N° 1 - Maggio 2002 - Strumenti - Rassegne

 

Diritto romano

 

Famiglia e persone (*)

 

rassegna di Cristiana Rinolfi

 

(*) Studi Romani XLVIII (1-2), 2000.

 

 

 

Il volume di C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Parte prima, pubblicato a Roma nel 1994, per la casa editrice «L’Erma» di Bretschneider, approfondisce i temi della costituzione e composizione della famiglia a Roma. Nel primo capitolo, La famiglia romana: i gruppi familiari, si delineano diverse istituzioni private romane. La trattazione si apre con la familia proprio iure, la cui definizione, offerta dal giurista severiano Ulpiano (D. 50.16.195.2), si basava «sulla soggezione al pater familias, che esercitava la sua potestas sui sottoposti, fossero essi o no parenti di sangue». La famiglia rappresentava non solo un complesso di persone, ma anche l’insieme di beni che facevano capo al pater, «signore assoluto» nella domus. La parentela civile, l’adgnatio, era in linea maschile, ed aveva effetti giuridici ai fini della successione intestata, della tutela, della curatela e della vendetta. L’insieme degli agnati dopo la morte del comune pater familias costituiva la familia communi iure. Succedeva però che i coeredi, dopo la morte del pater, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditario, pur risultandone ognuno titolare in solidum, ponendo in essere il consortium ercto non cito. Questa forma di comunione, sorta per motivi di ordine economico e politico, in quanto dava la possibilità agli eredi di rimanere nella classe censitaria del defunto, si estinse sul finire della repubblica. La parentela naturale era invece rappresentata dalla cognatio, vincolo di sangue che nel diritto arcaico rilevava solo come impedimento matrimoniale, e per scopi di culto. Gli effetti giuridici crebbero nel corso del tempo fino ad arrivare a Giustiniano, che nel 543, con la Nov. 118, parificò la cognatio all’adgnatio.

L’A. passa poi a trattare della gens, che nel periodo storico è l’insieme di più famiglie i cui appartenenti si distinguevano per il comune nomen gentilicium. L’organizzazione gentilizia precederebbe, secondo la Fayer, la civitas, ma non la familia, dato che «i modesti abitati capannicoli con le piccole necropoli separate da distanze molto modeste, che costellavano il Lazio antico e l’Etruria meridionale […] vengono ritenuti sedi di nuclei strettamente familiari». Tale tipo di parentela risultava senza gradi per il fatto che il comune capostipite era alquanto remoto, e proprio per l’assenza di grado i gentili in base a una norma delle XII Tavole (Tab. 5.4) venivano chiamati insieme in caso di successio ab intestato. L’A. sottolinea tuttavia che «la coscienza di un rapporto parentale […] veniva alimentata e rafforzata sia dall’elemento religioso, rappresentato, ancora in età storica, dai sacra gentilicia e dal sepulchrum o monumentum gentis, sia da proprie usanze, i mores gentium, che, nell’età più antica, dovevano regolare tutta la vita degli appartenenti ad ogni singola gens».

         Il capitolo seguente si occupa della patria potestas, «potere che, per forza e contenuto, era proprio ed esclusivo del popolo romano». Anche se i filii familias da un punto di vista pubblicistico erano cives e godevano dei pieni diritti politici dovevano continuare a sottostare al padre. L’estensione era tale che al pater era conferito il ius exponendi, per cui egli poteva esporre o allevare la prole, se non addirittura venderla in base al ius vendendi; poteva inoltre consegnare i figli alla persona che questi avevano offesa per esimersi da ogni responsabilità in base al ius noxae dandi, e poteva anche uccidere le persone a lui soggette in virtù del ius vitae ac necis. Tuttavia già alla fine della res publica «si incominciano a valorizzare i sentimenti di amore, di comprensione verso i figli». Durante il principato la struttura della familia si modificò «come conseguenza diretta del rallentarsi dei vincoli dell’agnazione, che avevano tenute ben salde fra loro le famiglie naturali componenti la familia proprio iure; ora, grazie anche alla corrente pratica dell’emancipazione che rendeva il filius familias pater familias della propria famiglia, la familia romana divenne sempre più simile alla famiglia moderna, basata sulla coniunctio sanguinis, e il pater familias coincideva sempre più spesso con il padre naturale». La patria potestas venne limitata indirettamente al finire dell’età repubblicana con il riconoscimento in qualche misura ai figli di una certa capacità di agire. La stessa creazione da parte di Augusto del peculium castrense, grazie al quale i figli potevano disporre dei beni che acquistavano durante il servizio militare, e in età postclassica, del peculium quasi castrense, che riguardava gli acquisti ottenuti in occasione dell’esercizio di attività burocratiche ed ecclesiastiche, incrinarono l’unità del patrimonio familiare.

