N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

 

Sulle forme di acquisizione della civitas Romana

 

Attilio Mastrocinque

Università di Verona

 

 

 

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. La civitas nell’immaginario mitologico. – 3. L’acquisizione della cittadinanza attraverso il pater o il patronus. – 4. La clientela arcaica. – 5. La clientela arcaica e le origini della repubblica. – 6. Concezione genetica della trasmissione della civitas e peculiarità della clientela romana. – 7. Roma, la città dove i servi diventano cittadini.

 

 

 

1. – Premessa

 

Nell’immaginario collettivo dei Romani l’appartenenza alla civitas era concepita come una discendenza comune da un unico capostipite, dal quale derivava il nomen Romanum. Nella realtà storica invece l’acquisto della cittadinanza dipendeva principalmente da due tipi di procedure: uno, che potremmo definire ordinario, il quale prevedeva l’ingresso nella civitas attraverso un pater già membro della cittadinanza: costui trasmetteva il diritto alla civitas ai propri figli, nonché alle persone sotto il suo patronato, cioè clienti o liberti; un altro tipo di procedura, di carattere straordinario, permetteva l’ammissione alla civitas di gruppi di peregrini (in rarissimi casi anche gruppi di schiavi) attraverso una legge o un provvedimento pubblico equipollente[1]. Nel primo caso il nuovo cittadino aveva uno status sociale ed un nome personale in funzione del suo rapporto con il pater o con il patronus che era stato auctor dell’ingresso nella civitas; egli diventava romano in quanto figlio, cliente o liberto di un altro romano, apparteneva alla sua stessa gens ed era vincolato nei confronti del pater da obblighi stabiliti dal pater stesso, dalla gens, dalla tradizione o dalle leggi pubbliche; nel secondo caso invece i nuovi cittadini tendenzialmente conservavano lo status sociale ed il nome personale che avevano in precedenza, fatti salvi alcuni necessari adeguamenti alla tradizione e alla prassi giuridica ed onomastica romana.

     

     

2. – La civitas nell’immaginario mitologico

 

L’antichissima aggregazione di città, o meglio, di populi, che costituiva il nomen Latinum e che dette vita, probabilmente già in epoca regia, alla lega latina, trovava il suo fondamento, come ha mostrato il Catalano, nella coscienza e nella volontà di essere Latini più che in una naturale coesione genetica o razziale, come si era spesso sostenuto[2]. L’elemento di coesione all’interno del nomen era costituito, oltre che dall'uso della stessa lingua e dalla partecipazione ai culti federali, dalla comune discendenza da un originario pater, chiamato Pater Indiges, il cui culto era praticato a Lavinio. Esso era identificato con il Sole, con Latino (che del Sole era nipote, attraverso Circe), o con Enea. I miti delle origini avevano una notevole funzione sociale e politica; come dimostrano innumerevoli esempi in Grecia o in Etruria, la creazione di un mito comune delle origini in cui riconoscersi era funzionale alla coesione e all’aggregazione interna di una comunità o, in altri casi, alla coesione politica fra due o più comunità diverse[3].

Man mano che i singoli populi latini si strutturarono come entità politiche e urbane indipendenti e maturarono la loro individuazione, soprattutto nel corso delle guerre con Roma, vennero a definirsi sempre meglio le personalità degli antenati propri di ciascuna città, quali Romolo, dal quale sarebbero discesi i Romani, Odisseo, antenato dei Tusculani e dei Prenestini, Catillo antenato dei Tiburtini[4]. Anche presso altri popoli dell’Italia centrale era diffusa la convinzione che le loro comunità discendessero da un Pater comune[5].

Certamente anche alla base della civitas romana ci doveva essere l’idea di una syngeneia, cioè di una parentela fra tutti i cittadini, nella quale si voleva credere. Questo spiega lo sviluppo delle leggende sui capostipiti, Romolo e i suoi compagni, in particolare, ma anche il culto dei Lares publici, gli antenati comuni di tutti i Romani[6].

Non era però concepibile l’idea di una diretta discendenza di tutti i Romani da un unico capostipite, essendo Roma il frutto di molteplici apporti di genti venute da varie regioni dell’Italia; per questo, accanto a Romolo, furono immaginati i compagni, convenuti da ogni dove nell’asilo, e diventati poi i cento Patres da cui sarebbero discese le gentes patrizie[7]. Furono aggiunti anche Tito Tazio e i suoi compagni, antenati di altre gentes romane di origine sabina, imparentate con le gentes romulee[8].

L’idea di un pater comune era caratteristica non solo dei populi, ma anche delle gentes romane, o, per lo meno, di molte di esse. Presso le comunità etrusche dell’Italia centrale, a partire dall’VIII secolo, l’ascesa economica e sociale dei gruppi gentilizi dominanti fu accompagnata dall’affermarsi dell’uso del nome gentilizio, funzionale alla conservazione di un’eredità economica e morale all’interno delle famiglie e delle gentes[9]. Nel corso del secolo successivo la diffusione dell’uso del gentilizio venne a strutturarsi in maniera sempre più organica, di pari passo con lo sviluppo politico delle città, di modo che nel VI secolo la designazione bimembre, con praenomen e nomen, poteva caratterizzare tutti i cittadini liberi[10]. Poiché la maggioranza dei gentilizi di quest’area, al pari di quelli romani, era formata, a partire da nomi personali, mediante suffissi di tipo aggettivale – come Marcius da Marcus (in etrusco: Marcena da Marce) per intenderci – si è dedotto che le designazioni dei gentili si richiamavano ad un pater originario, capostipite del lignaggio[11]. E conseguentemente furono create leggende gentilizie relative ai capostipiti delle gentes, come ad esempio le leggende sul primo Fabio, sul primo Valerio o sul primo Claudio[12].

 

 

3. – L’acquisizione della cittadinanza attraverso il pater o il patronus

 

In questa sede non tratteremo dell’acquisizione della cittadinanza attraverso leggi o provvedimenti aventi valore di legge. Essi riguardavano l’ammissione alla civitas di gruppi sociali estranei, talora grandi comunità, come al tempo dell’ammissione degli Italici nell’89 o dei Cisalpini nel 49[13]. Entro questa fenomenologia si collocano pure le ammissioni alla civitas di gentes tra la fine del VI secolo e il V (il caso più noto è quello dei Claudii), probabilmente attraverso decisioni comiziali. Anche la liberazione di servi pubblici e la loro conseguente acquisizione della cittadinanza passavano attraverso deliberazioni pubbliche: nel caso specifico una delibera del Senato cui seguiva un atto magistratuale[14]. Pure la mancipatio vindicta passava attraverso l’atto di un magistrato ed era assimilabile, per certi aspetti, all’emancipazione dei servi pubblici[15]. In tutti questi casi i nuovi cittadini non prendevano il nome da un pater romano, ma conservavano il loro nome originario (adattandolo al sistema onomastico romano) o, nel caso dei servi pubblici, prendevano nomi fittizi (Publicius, oppure nomi derivati dai municipii che li avevano emancipati, come Veronius da Verona), mentre il paradigma della emancipatio vindicta fu costituito dal caso del servo che prese il nome di Vindicius[16].

