N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

ASPETTI GIURIDICI DEI RAPPORTI TRA ORDINAMENTO ITALIANO E ISLAM

 

MARIO TEDESCHI

Università di Napoli

 

 

 

Riguardare i rapporti con l’Islam da un punto di vista giuridico è operazione non agevole, data la diversità dei sistemi giuridici, tra di loro difficilmente comparabili, e perché il mondo arabo prescinde da qualsiasi riferimento al diritto romano o ai diritti confessionali come quello canonico.

L’apertura verso il diritto islamico si è avuta in Italia al momento dell’avventura coloniale in Libia, con gli studi di Santillana, ai quali sono seguiti quelli di D’Emilia, Castro, Cilardo[1], e di pochi altri, e quando l’apertura della Turchia agli scambi comportò necessariamente uno sviluppo del diritto commerciale (non si dimentichi che proprio con riferimento a questo Paese si attua sul piano internazionale il c.d. regime delle Capitolazioni e il conseguente principio della kompetenz-kompetenz)[2].

Debbo sottolineare che personalmente sono molto scettico sull’istituto delle intese perché non è possibile attuarle nei confronti di tutte le confessioni senza frammentare la legislazione ecclesiastica, perché la contrattazione bilaterale innesca un sistema difficilmente controllabile, che in buona misura mortifica lo Stato, e perché si crea una situazione alquanto discutibile tra chi ha sottoscritto intese, denunciando la legge del ‘29 sui culti ammessi e chi, invece è ancora sottoposto a tale legge[3]. Per altro, i veri problemi che l’ordinamento italiano ha nei confronti degli Stati arabi, non sono risolvibili da un’intesa, diretta solo ai cittadini italiani di fede musulmana, ma riguardano, come nel caso dei matrimoni misti, aspetti di diritto internazionale privato, che imporrebbero interventi sul piano del diritto internazionale pubblico non limitati ai membri della Comunità europea[4]. Debbo anche dire che tali rapporti sono stati condizionati - almeno da parte degli ecclesiasticisti- da una serie di errori e di remore.

Errato è stato analizzare una realtà esterna alla nostra da un precostituito angolo visuale, quello stesso delle norme costituzionali, che costituiscono espressione di un substrato storico-politico e di una società molto diversa. Nessun riferimento è infatti possibile a tali norme - anche se queste costituiscono indubbiamente per noi dei valori- come ai concetti di libertà religiosa e di laicità, frutto in qualche misura dell’illuminismo che il mondo arabo non ha conosciuto negli stessi termini[5].

Errata è la pretesa di riguardare tale mondo unitariamente e non in capo alle singole scuole di diritto o ai singoli Paesi, come prova il tentativo di un Codice arabo uniforme dello statuto personale, il c.d. documento del Kuwait, sostanzialmente fallito, proprio per le differenti posizioni delle varie scuole[6].

Errata si è rilevata la stessa fiducia nel diritto internazionale perché, anche a livello di ONU, non ne è venuto alcun positivo intervento e nessuna particolare integrazione[7].

Errato è considerare l’Islam come uno Stato teocratico perché la separazione tra Stato e religione si era avuta nel momento in cui il califfato, che pretendeva proteggere sia interessi religiosi che politici sul presupposto che il Corano avesse una natura creata, dovette segnare il passo nei confronti dell’ulama, che riteneva invece che il Corano avesse una natura divina. Quando quest’ultima interpretazione risultò vincente, i califfi dovettero abbandonare le loro pretese limitandosi a rappresentare gli interessi amministrativi e di governo mentre i dotti e i sufi quelli religiosi. L’autonomia della religione dallo Stato risale quindi alle origini[8].

Con il tempo lo Stato apparve come protettore del culto ma anche dell’istruzione e della legge perché i rapporti con gli ulama erano impostati sull’interdipendenza. Non così con i sufi che erano in netta contrapposizione. Il sufismo, infatti, era spesso apolitico e avverso ai regimi statali, come in Algeria e in Marocco[9].

Quando la società europea separò il mondo religioso da quello secolare laicizzandosi, la differenza con il mondo arabo si sostanziava in questo che: «mentre le società musulmane rimanevano legate a una visione olistica della legge e della umma, l’Europa riconosceva la legittimità di più sistemi religiosi, etici e filosofici, fra i quali lo spirito della cavalleria feudale e la sua epica, il diritto romano, la filosofia e la morale mercantile borghese, ciascuno dei quali costituiva un mondo di valori indipendenti dalle credenze cristiane»[10]. Il predominio commerciale europeo, che si basava sull’individualismo borghese, come l’espansione coloniale, fecero temere al mondo arabo che la propria identità culturale potesse venir meno, e ciò provocò delle reazioni.

