ds_gen N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana

Pietro Paolo Onida

Università di Sassari

 

 

Il divieto dei sacrifici di animali nella legislazione di

Costantino. Una interpretazione sistematica(*)

 

 

Sommario: Premessa. Contrarietà di Costantino ai sacrifici di animali: insufficienza della spiegazione con la sola conversione al Cristianesimo ed esigenza di considerare sistematicamente le concezioni religiose, filosofiche e giuridiche di favore per la condizione animale.1. Il rifiuto personale dei sacrifici di animali: gli episodi.a. Il rifiuto personale dei sacrifici cruenti: prima della battaglia di Saxa Rubra e per la guarigione dalla lebbra.b. Il rifiuto personale dei sacrifici di animali nei tre ingressi a Roma e la vexata quaestio dell’abbandono del Campidoglio.2. Il divieto legislativo dei sacrifici di animali: le norme.a. Il divieto speciale e parziale dei sacrifici di animali in materia di aruspicina e di magia.b. Il divieto generale e totale dei sacrifici di animali.c. Il complesso della normazione costantiniana di carattere ‘umanitario’.3. Il divieto dei sacrifici di animali come aspetto e manifestazione della concezione degli animali: nella religione, nella filosofia e nel diritto.a. Il consortium naturalis initii fra gli esseri animati, nella cultura religiosa cristiana.b. L’unica giustizia per tutti gli esseri animati nella cultura filosofica greca.c. Il ius naturale che omnia animalia docuit, nella cultura giuridica romana.4. Costantino e la cultura del suo tempo.a. La questione della conoscenza, da parte di Costantino, delle correnti filosofiche di favore per la condizione animale e contrarie ai sacrifici di animali.b. Un esempio di attestazione della conoscenza, da parte di Costantino, delle correnti filosofiche di favore per la condizione animale e contrarie ai sacrifici di animali: la Oratio ad sanctorum coetum.Conclusioni.

 

 

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Premessa. Contrarietà di Costantino ai sacrifici di animali: insufficienza della spiegazione con la sola conversione al Cristianesimo ed esigenza di considerare sistematicamente le concezioni religiose, filosofiche e giuridiche di favore per la condizione animale.

 

Numerose fonti attestano il rifiuto e il divieto da parte di Costantino dei sacrifici di animali. Nel senso di un rifiuto, si possono considerare quelle testimonianze che, con riferimento agli eventi in occasione dei quali l’imperatore fece ingresso in Roma, sembrano a lui attribuire, di fronte ai sacrifici di animali, un atteggiamento che, da una originaria e semplice forma di disagio, si trasforma, con il tempo, in un vero e proprio rifiuto definitivo della violenza sacrificale, espresso, da un lato, nel diniego di un personale coinvolgimento nei sacrifici di animali[1], dall’altro, nella rinuncia a onori comportanti spargimento di sangue[2]. Nel senso di un divieto, si possono richiamare quelle costituzioni che vietano il compimento di pratiche sacrificali legate alla aruspicina[3] e quelle che introducono limiti ai riti cruenti in onore delle divinità romane[4].

Da più parti, si è individuato il fondamento del rifiuto dei sacrifici di animali e della legislazione connessa nella scelta cristiana di Costantino[5], scelta che, a prescindere dai problemi tuttora

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aperti sulla conversione dell’imperatore[6], avrebbe caratterizzato la politica costantiniana a partire dalla battaglia di Ponte Milvio[7].

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Questa spiegazione, però, non dà ragione della specificità dell’atteggiamento di Costantino che concerne non i sacrifici in generale, ma solo quelli cruenti. Se, da un lato, l’imperatore sembra ispirarsi alla dottrina cristiana, per la quale il vero e unico sacrificio è solo quello di Cristo[8], d’altro lato, egli dispone di una

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visione anche precristiana delle relazioni uomo-animale, per la quale il primo non è in posizione di supremazia nei confronti del secondo[9], ma è legato all’altro da un rapporto simpatetico[10].

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Nello sviluppo del presente studio, ci soffermeremo sulla prospettiva di questa seconda possibile fonte di ispirazione, collocandola nel quadro della più generale concezione religiosa, filosofica e giuridica della condizione animale nell’antichità[11]. In

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tale prospettiva, le disposizioni emanate dall’imperatore in materia di sacrifici di animali possono essere considerate indizio di un progetto complessivo di ‘innesto’ della nuova religione cristiana nella precedente cultura romana, progetto per il quale egli sembra privilegiare alcune specifiche correnti di tale cultura, con conseguenze assai interessanti anche sul piano dell’interpretazione del sistema giuridico. Il divieto dei sacrifici appare implicare, nei confronti degli animali e della loro condizione, una attenzione, la quale, se, da un lato, potrebbe trovare origine in un atteggiamento personale dell’imperatore, dall’altro, potrebbe anche concorrere a chiarire i modi della progressiva espressione di un distacco da certi aspetti cruenti della esperienza religiosa precristiana, distacco, i cui caratteri vanno sempre più definendosi nel tempo.

Le ragioni della ipotesi testé avanzata non potranno, naturalmente, essere esposte prima di avere preso in esame le fonti sull’attività di Costantino in materia di sacrifici di animali. Sin da ora, però, è possibile compiere una osservazione preliminare alla

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impostazione e allo sviluppo del discorso. È infatti opportuno osservare che, se non si tiene conto del duplice quadro – costituito dalla insufficienza della spiegazione del rifiuto e del divieto dei sacrifici di animali con la sola conversione al Cristianesimo e dalla esigenza di considerare sistematicamente le concezioni religiose, filosofiche e giuridiche di favore per la condizione animale –, non si può percepire il senso e la portata del divieto dei sacrifici di animali.

Viceversa, tenendo adeguatamente conto di questo duplice quadro, il rifiuto e il divieto dei sacrifici di animali potranno apparire riconducibili ad un progetto complessivo di ampio respiro ‘culturale’ e di grande significato giuridico. Di ampio respiro ‘culturale’, per via della feconda sintesi, realizzata da Costantino, fra elementi propri della nuova religione cristiana e alcune specifiche componenti della cultura precristiana greco-romana. Di grande significato giuridico, per il sostegno, assicurato dall’imperatore, a una impostazione dei rapporti tra uomini e animali non umani in linea con la concezione del ius naturale e, dunque, attraverso l’influenza di questo ius, in linea (anche) con il ius gentium e il ius civile[12].

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Le fonti che prenderemo in esame, per una interpretazione sistematica dell’atteggiamento personale e della legislazione costantiniani in materia di sacrifici di animali, possono per semplicità essere considerate di tre tipi: 1) fonti in cui si parla di sacrifici cruenti; 2) fonti in cui si parla di sacrifici tout court; 3) fonti in cui si parla di animali senza riferimenti espliciti ai sacrifici, che rimangono però sottintesi[13].

Per tale ragione, si pone il problema di valutare, con particolare riguardo alla posizione espressa da Costantino in materia di sacrifici, la relazione esistente tra sacrificio e uccisione dell’animale.

Nelle fonti, è appena il caso di osservare che il sacrificio non implica sempre la uccisione dell’animale e viceversa. È opportuno,

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invece, rilevare, sin da ora, che nel linguaggio delle fonti antiche, di varia provenienza, quando ci si riferisce al sacrificio senza ulteriori specificazioni, di norma, si intende il sacrificio cruento. A ciò può anche aggiungersi che l’affermazione può essere rovesciata, in quanto l’uccisione dell’animale ha o quantomeno deve avere sempre caratteri rituali[14].

Questa relazione tra sacrificio e uccisione dell’animale sembra riproporsi, negli stessi termini, anche nella legislazione costantiniana, in seno alla quale il rifiuto e il divieto dei sacrifici ci appaiono diretti evidentemente a colpire i sacrifici di animali.

Non è possibile, per esaminare tale relazione, soffermarsi in questa sede sulla concezione generale del sacrificio nel sistema “giuridico-religioso” romano, tanto più che il tema è oggetto, oltre che di una ricchissima letteratura, di una relazione di Francesco Sini, in questa stessa pubblicazione, alla quale relazione naturalmente rinviamo anche per l’esame della letteratura. Si può però osservare, in estrema sintesi, che, accanto al sacrificio cruento, esistono atti differenti con i quali “hanno l’autorità di impegnare e sdebitare una collettività, la repubblica o una gens, i suoi capi naturali: il pater familias, i magistrati cum imperio … L’atto fondamentale, sia autonomo, sia parte integrante di operazioni più complesse, è l’offerta di un bene di consumo, e in particolare di una sostanza alimentare: per esempio, le primizie dei cereali, delle fave, dell’uva, del vino dolce, e più spesso un animale, che è l’oggetto per eccellenza dei sacrificia[15]. Come ha osservato Francesco Sini, nella sua relazione, la centralità del sacrificio e specificamente del sacrificio di esseri animati è attestata nel testo liviano (1,20,5-7) sulla istituzione del sacerdozio pontificale da parte del re Numa Pompilio, testo nel quale le hostiae sono collocate all’inizio dell’elenco delle materie di competenza dei pontefici, prima di dies, templa, pecunia, cetera sacra, funebria e prodigia. Se dunque, come ha rilevato sempre tale studioso, i sacrifici “potevano consistere in offerte incruente di prodotti della terra (libamina), oppure in sacrifici cruenti di esseri animati (hostiae, victimae)”,

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occorre però riconoscere “quanto al risultato che si voleva conseguire” che “la pratica dei sacrifici cruenti era ritenuta di gran lunga superiore alla semplice offerta di libamina, in ragione del radicato convincimento che il sangue delle vittime sacrificali, versato nell’azione rituale, risultasse sommamente gradito alle divinità (e ai defunti)”. In questa ottica, la centralità del sacrificio di animali, nel sistema giuridico-religioso romano, è attestata (anche) dalle indagini semantiche che John Scheid ha condotto sul vocabolario delle relazioni sacrificali, le quali indagini mostrano, fra l’altro, un nesso inscindibile tra sacrificio e spargimento di sangue animale[16]. “Data l’importanza del rito e la rarità della consumazione di carne” ha osservato lo studioso “si potrebbe supporre senza essere imprudenti che la fase sacrificale precedesse sempre la distribuzione … Diremo che a Roma, in epoca storica, ogni sacrificio è seguito da una distribuzione, talvolta da un banchetto, e che, se non direttamente collegato al sacrificio, nondimeno esso utilizza la terminologia e le regole della spartizione sacrificale”[17].

Basterebbe dunque riflettere sul nesso tra sacrificio e spargimento di sangue, per ritenere che le costituzioni costantiniane in materia di sacrifici siano specificamente volte a vietare l’uccisione di animali. Al di là di tale rilievo, per così dire, esterno alla legislazione costantiniana, occorre anche ricordare che il nesso tra sacrificio e spargimento di sangue e, dunque, quello tra le costituzioni costantiniane e i sacrifici di animali, è attestato da Eusebio di Cesarea, il quale osserva che l’imperatore, in occasione

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dei decennali, “celebrò pubblici festeggiamenti e rivolse a Dio, Signore … sacrifici privi di fuoco e di fumo”[18]. E non è certo un caso, come si vedrà, che nell’arco di Costantino siano assenti richiami al compimento di sacrifici di animali da parte dell’imperatore[19].

Una ulteriore conferma di tale nesso proviene dalla lettera di Costantino al re persiano Sapore II, nella quale l’imperatore afferma espressamente il proprio disgusto per i sacrifici cruenti[20]:

 

Eusebio, vita Const. 4,9-10: T¾n qe…an p…stin ful£sswn toà tÁj ¢lhqe…aj fwtÕj metalagc£nw. tù tÁj ¢lhqe…aj fwtˆ ÐdhgoÚmenoj t¾n qe…an p…stin ™piginèskw. toig£rtoi toÚtoij, æj t¦ pr£gmata bebaio‹, t¾n ¡giwt£thn qrhske…an gnwr…zw. did£skalon tÁj ™pignèsewj toà ¡giwt£tou qeoà taÚthn t¾n latre…an œcein Ðmologî. toÚtou toà qeoà t¾n dÚnamin œcwn sÚmmacon, ™k tîn per£twn toà 'Wkeanoà ¢rx£menoj p©san ™fexÁj t¾n o„koumšnhn beba…oij swthr…aj ™lp…si di»geira, æj ¤panta Ósa ØpÕ tosoÚtoij tur£nnoij dedoulwmšna ta‹j kaqhmerina‹j sumfora‹j ™ndÒnta ™x…thla ™gegÒnei, taàta proslabÒnta t¾n tîn koinîn ™kdik…an ésper œk tinoj qerape…aj ¢nazwpurhqÁnai. toàton tÕn qeÕn presbeÚw, oá tÕ shme‹on Ð tù qeù ¢nake…menÒj mou stratÕj Øpr tîn êmwn fšrei, kaˆ ™f' ¤per ¨n Ð toà dika…ou lÒgoj parakalÍ kateuqÚnetai· ™x aÙtîn d' ™ke…nwn perifanšsi tropa…oij aÙt…ka t¾n c£rin ¢ntilamb£nw. toàton tÕn qeÕn ¢qan£tJ mn»mV tim©n Ðmologî, toàton ¢kraifne‹ kaˆ kaqar´ diano…v ™n to‹j ¢nwt£tw tugc£nein Øperaug£zomai· toàton 

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™pikaloàmai gÒnu kl…naj, feÚgwn mn p©n aŒma bdeluktÕn kaˆ Ñsm¦j ¢hde‹j kaˆ ¢potropa…ouj, p©san d geèdh lamphdÒna ™kkl…nwn, oŒj ¤pasin ¹ ¢qšmitoj kaˆ ¥rrhtoj pl£nh crainomšnh polloÝj tîn ™qnîn kaˆ Óla gšnh katšrriye to‹j katwt£tw mšresi paradoàsa. § g¦r Ð tîn Ólwn qeÕj prono…v tîn ¢nqrèpwn di¦ filanqrwp…an o„ke…an cre…aj ›neka e„j toÙmfanj par»gage, taàta prÕj t¾n ˜k£stou ™piqum…an ›lkesqai oÙdamîj ¢nšcetai, kaqar¦n d mÒnhn di£noian kaˆ yuc¾n ¢khl…dwton par¦ ¢nqrèpwn ¢paite‹, t¦j tÁj ¢retÁj kaˆ eÙsebe…aj pr£xeij ™n toÚtoij staqmèmenoj. ™pieike…aj g¦r kaˆ ¹merÒthtoj œrgoij ¢ršsketai, pr£ouj filîn, misîn toÝj taracèdeij, ¢gapîn p…stin, ¢pist…an kol£zwn, p©san met¦ ¢lazone…aj dunaste…an katarrhgnÚj, Ûbrin Øperhf£nwn timwre‹tai, toÝj ØpÕ tÚfou ™pairomšnouj ™k b£qrwn ¢naire‹, tapeinÒfrosi kaˆ ¢nexik£koij t¦ prÕj ¢x…an nšmwn. oÛtw kaˆ basile…an dika…an perˆ polloà poioÚmenoj ta‹j par' ˜autoà ™pikour…aij kratÚnei, sÚnes…n te basilik¾n tù galhna…J tÁj e„r»nhj diaful£ttei.

 

In tale prezioso documento è l’imperatore stesso a offrirci la chiave di lettura della sua scelta in materia di sacrifici: lo spargimento di sangue, i suoi olezzi e gli abomini rappresentano non solo i momenti più crudi e drammatici del sacrificio, ma anche le ragioni della presa di distanza dell’imperatore dalla violenza sacrificale. Si noti, inoltre, che l’accostamento tra il rifiuto del sacrificio cruento e il rilievo, secondo il quale Dio pretende dagli uomini solo “mente pura e anima incontaminata”, pone l’imperatore in linea con il rifiuto, precristiano e cristiano, dei sacrifici di animali, rifiuto sul quale ci tratterremo diffusamente nelle pagine seguenti.

 

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1. – Il rifiuto personale dei sacrifici di animali: gli episodi

 

a. Il rifiuto personale dei sacrifici cruenti: prima della battaglia di Saxa Rubra e per la guarigione dalla lebbra

 

Una serie di eventi testimonia il rifiuto dell’imperatore della violenza sacrificale, entro la quale si colloca, in quanto espressione fra le più ricorrenti di questa violenza, il sacrificio di animali.

La stessa vittoria del Ponte Milvio si era resa possibile, secondo una consueta rappresentazione[21], grazie all’intervento di un dio, il quale, non appartenendo alle tradizionali divinità romane, ad esse si era esplicitamente opposto. In questo senso, Eusebio[22] descrive idealmente lo scontro fra i due contendenti, a Saxa Rubra, come la lotta fra due diverse concezioni del sacrificio: addirittura sanguinario quello di Massenzio, non cruento quello di Costantino[23]. Eusebio mostra la crudeltà del ‘pagano’ Massenzio,

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il quale, nello sforzo di riportare la vittoria sul suo avversario, non esita a impartire l’ordine di sgozzare donne gravide, scrutare le viscere dei neonati, uccidere leoni, invocare demoni[24]. Costantino, al contrario, rifiutando i sacrifici cruenti, con la preghiera depone la sua vittoria nelle mani di Dio[25]. Nell’opera del vescovo di Cesarea, il tiranno[26], a differenza dell’imperatore, si affida alle effigi ‘pagane’[27], alla magia[28], alle stragi[29]. Alla empietà del tiranno – la dussebe…a – Eusebio contrappone la eÙsšbeia dell’imperatore[30].

In questa ottica, può essere letta anche la complessa tradizione in merito al battesimo dell’imperatore. Una tradizione fondata in larga misura sugli Actus Sylvestri[31], opera agiografica databile

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fra la fine del IV e i primi del V secolo[32], racconta che Costantino, persecutore di cristiani[33], sarebbe stato contagiato dalla lebbra. Dopo che maghi e medici non erano riusciti a guarire l’imperatore, i pontefici del Campidoglio gli avrebbero suggerito di far riempire una vasca con il sangue di fanciulli e di fare poi un bagno mentre ancora era caldo il sangue. Secondo questa tradizione, quando Costantino uscì dal palazzo, per recarsi a praticare tale cruenta ‘terapia’, le madri dei fanciulli, con il seno nudo e i capelli sciolti in segno di lutto, si sarebbero dirette in lacrime verso di lui. Egli, commosso dal pianto delle donne, avrebbe allora ordinato di riconsegnare i bambini alle madri e di offrire loro dei doni, motivando la sua rinuncia in nome della pietas e della iustitia. La stessa notte, gli apostoli Pietro e Paolo, inviati da Cristo, sarebbero apparsi in sogno a Costantino e gli avrebbero consigliato di richiamare dall’esilio il vescovo Silvestro, sottrattosi, sul monte Soratte, alla persecuzione che l’imperatore stesso aveva ordinato in precedenza. Al vescovo, giunto al cospetto di Costantino convinto di essere ormai vicino al martirio, l’imperatore avrebbe svelato il sogno e domandato il significato di esso. Silvestro avrebbe allora chiarito a Costantino l’identità delle due “divinità” a lui comparse e la funzione della piscina pietatis, immergendosi nella quale, l’imperatore sarebbe potuto guarire dalla malattia. Costantino avrebbe allora accettato di convertirsi e di sottoporsi al periodo di preparazione al battesimo, trascorso il quale periodo, sarebbe stato condotto, nel palatio Lateranensi, alla vasca battesimale, ove, dopo essersi immerso, sarebbe guarito. Tralasciando altri riferimenti, presenti nelle fonti, sulla vicenda del battesimo di Costantino, la tradizione attesta il rifiuto dell’imperatore per i sacrifici cruenti e la scelta cristiana del battesimo come rito incruento e purificatore.

 

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b. Il rifiuto personale dei sacrifici di animali nei tre ingressi a Roma e la vexata quaestio dell’abbandono del Campidoglio

 

Al di là di tali eventi, la più importante testimonianza del rifiuto imperiale della violenza sacrificale, a ben vedere, sta proprio nel rapporto che Costantino instaurò con la città di Roma, nelle tre circostanze in occasioni delle quali egli vi fece ingresso. In questo senso, come vedremo subito, non appare azzardato affermare, sin da ora, che ogni ingresso dell’imperatore nella città abbia segnato la formazione e il rafforzamento di un atteggiamento personale di distacco dai riti sacrificali, secondo una progressione i cui contenuti ci sono sufficientemente chiari solo negli aspetti essenziali.

È noto che Costantino visitò Roma in tre diverse circostanze: la prima, dopo la battaglia di Ponte Milvio, a partire dal 29 ottobre del 312; la seconda, il 18 o il 21 luglio del 315, per la celebrazione del decimo anniversario del regno; la terza, il 18 o il 21 luglio del 326, per la duplicazione della cerimonia dei ventennali che l’imperatore aveva già celebrato a Nicomedia nel 325[34].