La forma più consueta attraverso cui si diventava cittadini era la filiazione legittima. Da quando fu istituita la censura fu sempre compito del pater la presentazione del nuovo cittadino al censore, il quale lo registrava con i tria nomina[17] nelle liste dei cittadini e lo assegnava, a seconda delle capacità economiche e alla volontà del pater, ad una determinata classe censitaria[18]. Queste due forme di ammissione alla cittadinanza furono caratteristiche anche delle città greche, e certamente di quelle etrusche e di altre comunità del mondo antico. Ma Roma si distinse nettamente dalle altre città antiche, sia greche che etrusche, per la presenza nella sua tradizione giuridica di altre due forme di ammissione alla cittadinanza: quella caratteristica degli antichi clientes e, soprattutto, quella dei liberti. L’eccezionalità della prassi romana, segnalata peraltro dalle fonti antiche, costituì uno dei punti di forza della costituzione romana rispetto alle altre, determinò l’accrescimento del corpo civico romano e l’ampliamento del consenso nei confronti dei valori civici. In realtà, sia l’antica clientela, quella che si suole definire “romulea”, sia la prassi romana dell’emancipazione furono strumenti impiegati dai gruppi gentilizi emergenti per competere all’interno della vita politica della civitas stessa. Infatti un cliente o un liberto che venivano ammessi alla cittadinanza, entrando al tempo stesso a far parte del clan familiare e gentilizio del patrono, davano al patrono stesso un potere ed un prestigio politico assai maggiore di quanto gli avrebbe dato il possesso di un servo, perché egli otteneva così l'appoggio di nuovi cittadini che votavano in comizio. Ciò non toglie però che tali strumenti di lotta politica della nobilitas si rivelarono strumenti formidabili per l’accrescimento di tutto il populus, anche perché, in realtà, essi furono impiegati sia da patrizi che da plebei, seppure in proporzioni differenti[19].

 

 

4. – La clientela arcaica

 

La testimonianza più importante sull’istituto arcaico della clientela è costituita da un brano di Dionisio di Alicarnasso, laddove viene descritta la costituzione di Romolo[20]. Scrive lo storico che il fondatore non volle che le classi inferiori a Roma subissero da parte dei potenti un trattamento duro e degno degli schiavi, come accadeva ai Penesti tessali o ai Teti ateniesi arcaici, ma fece sì che i ceti inferiori afferissero, attraverso l'istituto della clientela, alla protezione ed al patronato dei potenti. Romolo avrebbe fatto questo per evitare le guerre intestine che caratterizzavano altre città. I clienti romani dunque (che Dionisio chiama “pelavtai”) ricevettero, secondo Dionisio, un trattamento diverso e migliore di quello dei "clienti" di altri popoli. Fra questi altri popoli erano probabilmente presi in considerazione, oltre che i Greci, gli Etruschi, che trattavano i loro clienti alla stregua dei Penesti tessali[21], cioè di popolazioni soggette, in uno stato di “quasi-servitù”.

Attualmente gode di un certo favore la teoria secondo la quale i clienti non sarebbero stati originariamente in possesso del diritto di cittadinanza. Si sostiene infatti[22] che, visto che i clienti non potevano intentare una qualsiasi azione giudiziaria se non con l'aiuto del patronus[23], i clienti stessi non erano cittadini; ad un certo momento però avrebbero ottenuto la cittadinanza, visto che fu vietata loro qualsiasi azione contraria al patrono in sede giudiziaria[24]. Risulta però strano che una città che concedeva la cittadinanza anche ai servi manomessi non l'avesse concessa ai clienti, ed è anche strano che le fonti riportino insieme, nella medesima legge romulea, sia la disposizione riguardante il patronato in giudizio, sia il divieto di accusare o di testimoniare contro il padrone (il quale presuppone che il cliente poteva accusare altre persone)[25]. L'ipotesi dell'esclusione dei clienti dalla cittadinanza diventa del tutto inverosimile se accediamo alla tesi secondo cui i clienti erano reclutati, o reclutati anche, tra i cittadini impoveriti. Sarebbe infatti arduo ammettere che un atto essenzialmente privato, come quello di chi si affida alla fides del patrono diventandone cliente, avesse avuto come automatica conseguenza la decadenza del cliente dalla civitas e la sua conseguente espulsione dalle curie, tanto più che le fonti ricordano come i patrizi controllassero le votazioni nei comizi attraverso i suffragi dei clienti[26]. Se invece riteniamo la clientela reclutata tra gli stranieri, dovremmo pensare che gli stranieri poveri e ignobili venissero a creare un ceto, vincolato con legami privati alle gentes patrizie, paragonabile al ceto dei paroikoi, dei metoikoi, o dei perioikoi delle città greche: masse di residenti privi della cittadinanza. La successiva concessione della cittadinanza ad una moltitudine così grande di persone avrebbe costituito l'avvenimento più rilevante nella storia romana arcaica dopo la creazione della repubblica, avvenimento del quale però la tradizione non conserva alcun ricordo[27]. È dunque preferibile ammettere che i clienti fossero cittadini, la cui capacità giuridica era ridotta da obblighi (di carattere privato, ma sanciti, in parte, anche dalla legge) nei confronti dei patroni.

A Roma non esistettero categorie di residenti paragonabili ai meteci o ai perieci delle città greche, o ai Penesti degli Etruschi. Dionisio di Alicarnasso permette di apprezzare la differenza fra Etruschi – presso i quali c’erano “clienti” trattati alla stregua dei Penesti tessali, vale a dire non molto meglio degli Iloti – e i Romani, i cui clienti dovevano scegliersi un patronus, che li assistesse in giudizio e che fungesse per loro quasi da padre. Dunque, secondo Dionisio, Roma attribuì ai patres familias una funzione molto più ampia di quella che spettava ai patres familias etruschi.

 

 

5. La clientela arcaica e le origini della repubblica

 

L'evoluzione storica relativa alla clientela romulea, prospettata da Dionisio, rispecchiava probabilmente, in una certa misura (e attraverso il filtro dell'ideologia d'età sillana), il processo di consolidamento delle strutture politiche repubblicane della città[28]. E non ci si dovrebbe meravigliare se furono attribuite a Romolo istituzioni e prassi che in realtà furono tipiche della repubblica: si tratta di un procedimento molto amato dall’annalistica e dalla tradizione romane[29].

A Tarquinio vengono attribuiti crimini e pecche di ogni genere, e fra questi si segnala la sua tolleranza nei confronti delle malefatte dei figli, e in particolare di Sesto Tarquinio, il violentatore di Lucrezia. Ma l’episodio più significativo in proposito è quello del processo che vedeva un figlio opporsi al padre, e il re Tarquinio incerto nel pronunciare la sentenza, mentre il giusto Turno Erdonio osservava che in casi del genere non ci doveva essere molto da discutere, essendo sempre preponderante l’autorità del padre[30]. La tradizione poi si compiacque nel tramandare exempla di padri inflessibili con i figli per il bene del populus, e il primo a comportarsi in modo esemplarmente severo contro i figli sarebbe stato Giunio Bruto, il primo console[31], mentre pochi decenni dopo il padre di Sp. Cassio avrebbe represso con pari durezza l’affectatio regni del figlio[32].

Il Coli[33] ha sottolineato con forza il salto di qualità che separava il regime monarchico da quello repubblicano proprio in ambito di patria potestas, infatti il potere degli antichi reges era di natura affine, secondo il Coli, alla patria potestas, il che rendeva impossibile concepire, nel diritto privato d’età regia, la patria potestas nel modo in cui fu concepita in età repubblicana[34]. Di fronte al re qualunque paterfamilias non era che un servus[35], mentre solo il regime repubblicano rese i patresfamilias cittadini sui iuris. E rispetto al Coli credo sia da aggiungere che solo con la repubblica diviene pienamente concepibile il sistema della clientela, che ai patresfamilias affidava anche il compito di tutelare i Romani poveri ed ignoranti, trattandoli alla stregua di figli.

Se concepiamo il popolo romano come una compagine di famiglie residenti in città e in campagna, di ricchi e di poveri, dovremo concepire il regime monarchico come l'estensione dell'imperium del re su tutti i residenti nel territorio romano, sui cittadini e i campagnoli, sui ricchi e sui poveri, mentre ci dobbiamo chiedere con quali criteri fosse stato costituito il primo nucleo di cives che dettero vita alla repubblica: divennero cives solo i ricchi, che tendenzialmente risiedevano in città, oppure lo divennero anche le masse dei poveri del contado, che gli Etruschi solevano trattare quasi come schiavi? Dopo la fase della servitus regia, le differenze di ricchezza e di prestigio fra i Romani dovettero diventare più rilevanti ai fini della gestione della res publica, e questo spiega l'acuirsi della contrapposizione fra patrizi e plebei, ma spiega anche l'importanza dell'istituto della clientela nel sistema di potere dei patrizi. Le fonti infatti delineano un processo attraverso il quale i Romani più poveri e dediti ai lavori dei campi si ponevano sotto il patronato dei nobili, mentre altri gruppi di Romani di idee più democratiche davano vita al movimento della plebe.

