfr. Plin. n. h. 18. 3. 11; Varro r. r. 2. 1. 9: Non idem, quod multa etiam nunc ex vetere instituto bubus et ovibus dícitur?

[8] Varro r. r. 2 proemium: [4] Itaque in qua terra culturam agri docuerunt pastores progeniem suam, qui condiderunt urbem, ibi contra progenies eorum propter avaritiam contra leges ex segetibus fecit prata, ignorantes non idem esse agri culturam et pastionem.

[9] Liv. 10. 23. 13: Et ab aedilibus plebeiis L. Aelio Peto et C. Fulvio Curvo ex multaticia item pecunia, quam exegerunt pecuariis damnatis, ludi facti pateraeque aureae ad Caereris positae; Liv. 10. 47. 4: Eodem anno, ab aedilibus curulibus qui eos ludos fecerunt, damnatis aliquot pecuariis, via a Martis silice ad Bouillas perstrata est.

[10] Ovid. fast. 5. 277–294: Vix bene desieram, rettulit illa mihi:/ «cetera luxuriae nondum instrumenta vigebant;/ aut pecus aut latam dives habebat humum/ (hinc etiam locuples, hinc ipsa pecunia dicta est);/ sed iam de vetito quisque parabat opes./ Venerat in morem populi depascere saltus,/ idque diu licuit, poenaque nulla fuit;/ vindice servabat nullo sua publica volgus,/ iamque in privato pascere inertis erat./ Plebis ad aediles perducta licentia talis/ Publicios; animus defuit ante viris./ Rem populus recipit, multam subiere nocentes:/ vindicibus laudi publica cura fuit./ Multa data est ex parte mihi, magnoque favore/ victores ludos instituere novos; parte locant clivum, qui tunc erat ardua rupes,/ utile nunc iter est, Publiciumque vocant».

[11] Appian. b. civ. 1. 10. 38.

[12] Appian. b. civ. 1. 7. 29.

[13] Appian. b. civ. 1. 8. 34: «Queste disposizioni furono contenute in una legge e si stabilirono penalità, con l’intenzione che la terra avanzata sarebbe stata neduta a piccoli lotti ai poveri. Ma nessuno si diede pensiero né della legge né dei giuramenti…» [E. Gabba – D. Magnino (a cura di), La storia romana. Libri XIII–XVII. Le guerre civili di Appiano (Torino trad. it. 2001) 69].

[14] Appian. b. civ. 1. 8. 33: «…fu stabilito che nessuno potesse occupare più di 500 iugeri di agro pubblico, né pascolare più di 100 capi di bestiame grosso e 500 di minuto» [o. l. c.].

[15] Cic. de inv. 2. 50. 148 = Rh. ad Her. 1. 13. 23: paterfamilias uti super familia pecuniaque sua legassit.

[16] Gai. 2. 224: …his verbis uti legassit suae rei, ita ius esto…; D. 50. 16. 120 (Pomp. 5 ad Q. Mucium): Verbis legis duodecim tabularum his ‘uti legassit suae rei, ita ius esto’ latissima potestas tributa videtur et heredis instituendi et legata et libertates dandi, tutelas quoque constituendi.

[17] G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al principato3 (Torino 1995) 26; Id., La versione retorica e la versione giuridica di tre disposizioni delle dodici tavole, in Ius Antiquum 1(6) (Mosca 2001).

[18] Cfr. G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica. Un capitolo della storia delle dodici tavole, in SDHI. 69 (2003) 12. Cfr. F. D’Ippolito, Sulla giurisprudenza medio repubblicana (Napoli 1988) 91 ss.; Id., Le dodici tavole: il testo e la politica, in Storia di Roma 1. Roma in Italia (Torino 1988) 402; Id., Forme giuridiche di Roma arcaica3 (Napoli 1998) 132, 228 ss. Per M. Bretone, I fondamenti 19–20 «I Tripertita maturarono in un’atmosfera filo scipionica. Sesto Elio li scrisse poco prima, o non molto dopo, il suo consolato, che cade nel 198 a. C., l’anno della pretura di Catone». Sul punto anche F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana (Firenze trad. it. 1968) 69.

[19] Ovid. fasti 5. 281: hinc etiam locuples, hinc ipsa pecunia dicta est; Plin. n. h. 18. 3. 11: locupletes dicebant loci, hoc est agri, plenos; Varro r. r. 3. 1. 8. Haec nota et nobilis, quod et pecuaria appellatur, et multum homines locupletes ob eam rem aut conductos aut emptos habent saltus.

[20] Cfr. Varro l. L. 5. 33: Ut nostri augures publici disserunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus.

[21] Cato in Cic. de off. 2. 25. 89: Ex quo genere comparationis illud est Catonis senis: a quo cum quaereretur, quid maxime in re familiari expediret, respondit: ‘Bene pascere’; quid secundum: ‘Satis bene pascere’; quid tertium: ‘Male pascere’; quid quartum: ‘arare’.

[22] Cic. Brut. 89. 306: ego autem in iuris civilis studio multum operae dabam Q. Scevolae Q. F., qui quamquam nemini se ad docendum dabat, tamen consulentibus respondendo studiosos audiendi docebat.

[23] M. Bretone, I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura (Roma-Bari 1998) 27 ss. e 33.

[24] Cfr. A. Carandini, La villa romana e la piantagione schiavistica 113.