Oggi la paura che, anche sul piano giuridico, i limiti generali di ordine pubblico possano non consentire alcuna integrazione, ha un qualche fondamento. A ciò si aggiunga, in genere, la scarsa conoscenza - di entrambe le parti- dei rispettivi sistemi giuridici, dovuta alla diversità dei presupposti storici e sociali[11].

Eppure, alcuni aspetti del diritto islamico sono molto interessanti e comuni anche alla nostra tradizione giuridica: il riferimento - per noi ormai storico- alla legge divina e il rapporto tra legge divina e legge umana; il particolare valore attribuito alla tradizione dottrinale; e quello all’analogia e alla consuetudine. Su questo piano una comparazione è possibile, anche per dirimere molte prevenzioni e inesattezze, ed  anche auspicabile, data l’assoluta necessità di rapportarsi a una realtà così rilevante.

Ciò presuppone chiaramente una conoscenza del mondo islamico anche su un piano storico e culturale, alla quale naturalmente è indotto chi, come me, ritrova nella propria regione d’origine - la Sicilia- retaggi della dominazione araba, protrattasi per quasi due secoli, che lo hanno portato a interessarsi dei rapporti tra cristiani, ebrei e musulmani prima in Spagna e poi nel nostro Paese[12], sovvertendo il tradizionale, ingiustificato atteggiamento di diffidenza dei cultori di diritto ecclesiastico - in specie se di matrice cattolica- nei confronti di tali problemi.

Se avessimo voluto prescindere da questi presupposti, non sarebbe stato facile preparare, insieme a Piero Bellini, un testo di intesa tra la comunità islamica e la Repubblica italiana[13] - pubblicato proprio in questi giorni[14] - che, in un recente incontro a Torino presso la Fondazione Agnelli, è stato considerato come il contributo più organico sino ad ora presentato e che spero possa avere al più presto un felice esito.

Non vedo perché, infatti, si debba negare ai musulmani, che costituiscono in questo momento il gruppo confessionale più numeroso dopo quello cattolico, ciò che ad altre confessioni è già stato concesso.

Debbo anche dire che questa operazione, squisitamente giuridica, mi ha consentito di verificare la possibilità di un rapporto che si è rivelato meno difficoltoso di quanto non potesse prevedersi, giustificando in parte il mio ottimismo. Cosa si stabilisce in tale progetto di intesa?

L’intento era quello di dimostrare che la dottrina islamica fosse compatibile con l’ordinamento italiano e che quindi un’intesa fosse possibile. Si sono dovuti risolvere dei problemi preliminari, come la mancanza di uno statuto interno della confessione, o stabilire quali fossero i rappresentanti, nel tentativo di rendere omogeneo il progetto al testo delle altre intese. Qualche difficoltà poteva provenire dalla condizione della donna e dal matrimonio, ma soprattutto dal fatto che nell’Islam manca un ceto di ecclesiastici, anche se mi sembra che queste siano state abbastanza agevolmente superate.

Il testo dell’attuale progetto d’intesa può articolarsi in quattro gruppi di norme. Il primo di carattere generale (artt. 1-4); un secondo, che concerne disposizioni proprie del culto islamico, di carattere singolare (artt. 5-15 e 23-24); un terzo, riguardante l’assistenza religiosa (artt. 16-19), l’istruzione (artt. 20-21) e il matrimonio (art. 22); e un quarto, che riguarda le norme di chiusura (artt. 25-27).

Nell’art. 1 si stabilisce che «si considerano cultuali e devozionali ... gli interessi e le attività inerenti all’esercizio del culto pubblico e privato, alla testimonianza della fede e alla edificazione spirituale di coloro che aderiscono alla Religione islamica, nonché quelli concernenti la formazione religiosa e culturale delle Guide del culto preposte alla direzione della preghiera e alla impartizione degli insegnamenti fondamentali della tradizione islamica». Era importante stabilire di cosa l’intesa dovesse occuparsi, nel rispetto della tradizione islamica, e supplire, con le Guide del culto, alla mancanza di un ceto di ecclesiastici, in modo da rappresentare direttamente gli interessi della religione islamica. Tale religione, come evidenzia l’art. 2, «poggia su cinque pilastri fondamentali: il primo, costitutivo dell’atto stesso di adesione all’Islam, consiste nella testimonianza di fede, per la quale non v’è Dio se non Iddio, e Muhammad è l’inviato di Dio; il secondo è rappresentato dalla preghiera rituale; il terzo dalla elemosina rituale; il quarto pilastro è costituito dal digiuno nel mese di Ramadan; il quinto dal pellegrinaggio alla Mecca». Si garantisce agli appartenenti alla religione islamica il diritto di libertà religiosa, di manifestazione del pensiero e di riunione, in conformità ai principi costituzionali (art. 3) e, «in sede penale la parità di tutela del diritto di libertà religiosa senza discriminazioni tra persone e culti» (art. 4). Sono, queste, disposizioni di carattere generale, alle quali seguono altre riguardanti più specificamente il culto islamico, l’abbigliamento e l’alimentazione, consentendo loro di vestirsi secondo le proprie tradizioni e con il «capo coperto anche nelle foto dei documenti personali» e di fruire, nelle mense delle amministrazioni pubbliche e delle aziende private, «di cibi e bevande consentite dalla tradizione islamica» (art. 9).