Al 326, quando l’imperatore giunse a Roma in occasione dei vicennalia, si fa comunemente risalire in letteratura il racconto di Zosimo sulla conversione di Costantino[35]:

 

Zosimo 2,29,1-5: 1 Perist£shj d tÁj p£shj e„j mÒnon Kwnstant‹non ¢rcÁj, oÙkšti loipÕn t¾n kat¦ fÚsin ™noàsan aÙtù kako»qeian œkrupten, ¢ll¦ ™ned…dou tù kat' ™xous…an ¤panta pr£ttein: ™crÁto d œti kaˆ to‹j patr…oij ƒero…j, oÙ timÁj ›neka m©llon À cre…aj: Î kaˆ m£ntesin ™pe…qeto, pepeiramšnoj æj ¢lhqÁ proe‹pon ™pˆ p©si to‹j katwrqwmšnoij aÙtù: ™peˆ d' e„j t¾n `Rèmen ¢f…keto mestÕj p£shj ¢lazone…aj, ¢f' ˜st…aj ò»qh de‹n ¥rxastai tÁj ¢sebe…aj. 2 Kr…spon g¦r pa‹da tÁj toà

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Ka…saroj, æj e‡rhta… moi prÒteron, ¢xiwqšnta timÁj, e„j Øpoy…an ™lqÒnta toà FaÚstV tÍ mhtrui´ sune‹nai, toà tÁj fÚsewj qesmoà mhdšna lÒgon poihs£menoj ¢ne‹len: tÁj d Kwnstant‹nou mhtrÕj `Elšnhj ™pˆ tù thlikoÚtJ p£qei duscerainoÚshj kaˆ ¢scštwj t¾n ¢na…resin toà nšou feroÚshj, paramuqoÚmenoj ésper aÙt¾n Ð Kwnstant‹noj kakù tÕ kakÕn „£sato me…zoni: balane‹on g¦r Øpr tÕ mštron ™kpurwqÁnai keleÚsaj kaˆ toÚtJ t¾n Faàstan ™napoqšmenoj ™x»gagen nekr¦n genomšnhn. 3 Taàta sunepist£menoj ˜autù, kaˆ prosšti ge Órkwn katafron»seij, prosÇei to‹j ƒereàsi kaq£rsia tîn ¹marthmšnwn a„tîn: e„pÒntwn d æj oÙ paradšdotai kaqarmoà trÒpoj dusseb»mata thlikaàta kaqÁrai dun£menoj, A„gÚptiÒj tij | ™x 'Ibhr…aj e„j t¾n `Rèmhn ™lqën kaˆ ta‹j e„j t¦ Bas…leia gunaixˆn sun»qhj genÒmenoj, ™ntucën tù Kwnstant‹nJ p£shj ¢mart£doj ¢nairetik¾n eŒnai t¾n tîn Cristianîn diebebaièsato dÒxan kaˆ toàto œcein ™p£ggelma, tÕ toÝj ¢sebe‹j metalamb£nontaj aÙtÁj p£shj ¡mart…aj œxw paracrÁma kaq…stasqai. 4 Dexamšnou d ·´sta toà Kwnstant‹nou tÕn lÒgon kaˆ ¢femšnou mn tîn patr…wn, metascÒntoj d ïn Ð A„gÚptioj aÙtù meted…dou, tÁj ¢sebe…aj t¾n ¢rc¾n ™poi»sato t¾n mantik¾n œcein ™n Øpoy…v: pollîn g¦r aÙtù di¦ taÚthj prorrhqšntwn eÙtuchm£twn kaˆ ™kb£ntwn e„j œrgon, ™ded…ei m» pote kaˆ ¥lloij kat' aÙtoà ti punqanomšnoij tÕ ™sÒmenon prorrhqe…h, kaˆ ™k taÚthj tÁj proairšsewj prÕj tÕ taàta  katalÚein ™traph. 5 TÁj d patr…ou datalaboÚshj ˜ortÁj, kaq' ¿n ¢n£gkh tÕ stratÒpedon Ân e„j tÕ Kapitèlion ¢nišnai kaˆ t¦ nenomismšna plhroàn, dediëj toÝj stratiètaj Ð Kwnstant‹noj ™koinènhse tÁj ˜ortÁj: ™pipšmyantoj d aÙtù f£sma toà A„gupt…ou t¾n e„j tÕ Kapitèlion ¥nodon Ñneid…zon ¢nšdhn, tÁj ƒer©j ¡giste…aj ¢postat»saj, e„j m‹soj t¾n gerous…an kaˆ tÕn dÁmon ¢nšsthsen.

 

Secondo il racconto di Zosimo, Costantino, giunto a Roma dopo l’uccisione del figlio Crispo e della moglie Fausta, si sarebbe recato dai sacerdoti per chiedere di espiare con sacrifici le sue

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colpe, ma poiché costoro gli avevano risposto che in alcun modo ciò sarebbe stato possibile, egli, per il tramite di un Egizio[36] che lo aveva convertito alla fede cristiana, avrebbe iniziato a diffidare della divinazione e a rifiutarsi di compiere i riti tradizionali, accostandosi, invece, ai riti dei cristiani. Durante una “festa patria”, la cui natura[37] (non chiaramente identificata nel racconto di Zosimo) senz’altro comportava, una volta avvenuta l’ascesa al Campidoglio, il compimento di sacrifici di animali in onore di Giove, Costantino avrebbe dapprima partecipato ai festeggiamenti per timore dei soldati, ma poi, quando l’Egizio gli avrebbe fatto apparire una visione che condannava la sua partecipazione, si sarebbe allontanato dalla cerimonia, così provocando l’ira del Senato e del popolo.

Il rifiuto dei sacrifici di animali dovette esprimersi, nella occasione descritta da Zosimo, come il momento conclusivo di un atteggiamento personale che l’imperatore andò maturando nel corso del tempo. Dovremo ora soffermarci sulla analisi che in dottrina è stata elaborata in merito a tali ingressi, per l’importanza che il rifiuto di Costantino della violenza sacrificale può assumere proprio nella interpretazione della legislazione costantiniana in materia di sacrifici di animali.

Gli aspetti dibattuti in letteratura sono numerosi, sia sotto il profilo della eventuale celebrazione di un vero e proprio trionfo da parte del vincitore della battaglia contro Massenzio, sia sotto il profilo della sua ascesa al Campidoglio e del connesso compimento dei sacrifici di animali[38].

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Si deve a Joannes Straub[39] l’aver messo in rilievo, sulla base del Panegirico del 313, la “fretta”, mostrata da Costantino, nell’attraversare la città di Roma, il 29 ottobre del 312, all’indomani della vittoria contro Massenzio[40]. Il comportamento assunto in tale occasione dal vincitore, comportamento che aveva provocato il rammarico dei Romani (documentato nel Panegirico del 313) per non aver potuto adeguatamente ammirare il loro imperatore, sarebbe stato un indizio del fatto che egli avrebbe rifiutato di dirigersi verso il Campidoglio, ove avrebbe dovuto rendere omaggio con sacrifici a Giove Ottimo Massimo. E sarebbe stato, appunto, per tale rifiuto che l’atteggiamento di Costantino avrebbe allora destato così tanto scalpore. D’altra parte, la circostanza che la vittoria contro Massenzio fosse stata riportata in una guerra civile non avrebbe impedito di considerare l’ingresso del vincitore come un effettivo trionfo, poiché le fonti, quali la Historia ecclesiastica e la Vita Constantini di Eusebio[41],

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il Panegirico del 313[42] e il Panegirico di Nazario[43], non lascerebbero alcun dubbio circa la precisa qualificazione dell’avvenimento[44].

A questo proposito, invece, Andreas Alföldi, pur sostenendo che Costantino avrebbe attribuito la sua vittoria contro Massenzio al dio dei cristiani, riteneva che l’imperatore avrebbe davvero celebrato un trionfo[45], con relativa ascesa al Campidoglio, per offrire il sacrificio dovuto a Giove Ottimo Massimo[46]. Scelta che il vincitore avrebbe preso, non senza un qualche imbarazzo da parte sua, per evitare di recare un insulto a quella città, che, con tanto entusiasmo, lo aveva accolto.

Sulla scia di Andreas Alföldi, François Paschoud, partendo dall’esame del celebre racconto di Zosimo sulla conversione di Costantino, ha sostenuto che nel 312 l’imperatore, ormai cristiano, avrebbe accettato di compiere una ascesa al Campidoglio e di fare un sacrificio a Giove, al fine di sottrarsi al pubblico scandalo che una omissione di tale cerimonia avrebbe comportato[47].

Nella interpretazione di tali vicende costantiniane, François Paschoud ha avanzato l’ipotesi che l’ultima parte del racconto di Zosimo relativa alla cerimonia sul Campidoglio[48], debba essere, per così dire, sganciata dal resto della narrazione[49]. Tale operazione

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renderebbe possibile considerare questa parte del racconto come una esposizione di episodi verificatisi in due diversi momenti. La prima parte del racconto – quella relativa alla visione che l’Egizio, da identificarsi con Ossio di Cordova, avrebbe inviato a Costantino – sarebbe da collocare, sotto il profilo cronologico, nel periodo immediatamente successivo alla battaglia contro Massenzio, quando l’imperatore, in occasione di un vero e proprio trionfo, avrebbe effettivamente compiuto l’ascesa al Campidoglio per i tradizionali riti e sacrifici di ringraziamento a Giove[50]. La seconda parte del racconto – quella relativa al distacco dai riti tradizionali – dovrebbe, invece, essere ricondotta al 315, quando Costantino, pur celebrando nuovamente il trionfo, si sarebbe davvero rifiutato di ascendere al tempio di Giove per compiere il sacrificio. Di recente, l’autore ha però parzialmente corretto la sua tesi, osservando che Costantino, in occasione di una festa sul Campidoglio, nel 312, forse non avrebbe compiuto alcun sacrificio, né avrebbe celebrato “veri trionfi dopo le sue vittorie in guerre civili contro Massenzio e Licinio”[51].

Al problema della celebrazione del sacrificio è connessa la questione relativa alla natura della festa della quale parla Zosimo. A questo proposito, lo stesso François Paschoud ha di recente rilevato l’ambiguità del testo di Zosimo sulla festa, in occasione della quale Costantino avrebbe dapprima partecipato ad un rituale ‘pagano’ e poi si sarebbe subito allontanato. Ha osservato al riguardo lo studioso: “Oggi, sarei ancora più prudente che venti anni fa, e non parlerei più di sacrificio celebrato da Costantino”. Il testo greco, continua l’autore, si limita a parlare di “un rito non precisato celebrato dall’esercito, al quale assiste Costantino, ™koinènhse. È possibile, verosimile, ma non esplicitamente precisato, che questo rito implichi un sacrificio … Il testo di Zosimo lascia dunque aperte molte vie per chi vuol precisare

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di che tipo di festa si tratti”. E quanto alla natura della festa, ci si potrebbe limitare “a pensare a qualsiasi occasione nella quale un imperatore presente a Roma può trovarsi coinvolto in una celebrazione pagana sul Campidoglio, per esempio nella sua qualità di pontefice massimo”[52]. E ancora, la ipotesi di uno slittamento del racconto di Zosimo al 312-315 sarebbe oggi “hypothèse … peut-être plus ingénieuse que convaincante”[53].

La tesi ora richiamata ha incontrato, almeno nel suo nucleo originario, il favore di Giorgio Bonamente, secondo il quale essa avrebbe il merito di offrire una convincente spiegazione del perché Eusebio, nella Vita Constantini, abbia affermato che l’imperatore offrì sacrifici incruenti solo a partire dalla celebrazione dei decennalia. D’altra parte, ritiene lo studioso, la lettura del testo di Zosimo, offerta da François Paschoud, si fonda sull’esame del codice Vaticanus Graecus 156, esame che, colmando la lacuna della “vulgata” normalmente impiegata, ha restituito tre linee circa di testo, dal quale risulta che l’imperatore partecipò almeno una volta ad un trionfo con relativo sacrificio[54].

Augusto Fraschetti, nel muovere alcune osservazioni critiche nei confronti della tesi di François Paschoud, in particolare per quanto concerne lo slittamento, dal 326 al 312-315, dell’episodio raccontato da Zosimo, ha sostenuto, da un lato, che la conversione

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di Costantino e l’omissione delle pratiche sacrificali sarebbero scelte riconducibili già al periodo immediatamente successivo alla battaglia di Ponte Milvio, dall’altro, che l’ingresso dell’imperatore nella città, dopo la battaglia contro Massenzio, non sarebbe stato caratterizzato dall’omaggio nel Campidoglio a Giove Ottimo Massimo[55].

Sempre secondo Augusto Fraschetti, nel valutare la natura dell’ingresso di Costantino in Roma, non ci si dovrebbe far trarre in inganno da quelle fonti che esplicitamente parlano di un trionfo. È vero, sostiene lo storico, che entrambi i panegirici, sia quello del 313[56], sia quello di Nazario[57], impiegano espressioni che inequivocabilmente richiamano l’idea del trionfo[58]. Ed è noto che l’arco di Costantino è detto triumphis insignem[59]. Lo stesso Eusebio, inoltre, in relazione all’ingresso di Costantino nella città, dopo la battaglia di Ponte Milvio, impiega termini che inducono a pensare ad una celebrazione del trionfo, pur senza descrivere una ascesa al Campidoglio, atto che in caso di trionfo sarebbe stato necessario[60]. Tuttavia, dinanzi a tali testimonianze, Augusto Fraschetti, richiamandosi all’autorità di Henri Stern[61], secondo il quale l’ultimo trionfo sarebbe stato quello di Onorio, nel 404, ha osservato che, dopo tale data, le notizie riportate dalle fonti in merito alla celebrazione di trionfi debbano essere lette come riferimenti alla realizzazione di un semplice adventus, volontariamente confuso con un trionfo per “amore della consuetudine”. “In effetti,” – ha osservato l’insigne storico – “l’impero cristiano a partire da Costantino non conosce più veri

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e propri triumphi per un motivo spesso trascurato ma tuttavia fondamentale. Poiché ormai agli imperatori cristiani di fatto non è più lecito ascendere al Campidoglio per deporre l’alloro ‘nel grembo’ di Giove, dal momento che questo atto, in passato non solo eminentemente pubblico ma anche altamente celebrativo, corrisponderebbe per loro a un gesto empio e inammissibile, a una manifestazione di vera e propria idolatria. Da un simile punto di vista – e si tratta di un mutamento e di una svolta di rilievo essenziali nella vita pubblica e cerimoniale di Roma – in epoca tardoantica in primo luogo è appunto l’abbandono inevitabile del Campidoglio da parte degli imperatori cristiani, la loro impossibilità di ascendere ritualmente al tempio di Giove Ottimo Massimo, che provocano come necessaria conseguenza l’abbandono e la scomparsa di quella che era stata, attraverso lunghissimi secoli, la vetusta cerimonia del triumphus [62].

Augusto Fraschetti, rifiutando la tesi di uno slittamento proposto da François Paschoud in merito al racconto di Zosimo, ha sostenuto con energia che l’episodio ivi descritto dovrebbe essere collocato nel terzo adventus del 326. Una conferma di ciò, secondo Augusto Fraschetti, potrebbe venire da Libanio, il quale parla di atteggiamenti ostili nei riguardi dell’imperatore, ponendo esplicitamente tale dissenso in relazione alla fondazione di Costantinopoli, così come appunto fa Zosimo[63].

Quanto alla festa, della quale fa cenno sempre Zosimo, Augusto Fraschetti ha respinto la tesi autorevole che la identifica con la transvectio equitium[64], la cui celebrazione sarebbe stata fatta slittare

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dal 16 al 18 luglio, perché essa potesse coincidere con l’arrivo dell’imperatore. Il rifiuto di tale tesi, secondo lo storico, sarebbe da attribuire alle difficoltà di ammettere uno slittamento della cerimonia della transvectio equitium “in un sistema calendariale molto rigido e tradizionalista come quello romano”[65]. Egli, partendo dalla considerazione che Costantino si trovava, alla fine del settembre del 326, non lontano da Roma, e precisamente a Spoleto, ha ipotizzato che la festa patria, di cui scrive Zosimo, potrebbe essere identificata con i ludi Romani, i quali nel calendario di Filocalo sono registrati dal 12 al 15 di settembre[66]. Durante tale lasso di tempo, avvenivano due importanti appuntamenti: il primo, l’epulum Iovis[67], il 13 del mese, in “coincidenza con il ‘dies natalis’ del tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio”; il secondo, l’equorum probatio, la rivista dei cavalli, il 14. Di tali appuntamenti, nel calendario di Filocalo, non vi è però traccia. La circostanza, secondo Augusto Fraschetti, è estremamente significativa, se si tiene conto del fatto che l’epulum Iovis presupponeva l’ascesa al tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio[68]. Se poi si considera che, durante i ludi romani, la pompa aveva caratteristiche trionfali e che essa partiva dal Campidoglio per raggiungere il circo Massimo, appare confermato che l’imperatore abbia manifestato, anche in tale circostanza, un netto distacco dalle cerimonie sacrificali, e in particolare dal rito cruento che precedeva il banchetto di Giove, durante il quale le carni del sacrificio erano offerte ai presenti[69].

Nell’analisi di tali vicende costantiniane, un ulteriore importante contributo è stato offerto da Attilio Mastino, nel corso di

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un recente seminario di studi[70]. Lo studioso, ritenendo non convincente la tesi di una “conversione fulminante al Cristianesimo”, né tantomeno l’ipotesi, sostenuta da Augusto Fraschetti, di un abbandono del Campidoglio sin dal primo adventus, ha presentato alcuni importanti nuovi elementi di riflessione[71]. Secondo Attilio Mastino, Costantino, il 29 ottobre del 312, avrebbe compiuto un adventus nel solco delle tradizioni cittadine. Dopo la battaglia di Ponte Milvio, infatti, l’imperatore “partecipò regolarmente alla processione trionfale, raggiunse il colle capitolino, depose l’alloro in grembo a Giove e celebrò i sacrifici cruenti previsti dall’antichissimo cerimoniale tradizionale pagano”. Soltanto nel corso del secondo ingresso a Roma, il 18 luglio del 315, Costantino avrebbe fatto in modo di caratterizzare “maggiormente” i decennali del 315 “in senso cristiano”. Al di là degli elementi già individuati da François Paschoud, il relatore ha sottoposto all’attenzione degli studiosi un rilievo su una tabula marmorea inscritta da Cesare di Mauretania, che sembra rendere innegabile l’ipotesi dello svolgimento di un vero e proprio trionfo con relativa ascesa al Campidoglio. Sulla tavola marmorea (CIL VIII,9356) l’expeditio Constantini al Ponte Milvio viene “enfatizzata come un momento risolutivo nella vita di Costantino”. Nella tavola sono raffigurati tre personaggi togati e laureati che ascendono a un colle. Il primo di essi tiene con la destra un ramo d’ulivo. Accanto sono presenti quattro soldati, i quali portano in processione una immagine. In essa è riprodotto un ponte, sul quale passano soldati e carri. A fianco una navicella ancorata. Tale tavola testimonierebbe “proprio un momento del trionfo del 312 e l’ascesa al colle capitolino di una processione che conduceva immagines e targhe trionfali e smentisce in modo

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radicale l’ipotesi di Fraschetti”. Del resto, numerose sono le espressioni trionfali, per descrivere l’attività di Costantino, come ad esempio quelle relative alla riconquista di Cirta e alla rifondazione di Constantina in Africa, con l’uso del participio presente triumphans o dell’attributo triumphator. Un altro caso particolarmente interessante è quello della colonia romana di Uchi Maius, in Tunisia, dove Attilio Mastino, assieme a Mustapha Khanoussi, dirige da alcuni anni gli scavi archeologici che hanno restituito una grande base di una statua datata al 312. In essa Costantino compare come [Do]minus triumfi, libertatis et noster restitutor invictis laboribus suis privatorum et publicae salutis[72].

Come spesso accade, di fronte alla elasticità che la storia impone nella ricostruzione degli avvenimenti, le polemiche rischiano di perdere molto del loro concreto significato. E il quadro complessivo degli eventi ne esce sufficientemente chiaro nella sua interezza. Tralasciando, dunque, la impostazione eccessivamente rigida di alcune delle ricostruzioni che qui si sono richiamate, di fronte a questi eventi e alle relative interpretazioni dottrinali, cercheremo, di seguito, di offrire un quadro sintetico delle condizioni in cui l’imperatore dovette esprimere il suo rifiuto dei sacrifici di animali. Sin da ora, ci sembra di dovere richiamare l’attenzione su un aspetto che la dottrina ha trascurato di mettere in evidenza: intendiamo riferirci alla necessità di considerare gli eventi relativi all’abbandono del Campidoglio, da parte di Costantino, nella prospettiva (anche) di una scelta personale, anziché (soltanto) come il semplice risultato della adesione dell’imperatore alla religione cristiana.

In questa prospettiva, per le ragioni che prenderemo subito in considerazione, a noi sembra verosimile l’ipotesi tradizionale – variamente condivisa in dottrina, nonostante gli argomenti contrari di Augusto Fraschetti –, secondo la quale ipotesi Costantino prese parte, in occasione del primo adventus, a un vero e proprio trionfo, compiendo nella circostanza i tradizionali riti di ringraziamento a Giove con sacrifici di animali. Sin da questo momento, però, e qui ci pare di dovere dissentire dalla impostazione

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comune della dottrina, le fonti sembrano esprimere un certo disagio di Costantino di fronte ai sacrifici di animali, disagio, che, acuendosi sempre di più, condurrà l’imperatore a distaccarsi, nelle occasioni successive in cui egli entrò a Roma, dai riti della aliena superstitio. Solo tenendo adeguatamente conto anche di questo disagio, è possibile comprendere perché le stesse costituzioni emanate da Costantino in materia di sacrifici di animali appaiano sempre più orientarsi, da un divieto speciale e parziale, verso un divieto generale e totale dei sacrifici stessi[73].

Punto di partenza della nostra tesi, dopo gli studi di Joannes Straub e di Augusto Fraschetti, può essere ancora la fretta che l’anonimo Panegirico del 313[74] attribuisce all’imperatore nell’attraversare la città di Roma, dopo la battaglia di Ponte Milvio. Il panegirista, nel descrivere la gioia conseguente all’arrivo in città dell’imperatore, non fa riferimento ad una ascesa al Campidoglio, ossia al luogo in cui il vincitore avrebbe dovuto e potuto rendere omaggio, con il compimento di sacrifici, a Giove Ottimo Massimo[75]. Nel testimoniare l’insoddisfazione del popolo romano per la fretta con la quale Costantino raggiunse il Palazzo, l’anonimo panegirista esprime, da un lato, la delusione delle naturali aspettative di una folla, ancora in larga parte non cristiana, e dall’altro, forse anche il disagio dell’imperatore di fronte all’eventualità di un suo coinvolgimento in un rito precristiano.

L’importanza di questo ‘silenzio’, da parte del panegirista, in merito alla ascesa al Campidoglio, è reso ancora più evidente dal fatto che anche l’autore di un altro panegirico, Nazario, nel 321, non fa alcun riferimento ad una ascesa al Campidoglio da parte di Costantino, né in relazione al primo ingresso in Roma dell’imperatore, dopo la battaglia di Ponte Milvio, né, in occasione del secondo ingresso, per i decennali del 315[76].

Sarebbe riduttivo interpretare il silenzio dei panegiristi soltanto come una censura, alla quale essi si sarebbero sottoposti in

 

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merito ad un evento imbarazzante per il nuovo corso intrapreso dalla politica imperiale, come sembrerebbero, invece, ritenere François Paschoud[77] e Giorgio Bonamente[78]. Al contrario, l’assenza, in tali fonti, di un riferimento al Campidoglio, se, da un lato, ci sembra essere più in linea con l’ipotesi di una conversione precoce di Costantino[79], anche se probabilmente ancora in fieri all’indomani della battaglia contro Massenzio, dall’altro, ci pare denotare più un atteggiamento dell’imperatore di totale disapprovazione per la violenza sacrificale, che un artificioso intervento esterno, compiuto a posteriori, per rimuovere dalla memoria storica ogni riferimento compromettente per il nuovo corso della politica imperiale.

