N° 1 - Maggio 2002 - Tradizione

 

 

NICLA BELLOCCI

Università di Siena

 

 

Ius sacrum e sollemnes nuncupationes in Roma antica

 

 

(**) Ius Antiquum-Drevnee Pravo 5, (Mosca) 1999, pp. 166-174.

 

 

 

La “grave disputa” – come l’ha definita il Bonfante[1]- che desta a tutt’oggi imbarazzo circa il significato ed il contenuto delle nuncupationes, prende le mosse dall’interpretazione e dall’estensione stessa che si dà al noto versetto delle XII Tavole  (Tabula VI,1[2]), il quale, a proposito della nuncupatio e degli altri negozi da compiersi con la pesatura del bronzo non coniato (per aes et libram), disponeva:

 

“cum nexum mancipumque faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto”.

 

L’interpretazione di questo versetto è incerta. Già in passato si è ritenuto che la massima abbia voluto consentire di aggiungere alla formula sacramentale della mancipatio altre parole, o di farla precedere da dichiarazioni delle parti, in modo da limitare o trasformare i fini originali del negozio[3], come sarebbe provato dalla terminologia costante in tema di testamentum per aes et libram, in cui è alla dichiarazione del testatore e non a quella del preteso acquirente che si dà il nome di nuncupatio[4].

La massima, pertanto, secondo questa interpretazione, avrebbe riconosciuto l’autonomia privata: ogni patto, ogni promessa fatta avrebbe avuto rilievo giuridico. Così, accanto al severo formalismo della mancipazione si sarebbe avuto la libertà senza limiti della nuncupazione.

In modo più articolato, di recente il Corbino, nel ribadire il formalismo e la solennità del sistema negoziale romano, ha avanzato dubbi sulla sua astrattezza[5]. Secondo lo studioso i negozi antichi romani sarebbero stati  caratterizzati da un formalismo solo ‘esterno’ (la terminologia è del Mitteis) nell’intendimento di esaltare – scegliendo i modi esteriori più idonei – la volontà individuale, non anche ‘interno’, giacché nella rigorosa fissità delle forme avrebbe annullato la volontà del singolo, predeterminando il prodursi degli effetti del negozio indipendentemente dal riscontro di una effettiva volontà del soggetto e senza alcun riguardo all’intento da questi perseguito.

Pertanto, secondo l’autore, i verba certa et sollemnia pronunciati in pubblico o per lo meno davanti a testimoni (nuncupationes) sarebbero stati, su richiesta del soggetto interessato, approntati dai pontifices, che avendo riguardo alla volontà di questi l’avrebbero resa oggettivamente riconoscibile ed efficacemente adeguata al fine. In tal senso, si potrebbe dire che le formule solenni avrebbero esaltato la volontà del soggetto, apprestando i modi e le forme più idonee ad assicurare ad essa l’efficacia che le derivava dalla possibilità di essere riconosciuta [167] nel presente memorizzandola per il futuro e quanto alla sua provenienza e quanto alla sua direzione[6].

Secondo questa tesi sarebbe stata riconosciuta l’autonomia privata, anche se espressa nelle forme e nei modi solenni predisposti dai pontifices.

Ma a questa interpretazione estensiva della norma decemvirale, si oppone l’orientamento giusromanistico assolutamente prevalente e consolidato -che ebbe il suo primo sostenitore nel Bonfante[7] - più rigorosamente limitativo del suo contenuto, con il quale il versetto si inquadra nel sistema contrattuale romano e, rilevato che l’interpretazione estensiva precedentemente esposta, avrebbe sconvolto “tutto il sistema contrattuale classico  e avrebbe conferito ad esso quasi l’estensione del diritto giustinianeo”[8], stima che sia preferibile vedere ribadito nella massima il carattere formalistico dei negozi. Gli effetti della formula sacramentale, pertanto, pronunciata da chi acquista la cosa o il diritto in presenza del trasmittente e dei testimoni, si svolgono indipendentemente da ogni ricerca intorno alla reale volontà delle parti[9]. Secondo questa tesi, “le conseguenze giuridiche sarebbero state –rileva il Riccobono[10]- rigorosamente determinate dalle parole pronunciate dalle parti. Così, nel mondo degli affari, come dei testamenti. Nessuna condizione di elementi esterni ed interni poteva essere valutata”.

Si sarebbe, in tal modo, rispettata quella “mistica della forma” –come la chiama lo Schultz[11] – che ha una lunga storia, molto articolata nell’ambito del diritto romano antico.

Pertanto, l’imbarazzo della dottrina, di cui parla l’Arangio-Ruiz[12], circa l’ampiezza ed il contenuto di queste nuncupationes, nonché l’incertezza dell’interpretazione dipende in gran parte dall’oscurità del termine adoperato per la difficoltà di determinarne il significato.