Si assicura che gli enti islamici con fini cultuali e devozionali, già approvati dalla Comunità, e rappresentati da cittadini italiani, possono essere riconosciuti agli effetti civili come persone giuridiche, e iscritti nel relativo registro (art. 10), che «la Repubblica italiana si impegna a secondare il rilascio delle autorizzazioni per la costruzione ... di nuove moschee e per l’apertura di nuove sale di preghiera»; che tali edifici non possono essere sottratti alla loro destinazione, «requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni, udita la Comunità islamica»; e che, eccetto per le gravi turbative di ordine pubblico, «le forze di polizia non possono entrare in tali edifici, se non previo avviso e presi accordi con la Comunità islamica» (art. 11). La gestione degli edifici aperti al culto è affidata a una Guida del culto nominata dalla Comunità islamica, affiancata da un Consiglio di gestione, che si occuperà anche della raccolta di elemosine, contributi, donazioni, lasciti testamentari (art. 12). Le Guide del culto sono, a tutti gli effetti equiparate agli ecclesiastici delle altre confessioni nell’esercizio del loro ministero (art. 13), al pari degli atti confessionali della Comunità islamica, che sono liberi e non soggetti ad oneri (art. 14).

Quanto alle festività, si stabilisce che «I musulmani che dipendono dallo Stato, da enti pubblici o privati, o che esercitano attività autonome o commerciali, i militari e coloro che siano assegnati al servizio civile sostitutivo, hanno diritto di fruire, su loro richiesta, della festività religiosa del Venerdì. Tale diritto è esercitato nel quadro della flessibilità della organizzazione del lavoro con eventuale recupero, in altri giorni, senza compenso straordinario, delle ore lavorative non prestate». Queste disposizioni si applicano anche alle festività della Rottura del digiuno e del Sacrificio di Abramo, le cui date debbono essere pubblicate sulla Gazzetta ufficiale all’inizio di ciascun anno solare. Di particolare interesse la disposizione secondo la quale, «nel fissare le prove di esame o di concorso, le autorità civili competenti terranno conto della esigenza di rispetto delle festività islamiche» (art. 15).

L’art. 23 stabilisce che «I piani regolatori cimiteriali prevedono, su richiesta della Comunità islamica, reparti speciali per la sepoltura di defunti musulmani», che, secondo la loro tradizione, sarà perpetua. Particolari anche le disposizioni sulla preghiera rituale, che si compie cinque volte al giorno e che sarà in ogni modo favorita (art. 5); sulle elemosine rituali, deducibili dal reddito complessivo imponibile (art. 6); sul digiuno rituale nel mese di Ramadan, anch’esso agevolato dallo Stato (art. 7); sul pellegrinaggio rituale alla Mecca (art. 8); e sulla tutela del patrimonio artistico, storico e culturale della civiltà islamica in Italia (art. 24), meno rilevante che in Spagna, ma di grande importanza soprattutto in Sicilia.

Ben quattro gli articoli che riguardano l’assistenza religiosa - siamo al terzo gruppo di norme-: uno di carattere generale, che si riallaccia al diritto di libertà religiosa e alle previsioni alimentari, ivi compresa la macellazione (art. 16), i rimanenti riguardanti i militari (art. 17), gli infermi (art. 18) e i detenuti (art. 19).