Nel senso di un rifiuto personale, da parte di Costantino, dei sacrifici di animali, potrebbe deporre l’analisi dei rilievi traianei e aureliani presenti nell’arco di trionfo a lui dedicato e inaugurato in occasione dei decennalia del 315[80]. L’omissione di qualsiasi riferimento all’ascesa dell’imperatore al Campidoglio per rendere omaggio a Giove, sia nell’anonimo panegirico, del 313, sia in quello di Nazario, del 321, è infatti ancor più significativa se si considera l’assenza di scene sacrificali nei rilievi di epoca costantiniana dell’arco di trionfo[81]. Un riferimento al sacrificio a Giove

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è assente non solo nel bassorilievo di età costantiniana, ma anche nei rilievi traianei e in quelli aureliani[82]. Per i primi, si è congetturato che il fregio, dal quale essi sono tratti, comprendesse anche una scena di adventus e di triumphus con relativo sacrificio a Giove. Per i secondi, si è avanzata l’ipotesi che la raffigurazione, ivi presente, di una lustratio, potrebbe avere fatto parte di una serie comprendente altri tre rilievi con deditio, triumphus, e sacrificium, con Marc’Aurelio che sacrifica a Giove in Campidoglio. Se così fosse, la rinuncia di utilizzare la scena con sacrificium potrebbe essere, anch’essa, un indizio di un preciso atteggiamento dell’imperatore – il rifiuto dei sacrifici di animali – che nell’arco di trionfo avrebbe trovato espressione[83].

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Come per il silenzio dei panegirici in merito all’ascesa al tempio di Giove Ottimo Massimo e al relativo sacrificio, anche per l’assenza di scene sacrificali nei pannelli costantiniani dell’arco, la costruzione del quale fu auspicata da un senato ancora non cristiano, riteniamo inverosimile la tesi di una semplice censura ex post, da parte di ambienti cristiani, in merito ad un evento imbarazzante per il nuovo corso della politica costantiniana[84].

Nonostante tale rilievo, non pare però credibile l’ipotesi, sostenuta da Augusto Fraschetti, secondo il quale non vi sarebbe stata una ascesa al Campidoglio sin dal primo adventus[85]. È certo suggestiva, nella prospettiva formulata da tale studioso, l’osservazione di Lucio De Giovanni[86], secondo il quale, già nel concilio di Elvira, si era fatto divieto ai cristiani di recarsi ai Capitolia per sacrificare agli idoli ‘pagani’ o anche solo per assistere alle cerimonie. Tuttavia, la valutazione di queste fonti deve essere completata con l’esame del codice Vaticanus Graecus 156, il quale, come abbiamo visto[87], ha restituito, a proposito del racconto di Zosimo sulla conversione imperiale, una integrazione dalla quale risulta che l’imperatore celebrò un trionfo con sacrifici di animali.

Sappiamo, inoltre, da Eusebio, che l’imperatore, in occasione della celebrazione dei decennali del 315[88], a Roma, compì sacrifici non cruenti in onore del dio dei cristiani[89]. L’insistenza del vescovo di Cesarea, sulla omissione, da parte di Costantino, dei sacrifici di animali, in occasione dei decennali, si spiega, evidentemente, in funzione dell’obbiettivo di evidenziare come l’atteggiamento dell’imperatore fosse mutato, almeno sotto questo aspetto, dal 312 al 315. Quando anche non si intenda prestare fede a Eusebio, il racconto di Zosimo, in merito al compimento

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di sacrifici di animali, da parte di Costantino, nel corso di un trionfo, può bene essere attribuito al primo ingresso dell’imperatore in Roma[90].

Rispetto alla ipotesi testé delineata, meno probabile ci sembra la tesi di chi, come Lucio de Giovanni[91] e Augusto Fraschetti[92], reputa che Costantino, già all’indomani della vittoria contro Massenzio, sia riuscito ad evitare di recarsi al tempio di Giove.

Ad ogni modo, se anche così si ritenesse, il quadro essenziale delle vicende costantiniane apparirebbe sostanzialmente inalterato: si tratterebbe, infatti, di datare al 312, anziché, come ci pare più probabile, al 315, il rifiuto di Costantino dei sacrifici di animali[93]. Pochi anni dopo lo scontro con Massenzio, il distacco dell’imperatore dai riti sacrificali era ormai inarrestabile. E la questione se l’imperatore, dopo la battaglia di Ponte Milvio, abbia o no celebrato un vero e proprio trionfo risulta di importanza relativa. Tale avvenimento, da lì a pochi anni, privato ormai, senza ombra di dubbio, del suo valore, attraverso l’omissione del sacrificio, o attraverso la rimozione del ricordo della violenza sacrificale, non doveva più apparire come una vera e propria manifestazione di idolatria[94].

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In tale ottica, è possibile comprendere non solo il tentativo delle fonti di celare un evento quantomeno imbarazzante per il nuovo corso della politica imperiale, ma anche il richiamo al lessico del trionfo[95], per descrivere le vicende costantiniane. Tale richiamo, infatti, potrebbe riecheggiare la volontà dell’imperatore di non imporre nel cerimoniale una soluzione troppo distante dalla tradizione, intervenendo, in questa prima fase del suo governo, a cerimonie precristiane, ben presto, però, svuotate del loro contenuto politico-religioso originario.

Lo svuotamento di significato delle cerimonie precristiane doveva avvenire, con sempre maggiore evidenza, man mano che anche il rifiuto dell’imperatore dei sacrifici di animali trovava le condizioni per rafforzarsi. Tale circostanza è palese nelle due successive occasioni in cui Costantino fece ingresso in Roma.

Dopo il 313, è evidente il rafforzamento dell’atteggiamento imperiale di rifiuto del sangue sacrificale. Costantino giunse a Roma, per la seconda volta, nel luglio del 315, in occasione della celebrazione dei decennali[96]. Con riguardo a tale circostanza, lo abbiamo già osservato[97], Eusebio afferma che l’imperatore, durante i pubblici festeggiamenti, si rivolse al dio dei cristiani con sacrifici senza fuoco e senza fumo[98]. E il racconto del vescovo di Cesarea potrebbe trovare conferma nel silenzio che caratterizza, in merito ad una ascesa al tempio di Giove Ottimo Massimo e al relativo compimento di sacrifici, il Panegirico di Nazario, il quale evita accuratamente di fare riferimento al soggiorno romano del 315[99].

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In occasione dei ventennali, Costantino giunge a Roma, per la terza volta, nel 326, quando egli aveva ormai celebrato l’evento l’anno prima a Nicomedia[100]. Questa volta, la celebrazione doveva, senza alcun tentennamento, avvenire in assenza di sacrifici di animali. Con riguardo a tale avvenimento, abbiamo visto che Zosimo pone in risalto l’importanza del rifiuto dei sacrifici[101], osservando che l’imperatore, in occasione di una festa patria, avrebbe dapprima partecipato ai festeggiamenti per timore dei soldati, ma poi, quando un Egizio gli inviò una visione, si sarebbe allontanato dalla cerimonia[102].

L’omissione del sacrificio di animali, privando il trionfo della sua espressione rituale più significativa, ne cambia la natura e determina, come è stato osservato “la rottura della connessione indissolubile nella stessa Roma tra esercizio del potere politico e pratica del sacerdozio: quella che era attiva nei magistrati-sacerdoti di età repubblicana, quella che Augusto aveva riassunto nella sua persona nel 12 a.C. con l’elezione al pontificato massimo: pontificato massimo che Costantino conservò o piuttosto non osò dismettere, ma lontano da Roma e soprattutto dai compiti che quel sommo sacerdozio, per un cristiano semplicemente impraticabile, avrebbe comportato”[103].

 

 

2. – Il divieto legislativo dei sacrifici di animali: le norme

 

a. Il divieto speciale e parziale dei sacrifici di animali in materia di aruspicina e di magia

 

Rispetto a precedenti tentativi di sottoporre a forme di controllo la divinazione[104], tentativi giustificabili come misure esclusivamente

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politiche[105], Costantino compie, con l’emanazione di alcune specifiche costituzioni, in materia di aruspicina[106], una

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scelta di grande importanza, di natura non solo politica, nella quale il divieto dei sacrifici di animali non è più solo, come in passato, un effetto accidentale della attività normativa, ma la manifestazione di una presa di distanza dai riti cruenti della esperienza religiosa romana, in seno alla quale è nota la “centralità dei sacrifici di esseri animati (hostiae o victimae)”[107].

Le costituzioni, che prenderemo in esame, sono di particolare interesse per una valutazione dell’atteggiamento dell’imperatore nei confronti degli animali non umani: esse, infatti, introducono limiti all’operato degli aruspici[108], “interpreti della ‘mente e volontà’

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degli Dei, secondo la tecnica divinatoria etrusca”[109], le competenze dei quali riguardavano la interpretatio dei prodigia e l’esame delle viscere delle vittime sacrificali.

Le tre costituzioni di Costantino, in tema di aruspicina, riportate nel Codice Teodosiano, risalgono, tutte, al periodo compreso fra il 319 e il 321[110].

La prima, datata, nel Codice Teodosiano, 1 febbraio 319[111], è indirizzata da Costantino a Massimo, praefectus urbi:

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CTh. 9,16,1 (cfr. C. 9,18,3[112]): [Imp. Constantinus A. ad Maximum]. Nullus haruspex limen alterius accedat nec ob alteram causam, sed huiusmodi hominum quamvis vetus amicitia repellatur, concremando illo haruspice, qui ad domum alienam accesserit et illo, qui eum suasionibus vel praemiis evocaverit, post ademptionem bonorum in insulam detrudendo: superstitioni enim suae servire cupientes poterunt publice ritum proprium exercere. Accusatorem autem huius criminis non delatorem esse, sed dignum magis praemio arbitramur. [P(ro)p(osita) Kal. Feb. Rom(ae). Constantino A. V et Licinio Caes. Conss.].

 

Con questa costituzione, si vieta agli aruspici di entrare nelle case private per cause anche non legate all’esercizio della propria arte[113]. L’amicizia con essi è proibita. Le pene, per chi trasgredisce il divieto, assai severe: il rogo per l’aruspice, la confisca dei beni e la deportazione in un’isola per colui che abbia attratto il primo con promesse e doni. Coloro che lo desiderano possono celebrare tali riti, purché in pubblico. Colui che abbia denunciato il crimine non può essere accusato di delazione, ma deve essere considerato degno di un premio[114].

La presente statuizione non preclude la possibilità di realizzare le pratiche divinatorie in pubblico[115]. Tale circostanza chiarisce

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il senso del divieto testé individuato: la costituzione, mentre mira ad evitare che tali pratiche siano celebrate di nascosto, non intende proibirle in assoluto, ma preferisce che esse si svolgano alla luce del sole. Solo in tal modo i riti sacrificali potranno essere tenuti sotto controllo[116].

Il divieto per gli aruspici di accedere alle abitazioni private è oggetto di un’altra costituzione – CTh. 9,16,2 – questa volta indirizzata al popolo. Si tratta di un editto, che, si è sostenuto[117], potrebbe essere una versione differente della costituzione riportata in CTh. 9,16,1[118]:

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CTh. 9,16,2: [Imp. Constantinus A. ad Populum]. Haruspices et sacerdotes et eos, qui huic ritui adsolent ministrare, ad privatam domum prohibemus accedere vel sub praetextu amicitiae limen alterius ingredi, poena contra eos proposita, si contempserint legem. Qui vero id vobis existimatis conducere, adite aras publicas adque delubra et consuetudinis vestrae celebrate sollemnia: nec enim prohibemus praeteritae usurpationis officia libera luce tractari. [Dat. Id. Mai. Constantino A. V et Licinio Conss.].

 

In tale costituzione, l’imperatore, nel confermare il divieto per gli aruspici di accedere alle abitazioni private, estende espressamente il veto ai sacerdoti e a tutti coloro che sono soliti compiere pratiche divinatorie. Il divieto, per tale aspetto più ampio, impedisce agli aruspici e agli altri soggetti su menzionati di varcare anche solo la soglia di una casa altrui. Neppure l’amicizia potrà servire per giustificare la permanenza di tali persone in una abitazione privata. È, però, ancora possibile accostarsi agli altari e ai templi per celebrare in pubblico gli antichi riti.

È evidente, allora, soprattutto nel seguito della statuizione, la volontà da parte di Costantino di mostrare nei riguardi della aruspicina un forte dissenso. La circostanza che egli acconsenta allo svolgimento delle pratiche divinatorie alla luce del sole suona, naturalmente, non come un invito, ma come una forma di circoscrizione e di sospettoso controllo, che prelude alla ostentazione del suo dissenso[119].

La disapprovazione dei sacrifici in tema di aruspicina è confermata da una costituzione di Costantino, ricevuta l’8 marzo 321[120] e indirizzata ancora al praefectus urbi Massimo:

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CTh. 16,10,1: [Imp. Constantinus A. ad Maximum]. Si quid de palatio nostro aut ceteris operibus publicis degustatum fulgore esse constiterit, retento more veteris observantiae quid portendat, ab haruspicibus requiratur et diligentissime scribtura collecta ad nostram scientiam referatur, ceteris etiam usurpandae huius consuetudinis licentia tribuenda, dummodo sacrificiis domesticis abstineant, quae specialiter prohibita sunt. 1 Eam autem denuntiationem adque interpretationem, quae de tactu amphiteatri scribta est, de qua ad Heraclianum tribunum et mag(istrum) officiorum scribseras, ad nos scias esse perlatam. [Dat. XVI Kal. Ian. Serdicae; Acc(epta) VIII Id. Mar. Crispo II et Constantino II CC. Conss.].

 

In essa, Costantino permette il ricorso alla consultazione degli aruspici, nell’ipotesi che un fulmine abbia colpito un edificio pubblico, ordinando però che il responso, opportunamente redatto in forma scritta, sia sottoposto al suo esame. Il ricorso a tale consultazione, lungi dall’essere una prerogativa imperiale, è consentito, in questa ipotesi, a tutti, purché ci si astenga dal fare sacrifici entro le pareti domestiche[121].

Nella presente costituzione sono delineati i due fondamentali obiettivi della legislazione costantiniana in materia di aruspicina.

Il primo obiettivo della costituzione, quello che sin dall’esordio di essa appare il più evidente, è il tradizionale controllo della aruspicina[122], per ragioni di ‘ordine pubblico’. Il secondo obiettivo della costituzione è il divieto dei sacrifici di animali[123].

Nel perseguire il primo obiettivo, Costantino, pur esprimendo il proprio dissenso per i riti connessi alla aruspicina, di fronte ad un fatto naturale straordinario, come la caduta di un fulmine su un edificio pubblico, non vieta la consultazione degli aruspici:

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egli, infatti, stabilendo che il responso di questi ultimi debba essere redatto per iscritto, si limita a riservarsi la possibilità di esprimere la sua disapprovazione nei confronti di una consultazione sgradita. La potenza persuasiva degli aruspici, i quali, tante volte, in passato, avevano fortemente influenzato l’opinione pubblica[124], finiva, in tal modo, per essere sottoposta al controllo dell’imperatore. Non bisogna dimenticare che gli aruspici, come ricorda Livio[125], avevano sempre mantenuto un ruolo importante nella conservazione delle tradizioni religiose[126]. Sappiamo, ad esempio, che Diocleziano, al quale la tradizione attribuisce “il ruolo di conservatore e dell’ultimo difensore del mondo classico e della romanità”[127], mentre, da un lato, perseguitava gli astrologi[128], dall’altro, amava circondarsi di aruspici di sua fiducia[129]. E

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ancora, è noto che Massenzio, anch’egli rispettoso nei confronti della tradizione, prima della battaglia di Ponte Milvio, si rivolgeva agli aruspici[130].

Nella legislazione costantiniana, il controllo della aruspicina non sembra, però, esclusivamente dettato, come era avvenuto in passato, da ragioni di “ordine pubblico”[131]. Costantino, esprimendo nei confronti della aruspicina una ferma opposizione, sembra proporsi di vincere una delle più tenaci espressioni della cultura precristiana. Infatti, mentre gli imperatori precedenti si erano preoccupati di sottoporre a specifiche restrizioni la consultazione degli aruspici, ad esempio, vietando a questi ultimi di fornire responsi in merito alla morte di una persona[132], egli sembra orientarsi verso un divieto generale e totale della aruspicina in privato[133].

Del resto, poiché gli aruspici erano stati tra i più feroci istigatori della persecuzione contro i cristiani, è chiaro che questi ultimi dovettero fare forti pressioni nei riguardi dell’imperatore per attuare nei confronti della aruspicina una altrettanto forte

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repressione[134]. Lattanzio, nel De mortibus persecutorum, scritto in concomitanza con le costituzioni delle quali parliamo[135], afferma che furono gli aruspici a offrire il pretesto a Diocleziano perché egli mettesse in atto le persecuzioni contro i cristiani: gli aruspici, infatti, affermarono che in occasione di un sacrificio non erano riusciti ad ottenere presagi favorevoli, poiché qualcuno dei presenti aveva fatto il segno della croce[136]. E l’affermazione di Lattanzio è poi confermata da altre fonti cristiane[137] e persino da fonti non cristiane[138].

Inoltre, la suggestione della aruspicina e, in genere, delle antiche cerimonie ad essa collegate doveva colpire anche taluni cristiani, se qualche anno prima che Costantino emanasse le sue costituzioni, il concilio di Ancira del 314 aveva dovuto occuparsi della ars malefica con alcune misure[139], le quali, come è stato non

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a torto osservato[140], richiamano da vicino il contenuto delle costituzioni emanate dall’imperatore, solo pochi anni dopo, in materia di aruspicina. Durante il concilio di Ancira, infatti, la Chiesa intervenne, vietando ai cristiani di predire il futuro e di accogliere estranei nelle proprie abitazioni per eseguire riti ‘pagani’[141].

Di fronte a simili precedenti, l’imperatore si presenta come colui che, nella guerra contro Massenzio, rifiuta di invocare gli dei non cristiani per dare ascolto alla mens divina, mentre il nemico presta fede alle menzogne della superstizione[142]. Nel VI secolo, Zosimo, a proposito della conversione di Costantino, descrive la disciplina in materia di aruspicina e il rifiuto da parte dell’imperatore di rendere omaggio agli dei, secondo gli antichi riti, come il momento fondamentale – l’inizio – di una scelta, che lo stesso Zosimo definisce empia[143].

In questa ottica, il contrasto fra le costituzioni in cui Costantino pone dei divieti nei riguardi della aruspicina e la costituzione in cui egli, invece, ammette la possibilità di rivolgersi agli aruspici, quando un fulmine si sia abbattuto su un edificio pubblico,

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appare come una contraddizione solo apparente. In tutte le costituzioni sopra richiamate, è evidente che l’imperatore non si propone di eliminare immediatamente dalla prassi e dalla cultura romane ogni riferimento alla antica aruspicina. Egli, in modo lungimirante, si prefigge l’obiettivo di relegare la aruspicina ad una delle tante forme di superstizione. Di tale obiettivo, è senz’altro emblematica la circostanza che l’imperatore, in CTh. 9,16,1, abbia bollato come forme di superstitio quei riti che, compiuti in pubblico, egli stesso aveva permesso[144].

Il secondo obiettivo della costituzione, che costituisce una ulteriore chiave di lettura della legislazione costantiniana in materia di aruspicina, è il divieto dei sacrifici di animali[145]. Lo spargimento di sangue nelle pareti domestiche diviene il limite al di là del quale la consultazione dell’aruspice, anche in presenza di un fenomeno naturale, non può essere tollerata: dummodo sacrificiis domesticis abstineant, quae specialiter prohibita sunt. L’importanza di tale obiettivo, non a caso, è colta dai compilatori del Codice Teodosiano attraverso l’inserimento della costituzione nel titolo 16,10 De paganis, sacrificiis et templis.

Siffatto obiettivo fa della costituzione qualcosa di più e di diverso da una semplice misura repressiva nei confronti della tradizione religiosa precristiana, frutto della conversione di Costantino al cristianesimo, e getta una luce diversa sul riconoscimento della possibilità di consultare gli aruspici nel caso di un fenomeno naturale. Tale possibilità non rappresenta una concessione,

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un segno di debolezza verso i riti precristiani. Si direbbe che Costantino, attraverso l’omissione del sacrificio di animali, miri a privare la aruspicina della sua funzione politica, da un lato, snaturando il senso della consultazione, il cui esito è sottoposto alla sua censura, dall’altro, imponendo che le pratiche aruspicali siano svolte senza più quel carattere di segretezza, che ne aveva naturalmente rappresentato uno dei tratti più tipici[146].

In tale progetto, Costantino aveva trovato un fertile terreno in quegli stessi ambienti non cristiani nei quali si era sviluppata una certa insofferenza verso i riti divinatori: così Porfirio, nella lettera ad Anebo, un sacerdote egiziano, formula una critica contro quelle arti divinatorie, che impongono a chi le pratica di astenersi dal mangiar carne e dall’avere contatto con gli animali uccisi, salvo poi provocare l’intervento di dei che si compiacciono dei fumi delle vittime sacrificali[147]. Ed anche Giamblico si mostra diffidente verso la divinazione privata, giungendo a definirla menzognera ed osservando che gli dei non possano essere forzati da riti e preghiere[148].

L’attacco da parte di Costantino nei confronti della aruspicina si intende anche meglio, se lo si valuta in rapporto a quello da lui stesso sferrato nei riguardi della magia:

 

CTh. 9,16,3 (cfr. C. 9,18,4): [Imp. Constantinus A. et Caes. ad Bassum P(raefectum) U(rbi)]. Eorum est scientia punienda et severissimis merito legibus vindicanda, qui magicis adcincti artibus aut contra hominum moliti salutem aut pudicos ad libidinem deflexisse animos detegentur. Nullis vero criminationibus implicanda sunt remedia humanis quaesita corporibus aut in agrestibus locis, ne maturis vindemiis metuerentur imbres

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aut ruentis grandinis lapidatione quaterentur, innocenter adhibita suffragia, quibus non cuiusque salus aut existimatio laederetur, sed quorum proficerent actus, ne divina munera et labores hominum sternerentur. [Dat. X Kal. Iun. Aquil(eiae) Crispo et Constantino Caess. Conss.].

 

La presente costituzione, databile attorno al maggio del 318[149], mentre mostra la severità dell’imperatore nella lotta alla magia diretta a minare la salute altrui, lascia, invece, immaginare una sorta di accondiscendenza nei confronti di quelle attività che tendevano a invocare la fertilità dei campi e la salute delle persone.