Ciò è dovuto al fatto che nel versetto è usato un linguaggio giuridico-religioso e non semplicemente giuridico, come è consono a questo periodo antico. E’ noto, infatti, che in tale epoca le stesse norme si presentano da un lato come precetti giuridici cogenti, eteronomi ed applicabili ai rapporti inter homines, dall’altro, assumono il carattere di precetti religiosi in virtù di un costante e necessario rapporto con il divino. Questo dipende, soprattutto, dalla conoscenza delle norme umane e divine, che è nella società romana del tempo affidata agli stessi soggetti: i pontifices. Essi concepiscono le norme alla base della religione e del diritto e le interpretano secondo gli stessi principi, ponendo in essere modi di tutela e di conservazione dell'ordine giuridico secondo forme simili a quelle religiose. Nasce, così, in questa epoca, una terminologia giuridico-religiosa comune, tanto che “potremo considerare i due termini per il diritto romano intercambiabili”[13].

Pertanto, occorre ricercare, proprio nello ius sacrum, il significato di nuncupare e nuncupatio. Il termine si trova adoperato, in questo ambito, nella sua accezione originaria per tutto il periodo della Repubblica ed oltre. Ciò è dovuto al conservatorismo della religione romana, al suo interesse a mantenere riti e lessici tradizionali, anche quando, spesso, con l’età repubblicana, non erano più capiti (es. noto è quello del Carmen degli Arvali) fino ad arrivare alla “instauratio cioè alla ripetizione di tutto il cerimoniale per un minimo errore, come se si fosse creduto che solo ciò avrebbe interessato alla divinità”[14].

E’, dunque, allo  ius sacrum che occorre rifarsi per ricostruire il significato di nuncupare.

[168] Il maggior numero di passi, che ci sono pervenuti, riferisce il termine ai vota. Festo (L) 173 scrive in proposito:

 

“vota nuncupata dicuntur, quae per consules, praetores, cum in provinciam procifiscuntur, faciunt: ea in tabulas multis praesentis referuntur”.

 

Le situazioni descritte dalle fonti riguardano i voti pronunciati da un magistrato nel corso di particolari funzioni sacrali di rilievo pubblico. E’ stato, in proposito, già rilevato[15] come la nuncupatio votorum sia divenuta nel corso del tempo, una clausola di stile per indicare le promesse solenni che venivano fatte pubblicamente nel corso di particolari cerimonie.

Ora, il votum di per sé indica la promessa o l’offerta del singolo e non può escludersi che vi sia spazio per l’espressione della sua volontà nel determinarne il contenuto. In termini giuridici moderni, si parla, in questo caso, di volontà dell’atto e degli effetti. Altra situazione si ha, invece, quando il votum è espresso in una cerimonia pubblica fissa ed immutabile, davanti a testimoni rogati, con un contenuto parimenti predeterminato ed immutabile e con la pronuncia di certa verba. Solo in questo caso, le nostre fonti parlano di vota nuncupare e non sempre riportano le formule mediante le quali tali vota sono espressi, in quanto che i verba sono sempre gli stessi e quindi noti.

Per riprendere la terminologia moderna si parla, allora, della volontà dell’atto ma non dei suoi effetti.

Tali vota, dunque, producono sempre degli effetti predeterminati, sono espressi mediante certa verba, con l’assistenza di un pontifex e si pronunciano per ottenere la pienezza del potere sub specie religionis. In tal senso, si ritrova l’espressione nuncupare vota in numerosi scrittori latini. Così, ad es., è adoperata in questa accezione in Cic., Ph., III,4,11[16] e in Verr., II,13,94[17] e V,13,34[18]. E’ importante che Cicerone abbia usato il termine con questo significato e senza riportare la formula, quasi la si volesse dare come da tutti conosciuta e non solo da lui, che ha, come è noto, una particolare competenza per ciò che riguarda le formule ed il lessico sacerdotale[19], poiché – anche a tacer d’altro – egli aveva come augure accesso ai documenti sacerdotali del suo collegium. Allo stesso modo, sempre in epoca repubblicana, “nuncupare vota” è usata da Caes., De Bell. Civ., I,6,6[20]. In questo passo, l’Autore sottolinea come i pretori, inviati nelle province, si siano immessi nelle cariche dopo la pronuncia dei voti solenni anche senza aver avuto l’approvazione popolare[21].

