N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

 

Due poco noti processi per concussione:

Tito Albucio e Gaio Megabocco

pretori in Sardegna

 

 

ESMERALDA UGHI

Università di Sassari

 

 

Il processo celebrato a Roma nel 54 a.C. contro il propretore della Sardegna M. Emilio Scauro, accusato de repetundis  dai provinciali sardi è senza dubbio il più celebre episodio della vita politica romana nell'isola, nel corso degli ultimi anni della repubblica: ci é pervenuta, anche se solo parzialmente, l’orazione Pro Scauro pronunziata da  Cicerone, che ci consente, con l’apporto del commento di Asconio, una lettura abbastanza precisa delle circostanze che motivarono l’accusa contro Scauro e dello svolgimento del processo, che terminò con l'assoluzione dell'accusato[1].

A partire dal Bellieni, la vicenda di Scauro è stata assunta dalla storiografia sulla Sardegna romana quale emblematica del malgoverno romano, fondato sulla corruzione, la sopraffazione, la legge del più forte: l'uccisione di Bostare, la violenza sulla moglie di Arine e la riscossione da parte di Scauro delle tre decime testimonierebbero i metodi adottati dai governatori romani in Sardegna[2]. Eppure non mancano nella storia della Sardegna anche sporadici casi di buon governo, come quelli di M. Porcio Catone, pretore nel 198 a.C. (che abolì le requisizioni solitamente a vantaggio dell'ufficio del governatore)[3] e di Gaio Gracco, questore tra il 125 ed il 124[4].

Del resto quello contro Scauro non fu il solo ed il primo procedimento penale ad essere intentato contro un governatore della provincia Sardinia (che comprendeva la Sardegna e la Corsica); anche se la documentazione in nostro possesso è estremamente lacunosa, il primo processo contro un magistrato romano operante nell'isola fu celebrato, per quanto ne sappiamo, già alla fine del II secolo a.C. contro il pretore Tito Albucio, accusato di concussione dai Sardi[5]. Purtroppo le notizie sul personaggio sono assai scarne e la stessa cronologia é relativamente incerta: Albucio fu pretore in Sardegna nel 105 a.C. e probabilmente fu riconfermato per l’anno successivo come propretore, almeno secondo quanto sostiene il Broughton: il processo per concussione andrebbe allora collocato nel 103 a.C.[6]. Gli studiosi sono però divisi e in maggioranza tendono ad anticipare di qualche anno questi avvenimenti: se si esclude la cronologia proposta dal Milan (che porterebbe al 117 a.C. la propretura di T. Albucio, ma in modo del tutto arbitrario)[7], il Gruen, il Rowland, il Mantovani e da ultimo Maria Antonietta Porcu propongono le date 107 e 106 per la pretura e la propretura di Albucio; dunque il processo sarebbe da spostare al 105[8]; il Badian anticiperebbe al 106 la questura di Pompeo Strabone, che ricoprì questa carica proprio durante il mandato di T. Albucio, in base ad un ipotizzato tribunato della plebe nel 104, anno nel quale Strabone avrebbe sostenuto, come tribuno, l’accusa nel processo per parricidium contro Q. Fabius Maximus Eburnus[9]. Infine, W. Feemster-Jashemski anticiperebbe la propretura all’anno 105[10].

Noi conosciamo a grandi linee attraverso Strabone la situazione militare dell'isola ancora alla fine della repubblica, quando i barbari Iolei (Iliensi), i Parati, i Sossinati, i Balari e gli Aconti continuavano a ribellarsi ai Romani[11], per quanto il trionfo di M. Cecilio Metello, celebrato il 15 luglio 111 ex Sardini(a) , fosse stato l’ottavo e ultimo sui Sardi[12]. La situazione di disordine, alimentata da rivolte endemiche, dovè continuare dunque anche dopo tale data e proseguire per tutto il I secolo a.C., tenuta sotto controllo con ripetute operazioni di polizia, come quelle descritteci da Strabone. Dunque anche le campagne militari condotte da T. Albucio durante il suo mandato devono essere ridimensionate, in quanto dovevano avere degli obiettivi specifici e limitati nel tempo e nello spazio. Del resto Cicerone afferma esplicitamente che Albucio celebrò una sorta di trionfo privato, poiché gli era stato rifiutato dal senato l’onore della supplicatio[13]. In proposito Cicerone sottolinea la differenza tra le azioni militari condotte in Sardegna, per le quali erano sufficenti un propretore con una sola coorte ausiliaria per sbaragliare le bande di briganti, e quelle condotte in Siria contro re potenti ed eserciti più agguerriti e preparati, per le quali si aveva la necessità di un esercito consolare agli ordini di un proconsole. Cicerone non solo metteva in evidenza la presunzione di T. Albucio, che aveva osato celebrare nella provincia il trionfo senza il permesso del senato, ma anche il fatto che egli aveva avuto a che fare semplicemente con mastrucati latrunculi, cioé con briganti vestiti di pelli, e non certo con un esercito organizzato e in grado di condurre una guerra[14]: e Isidoro, commentando Cicerone, osserva che i Sardi - seguendo una tradizione millenaria - indossavano un loro tipico abbigliamento dal sapore un po' selvatico, la caratteristica mastruca, una veste fatta di pelli di capra, mostruosa se coloro che la vestono assumono le sembianze di un animale: eo quod qui ea induuntur, quasi in ferarum habitum transformentur[15]. Questa doveva essere la veste dei Sardi Pelliti, secondo Livio facile vinci adsueti[16], che erano stati gli sfortunati alleati di Ampsicora e dei Cartaginesi nella guerra annibalica[17].