Diverse costituzioni imperiali limitarono l’estensione della patria potestas, e lo stesso ius vitae ac necis scomparve praticamente sul finire del periodo classico, poiché l’autorità pubblica si andò sostituendo a quella privata, in sintonia con concezioni sociali che non tolleravano più l’esercizio da parte del pater di un potere disciplinare così ampio e discrezionale.

         Il terzo capitolo ha come oggetto l’adozione, «il titolo giuridico» con il quale un estraneo entrava a far parte della familia. Secondo la giurisprudenza del II e del III secolo d.C. l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto. L’adrogatio, che si compiva solo fra persone sui iuris di fronte ai comitia curiata presieduti dal pontifex maximus, faceva sorgere un rapporto di filiazione legittima ed estingueva il gruppo familiare dell’arrogato. Con Diocleziano all’adoptio per populum si venne sostituendo, inizialmente in territorio provinciale, l’adrogatio per rescriptum principis, che richiedeva un rescritto imperiale: questa nuova forma dell’istituto ne accrebbe le applicazioni, come ad esempio l’arrogazione delle donne.

L’adoptio in senso stretto, tramite la quale si davano in adozione solo persone alieni iuris, era legata all’istituto dell’emancipazione in quanto si doveva estinguere la patria potestas del pater che voleva far adottare il figlio. La communis opinio ne colloca l’origine dopo il decemvirato legislativo. L’adottato perdeva ogni rapporto di agnazione e di gentilità con la famiglia di origine per entrare a pieno titolo a far parte della familia dell’adottante. La giurisprudenza classica sosteneva che l’adoptio in senso lato «creando un vincolo di discendenza fittizia fra adottato e adottante, equiparava sotto ogni aspetto gli adottati ai discendenti naturali dell’adottante, dal che si deduce come questo istituto servisse, sin dalle origini, a procurare dei discendenti ad un pater familias», sì da garantire la continuità del nome, dei sacra familiaria e del patrimonio. Ma l’istituto poteva essere usato per scopi differenti, ed anche fraudis causa. L’adozione infatti, poteva essere utilizzata a scopi politici fra le famiglie appartenenti alla nobilitas per perpetuare il loro monopolio politico. Attraverso l’adoptio, durante i primi secoli del principato, il princeps designava il proprio successore.

Fu Giustiniano a modificare l’istituto dell’adozione in senso stretto nella forma e nella sostanza abolendo, le antiche formalità e trasformandolo in atto privato. Inoltre l’imperatore stabilì che non si estinguessero i legami con la famiglia d’origine «per evitare all’adottato il rischio che egli potesse essere respinto dalla successione nell’una e nell’altra famiglia» qualora fosse emancipato dal padre adottivo.

         L’ultimo capitolo si occupa di tutela e cura. Per quanto riguarda la tutela in diritto romano esisteva per gli impuberi sui iuris una tutela impuberum, mentre la tutela mulierum vigeva per le donne puberi sui iuris. La natura arcaica della tutela presenta un originario carattere potestativo il quale «emergerebbe in particolare nella tutela legitima adgnatorum o gentilium, predisposta in origine non tanto nell’interesse del sottoposto a tutela, quanto in quello dello stesso tutore o del gruppo gentilizio, interesse che riguardava soprattutto il patrimonio: ad esercitare la tutela legittima erano infatti chiamati i diretti eredi dell’impubere o della donna, gli adgnati proximi o, in loro assenza, i gentiles, i quali esercitavano la tutela con lo scopo di conservare l’integrità del patrimonio del tutelato, patrimonio che essi stessi avrebbero ereditato alla morte della donna o del pupillo, se costui fosse morto ancora impubere». Quando si creò la figura del tutore dativo, sul finire del III secolo a.C., «mutò l’originaria concezione della tutela impuberum, non più intesa come potere spettante al tutore, che l’esercitava nel suo interesse o in quello della famiglia agnatizia, ma anche, e soprattutto, come istituzione con funzione protettiva nei confronti dell’impubere. Ma l’antico carattere potestativo non scompare, neanche quando la tutela divenne sempre più un ufficio».

Con il termine cura, «più tecnicamente curatio, si comprende, in diritto romano privato, un istituto non unitario, regolato da princìpi che potevano essere diversi, a volte anche profondamente, perché la struttura di ogni cura si adattava ad ogni caso specifico per il quale era richiesta. Si è rilevato che, a differenza della tutela organizzata per rimediare ad incapacità normali, regolari e sempre le stesse, la cura era destinata a rimediare ad incapacità accidentali e che potevano variare all’infinito e si è aggiunto a questo tratto distintivo della curatela anche l’altro, relativo al suo modo di costituzione: l’assenza della curatela testamentaria. Un elemento che accomunava le diverse curationes, o meglio i diversi curatores, era precisamente quello di salvaguardare, da un punto di vista patrimoniale, gli interessi di particolari categorie di persone, ritenute incapaci o limitatamente capaci di agire, con poteri di una vera e propria gestione patrimoniale o limitati ad una funzione di sorveglianza più o meno intensa».