[169] L’opera di Livio si mostra, inoltre, assai preziosa, perché in essa è possibile reperire molteplici passi, in cui si parla di magistrati che pronunciano voti solenni in Campidoglio prima di partire per la guerra; come fa, ad es., Publio Sulpicio al momento di partire per Brindisi (XXXI,14,1[22]). Altrove, Livio (XXXI,63,7[23]) esprime la sua indignazione nei confronti del console Flaminio, che intendeva far guerra non solo al Senato, ma anche agli Dei Immortali, allorché è fuggito dal Campidoglio per sottrarsi alla solenne pronuncia dei voti. Analoga situazione è ricordata nel libro XLI,10,5[24], quando il console Gladio, per timore che gli potesse essere tolta l’amministrazione della provincia, che gli era stata assegnata, è partito notte tempo senza littori e, soprattutto, senza pronunciare i voti solenni.

Sempre nell’ambito di una cerimonia pubblica e sacra, si trova adoperata l’espressione, in tempi più recenti, in Svet., Oct., XCVII[25] ed in Plinio, Paneg., LXVII,3[26], il quale ricorda anche la finalità per la quale si pronunciavano i vota sollemnia: per la salute dell’Impero o per la floridezza dei capi dello Stato.

Orbene, nelle fonti esaminate nuncupare e nuncupatio hanno il significato di pronunciare certa verba nell’ambito di una cerimonia solenne o davanti a testes. Le parole dei vota publica, che sono detti dai consoli o dai pretori prima di andare nelle province, sono sempre gli stessi, tanto che spesso Livio non li riporta neppure, limitandosi ad annotare che quel console o quel pretore li ha pronunciati o non li ha detti prima di partire. Le finalità e gli effetti sono parimenti sempre gli stessi: quelli, cioè, di procurarsi il favore degli dei, non importa se per vincere una guerra o per ottenere situazioni favorevoli. E si è sicuri di procurarsi un tale favore degli dei  perché si sono pronunciati proprio quei nomina a questo predisposti nell’ambito della cerimonia prestabilita. Ma c’è di più, alle parole della formula sono ricondotti effetti vincolanti, comportamenti impegnativi per il soggetto che le ha dette. Così, Augusto fa pronunciare a Tiberio i voti, che si è soliti dire in occasione del lustrum nel timore di non poterli adempiere, perché aveva avuto segni premonitori contrari (Svet., Oct., XCVII) e in un’altra occasione fa incidere nella colossale iscrizione di Ancyra (I,23-24), proprio per sottolineare che il suo comportamento conforme ai vota nuncupata ha esaurito il vincolo con la divinità:

 

“Laurum de pascibus deposui in Capitolio votis quae quoque bello nuncupaveram solutis”.

 

Il valore della pronuncia dei vota, che sono sempre gli stessi e sono espressi con le parole dovute, verba nominata propriis nominibus, in un contesto solenne, ha la sua spiegazione nel collegamento col sacrum. Siamo di fronte ad una di quelle situazioni, in cui la parola produce effetti, direttamente ex opere operato, cioè solo in quanto pronunciata solennemente in una cerimonia sacra, “alla parola pronunciata –rileva l’Orestano[27]- si attribuisce potere costitutivo di effetti, di modificazioni, di creazioni nella sfera religiosa”.

[170] Basti pensare alla formula antica per la consacrazione delle Vestali, riportata da Gellio I,12,14[28] o a quella per la consacrazione dei templi, di cui parla Livio, I,10,7[29], e Valerio Massimo, V,10,1[30].

Infatti, Livio, nel libro I,10,7, a proposito della fondazione del tempio di Giove in Campidoglio, usa il nuncupare nel senso di impegnare, creare un vincolo, al quale sono legati, per il carattere della sacralità, oltre che il promittente anche i suoi successori ed i suoi aventi causa. Il testo è interessante, perché, al paragrafo 6, riporta anche le parole solenni della formula pronunciata da Romolo a Giove Feretrio.

Ancora in Livio, libro XL,46,8-9[31], la formula dettata dal console Metello ha tutto l’andamento di una conceptio verborum vincolante per colui che l’ha pronunciata.

Analogamente, ai verba sollemnia nuncupata nel corso della consacrazione di un tempio a Giove Capitolino, fa esplicito riferimento Valerio Massimo, nel noto testo V,10,1 ed è tanta l’importanza di questa funzione solenne, che il pontifex Orazio Pulluillo non osa sospenderla nemmeno perché gli è stata comunicata la notizia della morte del figlio “ne patris magis quam pontificis partes egisse videretur”.

Per la costituzione di tale vincolo, di tale obbligatorietà, che è uno dei principali effetti del nuncupare, occorre che le parole pronunciate siano proprio quelle e che nulla sia cambiato.