Tra le poche notizie in nostro possesso, va comunque rilevato che T. Albucio é considerato il primo romano (almeno di cui si abbia notizia certa) a condurre una vita conforme ai principi di Epicuro, principi appresi probabilmente durante la sua giovinezza trascorsa ad Atene, dove si era formato culturalmente[18]. E già il suo contemporaneo Lucilio, in un celebre frammento delle satire, si burlava di codesto romano filelleno e della sua bizzarra grecomania[19]; nondimeno Cicerone dimostrava la sua disistima nei confronti di Albucio definendolo graecum hominem ac levem[20]. L’Arpinate ironizzava poi sul fatto che Albucio era assolutamente inadatto agli affari militari e al comando, proprio per essere un seguace di Epicuro, nè possedeva l’arte dell’eloquenza e soprattutto si rammaricava del fatto che egli non avesse preferito tenersi lontano dalla politica conformemente alla dottrina del filosofo prediletto[21].

Solo alla fine del suo mandato, probabilmente nel 104 a.C.  (il potere del pretore era assoluto e i suoi eventuali abusi potevano essere perseguiti solo al termine della magistratura), i Sardi accusarono T. Albucio de repetundis, secondo le procedure previste dalla lex Servilia Caepionis repetundarum, emanata forse nel 106 a.C. su proposta del console Q. Servilio Cepione[22].

L’esigenza di perseguire penalmente i magistrati provinciali accusati di concussione aveva indotto fin dal 171 a.C. il Senato ad intervenire, per tutelare i provinciali (in particolare gli Spagnoli), con una prima forma di processo ordinario, quello delle quaestiones, con un collegio di cinque recuperatores  scelti tra i senatori, incaricati di costringere i funzionari concussionari a restituire il maltolto (con una procedura analoga a quella del processo privato)[23]. Successivamente, nel 149 a.C., una lex Calpurnia, un plebiscito proposto dal tribuno L. Calpurnio Pisone, sancì una regolare prassi processuale[24], sotto la direzione di un praetor peregrinus  con l’ausilio di cinque iudices di rango senatorio[25]. Il processo si svolgeva mediante una procedura di carattere privato (legis actio sacramento) e l’accusa contro un magistrato poteva essere promossa solo con l’assistenza di patroni romani tratti anch’essi ex ordine senatorio. Come è noto, la prassi imposta dalla lex Calpurnia aveva uno scopo fondamentalmente recuperatorio: si trattava infatti di condannare il colpevole all’esborso di un importo equivalente all’ammontare dell’estorsione, onde il nome di pecuniae repetundae che rimase ad indicare questo crimine. Ciò palesava la volontà dell’oligarchia senatoria di limitare la responsabilità dei magistrati concussionari all’ambito patrimoniale, per evitare conseguenze di tipo penale a loro carico. Si trattò, in altri termini, di un provvedimento di carattere precipuamente politico, tendente alla salvaguardia dell’autorevolezza della classe dominante più che alla reale tutela delle popolazioni sottomesse[26].

Una successiva lex Iunia[27] non dovette innovare molto rispetto alla precedente, mentre la materia venne totalmente rielaborata da una lex repetundarum del 123-122 a.C., nell’ambito della vasta attività rinnovatrice di Caio Gracco. Si colloca in questo periodo la lex Acilia repetundarum, un plebiscito proposto forse da M. Acilio Glabrio, collega di Caio Gracco nel tribunato. Il testo di questa legge é probabilmente quello consevarvatoci nei frammenti di una tavola di bronzo, detti “tavole del Bembo”[28]. Con questa legge si istituì il primo tribunale criminale permanente per celebrare i processi di concussione. Quasi certamente la lex Acilia fu preceduta dalla lex Sempronia iudiciaria[29], provvedimento col quale l’ufficio di praetor repetundis venne conferito ai cavalieri. Inoltre l’actio repetundarum delle leggi Calpurnia e Iunia, di carattere sostanzialmente civile, venne spostata sul piano penale[30].