 

         Nel 1995 è stata pubblicata a Torino la terza edizione del lavoro di G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al principato, ed. Giappichelli.

         Nel primo capitolo, I gruppi familiari in Roma antica, si sottolinea che il termine familia, dalle originali accezioni patrimoniali, andrà solo tardi ad indicare in latino un organismo familiare, e che in origine esistevano diversi gruppi familiari. In base all’elenco ulpianeo (D. 50.16.195.2-4) si trova la familia proprio iure, la familia communi iure, la gens, e a questi si deve aggiungere il consortium ercto non cito, «precedente storico della familia communi iure». Tale consortium dunque «è sempre lo stesso organismo familiare che si presenta nei diversi aspetti della sua fisiologia. Fuori resta solo la gens, differente per struttura e per origine». Infatti vi sono differenze strutturali ben marcate tra l’organizzazione familiare in tutte le sue forme e la gens: la famiglia ha un capostipite reale, mentre quello dei gentiles è mitico; la parentela familiare è, a differenza di quella gentilizia, per gradi; il carattere della famiglia è potestativo, mentre quello della gens è comunitario e solidaristico; il culto familiare riguarda gli antenati, mentre quello gentilizio celebra divinità dell’Olimpo; nel sistema onomastico romano il nomem gentilicium che si affianca al prenomen caratterizza la gens, mentre la familia viene identificata con il cognomen che è ereditario e rappresenta l’elemento più tardo del nome.

L’organismo gentilizio, che secondo l’A. precede e produce la famiglia, è «una formazione naturale antichissima, che nasce dal frazionamento di ampi organismi primitivi (tribù, orda) in più unità esogamiche», e che preesiste alla stessa civitas. La gens si basa su un matrimonio collettivo tra serie di fratelli e serie di sorelle. Il matrimonio rimase esogamico fin quando esistette una economia di raccolta, in tale periodo la donna non era subordinata all’uomo. Quando si passa ad un sistema produttivo che si basa sulla proprietà privata maschile cambiano anche i rapporti tra i sessi, viene istituzionalizzato il matrimonio monogamico che andrà a privatizzare la prole. Dunque: «La famiglia monogamica a base patriarcale si afferma in realtà all’interno e in certo senso contro l’ordinamento comunitario della gens».

         Nel capitolo seguente si esaminano I caratteri della famiglia romana, la quale si presenta come gruppo patriarcale, potestativo, agnatizio e patrilocale. La famiglia si fonda sul matrimonio monogamico in quanto sussisteva la necessità di avere la certezza sulla prole per scopi ereditari, e per questo motivo l’obbligo di fedeltà della donna viene istituzionalizzato e sanzionato.

         Oggetto del terzo capitolo, L’ordinamento storico della famiglia, è la patria potestas che «rappresenta il cemento che tiene unita la famiglia romana per vari secoli». La patria potestas, che si acquista attraverso la nascita da iustae nuptiae, l’adrogatio e l’adoptio, e che si perde tramite l’emancipazione del filius e la morte o la capitis deminutio del pater, «si sostanzia» in diversi poteri e facoltà quali il ius vendendi, il ius noxae dandi, il ius vitae ac necis, il ius tollendi, il ius exponendi. Il ius vendendi va ad inquadrarsi in quel sistema di scambio tra i gruppi, dove il figlio rappresenta la forza-lavoro in una società preschiavistica. Il ius noxae dandi non era legato solo al profilo del risarcimento ma anche alla vendetta richiesta sulla base delle credenze magiche di una società arcaica, secondo cui le spoglie di un uomo ucciso producevano fertilità, ed infine il ius vitae ac necis era legato ad una antica società che non si poteva espandere in quanto basata su sistema di produzione primitivo ristretto.