Rispetto alle antiche forme di persecuzione della magia[150], la legislazione costantiniana in materia si contraddistingue, naturalmente, per il suo orientamento cristiano: essa mira a reprimere quelle stesse condotte che la Chiesa aveva già condannato in precedenti occasioni[151]. La scelta cristiana, dunque, mentre portava l’imperatore a ripudiare l’aruspicina, in quanto essa rappresentava

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una espressione da lui particolarmente avversata della cultura precristiana, e, quindi, delle forze ostili alla sua politica religiosa, non gli impediva, invece, di tollerare determinate usanze, che se pur condannate dalla Chiesa, gli risultavano più accettabili.

Costantino, attraverso la disapprovazione dei riti sacrificali legati alla aruspicina, compie una scelta religiosa e giuridica assieme, che lo porterà lontano dalla aristocrazia ‘pagana’[152]. Egli, però, consapevole della importanza dei riti della tradizione, evita di assumere un atteggiamento eccessivamente rigido nei confronti degli ambienti non cristiani, impedendo quelle condotte che più erano pericolose sul piano politico e che, al contempo, contrastavano con la morale cristiana, come appunto l’aruspicina ‘privata’ o la magia diretta contro la salute altrui, e tollerando, invece, quelle forme più innocue o più facilmente neutralizzabili, come appunto l’aruspicina ‘pubblica’[153].

La legislazione repressiva della aruspicina, in Costantino, si ricollega, dunque, alla scelta cristiana intrapresa dall’imperatore, attraverso, però, il filtro rappresentato dai significativi precedenti

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della cultura e della legislazione precristiana. L’influenza del pensiero cristiano determina, in maniera sempre più decisa nel corso del tempo, il distacco del potere imperiale dalla aruspicina, e, quindi, la progressiva assimilazione di essa alla magia[154].

A partire dalle costituzioni emanate da Costantino, l’aruspicina è rappresentata come una pratica ambigua, volta a soddisfare curiosità, che vanno, come bene ha osservato Denise Grodzynski, oltre “il limite fissato dal consenso sociale”[155]. La aruspicina, con le sue essenziali pratiche cruente di sacrifici di animali, appare, dunque, arte contro natura: in tal senso, in materia di divinazione, sarà esplicita una costituzione di Teodosio I del 392, indirizzata a Rufino, prefetto del pretorio, riportata in CTh. 16,10,12[156]. In essa si stabilisce che colui che abbia immolato una vittima in sacrificio e ne abbia consultato le viscere potrà essere denunciato da tutti, anche se non abbia attentato alla vita dell’imperatore, poiché, si legge, “sufficit enim ad criminis molem naturae ipsius leges velle rescindere, inlicita perscrutari, occulta recludere, interdicta temptare, finem quaerere salutis alienae, spem alieni interitus polliceri”.

L’uomo, che tenti di conoscere attraverso la divinazione la propria sorte, va contro le “leggi di natura”[157]. Un tema, questo,

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che ricorre anche nella costituzione di Costanzo al popolo in CTh. 9,16,5, ove coloro che turbano la vita degli altri con la magia sono definiti peregrini naturae[158].

Si può supporre che nella legislazione costantiniana, insieme ai sospetti e alla diffidenza nei confronti della divinazione, presenti già in seno alla cultura greco-romana, e all’accusa verso essa di volere sovvertire le leggi della natura, confluisca la condanna, da parte della cultura ebraica, e quindi cristiana, della impurità[159]. In effetti, già nei testi giudaici veterotestamentari si trovano sia la critica dei sacrifici di animali, sia la condanna della divinazione e della magia. Così, nel Levitico, il divieto di praticare la divinazione e la magia si accompagna all’obbligo di rispettare le regole sacrificali:

 

Levitico 19,26 e 31: 26 Non comedetis cum sanguine. Non augurabimini nec observabitis omina. 31 Non declinetis ad pythones nec ab hariolis aliquid sciscitemini, ut polluamini per eos. Ego Dominus Deus vester.

 

Il divieto di esercitare la divinazione e la magia e di compiere sacrifici cruenti ricorre ancora nel Deuteronomio:

 

Deuteronomio 18,9-12: 9 Quando ingressus fueris terram, quam Dominus Deus tuus dabit tibi, cave, ne imitari velis abominationes illarum gentium. 10 Nec inveniatur in te, qui filium suum aut filiam traducat per ignem, aut qui sortes sciscitetur et observet nubes atque auguria, nec sit maleficus 11 nec incantator, nec qui pythones consulat nec divinos, aut

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quaerat a mortuis veritatem; 12 omnia enim haec abominatur Dominus et propter istiusmodi scelera expellet eos in introitu tuo.

 

Alla divinazione, si sostituisce la ‘profezia’, propria della cultura ebraica[160]:

 

Deuteronomio 18,13-15: 13 Perfectus eris et absque macula cum Domino Deo tuo. 14 Gentes istae, quarum possidebis terram, augures et divinos adiunt; tu autem a Domino Deo tuo aliter institutus es. 15 Prophetam de gente tua et de fratribus tuis sicut me suscitabit tibi Dominus Deus tuus; ipsum audietis. 

 

Sulla base di tali premesse, si comprende l’attacco che i Padri della Chiesa rivolgeranno alla divinazione, accusando coloro che la praticano di adorare Satana[161].

Costantino, partendo da quella diffidenza che sin dai tempi antichi aveva circondato la divinazione, e che sarà espressa con maggiore evidenza da Costanzo[162], recupera elementi della cultura greco-romana e di quella giudaico-cristiana, introducendo, la sanzione giuridica della aruspicina come pratica contro natura tesa verso una conoscenza illegittima. L’imperatore, nell’intento di fare sintesi delle due culture, rappresenta quel varcare la soglia da parte dell’aruspice come un azzardo[163], una manifestazione, si direbbe, della curiosità morbosa[164].

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b. Il divieto generale e totale dei sacrifici di animali

 

Una costituzione di Costanzo[165] – CTh. 16,10,2 –, del 341, indirizzata a Madaliano, vicario d’Italia, contiene un espresso riferimento ad una disposizione con la quale Costantino sancì l’abolizione dei sacrifici di animali[166]:

 

CTh. 16,10,2: [Imp. Constantius A. ad Madalianum agentem vicem P(raefectorum) P(raetori)o]. Cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Nam quicumque contra legem divi principis parentis nostri et hanc nostrae mansuetudinis iussionem ausus fuerit sacrificia celebrare, conpetens in eum vindicta et praesens sententia exeratur. [Acce(pta) Marcellino et Probino Conss.][167].

 

Sappiamo già che l’imperatore stabilì, con alcune disposizioni, un divieto dei sacrifici di animali in materia di aruspicina[168]. Rispetto a tali disposizioni, che introducono un divieto speciale, per materia, e parziale, per contenuto, la costituzione, testé richiamata, invece, appare attestare un divieto generale e totale dei

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sacrifici di animali[169]. In tal senso, potrebbe forse già deporre il tenore della espressione iniziale della costituzione, riporta in CTh. 16,10,2: cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania, la quale espressione, per la sua perentorietà, non lascia immaginare né limiti di materia, né deroghe al divieto. Occorre poi osservare che un divieto di una tale portata trova anche conferma nella prima di due leggi alle quali fa riferimento Eusebio[170]:

 

Eusebio, vita Const. 2,45,1: Eq' ˜xÁj dÚo kat¦ tÕ aÙtÕ ™pšmponto nÒmoi, Ð mn e‡rgwn t¦ musar¦ tÁj kat¦ pÒleij kaˆ cèraj tÕ palaiÕn sunteloumšnhj e„dwlolatr…aj, æj m»t' ™gšrseij xo£nwn poie‹sqai tolm©n, m»te mante…aij kaˆ ta‹j ¥llaij perierg…aij ™piceire‹n, m»te m¾n qÚein kaqÒlou mhdšna, Ð d tîn eÙkthr…wn o‡kwn t¦j o„kodom¦j Øyoàn aÜxein te e„j pl£toj kaˆ mÁkoj t¦j ™kklhs…aj toà qeoà diagoreÚwn, æsaneˆ mellÒntwn tù qeù scedÕn e„pe‹n ¡p£ntwn ¢nqrèpwn toà loipoà prosoikeioàsqai tÁj poluqšou man…aj ™kpodën ºrmšnhj.

 

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Eusebio racconta che l’imperatore, prima ancora di introdurre questo divieto, proibì a tutti i governatori, anche a quelli non cristiani, di offrire sacrifici di animali[171]:

 

Eusebio, vita Const. 2,44: Metab¦j d' ™k toÚtwn basileÝj pragm£twn ™nergîn ¼pteto. kaˆ prîta mn to‹j kat' ™parc…aj diVrhmšnoij œqnesin gemÒnaj katšpempe, tÍ swthr…J p…stei kaqwsiwmšnouj toÝj ple…ouj, Ósoi d' ˜llhn…zein ™dÒkoun, toÚtoij qÚein ¢pe…rhto. Ð d' aÙtÕj Ãn nÒmoj kaˆ ™pˆ tîn Øperkeimšnwn t¦j ¹gemonik¦j ¢rc¦j ¢xiwm£twn, ™p… te tîn ¢nwt£tw kaˆ t¾n œparcon dieilhfÒtwn ™xous…an. À g¦r Cristiano‹j oâsin ™mpršpein ™d…dou tÍ proshgor…v, À diakeimšnoij ˜tšrwj tÕ m¾ e„dwlolatre‹n par»ggellen.

 

Sempre il vescovo di Cesarea descrive l’impegno di Costantino nella lotta contro il politeismo e l’idolatria[172], nella eliminazione di ogni riferimento ai riti precristiani dal palazzo imperiale[173], nella proibizione della divinazione[174], nella distruzione dei templi[175] e nella abolizione della prostituzione sacra[176]. Tali misure,

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nel prevedere la fine di cerimonie legate alla religione precristiana, comportavano, naturalmente, anche l’omissione dei sacrifici di animali.

È probabile che Costantino sia pervenuto a stabilire un divieto generale e totale dei sacrifici di animali nel periodo compreso fra le costituzioni in materia di aruspicina e il celebre rescritto agli Ispellati. Una conferma di questa datazione potrebbe provenire dal fatto che, soltanto pochi anni dopo le disposizioni in materia di aruspicina, nel 323, egli avvertì il bisogno di occuparsi ancora dei sacrifici e di estendere l’ambito del divieto, rivolgendo il suo dissenso, questa volta, nei confronti dei sacrificia lustrorum:

 

CTh. 16,2,5: [Imp. Constantinus A. ad Helpidium]. Quoniam conperimus quosdam ecclesiasticos et ceteros catholicae sectae servientes a diversarum religionum hominibus ad lustrorum sacrificia celebranda conpelli, hac sanctione sancimus, si quis ad ritum alienae superstitionis cogendos esse crediderit eos, qui sanctissimae legi serviunt, si condicio patiatur, publice fustibus verberetur, si vero honoris ratio talem ab eo repellat iniuriam, condemnationem sustineat damni gravissimi, quod rebus publicis vindicabitur. [Dat. VIII Kal. Iun. Sirmi Severo et Rufino Conss.].

 

Tale costituzione, se, da un lato, attesta le resistenze che da parte non cristiana dovettero levarsi contro l’applicazione del divieto[177], dall’altro, chiarisce i termini concreti ed elastici in cui

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l’imperatore dovette gettare le basi del suo tentativo di porre fine ai sacrifici di animali. Costantino, infatti, manifesta il proposito di estendere il divieto dei sacrifici al di là di un ambito ristretto, quale appunto quello della aruspicina. Egli, però, nella estensione del divieto, appare anche consapevole della necessità di impiegare una certa prudenza[178]. Si comprende così, più che in ragione di un mero calcolo politico, il fatto che, ancora negli ultimi mesi del suo regno[179], egli acconsenta a che gli abitanti della cittadina umbra di Spello costruiscano un tempio dedicato alla gens Flavia[180], a patto, però, che il tempio non fosse macchiato dalla contagiosa superstitio[181]:

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CIL XI,5265 = ILS 705: Nam civitati Hispello aeternum vocabulum nomenq(ue) venerandum de nostra nuncupatione concessimus, scilicet ut in posterum praedicta urbs Flavia Constans vocetur, in cuius gremio aedem quoque Flaviae hoc est nostrae gentis, ut desideratis, magnifico opere perfici volumus, ea observatione perscripta, ne aedis nostro nomini

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dedicata cuiusquam contagios(a)e superstitionis fraudibus polluatur …

 

L’imperatore, pur acconsentendo alla costruzione del tempio, pone un limite che non è più possibile valicare. Questo limite è rappresentato appunto dal sacrificio, inteso come momento centrale e, dunque, particolarmente esecrabile del culto non cristiano. La sua è, quindi, una condanna, sebbene forse i confini di essa siano ancora ambigui, poiché il termine superstitio, impiegato da Costantino nel rivolgersi agli Ispellati, gli consentiva di oscillare tra una aperta critica della comune superstizione popolare ed una, invece, più velata della religione precristiana[182].

Al di là di tali osservazioni, appare tuttavia innegabile che nel rescritto agli Ispellati, l’imperatore compia un passo ulteriore verso la proibizione dei sacrifici di animali. Mentre, infatti, le costituzioni, in materia di aruspicina, emanate finora da Costantino, vietavano i sacrifici domestici[183], ma in qualche modo tolleravano ancora quelli pubblici[184], che al più erano considerati forme di superstizione, il provvedimento rivolto agli abitanti di Spello proibisce senza deroga alcuna ogni manifestazione di superstitio, anche quando essa sia esercitata in pubblico. È forse allora non del tutto azzardato immaginare che l’imperatore, fra le costituzioni in materia di aruspicina e il rescritto ispellate, sia pervenuto a stabilire un divieto generale e totale dei sacrifici. E il rescritto potrebbe essere un caso specifico di applicazione del divieto generale e totale in materia di sacrifici[185].

Costantino, non consentendo che il tempio dedicato alla gens Flavia fosse macchiato di sangue, non poteva mostrare in modo più chiaro quanto il suo potere fosse ormai lontano dalle antiche

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e cruente cerimonie sacrificali precristiane[186]. Ciò non toglie che, dopo la sua famosa (e controversa) conversione, anche i cristiani, i quali, fino ad allora, si erano rifiutati di adorare l’imperatore, renderanno a lui omaggio con sacrifici e preghiere, e, dunque, con modalità che alcuni autori non cristiani rimprovereranno loro in quanto simili a cerimonie precristiane[187].

 

 

c. Il complesso della normazione costantiniana di carattere ‘umanitario’

 

Il divieto dei sacrifici di animali può essere ulteriormente inteso se accostato a quella normazione costantiniana che potremmo definire, con una certa approssimazione, di carattere ‘umanitario’[188]. Si pensi, infatti, alle disposizioni con le quali l’imperatore introduce alcune importanti innovazioni in tema di

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esecuzione della pena: dalle misure adottate in materia di giochi gladiatori[189], all’abolizione della condanna alla croce e della pratica di spezzare le gambe al sottoposto al supplizio[190]; dal divieto di marchiare il viso del condannato[191], al riconoscimento della possibilità, per colui che fosse stato in attesa di giudizio, di godere della luce del sole ogni giorno[192]. Ricordiamo, ancora, le misure intraprese da Costantino a favore degli indigenti[193].

Su un piano diverso, ma non per questo dissimile, è la costituzione, riportata in CTh. 8,5,2, con la quale l’imperatore prendeva in esame la questione dei maltrattamenti patiti dai cavalli da tiro:

 

CTh. 8,5,2: [Imp. Constantinus A. ad Titianum]. Quoniam plerique nodosis et validissimis fustibus inter ipsa currendi primordia animalia publica cogunt quid­quid virium habent absumere, placet, ut omnino nullus in agitando fuste utatur, sed aut virga aut certe flagro, cuius in cuspide infixus brevis aculeus pigrescentes artus innocuo titillo poterit admonere, non ut exigat tantum, quantum vires valere non possunt. Qui contra hanc fecerit sanctionem promotus, regradationis humilitate

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plectetur: munifex poenam deportationis excipiat. [Dat. Prid. Id. Mai. Sabino et Rufino Conss.].

 

A proposito di questa costituzione, l’affermazione di Giovanni Costa[194], secondo il quale “qualche presidentessa d’una qualsiasi società di protezione degli animali” potrebbe porre “anche il nome di Costantino… fra i grandi precursori del grande movimento che le starebbe a cuore!”, tradisce un certo disinteresse per un problema – quello della condizione animale nell’antichità – che fu, invece, avvertito con particolare fervore dalla cultura filosofico-giuridica greca e romana[195].

La costituzione, con la quale Costantino vieta, da un lato, di incitare con il bastone gli animali adibiti al trasporto della posta, e, dall’altro, di sottoporli a sforzi eccessivi, probabilmente non costituisce solo una misura di conservazione del patrimonio pubblico[196]. Essa, pur essendo diretta ad evitare gli abusi

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nella utilizzazione degli animalia publica, nell’interesse della conservazione del patrimonio pubblico, poteva anche perseguire, in modo forse non del tutto inconsapevole, una tutela degli animali come esseri senzienti, capaci di provare dolore. E qui, la tutela del valore economico dell’animale doveva andare di pari passo con la tutela come essere animato.

La costituzione dapprima prende in considerazione l’inutile crudeltà degli uomini addetti alla guida degli animali, sia attraverso un cenno alle caratteristiche degli strumenti impiegati per incitare i quadrupedi: “nodosis et validissimus fustibus”, sia attraverso il rilievo attribuito alla dimensione dello sforzo animale, particolarmente oneroso quanto a durata e a intensità: “inter ipsa currendi primordia animalia publica cogunt quid­quid virium habent absumere”. Essa, quindi, indica gli strumenti ammessi per spronare gli animali: “sed aut virga aut certe flagro, cuius in cuspide infixus brevis aculeus”, i quali strumenti, però, potranno servire per sottoporre l’animale ad una semplice sollecitazione, per poi introdurre un criterio ulteriore, di carattere generale, in base al quale ci sembra di potere escludere l’idea di una tutela degli animali in chiave puramente utilitaristica: è l’inciso “non ut exigat tantum, quantum vires valere non possunt”, che costituisce un limite al di là del quale anche uno strumento normalmente inoffensivo diviene inutilizzabile. La possibilità di impiegare l’animale nel rispetto delle proprie energie non esprime, quindi, una esigenza puramente utilitaristica, poiché, su questo piano, un divieto di tal genere avrebbe avuto una ragion d’essere al solo fine di evitare la morte o la menomazione dell’animale. Nel nostro caso, invece, la costituzione vieta lo sfruttamento eccessivamente oneroso dell’animale anche nel caso in cui esso possa recuperare le forze, senza aver riportato alcuna menomazione.

Il riferimento alle energie lavorative dell’animale, come limite ultimo al di là del quale l’uomo deve arrestarsi, è un richiamo al requisito della preziosità, parametro attorno al quale, in antico, era costruito il sistema delle res mancipi[197]. Nel caso delle res pretiosiores,

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il criterio classificatorio era costituito dalla rilevanza del bene come fattore di produzione, o in quanto forza lavoro – servi e animalia quae collo dorsove domantur –, o in quanto capitale – fondi e servitù rustiche –. Tale criterio classificatorio non solo non impediva, ma al contrario doveva esprimere e persino rafforzare l’affinità fra uomini e animali[198].

 

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3. – Il divieto dei sacrifici di animali come aspetto e manifestazione della concezione degli animali: nella religione, nella filosofia e nel diritto

 

a. Il consortium naturalis initii fra gli esseri animati, nella cultura religiosa cristiana

 

La scelta di Costantino di bandire i sacrifici di animali trova certamente sostegno (seppure, come vedremo, non esclusivamente) nella cultura religiosa cristiana, all’interno della quale non soltanto vi è l’idea che l’unico sacrificio rituale sia quello estremo del Figlio di Dio[199], ma vi è anche l’idea di una affinità fra uomo e animali[200].

Per quanto riguarda la prima idea, ci limitiamo ad osservare che il sacrificio nella religione cristiana è solo quello che si compie nella Eucaristia[201]. A differenza degli altri sacerdozi, infatti, il

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sacerdozio del Cristo è eterno, poiché Egli non ha “ogni giorno bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima di tutto per i propri peccati e quindi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto ciò una volta per tutte offrendo se stesso”[202].

Per quanto riguarda la seconda idea, ci sembra opportuno soffermarsi su un pregiudizio tanto diffuso, secondo il quale l’affermazione del Cristianesimo avrebbe portato a occultare la originaria idea precristiana del rapporto simpatetico fra tutti gli esseri animati[203]. Esempio recente di questo radicato pregiudizio è quanto scrive Gino Ditadi, nella antologia, da lui curata, di testi

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filosofici dedicati agli animali: “L’avvento del Cristianesimo non fu esattamente una benedizione per gli animali e neppure per i loro difensori filosofi o meno che fossero”[204]. “La Bibbia”, egli rileva, “testimonia la rottura di ogni immagine di conciliazione possibile con il mondo animale”[205].

Poiché la questione dei rapporti uomo e animale non umano, nella religione cristiana, non è priva di rilievo per una corretta interpretazione della legislazione costantiniana in tema di sacrifici di animali, dobbiamo qui fare qualche breve osservazione. L’esame della condizione animale nel pensiero cristiano richiede competenze particolari: ci limitiamo, pertanto, a formulare poche ed elementari considerazioni, lasciando, quindi, la questione agli specialisti[206].

La tesi, secondo la quale il Cristianesimo avrebbe, da un lato, spezzato il rapporto simpatetico fra tutti gli esseri animati e, dall’altro, offerto una legittimazione dello sfruttamento esasperato degli animali non umani, è assai superficiale e deve essere respinta. Una tale rappresentazione si fonda su una lettura approssimativa delle fonti. L’immagine di un Dio che consegna il Creato nelle mani dell’uomo, il quale, dominatore sul resto degli esseri animati, può usarne ed abusarne, non appartiene, per le ragioni che vedremo subito, né al pensiero giudaico né al pensiero cristiano. Non può certamente essere attribuita al Cristianesimo l’idea, secondo la quale “se la natura è stata creata per l’uomo essa va sfruttata senza problemi”[207].