L’iniziativa legislativa di Gaio Gracco, arrivato al tribunato dopo una difficile esperienza di questore in Sardegna, potrebbe essere un’ulteriore conferma dei soprusi subiti dai Sardi, che il questore aveva potuto toccare con mano proprio nei tre anni trascorsi nell’isola: con una qualche esagerazione, al suo rientro a Roma, Gaio Gracco aveva raccontato degli abusi dei suoi predecessori, che, abituati a portare con sè il vino necessario per tutto il periodo della magistratura in Sardegna, riportavano nella capitale le anfore piene di oro e argento sottratto illegalmente ai provinciali[31]. Lo sdegno del questore ha sicuramente determinato la presentazione di tale proposta di legge; del resto altre analoghe decisioni di Gaio Gracco sono state sicuramente prese in relazione all’esperienza sarda: si pensi ad esempio alla Lex Sempronia militaris del 123, con la quale si mettevano a carico della res publica le spese per le vesti dei soldati[32]; e Plutarco racconta come in Sardegna Gaio Gracco si era dovuto operare per ottenere gratuitamente dalle civitates peregrinae le tuniche per i soldati, che soffrivano il freddo nella dura stagione invernale[33].

La legge contenuta nelle tavole bembine affidò la direzione del tribunale ad un pretore, praetor repetundis, che compilava una lista di quattrocentocinquanta cittadini, scelti fra i cavalieri; ad ogni processo l’accusatore aveva la facoltà di scegliere da questa lista cento nomi e di comunicarli all’accusato, il quale a sua volta fra quei cento indicava i cinquanta che avrebbero formato la giuria. Il provinciale danneggiato era legittimato a promuovere personalmente la causa, senza dover dipendere dai patroni romani e, in caso di vittoria, se straniero, otteneva il privilegio della cittadinanza romana e il diritto di voto nella tribù dell’accusato; se latino, la scelta tra la cittadinanza e lo ius provocationis. Qualsiasi cittadino poteva presentarsi in qualità di accusatore e fare una postulatio, cioé chiedere al magistrato la facoltà di accusare; nel caso di più postulanti si faceva una sorta di giudizio preventivo, la divinatio[34], per stabilire chi desse maggiore garanzia per far valere l’accusa in modo adeguato. Accolta la postulatio, seguiva l’accusa vera e propria, la nominis delatio, cui corrispondeva il nomen recipere da parte del magistrato. Formata la giuria, aveva luogo il dibattimento con l’assunzione delle prove. A conclusione del processo, il pretore (che non votava) raccoglieva i voti dei membri della giuria.

Nello sviluppo del processo delle quaestiones si deve rilevare la progressiva affermazione della pena capitale; di fatto l’esilio divenne il solo modo per sfuggire all’esecuzione della pena, con le conseguenti interdictio aquae et igni (la perdita della cittadinanza) e publicatio (la confisca dei beni, effetto necessario della pena capitale)[35]. L’esilio divenne quindi la conseguenza diretta della condanna e la coscienza giuridica popolare fu portata a vedere nell’esilio e nell’interdictio aquae et igni una vera e propria pena. In seguito questo concetto venne inserito nelle leggi e la condanna all’esilio venne comminata direttamente[36]. E così l’interdictio aquae et igni divenne una forma di pena capitale[37].

La materia fu successivamente regolata da una lex Servilia Caepionis, forse del 106 a.C., che è probabilmente quella in vigore al momento del processo a Tito Albucio; più tardi da una lex Servilia Glauciae, da collocare probabilmente intorno al 101 a.C.[38]; quest'ultima stabilì a carico del condannato la privazione dei diritti civili, sanzione di infamia che fu ripresa solo più tardi da Cesare nel 59 in occasione del suo primo consolato), con una lex Iulia[39], poiché la lex Cornelia di Silla dell'81 a.C. era probabilmente più mite[40].

Le leges repetundarum furono emanate, almeno in teoria, per tutelare principalmente i socii e i sudditi provinciali, i più soggetti agli abusi e alle malversazioni dei governatori[41].

Purtroppo non abbiamo nessuna testimonianza dell'effettivo svolgimento del processo contro T. Albucio, poiché l’orazione Pro Sardis[42] pronunciata dall'accusatore C. Iulius Caesar Strabo[43] é andata perduta. Cicerone elogia l’ars dicendi di Cesare Strabone, zio di Giulio Cesare, per la vivacità e l’acutezza del linguaggio; la sua eloquenza non fu mai violenta e nessun oratore gli fu superiore in eleganza e piacevolezza di espressione ma soprattutto nell’arguzia delle battute[44]. Non dimentichiamo che Strabone è uno degli interlocutori del De oratore, in un passo nel quale espone la teoria dell’uso della battuta nell’ars dicendi[45]. Inoltre Cicerone ci informa dell’esistenza di qualche sua orazione ancora in quegli anni, che ben più delle sue tragedie poteva dare un’idea della validità della sua ars oratoria, benché essa fosse priva di impeto verbale[46].