Due gli articoli sull’istruzione e le scuole; nel primo si esclude, nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, «ogni ingerenza sulla educazione e sulla formazione religiosa degli alunni di fede islamica», garantendo «il diritto di non avvalersi di insegnamenti religiosi», a tutela della libertà di coscienza di tutti e senza alcuna discriminazione e assicurando, anche se a carico della Comunità islamica, «agli incaricati designati dalla Comunità il diritto, nell’ambito delle attività culturali previste dall’ordinamento scolastico, di rispondere a eventuali richieste provenienti dagli alunni, dalle loro famiglie o dagli organismi scolastici, in ordine allo studio del fatto religioso islamico» (art. 20); nel secondo si assicura «alla Comunità islamica il diritto di istituire liberamente, senza oneri per lo Stato, scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione» (art. 21).

L’articolo sul matrimonio necessita di una breve premessa, poiché è questo l’istituto che più preoccupa l’opinione pubblica italiana[15]. Si deve subito dire che il matrimonio poligamico costituisce, anche all’interno dei Paesi islamici, un’eccezione; che anche in questi casi non si va mai oltre quattro mogli; e che per l’ordinamento giuridico italiano vale solo il primo matrimonio, purché regolarmente contratto, non i successivi. Pertanto, l’art. 22 del progetto può molto semplicemente riferirsi a un unico matrimonio e stabilire che «la Repubblica italiana, attesa la pluralità dei sistemi di celebrazione a cui si ispira il suo ordinamento, riconosce gli effetti civili ai matrimoni celebrati secondo il rito islamico, davanti a una Guida del culto, avente cittadinanza italiana, designata dalla Comunità islamica, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella Casa comunale», indicando «all’ufficiale dello stato civile, al quale si richiedono le pubblicazioni ... il nominativo della Guida del culto designata». L’ufficiale dello stato civile rilascerà ai nubendi un nullaosta in duplice originale, nel quale spiegherà i loro diritti e doveri, dando lettura dei relativi articoli del codice civile. L’atto di matrimonio, una volta constatatasi l’autenticità del nullaosta, sarà trascritto nei registri dello stato civile «entro ventiquattro ore dal ricevimento ... dandone contestuale notizia alla Guida del culto». Gli effetti civili retroagiranno al momento della celebrazione anche nel caso in cui l’atto di matrimonio dovesse essere trascritto tardivamente. Come può constatarsi, il regime del matrimonio islamico è, così, uniformato a quello delle altre confessioni, risultando del tutto conforme alla legislazione ecclesiastica italiana in tale materia. Nessuna particolare preoccupazione di contrasto con i principi generali dell’ordine pubblico o del buon costume può pertanto essere avanzata, rimanendo quanto esula dalle presenti previsioni, in un ambito esclusivamente sociale ed extragiuridico.

Nelle disposizioni di chiusura, una norma riguarda l’attuazione dell’intesa (art. 25); una le possibili modificazioni (art. 26); e un’altra la caducità della pregressa legislazione del ‘29 sui culti ammessi, che valeva anche nei confronti della Comunità islamica (art. 27).

I problemi giuridici non derivavano tanto dai presupposti ideologici della confessione, quanto dalla mancanza di una legislazione pregressa riguardante l’Islam, e dal rispetto dei principi generali sui quali si basa il nostro ordinamento giuridico, all’interno dei quali l’ambito di operatività delle confessioni è molto ristretto.

Fra l’altro, non tutte le comunità islamiche sono d’accordo sull’opportunità di stipulare un’intesa. In atto vi sono molte difficoltà a stabilire i rappresentanti della confessione - termine questo che noi dobbiamo usare necessariamente perché è quello stesso dell’art. 8 Cost.- che possano ad un tempo rappresentare tutte le Comunità islamiche e rapportarsi con la Presidenza del Consiglio, che sembra in ogni modo disponibile alle trattative una volta risolti i problemi interni. Oggi il clima appare diverso - malgrado questa sia anche una decisione politica- ma tutti i presupposti giuridici possono considerarsi in buona misura risolti, al punto che la dottrina ecclesiasticistica ha dovuto mutare avviso, ponendosi su posizioni meno scettiche che in passato, e convenire sulla necessità dell’intesa.

 

 



 

[1] Cfr. D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. I-II, Roma 1943; A. D’Emilia, Diritto islamico, in Scritti di diritto islamico, Roma 1972; A. Cilardo, Teorie sull’origine del diritto islamico, Roma 1990; cfr. oltre n. 4 e 9; G. Caputo, Introduzione al diritto islamico. I concetti generali-il matrimonio e la famiglia-le successioni, Torino 1990, p. 1 suiv., notava come gli studi di diritto musulmano fossero fiorenti in Germania, Francia e Italia alla fine del secolo scorso e agli inizi di questo.

 

[2] Cfr. Sousa, The capitulary regime of Turkey, Baltimore 1923.