Esiste una tradizione secondo la quale il nome di Patres sarebbe stato attribuito ai senatori, o meglio a una parte dei senatori, per il fatto che essi assegnavano terreni a persone socialmente inferiori, come se fossero state loro figli[36]. Patres era dunque il nome dei capi delle gentes patrizie in quanto patroni dei loro clienti. Ben presto però quel nome si specializzò e venne a designare precisamente quei senatori patrizi che erano depositari degli auspici del popolo, dopo avere rivestito la carica consolare (e questo avvenne dopo l’istituzione del consolato, cioè in epoca repubblicana)[37]. Da questi Patres discendevano i patrici, cioè coloro che pretendevano di essere i soli ad avere i pieni diritti all'interno della civitas[38]. Pertanto i grandi sistemi gentilizi del patriziato erano costituiti da discendenti reali dal Pater, che tramandava loro per via genetica lo status sociale e lo ius auspicandi, e da clienti, per i quali i Patres svolgevano una funzione di patronato e garantivano loro alcuni diritti civili ed economici.

I clienti entravano pienamente a far parte della gens del patrono, di cui prendevano il nomen gentile; infatti gli antichi collegavano etimologicamente clientes con cluere, “essere chiamati”, perché i clienti portavano il nomen del patrono[39].

Nel caso di stranieri che si fossero posti sotto la protezione di un pater, è possibile che la prassi formale che doveva essere seguita fosse quella dell’adplicatio, alla quale accenna Cicerone[40], laddove menziona il caso di uno straniero che aveva diritto di soggiornare a Roma come esule dopo essersi scelto un patronus, e che poi era morto senza avere fatto testamento. Cicerone non spiega (o non sa spiegare) come il patrono avrebbe potuto, in base all’arcaico ed oscuro ius adplicationis, dimostrare i suoi diritti all’eredità, evidentemente in forme analoghe a quelle previste per il passaggio di un’eredità da liberti intestati e privi di eredi a patroni. Certamente non è facile dire se l'adplicatio fosse la forma prevalente attraverso la quale uno straniero entrava a far parte, in epoca arcaica, della clientela di un patrono romano[41]. Ancor meno facile è poi definire il modo in cui un Romano povero poteva diventare cliente. C’è da chiedersi infatti se fosse possibile che un civis Romanus ancora sottoposto alla patria potestas diventasse cliente di un Pater, riconoscendo nei suoi confronti obblighi molto simili a quelli che lo legavano al padre naturale. E, nel caso, attraverso quali strumenti giuridici. Oppure se potevano diventare clienti solo i patres familias subendo evidentemente una deminutio capitis[42]. La questione non è oziosa, visto che a Roma un liberto non poteva essere adottato, poiché altrimenti il patrono avrebbe perso i suoi diritti[43]. È chiaro che si tratta di questioni destinate a restare senza risposta, specialmente per il periodo anteriore alle XII Tavole, che introdussero la possibilità di perdere la potestas per il padre che avesse venduto il figlio tre volte[44]. In ogni caso non doveva essere cosa ovvia e tacita l'eventuale cessione ad un patronus delle prerogative che spettavano al padre naturale del cliente, visto che gli obblighi del cliens erano simili a quelli del filius[45].

Con le leggi delle XII Tavole si giunse ad una codificazione delle norme che erano invalse nella coscienza giuridica dei Romani, la quale sancì alcune disposizioni che regolavano il rapporto fra cliens e patronus. Sempre alla metà del V secolo fu istituita la censura, che si rivelò l’istituzione più importante nella classificazione dei nuovi cittadini. Il censimento infatti divenne la sede canonica in cui si accedeva alla civitas[46]. Da un certo momento, l'acquisizione della cittadinanza non comportò più la partecipazione all’assemblea delle curie, come dimostra l'esistenza stessa delle Stultorum Feriae, celebrate dai Romani che non avevano una curia, dopo la celebrazione dei Fornacalia da parte dei soli curiali[47]. Due nuovi criteri di appartenenza al corpo civico e due nuove assemblee popolari vennero affermandosi nel corso del primo secolo della repubblica: il criterio della residenzialità nelle tribù territoriali, cui corrispondeva l'assemblea tributa[48], e il criterio del censo, cui corrispondeva l'assemblea centuriata[49]. Però, sia nel caso del filius familias, sia nel caso del servo manomesso, l'acquisizione della cittadinanza era sempre proposta dal padre o dal patrono[50], che in qualche modo erano necessariamente i mediatori tra la città ed il figlio o il liberto[51].

 

 

6. – Concezione genetica della trasmissione della civitas e peculiarità della clientela romana

 

Se prestiamo fede al racconto tradizionale sulle tavole decemvirali inique e sulla successiva lex Canuleia de conubiis, dovremmo pensare che la concezione della trasmissione dello ius civitatis per via genetica fosse tipica dei patrizi, mentre la plebe avrebbe concepito la compagine civica come il risultato della volontà popolare, in forza della quale erano stati accolti molti stranieri, sia illustri che di origine servile (era il caso di Servio Tullio, figlio della schiava)[52]. I patrizi concepivano due livelli nel diritto di cittadinanza: uno, comune a tutti i cives non patrizi, il quale non prevedeva l’accesso al consolato – a causa dell’incapacità auspicale dei plebei – e, conseguentemente, escludeva l’accesso al novero dei Patres, cioè dei senatori patrizi di rango consolare[53]; ed un altro livello che caratterizzava solo i patrizi, ai quali erano accessibili anche tali diritti. Il modo attraverso il quale si trasmetteva il diritto patrizio di cittadinanza era unicamente la filiazione legittima (matrimonio per confarreatio tra due patrizi), mentre l’accesso di gentes straniere alla civitas e al patriziato rivestiva un carattere assolutamente eccezionale. Ovviamente i patrizi cercarono di trasformare in diritto le loro pretese e le loro concezioni della civitas, ma in genere l’opposizione della plebe vanificò (come nel caso del rapido fallimento della tavola decemvirale iniqua) le aspirazioni del patriziato, che impose per qualche tempo il suo sistema più che altro in base a congiunture politiche loro favorevoli e alla consuetudine instaurata col tempo[54].

La tradizione attribuisce a Romolo l’istituto della clientela e le norme che lo regolamentavano, e dunque possiamo pensare che esso fosse codificato da una legge, o che, piuttosto, fosse ritenuto legittimo perché accettato universalmente e praticato nel corso del tempo. In ogni caso, era la volontà popolare che permetteva ai clienti (fossero essi stranieri o poveri contadini dell’agro romano) di essere cittadini e di partecipare alle assemblee popolari. In questo campo Roma, e specialmente la Roma repubblicana, imboccò una strada molto diversa da quella di altre città dell’Italia antica e del mondo greco.

Se ci mettessimo alla ricerca degli istituti etruschi e italici della clientela partendo dal modello della clientela “romulea”, rischieremmo di andare incontro ad un fallimento, perché Dionisio di Alicarnasso sottolinea la diversità del trattamento dei clienti da parte dei patres romani rispetto alla condizione di servaggio cui erano sottoposti altrove i clienti; e in proposito cita l’esempio dei Penesti tessali[55]. Ovviamente non è detto che Roma fosse la sola a concepire la clientela in maniera paternalistica, come forse potrebbe indicare la tradizione stessa su Attus Clausus sabino, che ci presenta il clan gentilizio claudio alla stregua di un clan romano, con i gentiles e i clienti. Ma Dionisio ci fa capire che presso gli Etruschi il sistema era diverso, laddove parla precisamente di “Penesti” etruschi, proprio per distinguerli dai clienti (pelatai) romani[56].