Svetonio conferma che l’ars dicendi di Giulio Cesare (che considera il miglior oratore di tutti i tempi), almeno durante la sua giovinezza, doveva essere molto influenzata dal genere di eloquenza di Strabone[47]. Anche Cicerone, enumerando gli oratori più famosi, dichiara che nessuno può essere considerato superiore a Cesare per la sua eloquenza elegante, brillante, ricercata e ricca di un’innata nobiltà[48]; anche in un'epistola indirizzata Cornelio Nepote, l'Arpinate elogia la capacità espressiva di un uomo che non si era consacrato unicamente all’arte del foro[49].

Nel 77 a.C. Cesare, allora appena ventitreenne, ed alle prime armi come avvocato, accusò di concussione Dolabella, ex proconsole della Macedonia. In seguito a questo processo, conclusosi con la condanna dell’accusato, Cesare fu considerato incontestabilmente tra i primi talenti del foro[50]. Nella Divinatio (il discorso svolto nell'udienza preliminare, in seguito al quale Cesare ottenne l’approvazione del tribunale come accusatore di Dolabella), egli riprodusse parola per parola (ad verbum) l’orazione Pro Sardis, che Cesare Strabone aveva pronunciato trent'anni prima contro T. Albucio[51]. Appare dunque probabile che l’orazione Pro Sardis, non solo influenzò il giovane Giulio Cesare nell’ambito del già citato processo contro Dolabella, ma fu per il maturo Cesare dell’anno del consolato uno stimolo ad operare per combattere la corruzione, se egli, nella sua intensa opera di organizzazione in campo legislativo e amministrativo, intervenne anche nel settore penale con la già accennata lex Iulia de pecuniis repetundis, che riordinò tutta la materia, ampliando sensibilmente la cerchia delle persone punibili e il numero delle fattispecie criminose rientranti nel concetto di repetundae ed inasprendo notevolmente le modalità del procedimento penale[52]. Svetonio tramanda che egli servì la giustizia con il più grande zelo e in maniera molto rigorosa, giungendo fino a cacciare dall’ordine senatorio i magistrati accusati di concussione[53]. Fu appunto questa la legge che rimase fondamentale in età imperiale, soprattutto per la determinazione dei fatti punibili: nel Digesto di Giustiniano[54] il titolo delle rubriche che trattano questa materia è de lege Iulia repetundarum[55]. In forza di tale legge fu sicuramente condannato durante l'età di Nerone il prefetto della Sardegna Vipsanio Lenate ob Sardiniam prouinciam auare habitam[56], secondo una notiza conservataci da Tacito.

Per tornare al processo contro Albucio, va rilevato che inizialmente si tentò si imbrogliare le carte, se in veste di accusatore si era presentato Cn. Pompeo Strabone (più tardi console nell’89 a.C. e padre di Pompeo Magno), che era stato il questore agli ordini del pretore accusato dai Sardi[57]; è dunque abbastanza credibile che egli fosse a conoscenza delle azioni illegali commesse da Tito Albucio, suo superiore diretto, se non addiritura uno dei complici del magistrato. Proprio per evitare accordi di questo tipo, la lex Servilia Caepionis prevedeva un'azione preliminare, che imponeva a chi intendesse presentarsi in veste di accusatore di  pronunciare una postulatio, cioè di chiedere al magistrato la facoltà di accusare.

Dal momento che i Sardi rifiutavano Pompeo e chiedevano con insistenza che l’accusa venisse affidata invece a Giulio Cesare Strabone, si pose il problema di una decisione preliminare in proposito. Nel caso si presentassero più postulanti era consuetudine che si svolgesse una specie di giudizio preventivo, la divinatio, per stabilire chi poteva dare maggiore garanzia per far valere l’accusa vera e propria, la nominis delatio. Chiaramente se fosse stata accolta la candidatura di Pompeo Strabone, per la sua posizione non imparziale, il processo si sarebbe orirentato fin dalle prime battute in modo scandalosamente favorevole ad Albucio. Fu invece accolta la postulatio di Giulio Cesare Strabone[58], cui seguì l’accusa vera e propria; una volta formata la giuria, ebbe luogo il dibattimento coll’assunzione delle prove. Alla fine delle varie fasi del processo, il pretore raccolse i voti dei membri della giuria, che si espressero a maggioranza per la condanna: le tavolette cerate con la C nel senso di c(ondemno) risultarono più niumerose di quelle con la A, a(bsolvo).

Fu così che Cesare Strabone riuscì a dimostrare la colpevolezza di T. Albucio, ottenendo un verdetto negativo per l’accusato: eppure, osserva Cicerone, qualche sardo lo aveva elogiato (non nullis etiam laudantibus Sardis); ma a quanto sembra i giurati erano stati convinti da testimoni imparziali e da documenti ufficiali autentici[59].