La spiegazione di questo effetto vincolante predeterminato, è data dall’antico significato di nuncupare. Solo con Varrone Reatino si ha un tentativo di indagine filologica di detto termine, nel De lingua latina, VI,60[32]. Nel passo in questione si legge che nuncupare sta a significare “nominare” e la parola ritorna ancora, nella stessa accezione, in Gaio II,104 ed in Festo (L.) 176, in cui si spiega che:

 

“nominata pecunia est, ait Cincius in libro secundo De officio jureconsulti, nominata, certa nominibus propriis pronunciata”.

 

Ancora in Isid., V,24,12, si legge che nuncupare vale palam nominare. Nuncupare, dunque, ha il significato di nominare cioè di esprimere a viva voce le parole dovute, certe, predisposte per ottenere risultati stabiliti ed è composto da nomen o, come io preferisco, nomine capere. Si coglie, in questa sua composizione etimologica, la inderogabilità e la sacralità di quanto è stato solennemente detto. Il dicere nominatim è fondamentale nel mondo antico perché cristallizza, riconoscendola idonea e adeguata, l’invocazione agli dei o definisce la natura profonda della cosa che designa.

Tali testimonianze, inoltre, costituiscono anche un esempio eloquente di quello che doveva essere stato il tipo di vincolo che nasceva non solo fra colui che pronuncia la formula e la divinità, ma anche, in tempi più recenti, l’impegno che il soggetto prende con l’intera comunità. Non si dimentichi che le promesse sono rivolte a Giove, una delle divinità più venerate dal calendario di Numa, potenza cosmica ed etica, in quanto presiede alla santità delle [171] promesse sia private (ad esempio, il matrimonio), sia pubbliche (ad esempio, i trattati internazionali), ed è custode del diritto. E’ allora evidente l’importanza di questa invocazione religiosa, valida non solo per rispondere al timore ed anche, in certo senso, al bisogno del divino, ma anche per salvaguardare l’ordine sociale, per cui, colui che viola i vota nuncupata viola uno dei principi cardine di questo ordine, a cui presiede Juppiter. Perciò, poiché il rispetto dovuto alla pronuncia della formula è uno dei criteri che individuano il ruolo politico-religioso del soggetto anche all’interno della società, colui che non lo rispetta è come lo spergiuro “pone sub condicione anche la conservazione del proprio caput, ossia della propria condizione giuridico-religiosa all’interno del gruppo”[33].

La prima conclusione, che da questa breve indagine filologica antiquaria si trae, è che verba o vota nuncupare si riferisce alla pronuncia di una formula solenne, fissa e preordinata, suggerita da un pontifex, probabilmente conservata nei libri augurali, “in cui si designano –come fa notare il Sini[34]- il calendario ed il comportamento che i singoli dovevano tenere in tali circostanze”.

C’è, inoltre, da rilevare che il volere del singolo non è mai indicato con vota e verba nuncupare. Tale espressione è riservata solo alla pronuncia solenne e vincolante di una formula fissa, mai concepita dal promittente, ma sempre espressa con parole preordinate nel corso di un rituale dietro suggerimento di un pontifex.

Ciò premesso, rimane adesso più agevole interpretare il versetto delle XII Tavole, Tab. VI,1, in cui si parla di “lingua nuncupare”.

Mi limiterò all’interpretazione di questa espressione, senza addentrarmi nei problemi che sollevano i negozi della mancipatio e del nexum; il che mi porterebbe troppo fuori da quello che è il tema che ho inteso affrontare.

E’ mia convinzione, infatti, che, in questi negozi, si possa distinguere un’analisi del lessico giuridico da un’ analisi che privilegi, invece, gli aspetti strutturali e funzionali.

Seguendo quanto risulta dalle fonti, che si riferiscono a funzioni sacrali, è agevole supporre che anche nella terminologia tecnico-giuridica il nuncupare sia stato riferito a certa verba preordinati, pronunciati nel corso di un atto solenne che costituiscono il diritto, vincolando colui che li ha pronunciati (ita jus esto). L’effetto della statuizione del dicere è fatto discendere, anche in questo caso, dalla fissità e dalla solennità della cerimonia che lo accompagna (palam nuncupare). “I grandi sacerdoti, i grandi collegi –sottolinea il Dumézil[35]- avevano le loro tradizioni, le loro regole fisse, né le une né le altre dovevano essere soggette a cambiamenti”. Se, dunque, ancora nell’ultimo secolo della Repubblica, gli esperti dell’arte augurale ripetevano fedelmente parole e gesti del tempo monarchico, è difficile pensare che il nuncupare lingua del versetto delle XII Tavole sia stato adoperato con un significato diverso, ed abbia inteso dare efficacia giuridica a quelle clausole inserite nel formulario della mancipatio, che avrebbero espresso la volontà del singolo, sia essa intesa nel senso di latissima potestas, sia, invece, che, più restrittivamente, sia stata riallacciata all'ambito alienatorio del negozio della mancipatio. Non c'è spazio per l'affermazione della volontà del singolo, nel nuncupare lingua, le parole a cui si riferisce sono verba sollemnia predeterminati ed inalterabili, sono fissati in modo tanto categorico che, un minimo errore, come ricorda Gaio IV,11, a proposito delle legis actiones, avrebbe annullato gli effetti giuridici che da esse discendevano.