         Il capitolo seguente approfondisce il tema de L’ordinamento storico della ‘gens’. Viene sottolineata l’importanza del nome come indicatore esterno di appartenenza al gruppo clanico di base comunitaria, dove vigeva l’uguaglianza dei membri e un profondo spirito di solidarietà. Oltre ai gentiles appartenevano alla gens anche i clientes, ma subordinatamente. La clientela in antichità si formò «per stratificazione nel seno stesso del clan: i clientes infatti portano il nomen gentilicium e hanno con la gens comunanza di sacra e di sepolcri». Si può pensare che tendenzialmente vi fosse una dislocazione unitaria nel territorio delle gentes. Esisteva uno sfruttamento comune delle terre, ma «va respinto il tentativo di configurare il rapporto tra clan e territorio come un rapporto di sovranità, rappresentando la gens come una sorta di gruppo politico avente le caratteristiche di uno Stato, sia pure in forma embrionale». Le singole gentes avevano norme consuetudinarie, i mores, ed emanavano dei decreta autoritativi; rappresentava l’unità del clan la sepoltura comune. L’unità dei gruppi gentilizi inizia ad incrinarsi quando, intorno al V sec. a.C., le famiglie egemoni in seno alle gentes «anziché staccarsene per forza centrifuga la trasformano dall’interno attraverso l’usurpazione e la concentrazione della ricchezza e mediante l’utilizzazione delle stesse istituzioni gentilizie quale potente strumento di difesa di un’egemonia di classe attaccata [...] dalla lotta degli strati emergenti della plebe». Tra il IV ed il III sec. a.C. inizia il declino delle gentes, che si scindono in familiae.

         Il quinto capitolo è dedicato a Il matrimonio romano, del quale i giuristi del periodo tardo classico offrono inesatte definizioni in contrasto sia con la società del loro periodo, sia a maggior ragione con quella dell’epoca antica. In realtà la giurisprudenza non dà una definizione del matrimonio e neanche il diritto lo regola di per sé: «essi ne accolgono il concetto sociale trasformandolo lentamente e indirettamente in rapporto giuridico e accettandolo così come lo valuta la coscienza comune». In realtà nel Lazio antico tra le gentes e le altre tribù doveva essere frequente «il passaggio dallo scambio (in seguito mercificato) al ratto e viceversa». L’antica esogamia gentilizia persistette a lungo, e ad essa andrà poi ad affiancarsi anche una esogamia familiare che vietava il matrimonio con parenti entro un certo grado: «I due divieti si riferiscono a due diversi gruppi (gens, grande famiglia) che non rappresentano due cerchi concentrici».

         Segue Il regime patrimoniale della famiglia, in cui si sottolinea una progressiva attenuazione dell’incapacità patrimoniale del figlio e della donna tramite la dote e i peculia, ed una corrispondente diminuzione della signoria del pater.

         Nel settimo capitolo si tratta de La schiavitù e lo ‘status libertatis’. La servitù è il tipico sistema produttivo del mondo antico: tuttavia, finché il ciclo di produzione rimase basso, non si crearono le condizioni per la schiavitù. Quando nasce la proprietà maschile legata all’allevamento «per le necessità di sostentamento del bestiame e per l’ormai innescato meccanismo dell’accumulazione ora l’individuo contende al gruppo in quanto tale la stessa terra. A questo punto sono poste le basi per la dissoluzione degli ordinamenti comunitari (tribù, clan) e per lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che nel mondo antico assume l’aspetto brutale della schiavitù».

         L’ultimo capitolo si occupa de La cittadinanza, espressa dai romani con la parola civitas, termine che indica anche il complesso dei cittadini e l’urbs. Nella Roma dei Tarquini si supera la costituzione gentilizia, così «l’appartenenza allo Stato, formazione politico-territoriale, prende il posto dell’appartenenza alla comunità gentilizia. Se la gens resta egualmente forte e la storia antica di Roma è la storia di gentes, ciò non significa che si sia membri della Stato (cives) solo in quanto gentiles. Si tratta di gruppi egemoni ma non esclusivi».

 

In tema di matrimonio ricordiamo ancora la monografia di A. Romano, «Matrimonium iustum». Valori economici e valori culturali nella storia giuridica del matrimonio, Jovene, Napoli 1996.