In materia di riti cruenti, non è possibile ignorare il ripensamento delle relazioni fra uomo e animale introdotto dal Cristianesimo rispetto alla prassi sacrificale veterotestamentaria[208]. Ripensamento

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nel quale si può, comunque, intravedere precisamente una linea di continuità fra Antico Testamento e Nuovo Testamento. È vero, infatti, che già nell’Antico Testamento si delinea una via alternativa al sacrificio di animali[209]: pensiamo a Michea 6,6-8, ove leggiamo:

 

Michea 6,6-8: 6 Quid dignum offeram Domino, dum curvo genu Deo excelso? Numquid offeram ei holocautomata et vitulos anniculos? 7 Numquid placebunt Domino milia arietum, multa milia torrentium olei? Numquid dabo primogenitum meum pro scelere meo, fructum ventris mei pro peccato animae meae? 8 Indicatum est tibi, o homo, quid sit bonum, et quid Dominus quaerat a te: utique facere iudicium et diligere caritatem et sollicitum ambulare cum Deo tuo.

 

La ostilità ebraica al sacrificio di animali, testimoniata da Michea, non era peraltro un fenomeno isolato. Una più risalente critica del sacrificio è, ad esempio, attestata in Persia, ove, secondo una opinione largamente diffusa, avrebbe operato Zarathustra[210].

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Il filosofo esprime una netta condanna dei sacrifici di buoi, astenendosi egli stesso dal mangiare carne[211]. “La migliore tra le opere buone” – si legge in Yasna 33,3 – “è nei confronti del cielo, adorare il Signore e, nei confronti della terra, non maltrattare gli animali … fare del bene al giusto, al fratello, al confratello,

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al servitore, essere solerti nel prendersi cura di ciò che è bene per il gregge”[212]. Zarathustra richiama così le tipiche modalità di espressione della affinità fra uomo e altri esseri animati: da un lato, il rifiuto dei sacrifici di animali, con la connessa astensione dall’alimentazione carnea, dall’altro, la costruzione di un sistema giuridico anche in funzione degli altri esseri animati. In tal senso, egli identifica l’uccisione del bue aratore e il consumo di carne con il peccato originale[213]. Al contrario, “chi semina il grano” – si legge nell’Avesta – “semina la giustizia”[214]. Il rifiuto dei sacrifici di animali, espresso chiaramente nella astensione dalla alimentazione carnea, si traduce, dunque, in un impegno dell’uomo alla rinuncia della violenza nei confronti degli animali. E l’atto di seminare il grano diviene il principio di una scelta di più ampio respiro rispetto al semplice vegetarianismo: quello della cura dell’uomo nei confronti degli altri animali. In questa prospettiva, una biografia di Zarathustra ne attribuisce la nascita alla volontà divina di assegnare agli animali un salvatore: “Lo creerò per predicare al mondo la sollecitudine verso tutti gli esseri viventi”[215].

Le reazioni ai sacrifici di animali dovevano essere alquanto diffuse nell’antichità, soprattutto nelle società dedite all’allevamento. Tuttavia, è con il Cristianesimo che avviene il definitivo superamento del sacrificio animale[216]: “Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio”, leggiamo nel vangelo di Matteo[217]. E ancora nel vangelo di Marco[218]: “Amarlo [il Signore Dio tuo] con tutto il cuore

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e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”.

Ma, a parte queste considerazioni generali, abbiamo la prova che precisamente questo fosse (anche) il pensiero cristiano dell’epoca di Costantino. Nell’Africa del III-IV secolo, infatti, l’apologeta cristiano Arnobio, il cui settimo libro dell’Adversus nationes è dedicato ai sacrifici, si scaglia contro l’inutilità[219] e la crudeltà delle pratiche sacrificali del ‘paganesimo’[220]:

 

Arnobio, nat. 7,4: Postremo quod gaudium est innoxiorum animantium mactatione laetari, miserabilis saepe exaudire mugitus, rivos sanguinis cernere, animas cum cruore fugientes patefactisque secretis provolvier intestina cum stercore et ex residuo spiritu exultantia adhuc corda tremibundisque palpitantes in visceribus venas? Semiferi nos homines, quinimmo, apertius ut pronuntiemus quod est verius atque aptius dictu, feri, quos infelix necessitas et malus usus edocuit cibos ex his carpere, miseratione interdum commovemur illorum, arguimus nos ipsi penitusque re visa atque inspecta damnamus, quod humanitatis iure deposito naturalis initii consortia ruperimus.

 

È importante osservare che, secondo Arnobio, l’uomo, quando uccide per sacrificare agli dei, spezza, il vincolo che lo lega

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agli animali e, così facendo, rinuncia alla sua stessa autentica natura[221].

Arnobio, nonostante l’attacco alla religione precristiana, riprende il contenuto essenziale delle antiche filosofie antisacrificali, introducendo due concetti giuridici fondamentali, i quali, già in passato, avevano rappresentato modalità espressive del rifiuto dei sacrifici di animali: il ius humanitatis e il consortium naturalis initii.

Il primo concetto – il ius humanitatis – richiama l’idea del diritto, da intendersi non come prerogativa del solo genere umano, ma come l’elemento più proprio e specialmente qualificante della natura umana. Si comprende, in tal modo, il richiamo iniziale alla natura fera, termine, questo, che nel linguaggio giuridico romano non allude alla natura selvaggia, feroce, ma a quella selvatica, vale a dire alla natura dell’animale privo di ogni rapporto con l’uomo[222].

Il secondo concetto – il consortium naturalis initii – consente all’apologeta di inquadrare il sacrificio di animali come atto empio, praticando il quale gli uomini spezzano il vincolo naturale, l’affinità, potremmo dire, fra tutti gli esseri animati. Il ricorso, ancora una volta, a un termine – consortium –, che nel linguaggio

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giuridico romano identifica un preciso istituto, potrebbe non essere casuale, ma rappresentare l’espediente lessicale attraverso il quale l’autore avrebbe richiamato la tesi, variamente sostenuta nella filosofia greca e nel diritto romano, della ammissibilità di un diritto comune a uomini e ad animali[223].

Ed è opportuno richiamare, al di là della questione, che qui possiamo tralasciare, relativa al rapporto storico tra consortium e societas[224], i testi in merito alla concezione dell’animale come socius dell’uomo[225]. Testi che, unitamente alla testimonianza di Arnobio, ora riportata, confermano l’idea di una affinità fra tutti gli esseri animati, della quale idea il ius naturale è, in definitiva, una delle più alte espressioni.

Sulla base di questi due concetti, Arnobio presenta il paradosso del sacrificio, inteso come strumento di espiazione e di assoluzione del peccato, contrapponendo alla simplicitas naturae e alla innocentia dell’animale la ingiustizia dell’uomo, il quale, rinunciando alla sua vera natura, rinuncia anche a praticare la giustizia[226]:

 

Arnobio, nat. 7,9: Non homo? Ita istud non ferum, non inmane, non saevum est, non tibi, o Iuppiter, iniustum videtur et barbarum, me occidi, me caedi, ut fias tu placidus et ut sclerosis contingat impunitas?

 

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Gli sviluppi successivi del pensiero cristiano, sino ai giorni nostri, in materia di relazioni uomini-animali, confermano la posizione di Arnobio, contro il luogo comune. Una ricca tradizione di pensiero, infatti, da quella relativa al legame fra i Santi e gli animali[227], attraverso i Padri della Chiesa[228], fino al magistero pontificio[229], si oppone ad una visione dell’uomo come dominatore

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incontrollato dell’Universo. Appare evidente, dunque, quanto sia semplicistica la tesi, qui richiamata, secondo la quale il Cristianesimo, legittimando lo sfruttamento incondizionato degli animali e dell’ambiente naturale[230], non abbia adeguatamente preso in considerazione il valore etico della vita animale[231].

 

b. L’unica giustizia per tutti gli esseri animati nella cultura filosofica greca

 

La condanna del sacrificio di animali[232] e dell’alimentazione carnea[233] caratterizza diversi settori della cultura filosofica greca. Tale condanna, che viene fatta risalire all’orfismo, era espressione di un riconoscimento della affinità esistente fra gli uomini e

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gli altri esseri animati[234], riconoscimento che si connette a un atteggiamento critico nei riguardi della organizzazione politica dominante[235].

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Così ci appare il senso del racconto orfico della morte di Dioniso. I Titani, assassini con il corpo coperto di gesso e il viso nascosto da una maschera, dopo avere distratto Dioniso, mostrandogli dei giuochi, lo colpiscono e lo uccidono. Essi, dopo aver diviso il corpo del dio e averne arrostito le carni, consumano l’orrendo banchetto. Zeus, quindi, inorridito, punisce gli assassini riducendoli in ceneri, dalle quali nasce la stirpe umana[236]. Come si diceva, la narrazione denuncia il sacrificio cruento come pratica nefanda, alla quale fanno ricorso gli uomini, quando essi offrono una vittima agli dei. Il rifiuto di mangiare carne, proprio dell’orfismo, implica la scelta di porsi ai margini della organizzazione politica[237], in quanto essa è fondata sulle ceneri dell’inganno e sulla violenza del sangue versato. Al sacrificio cruento, Orfeo, capace di domare ogni specie animale grazie alla musica, preferisce la purezza del miele e dei cereali, che, nella sua filosofia, sono i soli cibi graditi agli dei[238].

A tale forma di contestazione si avvicina quella di Pitagora, il quale nega la legittimità dei sacrifici di animali e del mangiar carne[239]. Il filosofo condanna il sapere profano e assassino dei macellai e dei cacciatori. Il rifiuto del mangiar carne, assieme al sapere matematico, si offre ancora una volta al filosofo come

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strumento di ascesi e di estraneità alla città profana[240]. Alla empietà del sacrificio animale, che caratterizza le Bufonie ateniesi[241], Pitagora contrappone la purezza dell’offerta di cereali, come è in uso presso l’altare del tempio di Apollo genitore di Delos[242].

Giamblico racconta che, secondo Pitagora, l’affinità speculare fra uomini e animali non umani si esprimeva nel rispetto delle norme della giustizia anche nei riguardi degli altri esseri animati:

 

Giamblico, v. Pyth. 24: kaˆ t¦ prÕj eÙ£geian d ™nant…wj œconta kaˆ ™piqoloànta tÁj yucÁj t£j te ¥llaj kaqarÒthtaj kaˆ t¦ ™n to‹j Ûpnoij fant£smata parVte‹to. koinîj mn oân taàta ™nomoqšthse perˆ trofÁj, „d…v d to‹j qewrhtikwt£toij tîn filosÒfwn kaˆ Óti m£lista ¢krot£toij kaq£pax periÇrei t¦ peritt¦ kaˆ ¥dika tîn ™desm£twn, m»te œmyucon mhdn mhdšpote ™sq…ein e„shgoÚmenoj m»te onon Ólwj p…nein m»te qÚein zùa qeo‹j m»te katabl£ptein mhd' Ðtioàn aÙt£, diasózein d kaˆ t¾n prÕj aÙt¦ dikaiosÚnhn ™pimelšstata. kaˆ aÙtÕj oÛtwj œzhsen, ¢pecÒmenoj tÁj ¢pÕ tîn zówn trofÁj kaˆ toÝj ¢naim£ktouj bwmoÝj proskunîn, kaˆ Ópwj mhd ¥lloi ¢nair»swsi t¦ ÐmofuÁ prÕj ¹m©j zùa proqumoÚmenoj, t£ te ¥gria zùa swfron…zwn m©llon kaˆ paideÚwn di¦ lÒgwn kaˆ œrgwn, ¢ll' oÙcˆ di¦ kol£sewj katabl£ptwn. ½dh d kaˆ tîn politikîn to‹j nomoqštaij prosštaxen ¢pšcesqai

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tîn ™myÚcwn· ¤te g¦r boulomšnouj ¥krwj dikaioprage‹n œdei d»pou mhdn ¢dike‹n tîn suggenîn zówn. ™peˆ pîj ¨n œpeisan d…kaia pr£ttein toÝj ¥llouj aÙtoˆ ¡liskÒmenoi ™n pleonex…v; suggenik¾ d' ¹ tîn zówn metoc», ¤per di¦ t¾n tÁj zwÁj kaˆ tîn stoice…wn tîn aÙtîn koinwn…an kaˆ tÁj ¢pÕ toÚtwn sunistamšnhj sugkr£sewj æsaneˆ ¢delfÒthti prÕj ¹m©j sunšzeuktai.

 

Nella filosofia pitagorica, dalla idea, generica, della tutela degli altri esseri animati[243] si giunge a quella, specifica, della comunanza di diritto tra uomini e animali: la credenza nella metempsicosi e il divieto dei sacrifici di animali e della alimentazione carnea, infatti, aprono la via alla affermazione, fra uomo e animali, di una affinità giuridica, la quale va al di là della semplice affermazione di rispettare la vita di tutti gli esseri animati. In questa prospettiva, Giamblico, nel frammento del de vita Pythagorica, testé riportato, descrive Pitagora come colui che, sul presupposto della affinità fra tutti gli esseri animati, riconosce la pratica della giustizia come elemento di ulteriore coesione fra essi[244].

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Dopo Pitagora, il problema della legittimità dei sacrifici di animali e della alimentazione carnea è oggetto di attenzione da parte di Eraclito, il quale predica l’astensione dalla carne animale, sostenendo che gli dei non hanno bisogno di vittime sacrificali. Gli uomini, invece, “si purificano contaminandosi con altro sangue, come se uno, immersosi nel fango, si lavasse con il fango”[245].

Empedocle, riprendendo temi di ascendenza pitagorica, rammenta con tristezza il tempo in cui gli animali vivevano senza guerre e in pace con l’uomo: allora, “l’altare non era bagnato dal sangue puro dei tori giacché questo era tenuto dagli uomini massimo obbrobrio, dopo aver strappato loro la vita, mangiarne le nobili membra”[246]. Alle divinità cruente, egli oppone Cipride, la dea della concordia, alla quale si offrono animali dipinti e non esseri animati: “Lei con più doni essi si propiziavano con animali dipinti e profumi dall’odore sottile con offerte di mirra pura e di incenso odoroso e spargendo al suolo libagioni di biondo miele”[247].

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Ancora, molti secoli dopo, in Plutarco, la condanna dei sacrifici di animali procede assieme alla astensione dall’alimentazione carnea[248]. La terra potrebbe offrire a tutti gli esseri animati il nutrimento di cui essi hanno bisogno, ma l’uomo, il più violento fra tutte le specie viventi, preferisce con la caccia accanirsi nei confronti di animali indifesi[249]. Nell’opera De esu carnium, Plutarco rivolge il suo atto d’accusa verso quelle che egli ritiene essere il frutto di errate abitudini alimentari, più che di un vero bisogno naturale: l’uomo, infatti, per tollerare il sapore della carne, è costretto a impiegare spezie e vegetali[250].

 

c. Il ius naturale che omnia animalia docuit, nella cultura giuridica romana

 

L’idea della affinità fra gli esseri animati e del rispetto per gli animali non umani si trasmette, dalla cultura filosofica greca alla cultura giuridica romana, secondo due vie espressive: il rifiuto dei sacrifici di animali e la individuazione di un diritto (ius naturale) comune a uomini e ad animali.

La prima via – il rifiuto dei sacrifici di animali – è presente in Varrone e in Seneca. Arnobio attribuisce a Varrone l’opinione secondo cui gli dei non desiderano, né tantomeno reclamano sacrifici di animali:

 

Arnobio, nat. 7,1: Quid ergo, dixerit quispiam, sacrificia censetis nulla esse omnino facienda? Ut vobis non nostra, sed Varronis vestri sententia respondeamus, nulla. Quid ita? quia, inquit, dii veri neque desiderant ea neque deposcunt, ex aere

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autem facti, testa, gypso vel marmore multo minus haec curant: carent enim sensu; neque ulla contrahitur, si ea non feceris, culpa, neque ulla, si feceris, gratia.

 

A Seneca Lattanzio ascrive il rifiuto del sangue sacrificale:

 

Lattanzio, inst. 6,25,3: Quanto melius et verius Seneca vultisne vos inquit deum cogitare magnum et placidum et maiestate leni verendum, amicum et semper in proximo, non immolationibus nec sanguine multo colendum – quae enim ex trucidatione immerentium voluptas est?

 

La seconda via – la costruzione di un diritto comune a uomini e ad animali – è abbondantemente documentata.

Possiamo iniziare dalle testimonianze di Varrone, Columella e Plinio, in merito alla concezione, da parte degli ‘antiqui’, del bue come socius dell’uomo e al connesso divieto di uccisione del bue aratore[251]. In queste testimonianze, troviamo non solo la affermazione di una tutela giuridica dell’animale, ma anche il richiamo al rapporto paritario e di cooperazione tra uomini e animali che il contratto di societas, rispettivamente, presupponeva e stabiliva fra i contraenti:

 

Varrone, rust. 2,5,3: Hic socius hominum in rustico opere et Cereris minister, ab hoc antiqui manus ita abstineri voluerunt, ut capite sanxerint, siquis occidisset.

 

Columella 6 pr.: Nec dubium quin, ut ait Varro, ceteras pecudes bos honore superare debeat, praesertim et in Italia, quae ab hoc nuncupationem traxisse creditur, quod olim Graeci tauros italos vocabant, et in ea urbe, cuius moenibus condendis mas et femina boves aratro terminum signaverunt, vel, ut antiquiora repetam, quod idem Atticis Athenis Cereris et Triptolemi fertur minister, quod inter fulgentissima sidera particeps caeli sit, quod denique laboriosissimus adhuc hominis

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socius in agricultura, cuius tanta fuit apud antiquos veneratio, ut tam capital esset bovem necuisse quam civem.

 

Plinio, nat. 8,45 (70): Socium enim laboris agrique culturae habemus hoc animal, tantae apud priores curae, ut sit inter exempla damnatus a P<opulo> R<omano> die dicta, qui concubino procaci rure omassum edisse se negante occiderat bovem, actusque in exilium tamquam colono suo interempto.

 

Cicerone[252] e Seneca[253], ma anche Lucrezio[254] e Virgilio[255], rifacendosi più o meno esplicitamente al pensiero filosofico greco prima esposto, introducono direttamente l’idea di un diritto comune a uomini e ad animali.

Cicerone, nel De republica[256], ricorda che Pitagora ed Empedocle ritenevano unica la condizione giuridica di tutti gli esseri animati: unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, e reputavano

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delittuosa l’azione di colui che arrecasse danno alle bestie: scelus est igitur nocere bestiae[257]:

 

Cicerone, rep. 3,18-19: Esse enim hoc boni viri et iusti, tribuere id cuique quod sit quoque dignum. Ecquid ergo primum mutis tribuemus beluis? Non enim mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, clamantque inexpiabilis poenas impendere iis a quibus violatum sit animal. Scelus est igitur nocere bestiae, quod scelus qui velit …

 

L’impiego del termine scelus, nel passo ciceroniano, per indicare l’azione di colui che procuri una offesa nei riguardi di un animale non umano, non priva il passo stesso della sua rilevanza giuridica, ma, al contrario, la rafforza, a causa del rapporto che tale termine assume con l’idea di un’unica condicio iuris fra tutti gli esseri animati, scongiurando, in tal modo, il pericolo di confinare l’idea della esistenza di un comune diritto, fra tutti gli esseri animati, in una dimensione meramente etica. Idea, questa, che, come vedremo[258], ricorre nella celebre concezione ulpianea del ius naturale, in D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.): ius naturale est, quod natura

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omnia animalia docuit. Il ricorso al termine scelus, inoltre, consente di superare una logica puramente oggettivistica della condizione dell’animale, per esprimere, in modo particolarmente efficace, l’idea della tutela degli animali non umani e, dunque, la dignità di essi come esseri animati.

Cicerone, nel De officiis, esprime ancora l’idea di un’unica condicio iuris fra tutti gli esseri animati:

 

Cicerone, off. 1,17,53-54: Gradus autem plures sunt societatis hominum. Ut enim ab illa infinita discedatur, proprior est eiusdem gentis, nationis, linguae qua maxime homines coniunguntur; interius etiam est eiusdem esse civitatis: multa enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines praeterea et familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae. Artior vero colligatio est societatis propinquorum; ab illa enim immensa societate humani generis in exiguum angustumque concluditur. 54 Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae.

 

Egli, nel distinguere i vari gradi della società umana, dopo aver individuato il grado più generale in quella società caratterizzata dalla identità di gens, natio e lingua, elabora, in termini estremamente sintetici, il quadro vivo di quella particolare ipotesi di società umana che è la civitas[259]. Tale ipotesi si caratterizza per la coesistenza e la sintesi di elementi solo apparentemente disomogenei:

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essi proprio per il loro carattere differenziato – l’essere si direbbe elementi architettonici e giuridici: il forum, i fana, il porticus, le viae, da un lato, e le leges, i iura e i iudicia, i suffragia e le consuetudines, dall’altro –, appaiono gli elementi concreti della vita giuridica e sociale della civitas stessa, la quale in quegli spazi doveva trovare, sul piano concreto della costituzione materiale, una espressione naturale. Non a caso, il quadro si chiude con un cenno alla sintesi degli interessi e delle relazioni sociali fra i cives che tali spazi architettonici e giuridici consentono e rendono vivi: familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae.

La vera e propria chiave di lettura della classificazione ciceroniana dei vari gradi della società umana risiede nella individuazione del carattere naturale delle diverse forme di società comuni agli uomini e agli altri esseri animati. Tale chiave prospettica appare in maniera evidente nel proseguo del passo del De officiis, ove è proprio la naturalità del comportamento dell’uomo a unirsi in società coi suoi simili che permette a Cicerone di individuare una prospettiva ancora più ampia di quella dalla quale egli si era mosso, spostando l’attenzione, attraverso un rilievo specifico qual è quello della parentela, dalla societas umana a quella evidentemente più generale degli altri esseri animati: nam cum sit hoc natura commune animantium ut habeant libidinem procreandi prima societas in ipso coniugio est proxima in liberis deinde una domus communia omnia id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Qui il legame fra gli esseri animati si esprime nel richiamo all’istinto alla procreazione, considerato come il fattore di altre società: da quella del coniugium, a quella dei liberi, e quindi a quella della domus e delle altre res communes. E il vincolo che contraddistingue tali società è talmente importante da costituire il principium urbis e il seminarium rei publicae. Ed è così che Cicerone può operare un salto prospettico dal piano generale, con il quale aveva esordito, della identità di gens, natio e lingua, a quello particolare della colligatio propinquorum, nel cui ambito familiare e quotidiano, e proprio per questo reale, si esprime quella che a lui stesso doveva apparire l’idea inmensa, e per questo troppo distante, della societas umana. La prospettiva della riflessione ciceroniana non è dunque dissimile da quella adottata da Ulpiano nella definizione del ius naturale come ius comune a uomini e ad altri esseri animati, ove è

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evidente, per quel riferimento alla coniunctio, alla procreatio e alla educatio liberorum, il parallelismo con la riflessione di Cicerone, in tema di coniugium e di societas liberorum[260].