Inoltre, l’obbligatorietà espressa dai verba sollemnia, a prescindere dalla volontà di colui che li ha pronunciati, la corrispondenza tra jus e verba nuncupata sembra, del resto, provata [172] anche dal noto testo di Cicerone, De officiis, III,16,65-67[36], in cui si fa riferimento alle XII Tavole, le quali, nella loro “verborum vetustas prisca”, comminano una poena dupli (che è stata variamente interpretata dalla dottrina[37]), a colui qui infitiatus esset per non aver rispettato il “quae lingua nuncupata essent”. La responsabilità formale, di cui parla Cicerone, è stata riportata dalla dottrina all’actio de modo agri[38]. Orbene, il parallelismo fra la reticentia ex fide bona, creata dai veteres, e la responsabilità formale che nasce dal ‘quae lingua nuncupata essent’, sottolineano proprio come essa nasca quasi magicamente dalla pronuncia dei verba definiti e predeterminati[39]. Il testo, quindi, lungi dal costituire una prova a favore di coloro che concepiscono le nuncupationes come clausole aggiunte alla mancipatio, conferma l’interpretazione qui proposta. Infitiator, infatti, non è semplicemente colui che nega in senso strettamente giuridico, ma colui che non dà attuazione e non rispetta quanto doveva[40] ed è punito proprio perché contravviene al valore costitutivo di statuizione del dicere al “ea praestari quae lingua nuncupata essent”. Perciò, infitiator è colui che contravviene a quanto stabilito da quei verba sollemnia che Gaio, I,119-120, riporta in termini tanto precisi, quanto anacronistici per la sua epoca[41].

 Come ancora nell’ultima epoca repubblicana non si sia avuta alcuna alterazione a quello che era l’antico significato di nuncupatio[42] è mostrato da Cicerone che nel De oratore, I,57,245[43], ricorda come proprio il buon oratore è colui che conta soprattutto sull’eloquenza ed ha la forza di far credere che la famosa frase uti lingua nuncupassit non appartiene alle XII Tavole, considerate da tutti fonti da anteporre ai trattati delle biblioteche, ma ad un qualsiasi maestro di retorica. Questo testo sta a significare che l’espressione adoperata nelle XII Tavole, diventata ormai una formula di stile, abbia un tale valore che, per smontarla, occorre ridurla ad una formuletta inventata da qualche oscuro maestro di retorica.

Per completare lo studio sul significato di nuncupare ed a dimostrazione che tale termine si riferisce al dicere certa verba preordinati, che non accolgono nessuna alterazione dovuta alla volontà privata del singolo, occorre esaminare il testamentum per aes et libram, nel quale la dichiarazione del testator è chiamata da Gaio II,104, nuncupatio:

 

“Eaque res ita agitur: qui facit <testamentum>, adhibitis, sicut in ceteris mancipationibus, v testibus civibus Romanis puberibus et libripende, postquam tabulas testamenti scripserit, mancipat alicui dicis gratia familiam suam; in qua re his verbis familiae emptor utitur familia pecuniaque tua endo mandatelam custodelamque meam, quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam, hoc aere, et ut quidam adiciunt aeneaque libra, esto mihi empta; deinde aere percutit libram, idque aes dat testatori velut pretii loco; deinde testator tabulas testamenti tenens ita dicit haec ita ut in his tabulis [173] cerisque scripta sunt, ita do ita lego ita testator itaque vos Quirites testimonium mihi prohibetote; et hoc dicitur nuncupatio: nuncupare est enim palam nominare, et sane quae testator specialiter in tabulis testamenti scripserit, ea videtur generali sermone nominare atque confirmare”.

 

Non affronterò, in questa sede, i complessi problemi che pone il testamentum per aes et libram; mi limiterò semplicemente ad esaminare il testo di Gaio in riferimento alla nuncupatio[44].