Roma non costituì un caso a sè soltanto per il modo in cui trattò i ceti inferiori residenti nel territorio, ma anche per il modo in cui trattò gli schiavi emancipati. Com’è noto, i liberti romani ottenevano di norma la cittadinanza e i figli dei liberti differivano dagli altri ingenui solo per una minore dignitas. Il fatto di non ammettere l’esistenza di categorie intermedie fra i cittadini e gli schiavi, quali potevano essere i meteci o i perieci delle città greche, fece sì che il corpo civico dei Romani si ingrandisse in misura notevolissima grazie all’apporto dei clienti e dei liberti. Il numero dei Romani di origine libertina doveva essere tale, per lo meno in età tardorepubblicana e protoimperiale, da scandalizzare molti benpensanti[57]. Per contro, il famoso discorso liviano di C. Canuleio e il discorso lionese di Claudio[58] dimostrano quanto chiaramente fossero coscienti i Romani del fecondo apporto sociale venuto dagli stranieri ed anche dai liberti introdotti nella civitas fin dalle origini dell'Urbe.

 

 

7. – Roma, la città dove i servi diventano cittadini

 

Il fenomeno dell'emancipazione degli schiavi e della loro ammissione alla civitas divenne politicamente sempre più importante nel corso della storia repubblicana, perché i protagonisti della vita politica si servirono dei liberti per ottenere la maggioranza nelle votazioni comiziali o per avere nell'esercito un seguito di fedelissimi su cui contare; e per contrastare questa prassi, in epoca augustea vennero varate varie leggi tendenti a limitare la possibilità di emancipare molti servi[59]. Del resto, la tradizione riferisce che già l'antico movimento della plebe aveva cercato di arginare il potere che il patriziato otteneva grazie al controllo della clientela[60]. Purtroppo sfuggono completamente alla nostra comprensione storica le modalità attraverso le quali l'arcaico rapporto patrono-cliente si trasformò fino ad assumere le forme note in epoca tardo-repubblicana e imperiale[61].

In epoca medio e tardo-repubblicana la clientela dei nobili era costituita soprattutto dai liberti, la cui ammissione alla cittadinanza costituiva un fatto stupefacente agli occhi dei Greci. Nel 215 a.C. il re Filippo V di Macedonia, incitando il popolo di Larissa a incrementare il numero dei cittadini, scriveva: «È possibile guardare agli altri che si sono serviti di simili iscrizioni di nuovi cittadini, fra i quali i Romani, i quali, quando liberano i loro servi e li accolgono nella cittadinanza, permettono loro di accedere anche alle magistrature, e in un simile modo non solo hanno reso più grande la loro patria, ma hanno inviato colonie in quasi settanta luoghi»[62]. Gli studiosi moderni hanno cercato in due maniere diverse di esorcizzare la portata di tale chiarissima affermazione. Da una parte il Gauthier[63], in un famoso saggio sulla “generosità romana” e sull’“avarizia greca” nella concessione della cittadinanza, ha avanzato molte importanti osservazioni che evidenziano la grande differenza che esisteva tra Roma e le città greche proprio nell'ambito del diritto di cittadinanza. Mentre in Grecia solo il voto del popolo poteva far accedere uno straniero alla politeia, a Roma un atto di un magistrato o addirittura di un qualsiasi romano poteva trasformare uno schiavo o uno straniero in cittadino. Il valore stesso della cittadinanza era assai diverso, perché un polites greco diventava membro delle assemblee legiferanti e facilmente poteva assumere incarichi pubblici, mentre un civis Romanus non godeva che dei diritti civili e poteva partecipare alle decisioni comuni solo se faceva parte dell'aristocrazia senatoria. Dall'altra parte abbiamo una visione completamente antitetica della questione negli studi di Edoardo Volterra[64], in cui si tende a dimostrare che anche in Grecia e presso certe civiltà del Vicino Oriente gli schiavi emancipati dovevano in qualche modo ricevere uno status civitatis, che regolasse i loro rapporti con lo Stato in cui vivevano.

Su tale argomento vi sono due osservazioni da avanzare circa le differenze o le analogie fra città greche e Roma: I°) proprio a Larissa c'erano dei magistrati detti demiurghi, che, come dice Aristotele[65], «creavano i cittadini», e pertanto si sarebbero potute stabilire, nel caso, delle analogie con Roma; II°) qualunque romano, anche se estraneo alla classe dirigente senatoria, votava nei comizi, e, in particolare, il suo voto nei comizi tributi valeva teoricamente quanto il voto del princeps Senatus, e nel II secolo a.C. non si può dire che le assemblee popolari romane avessero perduto il loro potere decisionale[66]. Dunque la libertas che un romano acquisiva insieme alla cittadinanza in età repubblicana non era ridotta ai sempici diritti civili, a semplici garanzie contro i soprusi dei magistrati, ma comportava anche una forma di partecipazione attiva alle scelte politiche. Di solito tale partecipazione poteva concretizzarsi nell’attività politica al seguito di un nobilis o di un capo delle fazioni dei populares. Ma nessuna norma impediva l'arricchimento e l'ascesa nel prestigio sociale e politico.

A proposito della tesi che tende invece a ridurre la diversità fra la prassi romana e quella di altri popoli ci sono altre due osservazioni da avanzare: I°) bisogna sottolineare, piuttosto che le somiglianze con popoli orientali, quelle con la società etrusca, presso la quale, dal II secolo a.C. e per influsso romano, i servi manomessi sembra che ottenessero la cittadinanza nello stesso modo che a Roma[67], II°) e bisogna sottolineare che, al contrario, presso i Greci l'immissione di schiavi liberati nella cittadinanza costituiva una prassi assolutamente rivoluzionaria[68], che aveva caratterizzato l'operato di alcuni tiranni, i quali per questo si erano attirati il biasimo sia dei democratici che degli aristocratici.

Non è possibile dunque esorcizzare le parole di Filippo V, ma si dovrebbe invece insistere sul diverso impiego sociale dei liberti in Grecia e a Roma[69]. Mentre ai Greci, eccezion fatta per alcuni tiranni, ripugnava in genere l'idea di ammettere i servi alla cittadinanza e di servirsene per controllare la vita politica, l'aristocrazia romana trovava invece nei clienti prima e nei liberti poi una grande risorsa proprio nella lotta per il controllo del potere, contro la plebe in un primo tempo, contro gli avversari politici in epoche più recenti[70]. E a Roma poteva avvenire questo perché il populus Romanus, più degli altri, affidava la responsabilità della creazione dei nuovi cittadini ai patres familias, nella cui sfera d'azione tendenzialmente la comunità non interveniva[71]. Del resto, gli antichi stessi erano consapevoli del fatto che la patria potestas costituiva un fenomeno peculiare dei cittadini romani[72].

Dopo avere sottolineato le ragioni politiche che si celavano dietro la prassi romana, sarà opportuno ricordare come avesse ragione il Volterra quando sosteneva che non la volontà di un pater familias, e neppure la decisione arbitraria di un magistrato potevano realizzare un'adozione[73], e neppure, si può aggiungere, potevano trasformare un non cittadino in un cittadino, ma era la volontà del popolo, tramandata dalla consuetudine, che permetteva, attraverso la mediazione di un pater o di un patronus, il conseguimento della civitas. Come nel caso dell’istituto arcaico della clientela, che era tale per volontà del popolo (espressa anche attraverso la legge decemvirale), così anche per la prassi dell’emancipazione degli schiavi si deve credere che essa comportasse l’acquisizione della cittadinanza perché così voleva il popolo. Ed anche in questo caso va riconosciuto che si tratta di un’altra prassi che dava forza ed autorità ai patresfamilias romani soprattutto dall’epoca repubblicana.