Nel primo capitolo, Per una stratigrafia del ‘matrimonium iustum’, si esaminano i requisiti dell’istituto, elencati nei Tituli ex corpore Ulpiani 5.2: la capacità a sposarsi (conubium), l’età pubere, il consenso dei nubendi se sui iuris, o degli ascendenti qualora fossero alieni iuris. Tuttavia per l’A. «la lista di Ulp. 5.2, espressione di uno stadio maturo della riflessione giurisprudenziale sull’istituto» risulta «inadeguata a rappresentarne gli inizi». L’elenco, dunque, è «il prodotto di una stratificazione che prende le mosse dal formarsi della prassi del conubium nel quadro dei rapporti di scambio tra popolazioni confinanti dell’area etrusco-laziale, prima garantita dalla ritualizzazione di arcaiche usanze comunitarie, poi rielaborata dal diritto della civitas». Nonostante generalmente i termini nuptiae e matrimonium siano considerati equivalenti, soprattutto in base a D. 23.2.1 e I. 1.9.1-2, vi è da sottolineare la contrapposizione semantica che mostra le diverse fasi storiche del fenomeno. Infatti nelle fonti antiche «il termine nuptiae indica più frequentemente le cerimonie celebrative mentre il termine matrimonium suggerisce piuttosto uno status, una causa ovvero uno scopo». Tuttavia «nella rete complessa di queste tradizioni, non sempre decifrabili, la romanistica moderna coglie di solito una realtà extragiuridica, talvolta con qualche perplessità, giustificata dall’evidente interesse rivolto alle nuptiae da più di un giurista. Di questo interesse potrebbe dunque rivelarsi proficuo ricercare le cause, alla luce delle interconnessioni tra norma religiosa e norma giuridica». La Romano sottolinea come «nella storiografia sul matrimonio il gioco dei punti di vista si sfaccetta nel tempo per complessi condizionamenti storici e dogmatici». L’unica tendenza da seguire in materia è il «salutare movimento di storicizzazione», e a tal fine bisogna rintracciare «il valore originario delle nuptiae arcaiche», ma per rivolgersi a tale periodo oltre all’uso delle fonti tradizionali ci si deve appoggiare a metodologie non giuridiche, quali l’antropologia sociale. In tema di conubium l’esame delle fonti induce a ritenere che in periodo classico l’istituto «è la facoltà di accesso a un matrimonium iustum» mentre in età antica «potrebbe essere la facoltà di accesso a nuptiae che si svolgono secondo i mores». Anticamente dunque, con il conubium si accede allo scambio matrimoniale con riti di fertilità in un periodo precivico. La letteratura del primo principato circa il Lazio antico mostra «la consapevolezza che il fondamento arcaico del conubium risiedeva su una convenzione espressa o tacita della comunità - passibile di rottura violenta e di pacifico rinnovo - la cui attuazione nel caso concreto non subiva mediazioni mercantili ma era garantita da cerimonie religiose».

         Nel capitolo secondo, Il controllo dello scambio matrimoniale, si sottolinea come «la funzionalità del conubium al fenomeno della riproduzione umana fa dipendere l’interesse rivoltovi dallo stato dal ruolo in questo occupato dai gruppi di parentela. Preliminare quindi alla valutazione delle fonti sull’argomento è la consapevolezza del retroterra in cui affondano le radici le dinamiche sociali che determinano il sovrapporsi della politica all’antica prassi». Se prima il conubium era lasciato «alla dinamica dei rapporti tra gruppi precivici» in seguito l’istituto «si politicizza, diventando oggetto di specifiche concessioni da parte dello stato romano dirette ad allargare, restringere, rimuovere i ‘confini’ dell’area di scambio matrimoniale». La famiglia è il soggetto in età arcaica «della gestione delle strategie riproduttive» e dunque «la prole rappresenta il patrimonio umano della famiglia e non del singolo». In queste strategie di scambi interfamiliari i valori coinvolti non avevano solo carattere economico ma anche civile, morale e religioso, ed in tale contesto la dote risulta essere un «fattore di funzionalità», che agevolava i matrimoni. Secondo l’A. «è nell’esigenza di elasticità, legata al carattere contingente delle contrattazioni interfamiliari, che va ricercata l’origine di quegli strumenti, prima sociali poi giuridici, di cui l’impiego e la gestione sono lasciati, entro certi limiti, al gioco degli interessi privati. I conferimenti dotali rientrano fra questi meccanismi ma, forse, non li esauriscono».

         L’ultimo capitolo, Dalle ‘nuptiae’ al ‘matrimonium iustum’, riconsidera i meccanismi della integrazione della moglie nella familia del marito, usus, confarreatio e coemptio, che «sono stati elaborati su base consuetudinaria e secondo modelli che offrono alle famiglie un ampio margine di scelta onde tenere sotto controllo i potenziali conflitti di potere». Integrata attraverso la conventio in manum nella famiglia del marito, l’uxor fin dal periodo arcaico partecipava di fatto all’economia domestica. Che anche gli aspetti patrimoniali fossero oggetto di partecipazione della moglie è confermato sia dal divieto di donazione tra i coniugi, da collocare nella prassi arcaica, sia dalla presunzione muciana secondo la quale salvo prova contraria gli incrementi patrimoniali della moglie provenivano dal marito o da un suo avente potestà. Dunque la Romano rileva come «il potere sulla donna e la partecipazione di questa alla comunione domestica siano in rapporto non di opposizione bensì di complementarietà». Secondo l’A. «è sul terreno delle garanzie che va individuato [...] l’avvio del percorso del ius civile che, partendo dalla ricognizione della prassi del conubium, perviene infine all’elaborazione del concetto di matrimonium iustum». Fu la giurisprudenza pontificale a regolare l’antico matrimonio in quanto presupposto per riconoscere la legittimità della prole e il riconoscimento all’interno della famiglia del marito come suus heres. Ma quando con l’andare del tempo «le nuptiae religiose non rappresentano più, in quanto tali, una garanzia della stabilità e della continuità della famiglia, il ricorso a nuovi referenti di fatto e di diritto si rende indispensabile. Mentre la presenza di una conventio in manum è il referente giuridico più utile alla determinazione del momento in cui la donna diviene, come materfamilias, potenziale tramite di prole legittima, vecchi e nuovi elementi di una prassi sociale variegata, e con notevoli riflessi sull’immagine, concorrono a formare quella costellazione di dati coordinati da una ragione economico-sociale, che prende il nome di causa matrimonii». Dalle nuptiae religiose si elabora il concetto di matrimonium iustum mediante la causa matrimonii.