Se la struttura originaria dell’atto è questa descritta da Gaio, appare evidente quale significato ha nuncupare e nuncupatio: essa indica, cioè, la formula pronunciata solennemente davanti ai testes con l’intendimento di precisare, in modo certo e inequivocabile, proprio attraverso la fissità dei verba, il prodursi di determinati effetti giuridici[45]. E questo significato della nuncupatio nel testamento è, d'altronde, confermato anche dal linguaggio letterario[46].

Non ha importanza, pertanto, che sia pronunciata  dal testator e non dal familiae emptor, quello che interessa è l’aspetto formale: i certa verba della nuncupatio sono presentati da Gaio come una formula autonoma e non come una clausola accessoria da aggiungersi alla mancipatio, che, al contrario, appare come l’espletamento di una mera formalità: è un negozio meramente fittizio e fatto dicis causa.

Circa la data di origine del testamentum per aes et libram non si hanno notizie sicure, ma parte della dottrina la riconduce all’epoca della monarchia etrusca[47], nella quale erano conosciuti i gesta per aes et libram e le condizioni economico-sociali avrebbero consentito il sorgere dell’istituto. E’, dunque, incontrovertibile che anche in questo caso la nuncupatio ha parole preordinate, inserite nell’ambito di un rituale pubblico, come ancora ricorda Ulpiano, l. II ad Sab. (D. 28,1,21,pr.), allorché sottolinea che “si nuncupat, palam debet”.

Quei certa verba sono tanto essenziali – non si può quindi parlare di clausole accessorie – da qualificare l’intero testamento, che le fonti chiamano testamento nuncupativo. Non risulta, quindi, in alcun modo che in Gaio, II,104, la nuncupatio sia presente, se non come una dichiarazione solenne, orale, resa davanti a testimoni rogati, che hanno la funzione di pubblicizzare non tanto le singole disposizioni, quanto l’intero testamento, al quale, una volta morto il rogante, deve essere data attuazione[48].

Anche in questo caso, dunque, si trova adoperato in un testo giuridico di età molto più tarda il termine nuncupare nel significato che si è evidenziato.

 

Mi rendo conto che si può andare ben oltre quello che risulta da queste rapide annotazioni, per determinare il significato di nuncupare e nuncupatio in Roma antica, tuttavia le fonti esaminate inducono ad una conclusione. C’è nella società di questa epoca arcaica la necessità di fissare, di cristallizzare riti e verba, che si riferiscono ai principali rapporti, i quali regolano la vita inter homines ed ancora prima col divino. Tali formule dovevano essere conservate nella stessa forma letterale e sintattica negli archivi dei pontefici, da cui sono state tratte. [174] Nasce, così, tutto un lessico tecnico-sacrale, che si trasmetterà in seguito al diritto a questo appartiene anche il nuncupare o lingua nuncupare. Esso indica  i certa verba fissi ed immutabili pronunciati nel corso di una cerimonia pubblica o davanti a testes. In questa accezione il termine si tecnicizza e non cambia, anche quando passa all’ambito giuridico.

In sintesi, non intendo affrontare il problema e, quindi, oppormi a quella parte della dottrina che sostiene la possibilità di inserire nella mancipatio dichiarazioni che danno rilievo alla volontà del singolo con finalità diverse o aggiuntive da quelle proprie del negozio stesso. La mia indagine si limita solo a rilevare come tali clausole accessorie, – qualora si possa dimostrare la loro effettiva esistenza – siano esse espresse con parole libere o mediante verba di volta in volta adattati dai pontifices alle esigenze individuali, non sono state indicate dalle nostre fonti con i termini di nuncupatio e nuncupare, che indicano, al contrario, l’intera formula preordinata fissa, formale e solenne, e hanno un significato che non cambia neppure col passare del tempo, se Gaio, II,104, lo riferisce alla dichiarazione solenne del testator, ma sente subito dopo il bisogno di spiegarlo, perché il termine è talmente arcaico che non è più capito ai suoi tempi.

 

 

 

 

 



[1] Corso di diritto romano, voll. II, La proprietà, Roma, 1926, p. 145, rist. annotata da G. Bonfante e da  G. Grifò, Milano, 1968

[2] Sui problemi che pone la Tab. VI,1, cfr. da ultimo BEHERENS, La mancipatio nelle XII Tavole, in IURA, XXXIII, 1982, p. 629; MAGDELAIN, L’acte juridique au cours de l’ancien droit romain, in B.I.D.R., XXX, 1988, pp. 68 ss. E lett. ivi cit.

[3] Sulla bibliografia, cfr. BELLOCCI, La struttura del negozio della fiducia nell’epoca repubblicana, vol. I, Le nuncupationes, Napoli, 1979

[4] Cfr. PAULI WISSOVA, sub vc. Nuncupatio

[5] Il formalismo negoziale nell’esperienza romana, Lezioni, Torino,1994

[6] Sulla tesi, cfr. GIUFFRE’, in Labeo, 42, 1996, 1, pp. 312 ss.