Albucio scelse allora l’esilio, con la conseguente interdictio aquae et igni, per cui l’esule era escluso da ogni comunanza di vita cittadina e non poteva rientrare in suolo patrio senza rischiare la vita. Quindi decise di recarsi ad Atene dove poté dedicarsi agli amati studi di filosofia in perfetta serenità d’animo, nonostante la condanna inflittagli[60].

Ancor più scarne notizie abbiamo riguardo ad un secondo processo celebrato contro un altro predecessore di Scauro in Sardegna, che Cicerone cita insieme a T. Albucio[61], un C. Megabocchus, col titolo forse di propretore, usuale dopo la riforma sillana dei governi provinciali[62]. Pare che questo personaggio, per noi oscuro, sia stato giudicato e poi condannato alla fine del suo mandato, sicuramente prima del 54 a.C., forse in relazione alla lex Iulia de pecuniis repetundis[63]: eppure anche in questo caso c'erano stati alcuni testimoni sardi che non solo avevano difeso il governatore, ma ne avevano fatto addirittura l'elogio[64].

Una qualche definizione cronologica ci è fornita da Plutarco, che ricorda un Megabacchus, difficilmente da identificare con il propretore della Sardegna, che combatté al fianco di Crasso il giovane e morì nella battaglia di Carre contro i Parti nella primavera del 53 a.C.[65]. Tale identificazione è accolta ad esempio dal Münzer e dal Klein, per i quali il Megabocchus  di cui parla Cicerone in una lettera ad Attico del 59 a.C.[66] e il Megabacchus  morto a Carre sei anni dopo, che viene menzionato da Plutarco, sono la medesima persona[67]. L’unica attestazione epigrafica del cognomen Megabocchus è l’iscrizione di Oderzo nella quale viene menzionato un L. Valerius Megabocchus [68].

Appare in realtà alquanto problematico procedere ad un'identificazione dei personaggi citati ed in particolare del C. Megabocchus  ricordato insieme ad Albucio nella Pro Scauro come governatore della Sardegna condannato per concussione, con il Megabocchus menzionato nell’epistola indirizzata ad Attico[69] e il Megabacchus citato da Plutarco. Anche ammesso che i due personaggi citati da Cicerone siano un’unica persona, sembra inverosimile che Plutarco si possa esser riferito al governatore concussionario della Sardegna, processato e dichiarato colpevole del crimen pecuniarium repetundarum prima del 54 a.C. (cioè prima del processo contro Scauro). Come si è detto, sembra accertato che il processo contro Megabocco si sia svolto secondo la prassi sancita dalla lex Iulia del 59 a. C., con la quale il procedimento penale subì un notevole inasprimento, che ebbe come conseguenza la perdita dei diritti politici ovvero l’impossibilità di essere eletti alle cariche pubbliche e l’allontanamento dal senato: ciò significava l’esilio. Del resto anche in epoca precedente a questa legge voluta da Cesare l’accusa di concussione era una tra le più gravi che potessero colpire un cittadino romano.

Pare dunque evidente che il Megabocchus condannato per concussione su richiesta dei Sardi, finito politicamente e ormai non più giovane, non potesse trovarsi nel 53 a.C. a Carre a fianco del giovane Crasso, di cui era quasi coetaneo[70].

 

 

 

 



 

[1] Esiste un’abbondante letteratura sul processo contro Scauro; ci limitiamo in questa sede a ricordare alcune delle principali opere: H. Gaumitz, M. Aemilii Scauri causa repetundarum et de Ciceronis pro Scauro oratione, in Leipziger Studien 2 (1879) 249-289; Klebs, v. M. Aemilius Scaurus, in R.E., 1.1 (1893) coll. 588-590, n. 141; E. Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano, II, Cagliari 1923, 631-639; C. Bellieni, La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico, I, Cagliari 1928, 159-219; B.R Motzo, Cesare e la Sardegna, in «Sardegna Romana», Roma 1936, 23-49; Ch. Henderson Jr., The career of the younger M. Aemilius Scaurus, in The Classical Journal 53 (1958) 194-206; E. Courtney, The prosecution of Scaurus in 54 B.C., in Philologus 105 (1961) 151-156; I. Shatzman, Scaurus, Marius, and the Metelli. A prosopographical-factional case, in Ancient Society 5 (1974) 197-222; B. Marshall, Two court cases in the late second century B. C., in American Journal of Philology 98 (1977) 417-423; J.W. Crawford, M. Tullius Cicero: the lost and unpublished Orations, Gottingen 1984; P. Meloni, La Sardegna e la Repubblica Romana, in Storia dei Sardi e della Sardegna, Milano 1988, 223-225; ID., La Sardegna romana, Sassari 1990, 115-120; D. Argiolas, Il processo contro Scauro, in Sardegna Antica, 5, Nuoro, I semestre 1994.

 

[2] Vd. ora A. Mastino, P. Ruggeri, Camillo Bellieni e la Sardegna romana, in SESUJA. Quadrimestrale di Cultura. Pubblicazioni dell’Istituto Camillo Bellieni 17-18 (1995-1996) 7-44.