Anche in un brano del De clementia di Seneca[261], si parla di un commune ius animantium[262] e si trae da esso argomento a difesa della stessa condizione umana:

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Seneca, clem., 1,18,2: Servis ad statuam licet confugere! Cum in servum omnia liceant, est aliquid, quod in hominem licere commune ius animantium vetet.

 

La concezione filosofica pitagorica ed empedoclea è riassunta da Cicerone e da Seneca attraverso l’uso di una terminologia, la quale non lascia alcun dubbio sul fatto che, al problema della condizione animale, fosse attribuita una precisa rilevanza giuridica.

L’affermazione della esistenza di un’unica condicio iuris, fra tutti gli esseri animati, o di un commune ius animantium, apre la strada al riconoscimento di una fra le più alte espressioni della affinità fra uomini e animali non umani: il dovere dell’uomo di difendere attivamente la vita animale. Idea, anche questa, che doveva essere presente, in Roma, se è espressa in termini diversi, ma speculari, sul piano delle categorie giuridiche impiegate, da Lucrezio e da Virgilio.

Lucrezio, infatti, descrivendo il vincolo dell’uomo nei confronti degli animali non umani, nei termini di una tutela, sembra sostenere che tra uomo e animale si possano istituire relazioni, in un certo qual modo, aventi rilevanza giuridica[263]:

 

Lucrezio 5,855-877:

Multaque tum interiisse animantum saecla necessest,

nec potuisse propagando procudere prolem.

Nam quaecumque vides vesci vitalibus auris,

aut dolus aut virtus aut denique mobilitas est

ex ineunte aevo genus id tuta<ta> reservans.

Multaque sunt, nobis ex utilitate sua quae

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commendata manent, tutelae tradita nostrae.

Principio genus acre leonum saevaque saecla

tutatast virtus, volpes dolus et fuga cervos.

At levisomna canum fido cum pectore corda,

et genus omne quod est veterino semine partum,

lanigeraeque simul pecudes et bucera saecla,

omnia sunt hominum tutelae tradita, Memmi.

Nam cupide fugere feras pacemque secutae

sunt et larga suo sine pabula parta labore,

quae damus utilitatis eorum praemia causa.

At quis nil horum tribuit natura, nec ipsa

sponte sua possent ut vivere, nec dare nobis

utilitatem aliquam quare pateremur eorum

praesidio nostro pasci genus esseque tutum,

scilicet haec aliis praedae lucroque iacebant,

indupedita suis fatalibus omnia vinclis,

donec ad interitum genus id natura redegit.

 

Virgilio manifesta un sentimento di religioso rispetto nei confronti degli animali, giungendo ad affermare l’obbligo dell’uomo di prendersi cura di essi[264]:

 

Virgilio, georg. 3,295-310:

Incipiens stabulis edico in mollibus herbam

carpere ovis, dum mox frondosa reducitur aestas,

et multa duram stipula filicumque maniplis

sternere subter humum, glacies ne frigida laedat

molle pecus, scabiemque ferat turpisque podagras.

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Post hinc digressus iubeo frondentia capris

arbuta sufficere et fluvios praebere recentis,

et stabula a ventis hiberno opponere soli

ad medium conversa diem, cum frigidus olim

iam cadit extremoque inrorat Aquarius anno.

Haec quoque non cura nobis leviore tuendae;

nec minor usus erit, quamvis Milesia magno

vellera mutentur Tyrios incocta rubores;

densior hinc suboles, hinc largi copia lactis.

Quam magis exhausto spumaverit ubere mulctra,

laeta magis pressis manabunt flumina mammis.

 

Virgilio, georg. 3,394-408:

At cui lactis amor, cytisum lotosque frequentis

ipse manu salsasque ferat praesepibus herbas.

Hinc et amant fluvios magis et magis ubera tendunt

et salis occultum referunt in lacte saporem.

Multi etiam excretos prohibent a matribus haedos

primaque ferratis praefigunt ora capistris.

Quod surgente die mulsere horisque diurnis,

nocte premunt: quod iam tenebris et sole cadente,

sub lucem exportant calathis (adit oppida pastor),

aut parco sale contingunt hiemique reponunt.

Nec tibi cura canum fuerit postrema, sed una

velocis Spartae catulos acremque Molossum

pasce sero pingui: numquam custodibus illis

nocturnum stabulis furem incursusque luporum

aut impacatos a tergo horrebis Hiberos.

 

Il riconoscimento da parte di Virgilio dell’obbligo dell’uomo di prendersi cura degli animali fa emergere, in modo evidente, la linea di continuità della concezione virgiliana con la speculazione filosofico-giuridica greca e romana sul ius naturale[265].

Sul piano specifico della concezione virgiliana del mondo animale, la particolare attenzione di Virgilio per le api, la cui organizzazione

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è assunta a modello giuridico[266], non può essere considerata fine a se stessa: in generale, infatti, si può osservare che i riferimenti al mondo animale, presenti nei testi virgiliani, quando anche assumano le forme letterarie di una similitudine, esprimono, il più delle volte, il quadro delle relazioni tra l’uomo e gli altri esseri animati[267]:

 

Virgilio, georg. 4,153-157:

Solae communis natos, consortia tecta

urbis habent magnisque agitant sub legibus aevom,

et patriam solae et certos novere Penatis

venturaeque hiemis memores aestate laborem

experiuntur et in medium quaesita reponunt.

 

Si può osservare che Virgilio compie, attraverso il richiamo ad alcuni dei più importanti rapporti e/o elementi in cui si esprime l’organizzazione sociale delle api – l’avere figli, case, leggi, patria e Penati in comune –, una rappresentazione sintetica della complessa nozione, sul piano sociale, urbanistico e giuridico-religioso, di urbs-civitas[268]. Virgilio, inoltre, ancora sul piano giuridico-religioso,

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pone l’accento sulla importanza del contributo di ogni essere animato alla pacifica coesistenza[269], richiamando in tal modo un concetto giuridico – quello di pax – di grande importanza per il diritto romano[270]. In quest’ultimo senso si può intendere

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la chiusa finale “venturaeque hiemis memores aestate laborem experiuntur et in medium quaesita reponunt”, nella quale Virgilio descrive il sacrificio e il contributo comune di ognuna delle api come gli elementi della pacifica coesistenza, destinata a durare in vita sino alla eventuale rottura del patto sociale nel caso di morte del rex, quando, in presenza di un tale evento, le api devastano il miele e rompono i favi:

 

Virgilio, georg. 4,212-214:

Rege incolumi mens omnibus una est,

amisso rupere fidem constructaque mella

diripuere ipsae et crates solvere favorum.

 

Nel dipingere la relazione fra uomini e altri animali, Virgilio insiste (anche) sul substrato naturalistico degli elementi e/o dei rapporti sociali, nei quali si sostanzia la organizzazione delle api. È però possibile sostenere che proprio accanto a questo substrato naturalistico sia anche presente un riferimento dell’autore al ius: in tal senso, deve essere inteso, anzitutto, ma non solo, il cenno alla procreazione della prole, ciò che vale, assieme al riconoscimento della esistenza di leges all’interno dell’alveare, a mettere in luce le analogie tra la concezione virgiliana e la concezione ulpianea del ius naturale[271].

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Questo duplice riferimento ad un substrato naturalistico e al ius è ancora presente nella esaltazione che Virgilio compie della morigeratezza delle api:

 

Virgilio, georg. 4,197-202:

Illum adeo placuisse apibus mirabere morem,

quod neque concubitu indulgent nec corpora segnes

in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt;

verum ipsae e foliis natos, e suavibus herbis

ore legunt, ipsae regem parvosque Quirites

sufficiunt aulasque et cerea regna refigunt.

 

In questo testo, però, il riferimento al substrato naturalistico, presente nella descrizione delle api che mostrano la loro virtù evitando di abbandonarsi ai piaceri, sembra quasi essere offuscato da un più marcato riferimento al ius, che invece si esprime sia nel riconoscimento di un mos che regola il comportamento delle api, sia nell’impiego, per i piccoli delle api, dell’epiteto, così solenne, di Quiriti, che, costituendo il “termine più antico per indicare un membro del populus Romanus Quirites[272], assolve alla funzione di riconoscere un significato giuridico alla organizzazione delle api[273].

Nella speciale considerazione da parte di Virgilio per il mondo animale, inoltre, emerge, sia pure implicitamente, l’impiego dei criteri della aequitas[274] e della utilitas[275] come parametri di differenziazione

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fra il ius civile e il ius naturale[276]. L’impostazione di tale differenziazione, attraverso criteri, che i giureconsulti Paolo, per quanto riguarda la aequitas, e Ulpiano, per quanto riguarda la utilitas, adoperano, presumibilmente per il tramite di Cicerone[277], il primo per la definizione del ius naturale come ius semper aequum ac bonum[278], e il secondo per la distinzione fra ius publicum e ius

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privatum[279], nella opera virgiliana, risulta dalla considerazione dell’autore per la condizione animale, in generale, e da quella per le api, in particolare, la cui esistenza è assunta a modello proverbiale di cooperazione. In questa prospettiva è possibile leggere tutta la descrizione virgiliana della organizzazione dell’alveare, la quale sembra mettere particolarmente in risalto la esistenza dell’accordo fra le api, le quali, in forza di tale accordo, rinunciano alla loro utilitas particolare al fine di perseguire l’utilitas generale[280].

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Su un piano più generale, rispetto a quello relativo alla attenzione di Virgilio per il mondo animale, ma sempre sulla linea del ius naturale, si colloca, inoltre, la storicizzazione, compiuta dall’autore nella Eneide, del mito di Saturno, la quale storicizzazione gli consente di rappresentare l’età aurea come caratterizzata dalla assenza, oltre che della guerra, della proprietà privata, della servitù e dei sacrifici cruenti[281]. Virgilio, nel manifestare la sua avversità per la guerra, che egli evita accuratamente di definire come iusta, esprime l’idea della estraneità della guerra, e, più in generale, dell’uomo dalla natura. Come ha osservato Francesco Sini, il frammento dell’Eneide, nel quale sono assieme presenti i termini bellum e ius, non solo non depone a favore di un “accostamento” fra essi, ma, al contrario, chiarisce gli elementi concreti del rapporto fra il ius e “la fine degli omnia bella ventura[282], in un quadro dal quale traspare l’idea che la pace rappresenti una condizione essenziale di esplicazione del ius:

 

Virgilio, Aen. 9,641-644:

Macte nova virtute, puer: sic itur ad astra,

dis genite et geniture deos. Iure omnia bella

gente sub Assaraci fato ventura resident,

nec te Troia capit.

 

Nell’elaborare tale “schema argomentativo”, come lo ha definito Pierangelo Catalano[283], relativo alla riconducibilità del ius naturale a un “inizio felice della storia degli uomini, anteriore cioè alle lotte e divisioni prodotte dalla società”, Virgilio apre la strada ad uno schema che verrà poi ripreso nei Digesta, nelle Institutiones e nelle costituzioni di Giustiniano[284].

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La riflessione filosofico pitagorico-empedoclea, per il tramite di Cicerone, Seneca, Lucrezio, Virgilio, si trasmette, dunque, alla giurisprudenza romana.

È notevole che proprio l’introduzione del passo del De republica ciceroniano (3,18-19), sopra riportato, sulla comunione giuridica tra uomini e altri animali – esse enim hoc boni viri et iusti, tribuere id cuique quod sit quoque dignum – ritorni nella notissima formula con la quale Ulpiano indicherà i principi fondamentali del ius[285]. Il tribuere id cuique quod sit quoque dignum del brano ciceroniano si pone, infatti, come precedente della espressione ulpianea: D. 1,1,10,1 (Ulp. 1 reg.): iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Ed è anche notevole che l’idea della comunione giuridica tra uomini e altri animali, riecheggiata ancora una volta nella opera di Cicerone – questa volta nel De officiis (1,17,53-54) – ritorni in Ulpiano, precisamente nella sua celebre concezione del ius naturale, ove è evidente per quel riferimento alla coniunctio, alla procreatio e alla educatio liberorum, il legame con la impostazione ciceroniana in tema di coniugium e di societas liberorum[286].

L’idea di un’unica condicio iuris fra tutti gli esseri animati e del commune ius animantium fonda, quindi, la concezione ulpianea del ius naturale:

 

D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.): Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.

 

L’adozione di una terminologia differente per la designazione degli istituti, riservati agli uomini, e per i corrispondenti istituti comuni ad uomini e animali, se, da un lato, consente di accomunare

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tutti gli esseri animati[287], dall’altro, permette di distinguere il piano del ius naturale da quello del ius gentium e del ius civile, in un quadro dal quale, comunque, pare emergere l’unità del sistema giuridico[288]:

 

D. 1,1,1,4 (Ulp. 1 inst.): Ius gentium est, quo gentes humanae utuntur. quod a naturali recedere facile intellegere licet, quia illud omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit.

 

 

4. – Costantino e la cultura del suo tempo

 

a. La questione della conoscenza, da parte di Costantino, delle correnti filosofiche di favore per la condizione animale e contrarie ai sacrifici di animali

 

Una questione di particolare interesse, ai fini del nostro studio, è quella relativa alla conoscenza da parte di Costantino delle correnti filosofiche di favore per la condizione animale e contrarie ai sacrifici di animali, e, quindi, relativa alla influenza di tali correnti sull’imperatore.

Sin da ora, dobbiamo riconoscere che sarebbe vano, soprattutto allo stato delle nostre ricerche e, ci sembra di poter affermare, anche alla luce dello stato della dottrina, tentare di ricostruire una diretta e specifica influenza di questo o di quell’altro autore su Costantino. Tuttavia, riteniamo che, se dal piano particolare delle specifiche influenze si passa a quello generale dell’ambiente culturale, nel quale Costantino dovette maturare le sue scelte, sia allora possibile supporre che egli possedesse una conoscenza del dibattito filosofico-giuridico relativo alla condizione degli animali.

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Per compiere tale analisi, dobbiamo considerare il fatto che Costantino non era affatto un uomo privo di cultura, né, conseguentemente, estraneo ai fermenti culturali dell’epoca. Sono, infatti, numerosi gli elementi che depongono a favore di questa considerazione.

L’interesse dell’imperatore per la cultura del proprio tempo è attestato dalle costituzioni con le quali egli stabilì alcune misure a favore dei letterati. Si pensi, anzitutto, alla costituzione, del 1 agosto del 321, CTh. 13,3,1, indirizzata a Volusiano, prefetto del pretorio, con la quale egli disponeva l’esenzione dai munera per medici, grammatici e altri professori, ordinando che ad essi fosse anche garantito uno stipendio. E si pensi, inoltre, alla costituzione, del 27 settembre del 333, CTh. 13,3,3, indirizzata al popolo, con la quale egli confermava l’esenzione per i professori di lettere e la estendeva anche ai familiari[289].

È stata vista una ulteriore attestazione dell’interesse di Costantino per la cultura nella notizia, tramandata da Giuliano, in merito alla benevolenza dimostrata dall’imperatore nei riguardi di un centro culturale di enorme prestigio, quale era la città di Atene. Giuliano, infatti, descrive il particolare entusiasmo dell’imperatore nell’apprendere della sua nomina a stratego di Atene e della dedica a lui di una statua, a seguito della quale vicenda egli aveva pensato di ricompensare gli onori ricevuti con generose distribuzioni di grano alla città[290]. E ancora, si ricordi che le fonti attestano la preoccupazione dell’imperatore per la educazione dei figli[291], la cura per la redazione di componimenti di natura religiosa[292] o l’interesse per gli studi liberali[293].

A dare sostegno alla nostra ipotesi, sono, però, soprattutto i rapporti stretti da Costantino con alcuni letterati, specialmente

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filosofi, considerati, in alcuni casi, a tal punto importanti da essere chiamati a ricoprire cariche pubbliche di primo piano o comunque da essere tenuti in gran considerazione presso l’imperatore[294]. Ci sembra, infatti, davvero difficile sostenere che Costantino, pur intrattenendo rapporti così intensi, proprio con alcuni esponenti di quelle stesse correnti filosofiche, che, direttamente o indirettamente, erano coinvolte nel dibattito sul valore della vita animale e sui sacrifici di animali, fosse completamente ignaro del dibattito stesso.

Tra questi rapporti, possiamo qui richiamare quelli intrattenuti dall’imperatore con Ermogene, cultore degli studi filosofici[295], in particolare di quelli platonici e stoici, il quale aveva raggiunto la carica di quaestor sacrii palatii, nel 330, alla corte di Costantino[296]. E ancora quelli con Sopatro, il quale era succeduto a Giamblico nella direzione della scuola neoplatonica[297], a tal punto vicino a Costantino, da essere chiamato a sedere alla destra dell’imperatore, in occasione dei riti di fondazione della città di Costantinopoli[298]. E, infine, quelli con Nicagora, sacerdote dei misteri eleusini[299], filosofo neoplatonico, del quale le fonti attestano la gratitudine mostrata nei riguardi di Costantino che gli aveva concesso di effettuare un viaggio a Tebe[300], appartenente ad una antica famiglia di letterati ateniesi, probabilmente discendenti da Plutarco[301].

Alla luce di questi rapporti, di natura non solo personale ma anche politica, tra Costantino e alcuni esponenti di quegli stessi orientamenti filosofici, nei quali la questione relativa al valore etico della vita animale e quella sui sacrifici cruenti avevano suscitato una vasta eco, è assai verosimile che l’imperatore, nel rifiutare

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di prendere parte ai sacrifici di animali e nell’emanare le costituzioni in materia, fosse consapevole del significato che potevano assumere le sue scelte di fronte ai cittadini.

Si può supporre che l’interesse di Costantino per la cultura filosofica sia stato favorito dal mutamento della religione cristiana da un generico atteggiamento di rifiuto verso la cultura precristiana ad uno, più complesso, di apertura[302]. È rappresentativo di questa apertura il fatto che Origene, stando a Porfirio, citato per l’occasione da Eusebio[303], avrebbe avuto una certa conoscenza della filosofia pitagorica e di quella stoica, in un periodo, durante il quale le relazioni tra cristiani e non cristiani divenivano sempre più frequenti. In questo clima di apertura verso la cultura precristiana, alcuni intellettuali cristiani potevano anche trovare il modo di elogiare le antiche tradizioni, in quella parte, naturalmente, che si era distaccata dai riti cruenti[304]: così Eusebio, persino mentre confutava le idee di Platone, poteva mostrarsi pieno di ammirazione nei confronti del filosofo greco[305].

Sono noti i rapporti di Costantino proprio con alcuni intellettuali cristiani più aperti verso la cultura antica. Al periodo trascorso da Costantino alla corte di Diocleziano, risaliva probabilmente la sua amicizia con Lattanzio, giunto a Nicomedia per insegnare retorica latina[306]. Ed è senza dubbio anche in forza di tale amicizia che la concezione ulpianea del ius naturale può avere esercitato una influenza sull’imperatore[307]. Ed è anche probabile

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che, sempre a questo periodo, si debba far risalire la conoscenza da parte di Costantino della filosofia porfiriana, allora assai diffusa in Oriente[308], proprio mentre Sopatro andava acquistando fama all’interno della scuola neoplatonica di Giamblico, autore di una biografia di Pitagora, che come si ricorderà, aveva con forza affermato il valore etico-giuridico della vita di tutti gli esseri animati.

 

 

b. Un esempio di attestazione della conoscenza, da parte di Costantino, delle correnti filosofiche di favore per la condizione animale e contrarie ai sacrifici di animali: la Oratio ad sanctorum coetum

 

Al di là di queste pur significative testimonianze, un posto importantissimo occupa la Oratio ad sanctorum coetum[309], in quanto si tratta di un discorso, che, ricordato da Eusebio nel IV libro della Vita Constantini, è attribuito direttamente all’imperatore. Nella nostra prospettiva, è estremamente significativo il fatto che Costantino, in un suo discorso, attribuisca il fondamento e le aspirazioni della propria politica religiosa, pur tenendo conto della necessità di un distacco dagli eccessi propri della antica superstitio, alla opportunità di offrire una sintesi fra elementi della cultura precristiana e di quella cristiana. Egli, infatti, nonostante non risparmi aspre critiche a coloro che con stoltezza offrono sacrifici a esseri mortali, non si pone in aperto contrasto con la cultura precristiana, e in particolare, con Platone, del quale

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l’imperatore non nasconde, nel capitolo IX del discorso, la propria ammirazione[310]. Per quanto poi riguarda il problema della conoscenza puntuale del dibattito relativo al valore della vita animale e alla questione dei sacrifici di animali, è lo stesso Costantino a offrirci un indizio di tale conoscenza. Nella Oratio ad sanctorum coetum, egli cita Virgilio[311] (del quale è noto il sentimento di particolare rispetto per gli animali[312]) come esempio di profezia dell’avvento del Cristianesimo.

Tale richiamo è della massima importanza in quanto rivela, come è stato osservato[313], “la continuità tra la nuova fede religiosa da lui appoggiata e le intuizioni dei più grandi spiriti del mondo romano, laddove essi non avevano ceduto alla tentazione di superstiziose credenze”.

 

 

Conclusioni

 

Il rifiuto personale di Costantino dei sacrifici di animali ed il loro divieto nella legislazione costantiniana non sono soltanto il prodotto della adesione alla religione cristiana, ma sono piuttosto il frutto, a sua volta fecondo, dell’incontro e della combinazione ‘mediterranei’ di culture distinte, non opposte: la cultura filosofico-giuridica greco-romana e quella teologica giudaico-cristiana.

L’imperatore che si propone la sintesi fra tali culture si ispira, nel suo atteggiamento verso la condizione animale, a istanze di favore nei confronti degli esseri animati ‘altri’ che l’uomo, già presenti nella filosofia greca e nel diritto romano, ancora prima dell’avvento e della diffusione della religione cristiana. Sulla linea di tale ispirazione, nel riprendere l’idea filosofico-giuridica del

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valore della vita animale, Costantino offre alla posizione espressa dal Cristianesimo, nei confronti del sacrificio di animali, una via di realizzazione nel sistema giuridico-religioso romano.