[7] O.c., p. 145 ss.

[8] BONFANTE, O.c., p. 145.

[9] Cfr. BELLOCCI, O.c., pp. 54-55.

[10] Lineamenti della storia delle fonti, Milano, 1949, pp. 51 ss.

[11] Principi, trad. da V. Arangio-Ruiz, Firenze, 1946, p. 68.

[12] La compravendita in diritto romano, Napoli, 1954, p. 192.

[13] FIORI, Homo sacer, dinamica giuridico-costituzionale di una sanzione politico-religiosa, Napoli, 1996, p. 168.

[14] PENSABENE, Luoghi di culto, depositi votivi e loro significato in Roma repubblicana fra il 509 ed il 270 a.C., Roma, 1983, p. 77

[15] Cfr. Glossario storico, archeologico, retorico, p. 1442

[16] Ph., III,4,11, “...Antonius contra populum Romanum exercitum adducebat tum cum a legionibus relictus nomen Caesaris exercitumque pertinuit neclectisque sacrificiis sollemnibus, ante lucem vota ea quae numquam solveret nuncupavit, et hoc tempore in provinciam populi Romani conatur invadere”.

[17] Verr., II,13,94, “...alterum, quod, cum paludatus exisset votaque pro imperio suo communique republica nuncupasset, noctu stupri causa lectica in urbem introferri solitus est ad mulierem, nuptam uni, propositam omnibus, contra fas, contra auspicia, contra omnes divinas atque humanas religiones”.

[18] Verr., V,13,34, “Iam vero, cum in eius modi patientia turpitudinis aliena non sua satietate obduruisset, qui vir fuerit, quot praesidia, quam munita pudoris et pudicitiae vi et audacia ceperit, quid me attinet dicere aut coniungere cum istius flagitio cuiusquam praeterea dedecus? Non faciam, iudices; omnia vetera praetermittam duo sola recentia sine cuiusquam infamia ponam, ex quibus coniecturam facere de omnibus positis, unum illud, quod ita fuit inlustre notumque omnibus ut nemo tam rusticanus homo L. Lucullo (et) M. Cotta consulibus Romam ex ullo municipio vadimoni causa venerit, quin sciret iura omnia praetoris urbani nutu atque arbitrio Chelidonis meretriculae gubernari, alterum quod, cum paludatus exisset votaque pro imperio suo communique re publica nuncupasset, noctu stupri causa lectica in urbem introferri solitus est ad mulierem nuptam uni, propositam omnibus, contra fas, contra auspicia, contra omnis divinas atque humanas religiones!”

[19] SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, vol. I, Libri e commentari, Sassari, 1983, p. 93

[20] De Bell. Civ., I,6,6, “In reliquas provincias praetores mittuntur, neque expectant, quod superioribus annis acciderat, ut de eorum imperio ad populum feratur, paludatique, votis nuncupatis, exeunt, quod ante id tempus acciderat nunquam”

[21] BELLOCCI, Op.cit., p. 142

[22] XXXI,14,1, “Tum P. Sulpicius secundum vota in Capitolio nuncupata paludatis lictoribus profectus ab urbe Brundusium venit”.

[23] XXXI,63,7, “Consulem ante inauspicato factum revocantibus ex ipsa acie dis atque hominibus non paruisse; nunc conscientia spretorum et Capitolium et sollemnem  votorum nuncupationem fugisse”

[24] XLI,10,5, “Haec cum Romae cognita litteris proconsulum essent, C. Claudius consul veritus, ne forte eae res provinciam et exercitum sibi adimerent, non votis nuncupatis, non paludatis lictoribus, uno omnium certiore facto collega, nocte profectus, praecerps in provinciam abiit; ubi inconsultius quam venerat se gessit”

[25] Oct., XCVII, “Mors quoque eius, de qua dehinc dicam, divinitasque post mortem evidentissimis ostentis praecognita est. Cum lustrum in campo Martio magna populi frequentia conderet, aquila eum saepius circumvolavit transgressaque in vicinam aedem super nomen Agrippae ad primam litteram sedit; quo animadverso nota, quae in proximum lustrum suscipi mos est, collegam suum Tiberium nuncupare iussit; nam se, quanquam conscriptis paratisque iam tabulis, negavit suscepturum  quae non esset soluturus…”

[26] Paneg., LXVII,3, “Nec verendum est, nec incautos putet, si fidelitate temporum constanter utamur, quos meminit sub malo principe aliter vixisse. Nuncupare vota et pro aeternitate imperii et pro salute principum, immo pro salute principum ac propter illos pro aeternitate imperii solebamus”

[27] I fatti normativi nell’esperienza romana arcaica, Torino, 1967, pp. 192-193.