 

[3] Cfr. M. Tedeschi, “Nuove religioni e confessioni religiose”, in Studium, 1986, fasc. 3, p. 61 suiv.; in Studi in memoria di Mario Condorelli, vol. I, t. II, Milano 1988, p. 1215 suiv.; nel vol. La tutela della libertà di religione. Ordinamento internazionale e norme confessionali, a cura di S. Ferrari e T. Scovazzi, Padova 1988, p. 135 suiv.; e nel vol. Saggi di diritto ecclesiastico, Torino 1987, p. 281 suiv., ove rilevavo che le intese hanno «un triplice effetto negativo: privilegiano la libertà dei gruppi rispetto a quella individuale; legittimano, come si era ben compreso in passato, la stipulazione di concordati con la Chiesa cattolica; creano un diritto pattizio singolare, che produce certamente delle sperequazioni tra i vari gruppi ...» (p. 293).

 

[4] Cfr. E. Vitta, Corso di diritto internazionale privato e processuale, 4ème éd., a cura di F. Marconi, Torino 1991, p. 88 ss., con riferimento alla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, resa esecutiva con la l. 21 giugno 1971, n. 804, ed entrata in vigore il 1° novembre 1986, che, limitatamente agli Stati membri originari della CEE, stabilisce di prescindere, per quel che riguarda il collegamento delle parti a un determinato ordinamento, dal criterio della nazionalità per privilegiare quello del domicilio; e l’Atto del Consiglio, del 28 maggio 1998, ancora da ratificare, sulla competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni delle cause matrimoniali (che, all’art. 42, estende le proprie previsioni all’Accordo tra l’Italia e la S. Sede del 18 febbraio 1984) (G.U. delle CE, Comunicazioni ed informazioni, C 221, del 16 luglio 1998). Un intervento di tal genere risulterebbe chiaramente insufficiente.

 

[5] Cfr. L. Musselli, “Islam ed ordinamento italiano. Riflessioni per un primo approccio al problema”, in Dir. eccl., 1992, I, p. 621 suiv.; Id., “Libertà religiosa e Islam nell’ordinamento italiano”, in Il Politico, 1995, LX, n. 2, p. 227 suiv.; A. Iacovella, “Cenni sulla condizione etico-giuridica dei cristiani nel mondo musulmano: Islam e codificazione della ‘differenza’”, in Dir. eccl., 1994, I, p. 1045 suiv.

 

[6] Cfr. R. Aluffi Beck Peccoz, Codice arabo uniforme dello statuto personale, presentazione di Francesco Castro, Roma 1990.

 

[7] Cfr. G. Kepel, La rivincita di Dio. Cristiani, ebrei, musulmani alla riconquista del mondo, Milano 1991.

 

[8] Cfr. I. M. Lapidus, Storia delle società islamiche, vol. I, Le origini dell’Islam secoli VII-XIII, Torino 1993, p. 129 suiv.

 

[9] Cfr. I. M. Lapidus, op. cit., vol. II, La diffusione dell’Islam secoli X-XIX, Torino 1994, p. 27 suiv.

 

[10] Cfr. I. M. Lapidus, op. ult. cit., p. 34.

 

[11] Cfr. L. Musselli, “Islam e ordinamenti giuridici europei: momenti di contrasto e momenti di possibile integrazione”, in Quaderni della Scuola di specializzazione in diritto ecclesiastico e canonico, 4, La presenza islamica nell’ordinamento giuridico italiano, a cura di Mario Tedeschi, Napoli 1966, p. 15 suiv.

 

[12] Cfr. M. Tedeschi, Tre religioni a confronto. Cristiani ebrei e musulmani nel basso Medioevo spagnolo, Torino 1992; e l’edizione spagnola Polémica y convivencia de las tres religiones, Madrid 1992; Id., “Cristianesimo e islamismo. Presupposti storico-giuridici”, in Dir. eccl., 1995, I, p. 928 suiv., e in Quaderni della scuola di specializzazione in diritto ecclesiastico e canonico, cit., p. 27 suiv.

 

[13] Cfr. M. Tedeschi, “Verso un’intesa tra la Repubblica italiana e la comunità islamica in Italia”, in Dir. fam., 1996, p. 1574 ss.

 

[14] Cfr. il vol. Intesa tra la Repubblica Italiana e la Comunità islamica in Italia proposta dalla CO.RE.IS. (Comunità Religiosa Islamica) Italiana, Milano 1998.

 

[15] Cfr. M. Tedeschi , op. ult. cit., p. 1577 suiv.