Il risultato della sintesi, al quale l’imperatore giunge, sul piano specifico del rifiuto/divieto dei sacrifici animali, a sua volta, conduce ad individuare una prospettiva più ampia, con esiti ancora più interessanti e ricchi di sviluppi, sul piano complessivo della “interpretazione creativa” del sistema giuridico-religioso romano, quale si perfeziona a partire da Giustiniano. Costantino, come abbiamo visto[314], seleziona alcuni filoni della cultura filosofico-giuridica greca e romana e assegna ad essi un ruolo di primaria importanza, rispetto a quello che tali filoni presentavano nel loro contesto originario, proprio a partire dalla individuazione, nel tema della natura e della condizione animale, di una chiave di lettura delle relazioni fra l’uomo e il mondo e di un aspetto centrale di quel sistema.

In tale prospettiva, la scelta dell’imperatore di bandire la violenza sacrificale è un riconoscimento, sul piano giuridico, della affinità fra tutti gli esseri animati. Numerosi indizi, tra i quali, in particolare, il ricordo di una sensibilità accentuata da parte di Costantino per alcune problematiche di ‘ordine umanitario’[315], la

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sua attenzione, testimoniata dalla tradizione, per quegli speciali collaboratori degli uomini che erano i cavalli[316], l’emanazione di provvedimenti a tutela degli animali da lavoro, attestano il passaggio da parte dell’imperatore dalla specifica questione sacrificale alla generale questione della natura e della condizione animale.

Il carattere rivoluzionario, sul piano politico, religioso e giuridico, di tale scelta, peraltro non esclusivamente ‘personale’, perché tradotta, come si è visto, in un ‘complesso’ normativo, doveva apparire nella rottura della precedente prassi: il rifiuto di Costantino di accettare onori con spargimento di sangue sacrificale e lo svuotamento del valore del trionfo, conseguente alla omissione del sacrificio, inaugurano un nuovo corso della politica imperiale, imponendo, anche nel contesto della urbs-civitas, nuovi ‘spazi’ di riferimento giuridico alternativi al Campidoglio. L’abbandono del tempio di Giove Ottimo Massimo da parte dell’imperatore cristiano, al quale non è più consentito deporre l’alloro in onore della divinità ‘pagana’, determina non solo un mutamento nel cerimoniale pubblico, con la scomparsa del triumphus, ma anche uno stravolgimento dei luoghi di riferimento e delle modalità di espressione istituzionale del dibattito politico[317]. Tra i luoghi, destinati a divenire la sede privilegiata

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dell’incontro fra l’imperatore e il popolo, la Basilica di Pietro diviene, dopo Costantino, un nuovo centro di riferimento per gli imperatori, i quali, di fronte al sepolcro dell’apostolo, depongono il diadema, simbolo del loro status[318].

La scelta rivoluzionaria di Costantino si esprime, sul piano strettamente giuridico, sia nel rifiuto traumatico di parti del sistema giuridico-religioso, sia nella valorizzazione della continuità con il passato: l’imperatore, infatti, nella regolamentazione giuridica del valore della vita animale, insiste, come era già avvenuto nella cultura filosofico-giuridica greco-romana, sulla prospettiva del sacrificio cruento come violazione del ius naturale.

Tale linea di continuità si esprime con particolare evidenza nel richiamo da parte dell’imperatore a Virgilio, “esperto di diritto”[319], il quale, assieme a Cicerone e a Lucrezio, costituisce,

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come abbiamo visto[320], uno dei più importanti canali attraverso i quali l’idea di una affinità tra uomo e animali non umani dovette trovare diffusione in Roma.

Questa linea di continuità, ancora attraverso un richiamo a Virgilio, sarà poi ripresa anche da Giustiniano, nelle Institutiones, nelle quali, a proposito del significato della espressione ius civile, leggiamo:

 

I. 1,2,2: Sed quotiens non addimus, cuius sit civitatis, nostrum ius significamus: sicuti cum poetam dicimus nec addimus nomen, subauditur apud Graecos egregius Homerus, apud nos Vergilius.

 

Diverse sono le “implicazioni” di questo richiamo, che, come ha osservato Pierangelo Catalano, non è una “semplice imitazione giurisprudenziale o retorica né può essere assimilato all’utilizzazione di citazioni ed esempi omerici”[321]. Quella che,

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fra tali “implicazioni”, svela, in modo più evidente, la forza e il senso della linea di continuità testé richiamata, risiede nella concezione giustinianea del ius naturale. Attraverso questa linea di continuità, per il tramite specifico di Ulpiano, e prima ancora, ma più in generale, di Marciano, Giustiniano riprende e pone ormai in posizione cardinale nel sistema l’idea del ius naturale come ius comune a uomini e ad animali nei due notissimi passi collocati in posizione corrispondentemente significativa nei Digesta e nelle Institutiones:

 

D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.) Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.

 

e

 

I. 1,1,2 pr.: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in caelo, quae in terra, quae in mari nascuntur. Hinc descendit maris atque feminae coniugatio,

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quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio et educatio: videmus etenim cetera quoque animalia istius iuris peritia censeri.

 

La prospettiva costantiniana del sacrificio cruento come violazione del ius naturale nell’incontro e nella combinazione ‘mediterranei’ della cultura filosofico-giuridica greco-romana e di quella teologica giudaico-cristiana apre dunque la strada ad un’altra prospettiva, quella giustinianea, il riferimento della quale al ius naturale appare essere la maturazione dogmatico-sistematica di quello già costantiniano[322].

L’approfondimento sul tema del ius naturale, nel muoversi lungo la linea interpretativa ora suggerita, consente alla visione giustinianea una interpretazione “universalista” o “ecumenica” che caratterizza lo sviluppo storico dell’intero ius romanum, scandito nei tre ambiti concentrici del ius civile, ius gentium e ius naturale, nella quale visione gli animali, nell’ambito del ius naturale, sono i destinatari del ius al pari degli uomini[323].

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Rispetto a tali risultati, il contributo di Costantino, “santo” e imperatore, appare essenziale.

 

 

 

 



 

(*) Pubblicato in F. Sini-P.P. Onida (a cura di), Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente, Torino 2003.

 

[1] V. infra pp. 98 ss.

 

[2] V. infra pp. 141 ss.

 

[3] V. infra pp. 119 ss.

 

[4] V. infra pp. 138 ss.

 

[5] In tal senso, H. Karpp, “Konstantins Gesetze gegen die private Haruspizin aus den Jahren 319 bis 321”, in Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft, 41 (1942), pp. 145 ss.; B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I. Orientamento religioso della legislazione, Milano 1952, pp. 274 ss.; E. Horst, Costantino il Grande, tr. it. di U. Gandini, Milano 1984, pp. 221 ss.; F. Lucrezi, “Costantino e gli aruspici”, in Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche, 97 (1986), p. 175, il quale afferma: “Non c’è dubbio che l’atteggiamento di Costantino nei confronti dell’aruspicina trovi la sua motivazione principale e caratterizzante nella scelta a favore del cristianesimo, per cui la repressione della mantica sancita fra il 319 e il 321 può senz’altro definirsi come una repressione ‘cristiana’”; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano, 4 ed., Napoli 1989, pp. 37-38, il quale, dopo aver osservato come “a partire dal 313, si assista nella politica imperiale da un lato alla promulgazione di provvedimenti di particolare rilievo a vantaggio della ‘Chiesa cattolica’, dall’altro al progressivo prendere le distanze del principe dalla religione tradizionale, nei suoi atteggiamenti personali e nella propaganda della sua corte”, rileva (p. 42) che “nonostante, dunque, Costantino avesse concesso la possibilità dell’aruspicina pubblica, rimase però ferma tra i pagani la convinzione che le misure del principe contro la mantica si inserissero nel contesto della sua conversione al cristianesimo”. La questione relativa al fondamento della legislazione costantiniana in materia di sacrifici di animali è connessa al problema se Costantino fosse o meno consapevole di dovere la sua vittoria al dio dei cristiani. Negano, in maniera diversa, la influenza del Cristianesimo sulla legislazione costantiniana: J. Maurice, “La terreur de la magie au IVe siècle”, in Revue historique de Droit français et étranger, 6 (1927), pp. 108 ss.; F. Martroye, “La répression de la magie et le culte des gentils au IVe siècle”, in Revue historique de Droit français et étranger, 9 (1930), pp. 670 ss.; H. Funke, “Majestäts- und Magieprozesse bei Ammianus Marcellinus”, in Jahrbuch für Antike & Christentum, 10 (1967), p. 150; M. Sargenti, “Paganesimo e cristianesimo nell’opera di Costantino”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 44 (1978), pp. 532 ss. (=Id., Studi sul diritto del tardo impero, Padova 1986, pp. 389 ss.); G.P. Scaffardi, “CTh. 9,16,1 e CTh. 16,2,31. Note sui rapporti tra ideologia religiosa e legislazione penale”, in Studi Parmensi, 29 (1981), pp. 240 ss.; A. Di Mauro Todini, Divinazione e magia nelle costituzioni imperiali del IV secolo, Roma 1983, pp. 56 ss.; 99 ss.; A. Marcone, Costantino il Grande, Roma-Bari 2000, pp. 59 ss., nel chiedersi quali siano le ragioni delle “oscillazioni” tra “la condanna tanto severa della superstitio, dell’aruspicina privata” e “la sua ammissibilità in pubblico” e “a maggior ragione” delle “oscillazioni fra tale condanna e “l’ammissibilità della consultazione degli aruspici nel caso in cui un fulmine avesse colpito edifici pubblici”, osserva: “È probabilmente sbagliato cercare di trovare la soluzione al dilemma considerando il problema dal punto di vista strettamente religioso. Il divieto dell’aruspicina privata non deve essere inteso come una misura indirizzata contro gli usi pagani tanto diffusi a Roma … La legislazione di Costantino in materia appare quindi funzionale alla difesa dell’ordine costituito e non già una nuova linea di politica religiosa in senso radicalmente antipagano”; F.M. De Robertis, “Due grandi ombre nella pur grandissima vicenda costantiniana: lo scetticismo di fondo e la sospettosità omicida”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 67 (2001), pp. 515 ss., il quale, dopo avere osservato che Costantino “non può considerarsi cristiano” in quanto “vissuto durante tutta la vita fuori dalla Chiesa, sì da aver assunto il battesimo – secondo l’unanime testimonianza delle fonti – soltanto in punto di morte”, parla di una spregiudicatezza dell’imperatore, che avrebbe oscillato tra  “la fede cristiana e gli antichi riti paganeggianti”; e da ultimo A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002, pp. 70 ss. Dubbi, in un senso e nell’altro, sono stati espressi da A.A. Barb, “La sopravvivenza delle arti magiche”, in Aa.Vv., Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV (a cura di A. Momigliano), tr. it. di A.D. Morpurgo, Torino 1975, pp. 118 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas. Indovini e sanzioni nel diritto romano, Milano 1990, pp. 194 ss. Non prende posizione in materia T.D. Barnes, “Constantine’s Prohibition of pagan sacrifice”, in American Journal of Philology, 105 (1984), pp. 69-72. Sembra ora oscillare tra un fondamento politico della proibizione dei sacrifici, in particolare di quelli cruenti, e un fondamento religioso, M. Pérez Medina, “Sobre la prohibición de sacrificios por Constantino”, in Florentia Iliberritana, 7 (1996), pp. 233; 239.

 

[6] Sul tema della conversione di Costantino, in generale, si vedano: A. Alföldi, “The helmet of Constantine with the christian monogram”, in Journal of Roman Studies, 22 (1932), pp. 9 ss.; Id., “‘Hoc signo victor eris’. Beiträge zur Geschichte der Bekehrung Konstantins des Grossen”, in Pisciculi. Studien zur Religion und Kultur des Altertums, F.J. Dölger zum 60. Geburtstage dargebracht, Münster 1939, pp. 1 ss.; J. Straub, Vom Herrscherideal in der Spätantike, Stuttgart 1939, p. 98; A. Piganiol, “L’état actuel de la question constantinienne 1930/49”, in Historia, 1 (1950), pp. 82-90; A. Alföldi, “The initials of Christ on the helmet of Constantine”, in Studies in Roman economic and social history in honor of A.Ch. Johnson, Princeton 1951, pp. 303 ss.; K.F. Stroheker, “Das Konstantinische Jahrhundert im Lichte der Neuerscheinungen 1940-1951”, in Saeculum, 3 (1952), pp. 654 ss.; J. Vogt, “Constantinus der Grosse”, in Reallexikon für Antike und Christentum, 3 (1957), c. 320; H. Doerries, Konstantin der Grosse, Stuttgart 1958, p. 37; J. Vogt, Constantin der Grosse und sein Jahrhundert, 2 ed., München 1960, pp. 166 ss.; S. Calderone, Costantino e il cattolicesimo, I, Firenze 1962, pp. 135 ss.; A.H.M. Jones, Constantine and the conversion of Europe, New York 1962, p. 159; J. Vogt, “Bemerkungen zum Gang et Constantininforschung”, in Mullus. Festschrift Th. Klauser, Münster 1964, pp. 373 ss.; M. Sordi, Il Cristianesimo e Roma, Bologna 1965, pp. 300 ss.; R. MacMullen, Constantine, London 1969, p. 81; J.W. Eadie, The Conversion of Constantine, New York 1971; H. Kraft, Konstantin des Grosse, Darmstadt 1974, pp. 457-462; A. Alföldi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo, tr. it. di A. Fraschetti, Roma-Bari 1976, p. 54; J.H.W.G. Liebeschuetz, Continuity and change in Roman religion, Oxford 1979, pp. 281 ss.; T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge (Mass.)-London 1981, pp. 211-212; 246-247; G. Bonamente, “Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di Costantino nel 312”, in Scritti sul mondo antico in memoria di Fulvio Grosso (a cura di L. Gasperini), Roma 1981, pp. 55 ss.; T.D. Barnes, The new empire of Diocletian and Constantine, Cambridge (Mass.)-London 1982; A. Cameron, “Constantinus Christianus”, in Journal of Roman Studies, 73 (1983), pp. 184 ss.; G.W. Bowersock, “From Emperor to bishop: the self-conscious transformation of political power in the fourth century A.D.”, in Classical Philology, 81 (1986), pp. 289 ss.; A. Fraschetti, “Costantino e l’abbandono del Campidoglio”, in Aa.Vv., Società romana e impero tardoantico, II, Roma Politica Economia Paesaggio urbano (a cura di A. Giardina), Roma 1986, pp. 59-98 (saggio poi confluito con alcune importanti modifiche in A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari 1999, pp. 9-75, al quale d’ora in poi si rinvia); T.G. Elliot, “Constantine’s Conversion. Do we really it?”, in Phoenix, 41 (1987), pp. 420-438; P.A. Barceló, “Die Religionspolitik Kaiser Constantins des Grossen von der Schlacht an der Milvischen Brücke”, in Hermes, 116 (1988), pp. 76 ss.; R. MacMullen, La diffusione del cristianesimo nell’impero romano, tr. it. di S. Addamiano, Roma-Bari 1989, pp. 51-60; M. Sordi, I cristiani e l’impero romano, Milano 1990, pp. 156 ss.; R. Lane Fox, Pagani e cristiani, tr. it. di M. Carpitella, Roma-Bari 1991, pp. 664 ss.; J. Bleicken, Constantin der Grosse und die Christen: Überlegungen zur konstantinischen Wende, München 1992; T.G. Elliot, “‘Constantine’s conversion’ revisited”, in The Ancient History Bulletin, 6 (1992), pp. 59-62; R. Leeb, Konstantin und Christus. Die Verchristlichung der imperialen Repräsentation unter Konstantin dem Grossen als Spiegel seiner Kirchenpolitik und seines Selbstverständnisses als christlicher Kaiser, Berlin-New York 1992; S. Calderone, “Letteratura costantiniana” e ‘conversione di Costantino’”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo. Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico. Macerata 18-20 dicembre 1990 (a cura di G. Bonamente-F. Fusco), I, Macerata 1992, pp. 231-252; G. Bonamente, “La ‘svolta costantiniana’”, in Cristianesimo e istituzioni politiche. Da Augusto a Costantino (a cura di E. dal Covolo-R. Uglione), Roma 1995, p. 114; A. Marcone, op. cit., pp. 39 ss. Sulla ‘idea’ di conversione, nell’antichità greco-romana, si veda G. Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, tr. it. di G. Ruggeri, 2 ed., Milano 1981.

 

[7] Sui problemi relativi alla conversione di Costantino, con specifico riferimento alla battaglia di Ponte Milvio, si rinvia, per tutti, a A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 9 ss., con ampio esame della letteratura precedente. Sulla datazione della battaglia del Ponte Milvio, si vedano: P. Bruun, “The battle of the Milvian Bridge: the date reconsidered”, in Hermes, 88 (1960), pp. 361 ss.; M.R. Alföldi-D. Kineast, “Zu P. Bruuns Datierung der Schlacht an der Milvischen Brücke”, in Jahrbuch für Numismatik und Geldgeschichte, 11 (1961), pp. 33 ss.; P. Bruun, Studies in constantinian chronology, New York 1961, pp. 3-9; R. Andreotti, “Recenti contributi alla cronologia costantiniana”, in Latomus, 23 (1964), pp. 537 ss.

 

[8] Sul carattere sacrificale della passione di Gesù, la letteratura è immensa. Si vedano, per un primo esame: M. Bacchiega, Il pasto sacro. Dal cannibalismo rituale all’ostia consacrata, Foggia 1982 (rist. an. Foggia 1997), pp. 122; 245; G. Widengren, Fenomenologia della religione, tr. it. di G. Filoramo, Bologna 1984, pp. 442-457; M. Cristiani, “Tempo rituale e tempo storico. Comunione cristiana e sacrificio. Scelte antropologiche della cultura altomedievale”, in Segni e riti nella Chiesa altomedievale occidentale, 11-17 aprile 1985 (Settimane di studio sull’alto medioevo, XXXIII), II, Spoleto 1987, pp. 439-504; G. Ashby, Sacrifice. Its nature and purpose, London 1988; B. Forte, La Chiesa nell’Eucaristia. Per un ecclesiologia eucaristica alla luce del Vaticano II, Napoli 1988; M. Rubin, Corpus Christi, Cambridge 1991; J.D. Levenson, The death and resurrection of the beloved son: the transformation of child sacrifice in Judaism and Christianity, New Haven 1993; P. Grelot, Regole e tradizioni del cristianesimo primitivo, tr. it. di G. Cestari, Casale Monferrato 1998, pp. 222-261; C. Grottanelli, Il sacrificio, Roma-Bari 1999, pp. 78 ss. Sulla permanenza di sacrifici cruenti in seno al Cristianesimo, si vedano: F.C. Conybeare, “Les sacrifices d’animaux dans les anciennes Eglises chrétienne”, in Revue d’histoire des religions, 22 (1901), pp. 108-114; Id., “The survival of animal sacrifice inside the Christian Church”, in American Journal of Theology, 7 (1903); Id., Rituale Armenorum, Oxford 1905, pp. 54-85; C. Grottanelli, Il sacrificio cit., pp. 83 ss.

 

[9] Sulla idea della supremazia dell’uomo sul resto degli altri esseri viventi, per un primo esame, si vedano: M. Vegetti, Il coltello e lo stilo, 2 ed., Milano 1987, pp. 28; 95 ss.; P. Fedeli, La natura violata. Ecologia e mondo romano, Palermo 1990, pp. 106 ss.; G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico”, in Filosofi e animali nel mondo antico (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Pisa 1994, pp. 21 ss.

 

[10] Sulla affinità e sulla ambiguità del rapporto tra uomo e gli altri animali, si veda J. Barreau, “Animale”, in Enciclopedia Einaudi, I, Torino 1977, p. 576, il quale osserva: “I rapporti tra uomo e animale sono tut­tavia molteplici, complessi e spesso ambigui: l’animale può essere risorsa, compagno familiare, oggetto di pau­ra, pretesto di derisione, vittima rituale, essere sa­cro, simbolo sociale, selvaggina in una caccia gratui­ta, specchio dell’uomo … In seno a una stessa cultura, e a seconda della specie, l’animale potrà essere amato, cacciato, venerato, consumato, disprezzato, oggetto di proibizione, idealizzato …”. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it. di V. Degli Alberti-A. Solmi Marietti, Torino 1963, p. 285, ha così descritto il quadro delle affinità fra il mondo degli uomini e quello degli animali: “Nelle determinate, tipiche forme della natura che si articola in esseri viventi, l’uomo trova modelli, alla luce dei quali può chiarire il significato delle sue emozioni, dei suoi atteggiamenti incerti, aperti a molte possibilità; essi sono lo specchio per mezzo del quale l’uomo può vedere se stesso”. A questo proposito, ha osservato M. Vegetti, op. cit., p. 19: “Il V secolo appare, anche per quanto riguarda il rapporto fra uomo e animale, il luogo del conflitto e delle svolte. Due atteggiamenti si oppongono fra loro come l’acropoli e l’agorà, il sapere sacro dei sacerdoti e quello profano delle tecniche, come la grande aristocrazia e il demos urbano. Da un lato l’affinità speculare fra uomo e animale viene irrigidita fino a fare del corpo dell’animale un tabù, dell’animale stesso un fratello e un discepolo del saggio. Dall’altro, l’animale diventa invece oggetto profano di una manipolazione tecnica, che ha per protagonisti l’allevatore, il cacciatore, il pescatore, il macellaio, infine il medico dietologo”.