[28] I,12,14, “Sacerdotem vestalem, quae sacra faciet , quae ius siet sacerdotem vestalem pro populo romano Quiritibus, uti quae optima lege fuit, ita te, Amata, capio”.

[29] I,10,7, “Haec templi est origo quod primum omnium Romae sacratum est. Ita deinde diis visum, nec inritam conditoris templi vocem esse, qua laturos eo spolia posteros nuncupavit, nec multitudine compotum eius doni vulgari laudem. Bina postea inter tot annos, tot bella opima parta sunt spolia: adeo rara eius fortuna decoris fuit”

[30] V,10,1, “Horatius Pulvillus, cum in Capitolio Iovi optimo maximo aedem pontifex dedicaret interque nuncupationem sollemnium verborum postem tenens mortuum esse filium suum audisset, neque manum a poste removit, ne tanti templi dedicationem interrumperet, neque vultum a publica religione ad privatum dolorem deflexit, ne patris magis quam pontificis partes egisse videretur”

[31] XL,46,8-9, “…uno animo, uno consilio, legatis senatum, equites recenseatis agatis censum, lustrum conditis; quod in omnibus fere precationibus nuncupabitis verbis: ‘ut ea res mihi collegaeque meo bene et feliciter eveniat’, id ita ut vere, ut ex animo velitis evenire: efficiatisque ut, quod deos precati eritis, hic vos velle etiam homines credamur”

[32] De lingua latina, VI,60, “Ab eo nuncupare quod tunc (pro) civitate vota nova suscipiuntur. Nuncupare nominare valere apparet in legibus, ubi ‘nuncupatae pecuniae’ sunt scriptae”

[33] FIORI, O.c., p 224

[34] Documenti sacerdotali in Roma antica, cit., p. 110.

[35] La religione romana arcaica, Milano, 1977, p. 92.

[36] De officiis, III,16,65-67, “Ac de iure quidam praediorum sanctum apud nos est iure civili, ut in iis vendendis vitia dicerentur, quae nota essent venditori. Nam cum ex XII Tabulis satis esset ea praestari, quae essent lingua nuncupata, quae qui infitiatus esset dupli poenam subiret, a iuris consultis etiam reticentiae poena est constituta: quidquid enim est in praedio vitii, id statuerunt, si venditor sciret, nisi nominatim dictum esset, praestari oportere”

[37] Cfr. BELLOCCI, Le nuncupationes, cit., p. 96.

[38] Cfr. da ultimo, BEHERENS, O.c., pp. 58 ss.; MAGDELAIN, O.c., p. 139 n. 26.

[39] Al contrario, BONFANTE, Corso, II ediz., 2, cit., p. 196.

[40] Sul significato di infitiatio, cfr. LANFRANCHI, Il diritto nei retori romani, Milano, 1938, p. 299; MAGDELAIN, O.c., pp. 72 ss.

[41] Cfr. GUARINO, Verba sequentur in Ineptiae juris, Napoli, 1979, (estr.), p. 4. Ed ancora BELLOCCI, Le nuncupationes, cit., p. 103.

[42] Contra MAGDELAIN, O.c., p. 139

[43] De oratore, I,57,245, “…ut totum illud ‘uti lingua nuncupata’ non in XII Tabulis, quas tu omnibus bibliothecis anteponis, sed magistri carmine scriptum videretur”

[44] Sul testamentum per aes et libram, cfr. GUARINO, Forma scritta e orale del testamento romano, in St. in onore di P. De Francisci, Milano, 1956, pp. 55 ss.

[45] E’ stato rilevato dalla dottrina come le nuncupationes nel testamento per aes et libram non abbiano avuto alcun riferimento alla nuncupatio della mancipatio nelle XII Tavole. Infatti, la frase di acquisto del familiae emptor ha valore solo formale in questa epoca contrariamente a quello che avveniva nell’epoca antica, dove si trattava di un vero e proprio acquisto del patrimonio del de cuius heredis loco. Pertanto, l’unica nuncupatio sarebbe quella del testatore. Cfr. in tal senso, BEHERENS, O.c., pp. 23 ss.

[46] FORCELLINI, sub h.v.

[47] Cfr. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Roma, 1993. Ad un’epoca predecemvirale riconduce l’origine del testamentum per aes et libram il CORBINO, O.c., p. 27 ss.

[48] Cfr. ARCHI, Oralità e scrittura nel testamentum per aes et libram, in St. in onore di P. De Francisci, Milano, 1956, p. 293.