 

[3] Liv. 32.27.4.

 

[4] Gell. 15.12; Plut. C. Gr., II.5, cfr. A. Mastino, La Sardegna romana, in Storia della Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Sassari 1995, 83 s.

 

[5]Vd. già Motzo, Cesare e la Sardegna cit., 23 ss.

 

[6] T.R.S. Broughton, The magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, 556 e 560; III, Supplement, New York 1986, 14. Questa è anche la cronologia già di J. Klein, Die Verwaltungsbeamten der Provinzen des Romischen Reichs bis auf Diocletian, I, 1, Sicilien und Sardinia, Bonn 1878, 236-237; vd. anche, sulla stessa linea, C. Vismara, Funzionari civili e militari nella Corsica Romana, in Studi per Laura Breglia. Supplemento al Bollettino di Numismatica 4.3 (1987) 60.

 

[7] A. Milan, Ricerche sul latrocinium in Livio, I: Latro nelle fonti preaugustee, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di Scienze morali e Lettere. Venezia 138 (1979-1980) 181 n. 27.

 

[8] E.S. Gruen, Roman Politics and the Criminal Courts in 104 B.C., in Transactions and proceedings of the American Philological Association 95 (1964) 99-110; ID., Roman Politics and the Criminals Courts, 149-78 B.C., ibid. 99 (1968) 171-173; R. J. Rowland JR., The date of Pompeius Strabo’s Quaestorship, in Classical Philology 63, 1 (1968) 213-214; D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare: dalla quaestio unilaterale alla quaestio bilaterale, Padova 1989, 64 ss.; M.A. Porcu, I magistrati romani in età repubblicana, Sassari 1991, 25.

 

[9] E. Badian, Three no Trials in Cicero. Notes on the Text, Prosopography and Chronology in Divinatio in Caecilium 63, in Klio 66, 1 (1984), 291-309. Vedi anche Broughton, The magistrates cit., I, 560; III, S., 165-166; Klein, Die Verwaltungsbeamten cit., 286-287.

 

[10] W. Feemster-Jashemski, The origins and history of the proconsular and propraetorian imperium to 27 B.C., Chicago 1959, 120.

 

[11] Strab. 5. 2.7.

 

[12] Fasti Consulares et Triumphales, cur. A. Degrassi, in Inscriptiones Italiae, XIII, 1, Roma 1947, 84 s.; cfr. Porcu, I magistrati cit., 25 e 36.

 

[13] Cic., De prov. cons., 7.15: etiam T. Albucio supplicationem hunc ordinem denegasse. Quod est primum dissimile, res in Sardinia cum mastrucatis latrunculis a propraetore una cohorte auxiliaria gesta et bellum cum maximis Syriae gentibus et tyrannis consulari exercitu imperioque confectum. Deinde Albucius, quod a senatu petebant, ipse sibi in Sardinia ante decreverat. Constabat enim Graecum hominem ac levem in ipsa provincia quasi triumphasse, itaque hanc eius temeritatem senatus supplicatione denegata notavit.

 

[14] Per le fonti sulla mastruca, vd. M. Perra, La Sardegna nelle fonti classiche dal VI sec. a.C. al VI sec. d.C., Oristano 1993, 357 ss. e n. 117. Si trattava di un indumento di pelle di muflone o pecora, il cui nome é considerato di origine sarda, almeno secondo Plaut., Poenulus, 5.5.33 (mastruca Sardorum); Quint., Instit. Orat., I.5.8; soprattutto Pomp., Gramm. 5,284 (mastruga sagum dicitur lingua Sardorum). Vd. inoltre Cic., Pro Scauro, 45; Cosent., Gramm. 5.386; Hier., c. Lucif. 1; Paul. Nol., Epist. 49.12; Isid., Orig., 19.23.1 e 5; cfr. Schuppe, v. mastruca, in R.E., 14.2 (1930) coll. 2176-2178. Milan, Ricerche sul latrocinium cit., 181 s., osserva che nelle opere di Cicerone i sostantivi latro e latrocinium ricorrono abbastanza di frequente, anche se il sostantivo latrunculus é un hapax legomenon.

 

[15] Isid., Orig., 19, 23,5, cfr. A. Mastino, La Sardegna nelle fonti classiche, in Rivista storica dell'antichità, 22-23 (1992-1993) [1994], 247 n. 40.

 

[16] Liv. 23.40.11.

 

[17] Liv. 23.40.3; vd. anche Varr., Res rust., 2.11.11: neque non quaedam nationes harum pellibus sunt vestitae, ut in Gaetulia et in Sardinia, cfr. A. Mastino, Analfabetismo e resistenza: geografia epigrafica della Sardegna, in L'epigrafia del villaggio, a cura di A. Calbi, A. Donati, G. Poma (Epigrafia e Antichità, 12), Faenza 1993, 496 s. e n. 148.