La cosiddetta “generosità” romana nel concedere la cittadinanza fu uno strumento di potere, sia per l'aristocrazia che per l'imperium stesso di Roma[74]; essa rivela manifestamente la natura contrattuale e pattizia della civitas, che non si perpetuava né si ampliava solo su base genetica, ma piuttosto sulla base di una precisa volontà del popolo. La natura genetica del processo era reale solo per la discendenza fisica dai patres Romani, mentre, per il resto, il processo si basava su una prassi giuridica, in base alla quale chiunque accedesse alla civitas aveva un pater (anche adottivo) o quel sostituto del pater che era il patronus. Del resto, la parola pater, a differenza di parens o genitor, non indica la paternità fisica, ma la funzione del pater familias[75]. E proprio alla luce del ruolo dei patresfamilias si spiega il noto paradosso[76] secondo cui i Romani negarono la cittadinanza anche agli alleati italici più fedeli, mentre la concessero facilmente agli schiavi liberati. Evidentemente la cittadinanza presupponeva sia l’educazione entro una famiglia, sia il ruolo di garante che veniva assunto dal padre o dal patrono di fronte alla collettività.

Per concludere, si può affermare che l’ingresso a far parte della civitas dipendeva, in termini generali, dal populus, il quale poteva o esprimersi direttamente, attraverso leggi o provvedimenti equipollenti, per accogliere intere gentes o gruppi sociali o addirittura nazioni; il popolo poteva, in tali casi, demandare al magistrato l’esecuzione di questa prassi. Per altro verso, il populus attribuiva ai patres familias romani il compito di creare i cittadini, cioè di educarli come membri del popolo romano e di presentarli al popolo stesso perché li accogliesse nel suo seno[77]. Sotto la potestas di un pater si trovavano, oltre ai figli, i clienti ed i liberti che attraverso lui acquisivano la cittadinanza; ed il pater era responsabile della loro integrazione nel sistema morale romano.

La regola generale vigente a Roma era dunque che «il cittadino creava il cittadino»[78].

 

 

 

 



 

[1] Cfr. A.N. Sherwin-White, The Roman Citizenship, Oxford 1973, pp. 150-155; 291-336.

 

[2] P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, pp. 216-234

 

[3] Per il mondo greco cfr. D. Musti, Sull’idea di suggevneia in iscrizioni greche, in Annali della Scuola Normale di Pisa 32, 1963, pp.225 ss.; si veda ora un interessantissimo il testo epigrafico edito da J. Bousquet, La stèle des Kythéniens au Létôon de Xanthos, in Revue des Etudes Grecques 101, 1988, pp. 12-53; per gli Etruschi cfr. D. Briquel, Les Pélasges en Italie, Roma 1984.

 

[4] Mi sia permesso di rinviare al mio libro: Romolo (La fondazione di Roma tra storia e leggenda), Este 1993. Sulla civitas romana in rapporto alle primitive comunità del Lazio cfr. Catalano, op. cit.

 

[5] Pensiamo, ad esempio, al Pater Reatinus di Rieti (CIL IX, 4676); al Pater Soranus degli Hirpi Sorani (cfr. G. Colonna, Novità sui culti di Pyrgi, in Rendiconti della Pontificia Accademia di Archeologia 57, 1984, pp. 74-78). Sull’argomento cfr. D. Briquel, La tradizione sull'origine dei Sabini: qualche osservazione, in Identità e civiltà dei Sabini. Atti del XVIII Convegno di Studi Etruschi e Italici. Rieti-Magliano Sabina 30 maggio-3 giugno 1993, Firenze 1996, pp. 29-40, part. 37-38.

 

[6] Cfr. A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia, religione e diritto sulle origini della repubblica romana, Trento 1988, capp. VIII-IX.

 

[7] Livius 1.8.7; Dionysius Halicarnassensis 2.12; Velleius Paterculus 1.9.6.

 

[8] Sulle gentes sabine, che esercitarono la loro pressione su Roma nel V secolo, più ancora che in età regia, cfr. J. Poucet, Les Sabins aux origines de Rome, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.1, Berlin-New York 1972, pp.99-101.

 

[9] Cfr. Cf. H. Rix, Zur Ursprung des römisch-mittelitalischen Gentilnamensystems, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 700-748; G. Colonna, Nome, gentilizio e società, in Studi Etruschi 45, 1977, pp.175-192; cfr. L.-R. Menager, Systèmes onomastiques, structures familiales et classes sociales dans le monde gréco-romain, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 46, 1980, pp. 147-235; B. Linke, Von Verwandtschaft zum Staat, Stuttgart 1995, pp.72-74; cf. G. Franciosi, Preesistenza della 'gens' e 'nomen' gentilicium', in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana, I, a c. di G. Franciosi, Napoli 1984, pp. 3-33. Sull'importanza del fattore economico cf. Lex XII Tab., tab. V.4 (FIRA2, I , p. 38 = Ulp., fr. 26.1; cf. tab. V.7): si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. Si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento.

 

[10] Cfr. M. Cristofani, Diffusione dell’alfabeto e onomastica arcaica nell’Etruria interna settentrionale, in Aspetti e problemi dell’Etruria interna, Atti VIII Conv. Studi Etrusci e Italici, Orvieto 1972, Firenze 1974, pp.307-24; Id., Il sistema onomastico, in L’etrusco arcaico, Firenze 1976, pp.99-115; Id., Antroponimia e contesti sociali di pertinenza, in Saggi di storia etrusca arcaica, Roma 1987, pp. 107-125.

 

[11] Cfr. Rix, op. cit., pp. 729 ss.; Cristofani, Antroponimia, cit., pp. 111 e 125.

 

[12] Su Fabio cfr. Mastrocinque, Romolo, cit., pp. 28-29; sui Valerii e i Claudii cfr. infra.

 

[13] Elenco di leggi che prevedevano la concessione della cittadinanza a gruppi di persone o a comunità in G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 19222, pp. 85 ss.

 

[14] Sulla questione (oltre che sui servi e i liberti di templi o di collegia) cfr. L. Halkin, Les esclaves publics chez les Romains, Bruxelles 1897; N. Rouland, A propos des servi publici Populi Romani, in Chiron 7, 1977, pp. 261-78; W. Eder, Servitus publica, Wiesbaden 1980; Fabre, Libertus, pp. 50-1 (sul nome) e 121-122 (su Varro, De ling. Lat. VIII.83, da cui forse si potrebbe ricavare che il magistrato che aveva eseguito la manumissione del servo pubblico ne poteva assumere il patronato); cfr. anche R. Düll, Rechtsprobleme in Bereich des römischen Sakralrechts, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, cit., pp. 287-288. Si potrebbe segnalare anche il caso dell'acquisizione della cittadinanza da parte delle sacerdotesse di Neapolis e Velia che venivano a Roma per diventare sacerdotesse di Cerere: cfr. W.V. Harris, Rome in Etruria and Umbria, Oxford 1971, p. 194.

 

[15] D. 38.2.4 (Paulus): si necem domini detexerit servus, praetor statuere solet, ut liber sit: et constat eum quasi ex senatus consulto libertatem consecutum nullius esse libertum; cfr. D. 40.8.5 (Marcianus); cfr. Fabre, Libertus, pp. 50-51; F. D’Ippolito, Concessioni pubbliche di libertà, in Labeo 10, 1964, pp. 38-46.

 

[16] Livius 2.9-10.