 

         L’opera di E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Feltrinelli, Milano 1996, che illustra la condizione femminile a Roma arcaica, è tesa a dimostrare che il prestigio delle donne, in quel periodo «era solo un vuoto omaggio verbale», ma che questa situazione muterà fin dal sorgere della repubblica. Nella Introduzione, l’A. sottolinea come nella sua opera oltre a mostrare delle figure di donna romana, si propone la soluzione di alcune questioni, quali, ad esempio, come si conquistò, e in quale misura, una certa libertà femminile e come questa venne utilizzata.

         La prima parte, Prima di Roma, si apre con Una dea come premessa: Tacita Muta, in cui si ricorda la dea romana del Silenzio, alla quale Giove strappò la lingua in quanto da ninfa aveva parlato a sproposito. Il difetto di tale personaggio è visto come la tipica caratteristica femminile: «Per i romani infatti, così come per i greci, la parola non rientrava tra gli strumenti di cui le donne sapevano fare buon uso, non apparteneva al genere femminile, non era di sua competenza». Il tacere, dunque, era un dovere femminile e Tacita rappresenta la condizione delle donne in Roma antica.

         Nel primo capitolo, Alla ricerca del potere perduto, sono ricordate le varie ipotesi che spiegano come residuo di un antichissimo potere delle donne la contraddizione che sorge tra l’immagine offerta dalle leggende di figure femminili dalle gesta eroiche e il quadro di sottomissione che emerge dalla severità dei precetti giuridici. Tuttavia, per la Cantarella una simile affermazione risulta essere «l’espressione di un desiderio». A tal proposito l’A. analizza le fonti che riguardano le donne del territorio italico, passando in rassegna figure femminili dell’Etruria come Tanaquil, la sposa etrusca di Tarquino Prisco, la quale diede per la civitas delle importanti interpretazioni di prodigi; del Lazio come Lavinia, figlia del re Latino, e moglie di Enea, e la vergine di Ardea, la cui storia è raccontata da Livio; della Sabina come Ersilia, rapita per errore nel famoso ratto. Ma dal quadro così tratteggiato non emergono le prove di antichi poteri femminili e della matrilinearità. Inoltre, nei culti e nelle leggende italiche, di tradizione preromana, vi sono figure di donne forti e coraggiose dalle virtù maschili quali Camilla, figlia del re di Priverno, e Clelia che, caduta in ostaggio di Porsenna scappò assieme ad altre fanciulle riportandole a Roma, e alla quale venne dedicata a spese pubbliche una statua equestre. Queste imprese, però, sono solo la trasposizione in chiave mitica di riti di purificazione risalenti al periodo cittadino che segnava i passaggi di stato femminili.