 

[18] Cic., Brutus, 35.131; In Pisonem, 38.92.

 

[19] Lucil., Sat., II.19.

 

[20] Cic., De prov. cons., 7.15.

 

[21] Cic., In Pisonem, 38.92; Tuscul. disput., 5.37.108.

 

[22] Cic., Brutus 164, cfr. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare cit., 68 n. 48; 71 ss.; V. Giuffrè, La ‘repressione criminale’ nell’esperienza romana, Napoli 1993, 79 s.; B. Santalucia, Studi di diritto penale romano, Roma 1994, 193 s.

 

[23] Liv., 43.2., cfr. C. Venturini, La repressione degli abusi dei magistrati romani ai danni delle popolazioni soggette fino alla lex Calpurnia al 149 a.C., in Bulletino dell’Istituto di Diritto Romano 72 (1969) 19 ss.

 

[24] Cic., Brutus, 27.106: Nam et quaestiones perpetuae hoc adulescente constitutae sunt, quae antea nullae fuerunt - L. enim Piso tribunus plebis legem primus de pecuniis repetundis Censorino et Manilio consulibus tulit. Vd. in proposito J.S. Richardson, The Purpose of the ”lex Calpurnia de repetundis”, in Journal of Roman Studies 77 (1987) 1 ss.; Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare cit., 52, 167, 178, n. 183 e 182 ss.; GIUFFRÈ, La ‘repressione criminale’ cit., 75 ss.; Santalucia, Studi di diritto penale cit., 186 ss.

 

[25] Per quanto riguarda il crimen pecuniarum repetundarum vd. W. Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des romischen Kriminalverfahrens un vorsullanischer Zeit,, in Revue des Études Latines 41 (1963) 533-536; Gruen, Roman Politics cit., 8 ss.; W. Eder, Das vorsullanische Repetundenverfahren, München 1969, 15 ss.; C. Venturini, Studi sul «crimen repetundarum» nell’età repubblicana, Milano 1979, 129 ss.

 

[26] Cfr. F. Serrao, Appunti sui ”patroni” e sulla legittimazione attiva all’accusa nei processi ”repetundarum”, in Classi, partiti e legge nella repubblica romana, Pisa 1974, 233 ss.; B. Santalucia, La repressione penale e le garanzie del cittadino, in Storia di Roma, II, L’impero mediterraneo, 1, La repubblica imperiale, Torino 1990, 543. Pisa 1974, 233 ss.; Id., Studi di diritto penale romano cit., 187 e 190.

 

[27] Santalucia, Studi di diritto cit., 187 e 190.

 

[28] CIL I 583; cfr. G. Rotondi, Leges publicae popouli romani, Milano 1912, 312 s.; FIRA I, 1968, 84 ss.

 

[29] Sulla quale vd. Tac., Ann., 12.60.3, cfr. G. WOLF, Historische Untersuchungen zu den Gesetzen des C. Gracchus. «Leges de iudiciis» und «leges de sociis», München 1972, 5 sgg.; A.N. Sherwin-White, The Lex Repetundarum and the political ideas of Gaius Gracchus, in Jounal of Roman Studies 72 (1982) 5.

 

[30] A. Lintott, The leges de repetundis and associate measures under the Republic, in Zeitschrift der Savigny – Stiftung für Rechtsgeschichte (Romanistische  Abteilung) 98 (1981) 182 ss. Vd. anche Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare cit., 78 ss.; Giuffrè, La repressione criminale’ cit., 78 s.; Santalucia, Studi di diritto cit., 188 ss., n. 128, 129 s. e 202.

 

[31] Gell. 15.12.4; vd. anche Plut., C. Gr., II, 1 sgg.; cfr. P. Ruggeri, Alle orgini della viticoltura in Sardegna, in Quinta settimana della cultura scientifica, Sassari 1995, 39; A. Mastino, La Sardegna romana, in Storia della Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Sassari 1995, 83 s.

 

[32] G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1912, 308.

 

[33] Plut., C.Gr. I.2.

 

[34] Sulla divinatio vd. Venturini, Studi sul “crimen repetundarum” nell’età repubblicana, cit., 421, n. 54.

 

[35] Cic., Pro Cecina, 34.100; cfr. Pol., 6.14,78; Sall., Catil., 51.22 e 40; Liv., 25.4.9; 26.3.12.

 

[36] Così forse nella lex de ambitu di Cicerone (63 a.C.), nella lex Fufia de religione (61 a.C.), nella lex Clodia (58 a.C.) e nella lex Pompeia (52 a.C.); cfr. Giuffrè, La l“repressione criminale” cit., 96.

 

[37] Vd. Giuffrè, La “repressione criminale” cit., 53, 57 e 84; Santalucia, Studi di diritto cit., 177 s.