 

[17] Per i liberti si ebbe solo in una fase relativamente tarda una regolarità nell’impiego del cognomen: cfr. A.E. Gordon, Epigraphica I. On the first Appearance of the Cognomen in Latin Inscriptions of Freedmen, in Classical Archeology (Berkeley) 1.4, 1935, pp. 155-61; H. Solin, Onomastica ed epigrafia. Riflessioni sull’esegesi onomastica delle iscrizioni romane, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica 18, 1974, pp.125-7; S. Panciera, Aspetti dell’onomastica a Roma nell’epoca imperiale, in L’onomastique latine. Actes Coll. Paris 1975, Paris 1977, p. 193; Fabre, Libertus, pp. 96-108. Sull’obbligo di dichiarare i nomi al censore (unitamente al nome del padre o del patrono): tabula Heracl., FIRA2 13, I, p. 151, l. 145; cfr. recentemente in proposito H. Galsterer, Römisches Namensrecht und Namenspraxis, in Sprachen und Schriften des antiken Mittelmeerraums. Festschrift für J. Untermann, Innsbruck 1993, p. 88.

 

[18] C.Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Paris 1976, pp. 96-97; Y. Thomas, Droit domestique et droit politique à Rome, in Mélanges de l’École Française de Rome (A) 94, 1982, pp. 527 ss.; part. 561 ss.

 

[19] Cfr. D.Kienast, in Gnomon 53, 1981, p. 683, sulla base di Livius 4.13.2.

 

[20] Dionysius Hallicarnassensis 2.9. Sull'epoca in cui potè essere concepita la "costituzione di Romolo" cfr. E. Gabba, Studi su Dionigi di Alicarnasso, I. La costituzione di Romolo, in Athenaeum 38, 1960, pp. 175-225, che pensa alla derivazione del passo dionisiano da un'opera di età sillana; J.P.V.D. Baldson, Dionysius on Romulus: a political Pamphlet?, in Journal of Roman Studies 61, 1971, p. 27; E. Ferenczy, Clientela e schiavitù nella repubblica romana primitiva, in Index 8, 1978-79, pp. 168-9, che propongono Varrone e Valerio Anziate come possibili fonti della costituzione romulea relativa ai clienti. Altre fonti sulla clientela arcaica: Dionysius Halicarnassensis 2.10.1-3; Plutarchus, Rom. 13; Gellius 20.1.40; 5.13.1-6; Plautus, Men. 580-587; sull'istituzione del patronato cfr. anche Cicero, Rep. 2.16; Festus, p. 262 e Paulus, Festi ep., p. 263 L.

 

[21] Cfr. Dionysius Halicarnassensis 9.5.4; sulle differenti tradizioni giuridiche in proposito presso gli Etruschi e presso i Romani cfr. A. Mastrocinque, Servitus publica a Roma e nella società etrusca, in Studi Etruschi 62, 1998, pp. 249-270.

 

[22] A. Magdelain, Remarques sur la société romaine archaïque, in Revue des études Latines 49, 1971, pp. 103 ss., part. 105-109; J.-C.Richard, Les origines de la plèbe romaine, Roma 1978, p. 168; cfr. J.-M. David, Le patronat judiciaire au dernier siècle de la république romaine, Roma 1992, p. 58. Contra: A. Drummond, Early Roman Clientes, in Patronage in ancient Society, a cura di A. Wallace-Hadrill, London-New York 1990, p. 92 e n.2.

 

[23] Plutarchus, Rom. 13; i patroni dovevano spiegare ai clienti il diritto: Dionysius Halicarnassensis 2.10.1; Horatius, Ep. 2.1.104. Il reciproco divieto di agire in giudizio tra patrono e cliente (come tra padre e figlio) era valido ancora in epoca tardo-repubblicana, cfr. per es. FIRA2, I, 7, 1.10-11 e 1.33.

 

[24] Secondo la ricostruzione storica di F. Serrao, Patrono e cliente da Romolo alle XII tavole, in Studi Biscardi, VI, Milano 1987, pp. 293-309, dapprima i clienti avrebbero avuto solo obblighi nei confronti dei patroni, e solo in un secondo tempo la legge avrebbe imposto dei doveri a questi ultimi nei confronti dei clienti.

 

[25] Dionysius Halicarnassensis 2.10; Cicero, Rep. 2.9.16; cfr. Plutarchus, Rom. 13 (FIRA2, I, p. 5) e anche Ulpianus, D. 2.4.4.1.

 

[26] Livius 2.56.2 (471 a.C.); 64.2 (469 a.C.); Dionysius Halicarnassensis 9.41; cfr. N. Rouland, Pouvoir politique et dépendance personnelle dans l’antiquité romaine, Bruxelles 1979, pp. 127-143. Giustamente M. Torelli, Storia degli Etruschi, Bari 19902, p. 79, fa valere questa tradizione contro la tesi dell'esclusione dei clienti dalla cittadinanza.

 

[27] Come ammette lo stesso Magdelain, op. cit., p. 109.

 

[28] In questo punto sono consapevole di prendere una posizione differente dalla communis opinio, che ammette una grande arcaicità dell’istituto della clientela, facendolo risalire, come cosa ovvia, già all’epoca regia (cfr. per es. Rouland, Pouvoir politique et dépendance personnelle, pp. 72-77, 93 ss.). Nel senso della mia posizione va però M. Torelli, Storia degli Etruschi, Bari 19902, p. 79, il quale ritiene che in origine la clientela fosse essenzialmente sotto il controllo del re, e che solo in seguito i capi aristocratici avessero usurpato la tradizione collettiva.

 

[29] Cfr. Mastrocinque, Romolo, §§ 19-20, ove ulteriori dati e bibliografia.

 

[30] Livius 1.50, 89.

 

[31] Livius 2.5; Dionysius Halicarnassensis 8.79; Plutarchus, Publ. 6; Valerius Maximus 5.8.1.

 

[32] Valerius Maximus 5.8.2; Plinius, Nat. hist. 34.4; cfr. Cicero, Rep. 2.35.60.

 

[33] U.Coli, Sul parallelismo del diritto pubblico e del diritto privato nel periodo arcaico di Roma, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 4, 1938, pp. 68-98.

 

[34] Coli, op. cit., p. 97, parla di un'epoca «in cui il diritto internazionale era il diritto che vigeva fra i reges, così come il diritto privato romano è rimasto, fino a tutta l'epoca veramente romana, il diritto dei patresfamilias».

 

[35] Il Coli, pp. 93 ss. sottolinea come nella coscienza dei Romani i sudditi di un re sono tutti alieni iuris: sul regnum come servitus cfr. per es. Livius 37.54.17; 45.18.2; 44.24.1.

 

[36] Festus, p. 288 L.: Patres appellantur...quia agrorum partes adtribuerant tenuioribus, perinde ac liberis; cfr. Paulus, Fest. ep., p. 289 L.; Cicero, Rep. 2.8.14; Plutarchus, Rom. 13; G. Piéri, Statut des personnes et organisation politique aux origines de Rome, in Revue Historique de Droit Français et Étranger 59, 1981, pp. 588-589. A mio avviso è possibile credere che la tradizione sui Patres che assegnano le terre ai poveri come se fossero loro figli fosse proiettata nell’epoca di Romolo, in quando nell’asilo il fondatore scelse i primi cento Patres, insieme senatori e capostipiti dei patrizi, ma anche patroni degli altri convenuti nell’asilo.

 

[37] A. Magdelain, Auspicia ad patres redeunt, in Hommages à J.Bayet, Bruxelles 1964, pp. 450 ss.

 

[38] Cfr. la tradizione secondo la quale il nome patricii sarebbe derivato da patrem ciere, perché solo i patrizi potevano vantare un Pater (cioè un senatore patrizio, o un pater, identificandosi semplicemente come ingenui, a seconda dei punti di vista; cfr. Magdelain, Auspicia ad patres redeunt, p. 466), e solo i patrizi potevano vantare una gens: Livius 10.8.9-10; cfr. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto, p. 232.