         Il capitolo L’età arcaica, che inizia la seconda parte dedicata a La città, mostra come nel periodo in esame «l’educazione femminile era articolata attorno all’apprendimento di attività come il lanificium e di virtù che erano il naturale completamento di una donna dedita a questa attività: la castità, la riservatezza, la modestia, la pietà». Accanto alle virtù vi erano dei doveri, tra i quali il silenzio, ricordati da altre divinità oltre a Tacita Muta, come Angerona, dea bendata ed imbavagliata, che tutelava Roma. Pertanto le donne non possono essere le interlocutrici degli uomini, e lo stesso sistema onomastico di regola non faceva pronunziare il loro nome personale, ammesso che esistesse, se non all’interno della famiglia: «I prenomi femminili dunque indicavano donne “facili”, donne su cui e con cui ci si poteva permettere di scherzare, donne a torto o a ragione poco stimate». La propaganda nazionale prospettava casi esemplari di donne virtuose e integerrime come Lucrezia, che si suicidò perché violentata da Tarquinio il Superbo: ma un’offesa che fece insorgere il popolo a rovesciare il regime monarchico. Un’altra figura ricordata dalla tradizione è Orazia che fu uccisa dal fratello in quanto piangeva la morte del fidanzato albano: «Orazia avrebbe dovuto [...] dimenticare un amore divenuto d’un tratto disdicevole. Così come disdicevole era stato manifestare pubblicamente il suo dolore, pur senza proferire parola, solo piangendo. Le donne romane dovevano saperlo, e trarne le dovute conseguenze». Un altro racconto esemplare è quello di Virginia che fu uccisa dal padre per sottrarla dal disonore di cadere sotto il potere di Appio Claudio, ma anche in questo caso «la sua morte cambiò la storia di Roma. I decemviri furono cacciati a furor di popolo». La figura esemplare che veniva proposta era sostenuta da precetti giuridici che sottomettevano la donna all’uomo. Il padre poteva uccidere la figlia che perdeva la verginità anche se questa non era stata consenziente, ma le fonti ne ricordano solo pochi casi in quanto «l’esercizio di questa giustizia era così scontato che i soli episodi degni di menzione erano quelli eccezionali». Lo stesso sposo veniva scelto dal padre. Le mogli erano sottoposte alla manus del marito, se sui iuris, o del pater di questi. L’unica differenza rispetto alla potestà paterna era che: «il padre poteva uccidere la figlia se e quando decideva di farlo; il marito, o il paterfamilias di questi, potevano farlo solo nei casi in cui la legge lo consentiva». Nonostante avessero ben poca libertà all’interno della familia le donne partecipavano alla successione del patrimonio familiare, anche se non potevano disporre dei beni ereditati, né accedere alle antiche forme testamentarie. Inoltre i romani crearono l’istituto potestativo della tutela muliebre per impedire che il patrimonio familiare fosse intaccato: «La levitas animi delle donne, e cioè la “leggerezza dell’animo”, alla quale ci si appellava per giustificare la regola che le sottoponeva a tutela a vita era dunque un pretesto. La tutela perpetua era un istituto perfettamente coerente con le caratteristiche di un sistema politico e sociale basato sul principio che la gestione non solo della vita collettiva ma anche del patrimonio familiare era compito esclusivamente maschile». Tuttavia non va dimenticato che «nonostante il ferreo controllo cui le avevano sottoposte, i romani temevano le donne». A tal proposito furono celebrati esemplari processi a carico di donne che avevano trasgredito alle regole, quali i procedimenti di gruppo contro matrone accusate di stuprum nel 295 e nel 231 a.C., quelli contro le avvelenatrici nel 331, nel 180, e nel 153 a.C., e quelli contro i culti bacchici nel 186 a.C.

         Nel capitolo seguente, L’emancipazione, si mostra come le donne acquistarono una maggiore indipendenza con il passare del tempo. L’evoluzione della condizione femminile venne favorita dal mutare delle regole giuridiche. Intorno al II secolo a.C. si diffuse il matrimonio consensuale, che prese ben presto il posto di quello cum manu. Quindi non si richiedevano particolari forme costitutive, ma la convivenza doveva essere accompagnata dalla intenzione degli sposi di contrarre matrimonio; qualora fossero alieni iuris era indispensabile anche il consenso dei padri: «Il consenso filiale considerato necessario, insomma, era un “consenso passivo”, che non necessariamente comportava il desiderio di sposarsi, o di sposare quella determinata persona».

Rispetto al passato, in tale periodo, anche le donne potevano chiedere il divorzio, e inoltre «nel nuovo regime matrimoniale […] la moglie, rimanendo nella famiglia di origine, diventava indipendente assai prima di quanto accadesse nel vecchio regime, in cui lo diventava solo alla morte del marito: in linea di massima si rimane prima orfani che vedovi. Se appartenevano a una famiglia agiata, dunque, le donne entravano in possesso di un loro patrimonio personale in età relativamente giovane». Esse godevano sia di nuovi diritti successori, in quanto ammesse alla bonorum possessio dalle regole pretorie, sia di una maggiore libertà nella disposizione dei propri beni, poiché la tutela si trasformò in un istituto protettivo. La libertà delle donne crebbe al punto che arrivarono a scendere in piazza, ad esempio per sostenere nel 195 a.C. la proposta di abrogare la lex Oppia contro il lusso femminile: in questa e in altre occasioni «le donne si erano comportate come vere e proprie attiviste politiche», per questo fu creato il termine axitiosae. La Cantarella sottolinea il cambiamento delle donne «ricche, autonome, invadenti. Non solo nella città di Roma, in tutto il territorio italico». Tuttavia, per i romani la ricchezza «le corrompeva, le rendeva disobbedienti e arroganti. Fu per cercare di porre rimedio a questa situazione, forse, che nel 169 a.C. venne proposta e approvata la lex Voconia»: una disposizione di questa norma proibiva che le donne fossero istituite eredi testamentarie dagli appartenenti alla prima classe di censo, e ciò prova che la lex fu emanata per limitare la diffusione della ricchezza femminile che preoccupava e infastidiva gli uomini. Ma le donne, soprattutto dal I secolo a.C., cominciarono a invadere territori riservati agli uomini, come i tribunali: comparvero infatti le donne avvocato, che sostenevano da sole le proprie ragioni sia nel campo civile, sia in quello penale, come Mesia Sentinate, Afrania e Ortensia. Quest’ultima nel 42 a.C. convinse i triumviri a limitare l’imposizione alle ricche donne romane della partecipazione alle spese militari. Tuttavia, «di fronte alla nuova realtà, […] i romani posero rimedio alla fatale dimenticanza che aveva consentito alle donne di uscire dai confini del loro ruolo: se un tempo non era stato necessario, ora era indispensabile stabilire esplicitamente che le donne non potevano svolgere alcune attività: più specificamente, che dovevano essere escluse da alcune attività maschili [...]. E tra le attività vietate vi fu, appunto, l’avvocatura».