 

[38] Vd. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare, cit., 62 ss; Giuffrè, La “repressione criminale” cit., 78 s.; Santalucia, Studi di diritto, cit., 193 e 203.

 

[39] Cic., In Vat., 12.29; Suet., Iul., 43; cfr. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare, cit. 158, 179 s. e 188.

 

[40] Vd. Giuffrè, La “repressione criminale” cit., 79; Santalucia, Studi di diritto, cit., 196 ss.

 

[41] Cic., Div. in Caecil., 5.17-18: quasi vero dubium sit quin tota lex de pecuniis repetundis sociorum causa constituta sit; nam civibus cum sunt ereptae pecuniae, civili fere actione et privato iure repetuntur. Haec lex socialis est, hoc ius nationum exterarum est, hanc habent arcem, minus aliquanto nunc quidem munitam quam antea, verum tamen si qua reliqua spes est, quae sociorum animos consolari possit, ea tota in hac lege posita est; cuius legis non modo a populo Romano, sed etiam ab ultimis nationibus iam pridem severi custodes requiruntur.

 

[42] Suet., Iul., 55.3.

 

[43] Cic., Div. in Q. Caecil., 19.63: Atque ille Cn. Pompeius ita cum C. Iulio contendit, ut tu mecum; quaestor enim Albuci fuerat, ut tu Verris; Iulius hoc secum auctoritas ad accusandum adferebat quod, ut hoc tempore nos ab Siculis, sic tum ille ab Sardis rogatus ad causam accesserat.

 

[44] Cic., Brutus, 48.177; 60.216.

 

[45] Cic., De orat., 2.58.235: Ac ne diutius vos demorer, de omni isto genere quid sententiam perbreviter exponam. De risu quinque sunt quae quaerantur: unum, quid sit; alterum, unde sit; tertium, sitne oratoris risum velle movere; quartum, quatenus; quintum, quae sint genera ridiculi.

 

[46] Cic., Brutus, 48.177: Sunt eius aliquot orationes, ex quibus sicut ex eiusdem tragoediis lenitas eius sine nervis perspici potest. Giulio Cesare Strabone fu considerato uno dei migliori oratori del suo tempo ed un eccellente tragediografo. Fu ucciso mentre esercitava l’edilità, poiché tentò di farsi eleggere console senza prima aver prima esercitato la pretura. Dapprima il tribuno Sulpicius tentò di fermarlo attraverso le vie legali, ma la controversia si inasprì ed il tribuno ricorse alla violenza ed alle armi (Cic., Brutus, 63, 226; 89, 305 e 307).

 

[47] Suet., Iul., 55.1-3.

 

[48] Cic., Brutus, 261.

 

[49] Cic., Epist., frag. 2.4.

 

[50] Suet., Iul., 55.2.

 

[51] Suet., Iul., 55.3: Genus eloquentiae dum taxat adulescens adhuc Strabonis Caesaris secutus videtur, cuius etiam ex oratione, quae inscribitur «Pro Sardis», ad verbum nonnulla transtulit in divinationem suam.

 

[52] Vd. Mastino, La Sardegna romana cit., 85.

 

[53] Suet., Iul., 43.

 

[54] Dig., XLVII, 11; Cod., IX, 27.

 

[55] C. Ferrini, Diritto penale romano, esposizione storica dottrinale, Roma 1976, 406.

 

[56] Tac. ann., 13.30.1, cfr. P. Meloni, L'amministrazione della Sardegna da Augusto all'invasione vandalica, Roma 1958, pros. 5.

 

[57] Cic., Div. in Q. Caecil., 19.63.

 

[58] Cic., De off., 2.50; Apul., Apol., 66.4.

 

[59] Cic., Pro Scauro, 18.40: Damnatus est T. Albucius, C. Megabocchus ex Sardinia non nullis etiam laudantibus Sardis. Ita fidem maiorem varietas ipsa faciebat. Testibus enim aequis, tabulis incorruptis tenebantur.

 

[60] Cic., Tuscul. disput., 5.37.108.

 

[61] Cic., Pro Scauro, 18.40.

 

[62] Sulla quale vd. Meloni, La Sardegna romana cit., 99 ss.

 

[63] Broughton, The magistrates cit., II, 481; Feemster-Jashemski, The origins and history cit., 120; Vismara, Funzionari civili e militari cit., 60; Porcu, I magistrati cit., 26.

 

[64] Cic., Pro Scauro, 18.40 (non nullis etiam laudantibus Sardis).

 

[65] Plut., Crassus, 25.14.

 

[66] Cic., Ad Att., 2.7.3: Megabocchus et haec sanguinaria iuventus inimicissima est.

 

[67] G. MÜnzer, v. Megabocchus, R.E. 15.1 (1930) col. 121; Klein, Die Verwaltungsbeamten cit., 237.

 

[68] CIL V 8787.

 

[69] Cic., Ad Att., 2.7.3.

 

[70] Plut., Crassus, 25.3.