 

[39] Su questi argomenti: J. Heurgon, Classes et ordres chez les Etrusques, in Recherches sur les structures sociales dans l'antiquité classique. Coll. Caen 1969, Paris 1970, pp. 39-40. Sull'etimologia cfr. Plautus, Men. 575; in età moderna è stata proposta per la prima volta da W. Corssen, Über Aussprache, Vokalismus und Betonung der lateinischen Sprache, II, Leipzig 18702, p. 740, poi ribadita da Ch. Renel, Le sens du mot 'cliens', in Revue de Linguistique et de Philologie Comparée 39, 1903, pp. 213-225; e recentemente sostenuta dal Linke, op. cit., pp. 88-89. L'ipotesi secondo cui cliens sarebbe un participio derivato dalla stessa radice del verbo clino (avanzata dal Wackernagel, in Sitzber. Akad. Berl. 1918.2, p. 1216) non spiega l'assenza della consonante, n oppure v, (cfr. clinare, clivus...) sempre presente in tutti i derivati latini da tale radice. A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 19674, p. 127, non escludono una derivazione da una lingua straniera (etrusco?). Sulla definizione di gentiles cfr. Paulus, Fest. ep., p. 94 L. (da Cincio), secondo cui sono gentiles i discendenti da un medesimo genus che portano lo stesso nomen; Cicero, Top. 29 (da Scevola), che limita la definizione di gentiles ai nati da famiglia in cui nessuno era stato servo, e a coloro che non sono capite minuti. Da Gellius 5.13.4 si ricava che sia il padre che il patrono trasmettono il nomen.

 

[40] De oratore 1.177. Sul passo ciceroniano cfr. recentemente Crifò, op. cit., pp. 83-7. Cfr. anche Terentius, Andr. 924-5, sul quale cfr. E. Badian, Foreign Clientelae (264-70 B.C.), Oxford 1958, p. 8 e n.5. Ipotesi di riconoscere iconograficamente l’atto dell’adplicatio: cfr. M. Torelli, Rome et l’Etrurie à l’époque archaïque, in Terre et paysans dépendants dans les sociétés antiques. Coll. Besançon 1974, Paris 1979, p. 273.

 

[41] Cfr. Crifò, l. c.; J.-C.Richard, Les origines de la plèbe romaine, Roma 1978, p. 174; F. De Martino, Clienti e condizioni materiali in Roma arcaica, in Miscellanea Manni, II, Roma s.d., pp. 679-706, part. 682-683; bibliografia presso L. Monaco, Nota critica sul carattere gentilizio dell'antico 'exilium', in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana, II, a c. di G.Franciosi, Napoli 1988, p. 124, n.134. Spesso viene seguita la teoria (sviluppata dal Premerstein, in RE., IV.1, s.v. Clientes, cc. 38-42) secondo la quale uno straniero diventava cliente di un romano attraverso la deditio, mentre un romano lo diventava attraverso l'applicatio: cfr. M. Kaser, Das römische Privatrecht, München 19712, p. 119, ove bibliografia. Il Mommsen, Die römische Clientel, in Römische Forschungen, I, Berlin 1964, pp. 359-62, considera l'adplicatio alla stregua di una forma di manumissione. Non mi è possibile però seguire il Mommsen nei suoi, pur rigorosissimi, ragionamenti, in base ai quali si trova costretto a negare la possibilità, dal punto di vista giuridico (ammessa però a un livello semplicemente fattuale) della Freilassung in età arcaica, perché essa avrebbe comportato l'acquisizione della cittadinanza, che per il Mommsen coincideva con l'ingresso nel patriziato. Ma da tempo (soprattutto dopo il libro del Richard sulla plebe romana) pressoché nessuno crede più all'originaria coincidenza del patriziato con la civitas romana arcaica. Condivido invece le distinzioni fra il diritto di ospitalità (hospitium) e lo ius applicationis, che egli ritiene tipico degli stranieri i quali entravano a far parte della clientela di un pater romano.

 

[42] Non però la d. c. maxima, che comportava la perdita della cittadinanza.

 

[43] Gellius 5.19. Non ritengo sufficiente a risolvere la questione una soluzione storica come quella prospettata dal De Martino, Storia della costituzione romana, I, Napoli 19722, p. 41, secondo il quale l'istituto della clientela sarebbe anteriore alla costituzione cittadina, perché la clientela di tipo arcaico doveva essere ancora fiorente nel V secolo, visto che di essa si occupano le leggi delle XII Tavole.

 

[44] Tab. IV.2, FIRA2, I, p. 35.

 

[45] Cfr. M. Kaser, Die Geschichte der Patronatsgewalt über Freigelassene, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 1938, pp. 88-135; G. Fabre, Libertus, Roma 1981, pp. 217-223. Scrive giustamente Y. Thomas, Parricidium, in Mélanges de l’École Française de Rome (A) 93, 1981, p. 651: «dans la tradition juridique romaine, le rapport patron-client s'interprète comme un rapport père-fils: la filiation est le paradigme de la clientèle». Una questione destinata a restare senza risposta potrebbe anche riguardare la forma in cui originariamente i clienti entravano a far parte della cittadinanza: poiché essi assumevano il nomen del patrono, e con tale nome agivano come cittadini, ci si potrebbe infatti chiedere quale fosse stato il loro status civitatis prima di diventare clienti. La risposta potrebbe essere articolata, a seconda dell’origine ingenua o servile, romana o straniera dei clienti (per un’impostazione articolata cfr. recentemente, per es., N. Rouland, Pouvoir politique et dépendance personnelle dans l’antiquité romaine, Bruxelles 1979, pp. 94-104). In realtà, ne sappiamo molto poco.

 

[46] Cicero, Pro Arch.11: tantummodo indicat eum qui sit census ita se iam tum gessisse pro cive. Cfr. P. Frezza, Note esegetiche di diritto pubblico romano, I, Pro cive se gerere (acquisto della cittadinanza romana e iscrizione nel censo), in Studi De Francisci, I, Milano 1956, pp. 201 ss. Certamente però per diventare cittadini bastava anche un atto del pretore: cfr. per es. Kaser, Privatrecht, pp. 116-118.

 

[47] Ovididius, Fasti 2.525-532; cfr. Richard, p. 407.

 

[48] Sull'importanza della residenza in rapporto alla cittadinanza cfr. F. de Visscher, "Jus Quiritium", "Civitas Romana" et Nationalité moderne, in Studi in onore di U.E. Paoli, Firenze 1955, pp. 243 ss.; Id., La dualité des droits de cité et la mutatio civitatis, in Studi de Francisci, I, cit., pp. 52 ss.; L. Monaco, Nota critica sul carattere gentilizio dell'antico 'exilium', in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana, II, a c. di G. Franciosi, Napoli 1988, p. 121.

 

[49] Cfr. G. Piéri, L'histoire du cens jusqu'à la fin de la république romaine, Paris 1968.

 

[50] Cfr. supra, n.35; sulla presentazione al censore dello schiavo da affrancare da parte del dominus (manumissio censu) cfr. Fabre, Libertus, pp.10-16.

 

[51] Thomas, op. cit., p. 563.

 

[52] Cfr. soprattutto Livius 4.3-4.

 

[53] A. Magdelain, Auspicia ad patres redeunt, cit., pp. 450 ss.

 

[54] Per una tale impostazione rinvio al mio Lucio Giunio Bruto, pp. 111-112, 230-233 e passim.

 

[55] Dionysius Halicarnassensis, 2.9; cfr. su questo punto Richard, Les origines de la plèbe romaine, p. 164. M.I. Finley, L'invention de la politique, trad. franc., Paris 1985, pp. 72 ss. ed E.Deniaux, P.Schmitt-Pantel, La relation patron-client en Grèce et à Rome, in Opus 6-8, 1987-89, pp. 147-163, impostano la questione del patronato in Grecia (specialmente ad Atene) e a Roma come un modo diverso di impostare una circolazione di doni che dalle classi più ricche finiva a beneficio di quelle più povere. Il sistema democratico greco concepiva i doni dei ricchi come 'liturgie', cioè prestazioni stabilite dalla legge in favore della collettività (i ricchi diventavano una sorte di patroni della collettività), mentre il sistema romano, tendenzialmente oligarchico, concepiva i doni dei ricchi ai poveri all'interno del rapporto privato patrono-cliente.