L’A. ricorda anche figure femminili che accettarono e rispettarono le regole legate al modello canonico della matrona romana. È il caso di Marzia, moglie di Catone Uticense, la quale incinta fu ceduta sposa all’amico del marito Q. Ortensio Ortalo, e appena il secondo marito morì si risposò con il primo. Tale pratica non era un fatto eccezionale per i romani: non solo si cedevano le mogli, ma vi poteva essere anche la cessione del ventre. Questa prassi «legata al desiderio di stringere rapporti di alleanza sociale e politica» riguardava maggiormente le classi elevate. Tale desiderio, però, «si innestava su una mentalità più generalmente condivisa, secondo la quale la riproduzione doveva svolgersi secondo interessi che non dovevano essere solo individuali e familiari, ma dovevano combinarsi con quelli della città». Un’altra figura di donna virtuosa e devota fu Turia, la cui storia si conosce per la laudatio dedicatale dal marito incisa nella sua tomba. Turia poiché non aveva avuto figli propose al marito di divorziare per farlo risposare con una donna, magari già incinta «che esaurito il suo compito discretamente si allontanasse», per soddisfare il suo desiderio di paternità.

Donna invece non osservante delle regole fu Clodia, amata da Catullo che la chiamò nelle sue opere Lesbia. Clodia quando viene descritta da Catullo rappresenta «lo stereotipo, ben radicato nella mente maschile, della donna che nella realtà di un rapporto respinge o delude ogni pretesa di esclusività», e la figura che ne emerge è «ai limiti della depravazione». Ma dietro tale topos «sembra di scorgere una figura reale di donna forte, autonoma, in amore certamente volubile». Lo stesso Cicerone nella sua arringa del 56 a.C. in difesa di Celio Rufo accusato di vis publica, ex amante di Clodia chiamata a testimoniare dall’accusa, fece un ritratto molto negativo della donna. Clodia era «una donna che non si conformava ai modelli, autonoma e indipendente [...] Una donna inaccettabile, alla quale venne fatto pagare il conto di tutte le sue scelte di vita».

La Cantarella passa a parlare di Sulpicia, poetessa all’epoca di Augusto, le cui poesie d’amore dedicate a Cerinto sono le uniche «scritte da una donna romana di età classica e giunte sino a noi», inserite nel Corpus Tibullianum. Sulpicia rappresenta una figura femminile «emancipata. Una di quelle donne, che, all’epoca, avevano preso a vivere secondo un nuovo modello, rifiutando le regole».

         Nelle Riflessioni finali si sottolinea come nonostante la libertà che raggiunse la loro condizione le donne romane non misero in discussione il loro ruolo. Esse «si sentivano parte della città, sentivano di svolgere nell’interesse di questa un compito fondamentale. E sapevano che se lo avessero svolto sarebbero state ricompensate: sapevano che si fossero adeguate al modello sarebbero state premiate dal rispetto, dall’ammirazione privata e pubblica, da onori che non vennero tributati ad altre donne dell’antichità». Per tale motivo non si può parlare di femminismo a Roma, le donne si adeguavano al modello proposto dalla propaganda, accettavano la loro esclusione dalla vita politica in cambio di privilegi, «ma questo non toglie che il loro rapporto con gli uomini, forse per la prima volta nella storia occidentale, non fosse un rapporto basato sull’oppressione. Il rapporto delle donne romane con i loro uomini era basato sullo scambio. [...] Era un modello di rapporto così efficace da valicare secoli e secoli, e giungere sino a noi, alle soglie del terzo millennio».