 

[56] Dionysius Halicarnassensis, 9.5.4; cfr. J. Heurgon, Les pénestes étrusques chez Denys d'Halicarnasse (IX, 5, 4), in Latomus 18, 1959, pp. 713-723.

 

[57] Si vedano i giudizi di Dionysius Halicarnassensis, 4.24 e di Tacitus, Ann. 13.27. Interessante anche la testimonianza di Festus, p. 510 L., secondo cui i Sabini avrebbero definito vernae i Romani di Romolo.

 

[58] Rispettivamente Livius 4.3 e CIL XIII.1668; Tacitus, Ann. 11.24.

 

[59] Cfr., per es., J.P.V.D. Baldson, Romans and Aliens, London 1979, pp. 86-87.

 

[60] Cfr. il mio Lucio Giunio Bruto, pp. 195-9.

 

[61] Cfr. W.Neuheuser, Patronus und Orator, Innsbruck 1958, pp. 174 ss.

 

[62] SIG3 543, ll.32-4; sulla datazione: C. Habicht, in Arcaia Makedonia, Thessaloniki 1970, pp. 273-9. Analogamente Appianus, Bellum civile 2.120, parla della cittadinanza romana incrementata da stranieri e servi emancipati, ma, al contrario di Filippo, dà un giudizio negativo della mancata distinzione fra cittadini e liberti.

 

[63] Ph. Gauthier, “Générosité” romaine et “avarice” grecque: sur l’octroi du droit de cité, in Mélanges Seston, Paris 1974, pp. 207-213.

 

[64] Manomissione e cittadinanza, in Studi in onore di U.E. Paoli, Firenze 1955, pp.695-716; a pp. 709-710 viene criticata sulla base delle fonti la tesi del Lemosse e del Danieli secondo cui gli schiavi liberati non sarebbero entrati direttamente nella cittadinanza, ma sarebbero stati posti in una condizione inferiore, quale quella del cliente. Sul ruolo, rispettivamente, del pater familias e degli organi dello Stato in relazione alla civitas cfr. Id., La nozione dell’adoptio e dell’arrogatio secondo i giuristi romani del II e del III secolo d.C., in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 69, 1966, pp. 109 ss.

 

[65] Pol. III.1275 b.

 

[66] Si potrebbe dire che la concessione della cittadinanza tendeva a coincidere con la concessione dei semplici diritti civili quando, in concomitanza con la legge Giulia del 90 che ammise gli Italici alla civitas, si inquadrarono gran parte dei nuovi cittadini in un numero quanto più possibile ridotto di tribù, in modo che il loro peso elettorale diventasse nullo; cfr. per es. W.V. Harris, Rome in Etruria and Umbria, Oxford 1971, p. 224. Anche nel caso dei liberti (non però dei libertini) vale lo stesso discorso, perché essi erano inquadrati (a partire dal 230-220: Livius, Per. 20) nelle sole tribù urbane, e in particolare nella Palatina; cfr. per es. G. Forni, Il ruolo della menzione della tribù nell’onomastica romana, in L’onomastique latine. Actes Coll. Paris 1975, Paris 1977, pp.93-94; H. Pavis D’Escurac, Affranchis et citoyenneté: les effets juridiques de l’affranchissement sous le Haut-Empire, in Ktema 6, 1981, p. 190. Sui libertini e il diritto di voto: S. Treggiari, Roman Freedmen during the late Republic, Oxford 1969, pp. 37-52. Giustamente A. Fraschetti, A proposito di ex schiavi e della loro integrazione in ambito cittadino a Roma, in Opus 1, 1982, p. 98, sottolinea come la concessione della cittadinanza comportasse anche la partecipazione a contiones, ludi e dies festi del popolo romano.

 

[67] Cfr. Zonaras 8.7.4-8, con le osservazioni di Harris, op. cit., p. 116. Sull’ascesa sociale dei ceti inferiori etruschi (dei cosiddetti lautni, in particolare) a partire dal II secolo: H. Rix, Das etruskische Cognomen, Wiesbaden 1963, pp. 325 ss.; Harris, pp. 120 ss.; Torelli, Rome et l’Etrurie à l’époque archaïque, p. 106. Sull’influsso romano nella prassi della manumissione paleoveneta cfr. H. Rix, Die Termini der Unfreiheit in den Sprachen Alt-Italiens, Stuttgart 1994, pp. 91-93.

 

[68] Plato, Rep. VIII.567 d ss.; Xen., Hieron 6.5; Aristot., Pol. III.1275 b; V.1313 b.

 

[69] A. Fraschetti, op. cit., pp.97-103.

 

[70] Il caso più clamoroso fu quello di Silla, che nell'81 a.C. liberò 10.000 servi pubblici ai quali attribuì il nome di Cornelii insieme al ruolo di guardiani del suo regime: Appianus, Bellum civile 2.100.

 

[71] Sul ruolo del pater familias nella repubblica romana, cfr. G. Crifò, Normazione e libertà. Il rapporto tra legislazione altorepubblicana ed identità civica, in Staat und Staatlichkeit in der frühen römischen Republik. Aktes Symp.Berlin 1988, a cura di W. Eder, Stuttgart 1990, pp. 352-353.

 

[72] Gai. I.55: ius proprium civium Romanorum (riferito specialmente alla potestas sui figli).

 

[73] Volterra, La nozione, pp. 109 ss., ove, circa adoptio e arrogatio sottolinea come esse non fossero relitti della società gentilizia, ma fossero istituti che si diede la comunità già configurata come stato: non era il paterfamilias ad assumere direttamente la patria potestas sull’adottato, ma era la delibera delle curie o il provvedimento di un magistrato ad attribuirgliela. Credo che un ragionamento analogo possa valere per l’ammissione alla cittadinanza dei liberti.

 

[74] Come ha dimostrato il Badian, Foreign Clientelae, l'ampliamento della cittadinanza, e il conseguente stabilirsi di clientele, furono strumenti di potere usati dalle classi dirigenti romane.

 

[75] Cfr. A. Ernout-A. Meillet, Dict. étymol. de la langue latine, cit., p. 487. Sulla posizione giuridica del pater familias cfr., tra la sconfinata bibliografia: Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III.1, Leipzig 1887, pp.13-18; E. Sachers, Pater familias, in RE. XVIII, cc.212-57; Kaser, Privatrecht, pp. 54-65; G. Lobrano, Pater et filius eadem persona. Per lo studio della patria potestas, I, Milano 1984. A.M. Rabello, Effetti personali della “patria potestas”, I, Milano 1979, pp. 29-30, sostiene che la patria potestas era ammessa in quanto l’ordinamento generale la riconosceva, al che si potrebbe aggiungere che si trattava dell’ordinamento repubblicano.

 

[76] Cfr. per esempio G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV.1, Firenze 19692, p. 545.

 

[77] Sul ruolo fondamentale attribuito ai patresfamilias dallo stato romano cfr. Y. Thomas, Roma: padri cittadini e città dei padri (II secolo a.C. - II secolo d.C.), in Storia della famiglia, a cura di A. Burguière et alii, I, Paris 1986, trad. it., Milano 1987, pp. 197-236.

 

[78] Come giustamente scrive A. Giardina, in L’uomo romano, a cura di A.Giardina, Bari 1993, p. XVII. Esistono poche eccezioni alla regola, le quali non ne mettono in discussione la validità sostanziale: e probabilmente la principale di esse è costituita dai liberti di donne, che prendevano il gentilizio della matrona; cfr. per es. Fabre, Libertus, cit., pp. 116-117.