 

[11] Manca ancora oggi uno studio di sintesi sulla condizione giuridica dell’animale nell’antichità. Ci sia consentito di rinviare al nostro lavoro P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino 2002. Per quanto concerne lo studio della condizione animale nell’antichità, sotto il profilo filosofico, l’opera fondamentale resta quella di U. Dierauer, Tier und Mensch im Denken der Antike. Studien zur Tierpsychologie, Anthropologie und Ethik, Amsterdam 1977; si vedano, inoltre, per lo studio della condizione animale nell’antichità: M.V. Bacigalupo, Il problema degli animali nel pensiero antico, Torino 1965; J.M.C. Toynbee, Animals in Roman Life and Art, London 1973; P. Vidal-Naquet, “Bêtes, hommes et dieux chez les grecs”, in Hommes et bêtes: entretiens sur le racisme (sous la direction de L. Poliakov), Paris-La Haye 1975, pp. 129-142; L. Bodson, Hiera Zôia. Contribution à l’étude de la place de l’animal dans la religion grecque ancienne, Bruxelles 1978; M. Vegetti, op. cit., pp. 15 ss.; R. Delort, L’uomo e gli animali dall’età della pietra a oggi, tr. it. di F. Villari, Roma-Bari 1987; P. Lèvêque, Bestie dei uomini. L’immaginario delle prime religioni, tr. it. di C. Antonetti, Roma 1991; R. Sorabji, Animal mind and human moral. The origin of Western debate, London 1993; Filosofi e animali nel mondo antico cit., passim; Tiere und Menschen. Geschichte und Aktualität eines prekären Verhältnisses (hrsg. von P. Münch-R. Walz), Paderborn 1997; L’animal dans l’antiquité (éd. par. B. Cassin-J.L. Labarrière) (sous la direction de G. Romeyer Dherbey), Paris 1997, con rinvii alla letteratura. Una riflessione generale, sul tema del rapporto uomo e ambiente nell’antichità, è in P. Fedeli, La natura violata. Ecologia e mondo romano cit., pp. 17 ss.; Id., “Uomo e ambiente nel mondo romano”, in Diritto latinoamericano e sistema ecologico mondiale (=Ricerche giuridiche e politiche [a cura di M. Benarros-M.R. Mezzanotte]), Rendiconti VI, Sassari 1992, pp. 19-36. Sul tema dell’ambiente nell’antichità, si vedano inoltre: O. Longo, “Ecologia antica. Il rapporto uomo/ambiente in Grecia”, in Aufidus, 6 (1988), pp. 3-30; P. Pisani, Uomo, natura, ambiente nella letteratura latina (Urbanizzazione ed urbanesimo, tutela dell’ambiente e “problemi ecologici” a Roma dall’età di Cesare a quella di Traiano), Genova 1990; R. Sallares, The Ecology of the ancient Greek world, New York 1991; M.S. Spurr, “Percezioni della natura nel mondo romano”, in Aufidus, 22 (1994), pp. 37-54; Latina Didaxis XI. Atti del congresso, Bogliasco, 30-31 marzo 1996. L’uomo e la natura (a cura di S. Rocca), Genova 1996; L’uomo antico e la natura. Atti del convegno nazionale di studi, Torino 28-29-30 aprile 1997 (a cura di R. Uglione), Torino 1998. Una preziosa raccolta delle fonti in materia di ambiente è quella di G. Panessa, Fonti greche e latine per la storia dell’ambiente e del clima nel mondo greco, I-II, Pisa 1991. Sui problemi giuridici relativi all’inquinamento, si vedano: E. Nardi, “Inquinamento e diritto romano”, in Studi in onore di T. Carnacini, III, Milano 1984, pp. 757-768 (=Id., Scritti minori, I, Bologna 1991, pp. 584-596); A. Di Porto, “La tutela della salubritas fra editto e giurisprudenza. Il ruolo di Labeone. I - acque”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 91 (1988), pp. 459-570; Id., “La tutela della salubritas fra editto e giurisprudenza. Il ruolo di Labeone. II - Cloache e salubrità dell’aria”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 92 (1989), pp. 271-309 (=Id., La tutela della salubritas fra editto e giurisprudenza, I. Il ruolo di Labeone, Milano 1990); Id., “La gestione dei rifiuti in Roma fra tarda repubblica e primo impero. Linee di un ‘modello’”, in Societas-ius. Munuscula di allievi a Feliciano Serrao, Napoli 1999, pp. 41-64; F. Sitzia, Aqua pluvia e natura agri. Dalle XII tavole al pensiero di Labeone, Cagliari 1999, p. 98 nt. 46.

 

[12] Per un primo, parziale, esame della immensa bibliografia sulla tricotomia ius civile-gentium-naturale, o, più specificatamente, sul ius naturale, si vedano: M. Voigt, Das ius naturale aequum et bonum und ius gentium der Römer, Leipzig 1856-1875 (rist. Aalen 1966); C. Longo, “Note critiche a proposito della tricotomia ius naturale, gentium, civile”, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 40 (1907), pp. 634 ss.; H. Goudy, Tricho­to­my in Roman Law, Aalen 1910; F. Senn, De la justice et du droit, Paris 1927; E. Albertario, “Concetto classico e definizioni postclassiche del ius naturale”, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 57 (1924), pp. 168 ss. (=Id., Studi di diritto romano, V. Storia metodologia esegesi, Milano 1937, pp. 277 ss.); C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937, pp. 284 ss.; M. Lauria, “Ius gentium”, in Festschrift P. Koschaker, I, 1939, pp. 262 ss.; G. Lombardi, Ricerche in tema di “ius gentium”, Milano 1946; Id., Sul concetto di “ius gentium”, Roma 1947; P. Frezza, “Ius gentium”, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 2 (1949), pp. 259 ss.; E. Levy, “Natural Law in Roman Thought”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 15 (1949), pp. 1 ss. (=Id., Gesammelte Schriften, I, Köln-Graz 1963, pp. 1 ss.); G. Lombardi, “Diritto umano e ius gentium”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 16 (1950), pp. 254 ss.; B. Biondi, Il diritto romano cristiano, II. La giustizia-Le persone, Milano 1952, pp. 4 ss.; J. Gaudemet, “Quelques remarques sur le droit naturel à Rome”, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 1 (1952), pp. 452 ss.; R. Voggensperger, Der Begriff des Ius naturale im römischen Recht, Basel 1952; M. Bartosek, “Sulla concezione ‘naturalistica’ e materialistica dei giuristi romani”, in Studi in memoria di E. Albertario, II, Milano 1953, pp. 463 ss.; M. Villey, “Deux conceptions du droit naturel dans l’antiquité”, in Revue historiques de droit français et étranger, 31 (1953), pp. 475 ss.; A. Burdese, “Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica”, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 90 (1954), pp. 407 ss.; C.A. Maschi, “Il diritto naturale come ordinamento giuridico inferiore?”, in L’Europa e il diritto romano. Studi in memoria di P. Koschaker, II, Milano 1954, pp. 425 ss.; G. Crifò, “Diritti della personalità e diritto romano cristiano”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 64 (1961), pp. 41 ss.; G. Nocera, Ius naturale nell’esperienza giuridica romana, Milano 1962; A. Burdese, “Ius naturale”, in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino 1963, pp. 383-385; G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, 2 ed., Torino 1967, pp. 99 ss.; D. Nörr, Rechtskritik in der römische Antike, München 1974, pp. 21 ss.; 89 ss.; P. Stein, “The development of the notion of naturalis ratio”, in Daube noster. Essays in legal history for David Daube (ed. by A. Watson), Edinburgh-London 1974, pp. 305 ss.; G.G. Archi, “Lex e natura nelle istituzioni di Gaio”, in Festschrift für Werner Flume zum 70. Geburtstag, I, Köln 1978, pp. 3 ss (=Id., Scritti di diritto romano, I. metodologia e giurisprudenza. Studi di diritto privato, 1, Milano 1981, pp. 139 ss.); F. Camacho Evangelista, “‘Ius naturale’ en las fuentes jurídicas romanas”, in Estudios jurídicos en homenaje al prof. U. Alvarez Suárez, Madrid 1978, pp. 45 ss.; P. Didier, “Les diverses conception du droit naturel à l’œuvre dans la jurisprudence romaine du IIe et IIIe siècles”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 47 (1981), pp. 201 ss.; J. Plescia, “A view of natural law”, in Sodalitas, VII, Napoli 1984, pp. 3577-3591; W. Waldstein, “Bemerkungen zum ‘ius naturale’ bei den klassischen Juristen”, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.), 105 (1988), pp. 702 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, pp. 216 ss.; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1992, pp. 323 ss.; M. Kaser, Ius gentium, Köln-Weimar-Wien 1993, pp. 54 ss.; 98 ss.; M. Talamanca, rec. a M. Kaser, Ius gentium cit., pp. 272 ss.; L.C. Winckel, “Einige Bemerkungen über ius naturale und ius gentium”, in Ars boni et aequi. Festschrift für W. Waldstein zum 65 Geburtstag (hrsg. von M.J. Schermaier-Z. Végh), Stuttgart 1993, pp. 443 ss.; W. Waldstein, “Ius naturale im nachklassischen römischen Rech und bei Juristen”, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.), 111 (1994), pp. 1 ss.; S. Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones, Napoli 1996, pp. 75 ss.; M. Bretone, I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura, Roma-Bari 1998, pp. 101 ss.; M. Talamanca, “Ius gentium: da Adriano ai Severi”, in La codificazione del diritto dall'antico al moderno. Incontri di studio. Napoli, gennaio-novembre 1996 (a cura di E. Dovere), Napoli 1998; A. Burdese, “‘Res incorporalis’” quale fondamento culturale del diritto romano”, in Labeo, 45 (1999), pp. 108 ss.; M.P. Baccari, Concetti ulpianei per il “diritto di famiglia”, Torino 2000; F. Cancelli, Le leggi divine di Antigone e il diritto naturale, Roma 2000; M.P. Baccari, “Il conubium nella legislazione di Costantino”, in questa stessa pubblicazione, in part. paragrafo 5.

 

[13] Sul sacrificio incruento, si vedano, per tutti: M. Vegetti, op. cit., pp. 20 ss.; G. Camassa, “Frammenti del bestiario pitagorico nella riflessione di Porfirio”, in Filosofi e animali nel mondo antico cit., p. 90; C. Grottanelli, Il sacrificio cit., pp. 39 ss., con rinvii alla bibliografia; L. Repici, “Aristotele, Teofrasto e il problema di una giustizia verso le piante”, in Il dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo (a cura di M. Migliori), Napoli 2000, p. 554. Sul sacrificio animale, nella cultura greca e latina, la letteratura è vastissima. Per un primo esame, tralasciando le sintesi manualistiche di storia della religione romana, si vedano: E. Kadletz, Animal sacrifice in Greek and Roman religion, (Diss.) Ann Arbor 1976; Le sacrifice dans l’Antiquité (Entretiens sur l’Antiquité classique, 27), Genève 1981; W. Burkert, Homo necans. Antropologia del sacrifico cruento nella Grecia antica, tr. it. di F. Bertolini, Torino 1981; Aa.Vv., La cucina del sacrificio in terra greca (a cura di M. Detienne-J.P. Vernant), tr. it. di C. Casagrande-G. Sissa, Torino 1982; G. Berthiaume, Les Rôles du mageiros. Etude sur la boucherie, la cuisine et le sacrifice dans la Grèce ancienne, Leiden 1982; W. Burkert, I Greci. Preistoria. Epoca minoico-micenea. Secoli bui (sino al sec. IX), t. 1, tr. it. di P. Pavanini, Milano 1984, pp. 88 ss.; Aa.Vv., Sacrificio e società nel mondo antico (a cura di C. Grottanelli-N.F. Parise), Roma-Bari 1988; F.T. Van Straten, Hiera Kala. Images of animal sacrifice in archaic and classical Greece, Leiden 1995; A.V. Siebert, Instrumenta sacra. Untersuchungen zu römischen Opfer-, Kult- und Priestergeräten, Berlin-New York 1999, pp. 11 ss.

 

[14] Sulla coincidenza tra uccisione dell’animale e nozione di sacrificio v. C. Grottanelli, Il sacrificio cit., pp. 41 ss.

 

[15] G. Dumézil, La religione romana arcaica, tr. it. di F. Jesi, Milano 1977, pp. 476-477.

 

[16] Cfr. J. Scheid, “La spartizione sacrificale a Roma”, in Aa.Vv., Sacrificio e società nel mondo antico cit., pp. 267 ss. Si veda, inoltre, C. Santini, “Sul lessico del sacrificio”, ibidem, pp. 293 ss.

 

[17] Così J. Scheid, “La spartizione sacrificale a Roma” cit., p. 270. Cfr., inoltre, E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II. Potere, diritto, religione, Torino 1976, il quale osserva come sia la nozione stessa di sacrificio a evidenziare un esso con lo spargimento di sangue: “Inoltre, è il rapporto stabilito tra sacer e sacrificare che ci permette di comprendere al suo meglio il meccanismo del sacro e la relazione col sacrificio. Questo termine di ‘sacrificio’ che ci è familiare associa una concezione e un’operazione che sembrano non avere nulla in comune. Perché ‘sacrificare’ vuol dire di fatto ‘mettere a morte’ quando propriamente significa ‘rendere sacro’ (cfr. sacrificium)? Perché il sacrificio comporta necessariamente una condanna a morte?

 

[18] Eusebio, vita Const. 1,48 (74). Sul punto si veda A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 23; 77, con rinvii alla letteratura.

 

[19] Si veda A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 105 ss., il quale sembra dare per certo il nesso tra le costituzioni costantiniane e i sacrifici di animali: “Il cristiano Costantino non può assistere a sacrifici; dunque all’evenienza, benché nominalmente pontefice massimo, non può neppure partecipare insieme a senatori pagani di Roma al ‘ludorum epulare sacrificium’ del 13 settembre quello che precedeva necessariamente il banchetto vero e proprio, allestito con le carni delle vittime sacrificate”.

 

[20] Cfr. M. Pérez Medina, “Sobre la prohibición de sacrificios por Constantino” cit., p. 237.

 

[21] Eusebio, vita Const. 1,37; 1,38,1-5; Paneg. 9,2,4-5. Sulla convinzione di Costantino di dovere la sua vittoria al dio dei cristiani, si vedano: R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea. La prima teologia politica del Cristianesimo, Zürich 1966, pp. 200 ss.; A. Alföldi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo cit., p. 54; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 16 ss.; R. Lane Fox, op. cit., pp. 664 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 13 ss.; 28 ss.; 250 ss., con rinvii alla letteratura. Per un quadro del pensiero di Costantino alla luce dei panegirici, si vedano: C. Castello, “Il pensiero politico-religioso di Costantino alla luce dei panegirici”, in Accademia romanistica costantiniana, Atti I Convegno Internazionale (Spello-Foligno-Perugia, 18-20 settembre 1973), Napoli 1975, pp. 47 ss.; M.J. Rodríguez, Propaganda política y opinión publica en los panegíricos latinos del bajo imperio, Salamanca 1991, pp. 92 ss.; K. Rosen, “Constantins Weg zum Christentum und die ‘Panegyrici Latini’”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo cit., II, pp. 853 ss. L’edizione di riferimento per la numerazione dei Panegirici è Panégyriques latins, t. II. Les Panégyriques constantiniens (par E. Galletier), Paris 1952. Per un quadro generale sui panegirici latini, si veda, da ultimo, D. Lassandro, “Introduzione”, in Panegirici latini (a cura di D. Lassandro-G. Micunco), Torino 2000, con rinvio alla letteratura.

 

[22] Sulla contrapposizione fra i “difetti del tiranno” e le qualità dell’imperatore, si veda R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea cit., pp. 206-235.

 

[23] Eusebio, vita Const. 1,48, pone in evidenza che la celebrazione dei decennali di Costantino avvenne con “sacrifici privi di fuoco e di fumo”. Cfr. A. Hamman, “La prière chrétienne et la prière païenne, formes et différences”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.23.2, Berlin-New York 1980, pp. 1193 ss.; S. Bradbury, “Constantine and the problem of anti-pagan legislation in the fourth century”, in Classical Philology, 89 (1994), pp. 129 ss.; Id., “Julian’s pagan revival and the decline of blood sacrifice”, in Phoenix, 49 (1995), pp. 331 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 23 e nt. 21 ss.

 

[24] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 74 ss., che richiama Eusebio, hist. eccl. 8,14,5.

 

[25] Eusebio, laus Const. 9,9; vita Const. 1,37; 1,39,3; 4,19; 4,29,3. Sulla “fiducia in Dio” da parte dell’imperatore, cfr. R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea cit., pp. 190; 200 ss.

 

[26] Sulla concezione del tiranno in Eusebio, si veda R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea cit., pp. 224 ss. Si vedano, inoltre: J. Scheid, “La mort du tyran. Chronique de quelques morts programmées”, in Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Roma 1984, pp. 177 ss.; V. Neri, “L’usurpatore come tiranno nel lessico politico della tarda antichità”, in Usurpationen in der Spätantike. Akten des KolloquiumsStaatsreich und Staatlichkeit, 6-10 März 1996 (hrsg. F. Paschoud-J. Szidat), Stuttgart 1997, pp. 71 ss.

 

[27] Eusebio, vita Const. 1,13,3; 3,1,5.

 

[28] Eusebio, vita Const. 1,27,1; 2,4,2-3.

 

[29] Eusebio, hist. eccl. 8,14,5; vita Const. 1,36.

 

[30] Eusebio, hist. eccl. 2,25,3. Sulla ‘eusebeia’ si veda la relazione di R. Farina, “La pietas del servo di dio Costantino imperatore. Santità e culto di Costantino imperatore nella ‘vita di Costantino’ di Eusebio di Cesarea”, in questa stessa pubblicazione, in part. capitolo 2. Dello stesso autore, inoltre, si veda Id., L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea cit., pp. 211 ss.

 

[31] Sugli actus Silvestri e sul battesimo di Costantino, per tutti, si vedano: V. Aiello, “Costantino, la lebbra e il battesimo di Silvestro”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo cit., I, pp. 18 ss. e nt. 5; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 109 ss., con rinvii alla letteratura.

 

[32] Sulla datazione degli actus Silvestri, si vedano le opere citate alla nt. precedente.

 

[33] Sulla tradizione che vede Costantino essere un feroce persecutore dei cristiani, si veda A. Fraschetti, La conversione cit., p. 109, con rinvii alla letteratura.

 

[34] Cfr. A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 5 ss.; 76; 81; 123-124, il quale, criticando la datazione comunemente accolta in dottrina a partire da Otto Seeck, ritiene possibile, per gli adventus di Costantino a Roma nel 315 e nel 326, oltre al 21 luglio, anche la data del 18 dello stesso mese.

 

[35] Sulla datazione del racconto di Zosimo si veda, per tutti, da ultimo A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 87 ss., con ampio esame della letteratura precedente.

 

[36] L’Egizio, al quale fa riferimento Zosimo, deve essere identificato, con ogni probabilità, con Ossio di Cordova. Si veda, per tutti, A. Fraschetti, La conversione cit., p. 90.

 

[37] Sulla natura della “festa patria” del racconto di Zosimo, v. infra pp. 106 ss.

 

[38] Sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio, si vedano: J. Straub, “Konstantins Verzicht auf den Gang zum Kapitolol”, in Historia, 4 (1955), pp. 297-313 (=Id., Regeneratio imperii. Aufsätze über Roms Kaisertum und Reich im Spiegel der heidnischen und Christlichen Publizistik, Darmstadt 1972, pp. 100-118), che riporta l’episodio al 313; F. Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la conversion de Constantin”, in Historia, 20 (1971), pp. 334-353 (=Id., Cinq études sur Zosime, Paris 1975, pp. 24-62 ss.), invece, propende per il 326; T.D. Barnes, Constantine and Eusebius cit., p. 44; V. Neri, Ammiano e il Cristianesimo. Religione e politica nelle ‘Res gestae’ di Ammiano Marcellino, Bologna 1985, p. 36 nt. 68; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 19 nt. 6; R. Lane Fox, op. cit., pp. 675 ss.; F. Paschoud, “Ancora sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo cit., II, pp. 737 ss.; G. Bonamente, “La ‘svolta costantiniana’” cit., pp. 110 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 107 ss.

 

[39] J. Straub, “Konstantins Verzicht auf den Gang zum Kapitol” cit., pp. 297 ss.; Id., “Constantine as koinÕj ™p…skopoj. Tradition and innovation in the representation of the first christian emperor’s majesty”, in Dumbarton Oaks Papers, 21 (1967), pp. 41-42. Prima ancora dello Straub, aveva notato la omissione della cerimonia P. Franchi de’ Cavalieri, Constantiniana, Città del Vaticano 1953, p. 47. In questa ottica, si vedano pure: J. Vogt, “Die Bedeutung des Jahres 312 für die Religionspolitik Konstantins des Grossen”, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, 61 (1942), pp. 383 ss.; Id., Constantin der Grosse und sein Jahrhundert cit., p. 166; G. Bonamente, “Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di Costantino nel 312” cit., pp. 56 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 9 ss. Contra C.E.V. Nixon-B. Saylor Rodgers, In praise of later Roman emperors. The Panegyrici Latini: introduction, translation, and historical commentary, Berkley-Los Angeles-Oxford 1994, pp. 323-324.

 

[40] Paneg. 9,12,1; 9,19,3.

 

[41] Eusebio, hist. eccl. 9,9,9; vita Const. 1,39,1.

 

[42] Paneg. 10,19,3.

 

[43] Paneg. 10,23,1.

 

[44] J. Straub, “Konstantins Verzicht auf den Gang zum Kapitol” cit., pp. 209 ss.

 

[45] A. Alföldi, “Die Ausgestaltung des monarchischen Zeremoniells am römischen Kaiserhofe”, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts (Römische Abteilung), 49 (1934), pp. 3-118; Id., “Insignien und Tracht der römischen Kaiser”, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts (Römische Abteilung), 50 (1935), pp. 3-158; Id., Costantino tra paganesimo e cristianesimo cit., p. 54.

 

[46] Sulla ideologia connessa al culto di Giove, si veda J.R. Fears, “The cult of Jupiter and Roman imperial ideology”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.17.1, Berlin-New York 1981, pp. 7 ss.

 

[47] F. Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la conversion de Constantin” cit., pp. 334 ss.

 

[48] Zosimo 2,29,5.

 

[49] Gli elementi, che giustificherebbero, secondo F. Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la conversion de Constantin” cit., pp. 339 ss., la separazione del V paragrafo dal resto del racconto di Zosimo, sono diversi: in particolare i primi contatti tra Costantino e l’Egizio, da identificarsi quasi certamente con Ossio di Cordova, risalirebbero già al 312; inoltre, la diffidenza di Costantino nei confronti della divinazione sarebbe presente nei provvedimenti da lui adottati sin dal 319.

 

[50] F. Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la conversion de Constantin” cit., pp. 339 ss.

 

[51] F. Paschoud, “Ancora sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio” cit., pp. 736; 748.

 

[52] F. Paschoud, “Ancora sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio” cit., pp. 738-739.

 

[53] F. Paschoud, “Zosime et Constantine. Nouvelles controverses”, in Museum Helveticum, 54 (1997), pp. 22 ss., in risposta a G. Fowden, “The last days of Constantine: oppositional version and their influence”, in Journal of Roman Studies, 84 (1994), pp. 146-170. Questa lettura di François Paschoud, per la sua elasticità, ci pare ancora più apprezzabile e ricca di suggestioni di quella alla quale egli, in passato, aveva sottoposto il testo di Zosimo. Bisogna ammettere che il racconto di Zosimo nulla ci dice di preciso sulla natura della festa. Se ciò lascia il campo alle più disparate ipotesi, si deve anche riconoscere che ogni rigida ricostruzione in materia rischia di essere non solo arbitraria, ma anche, tutto sommato, sterile. Cfr. ora le condivisibili osservazioni di F. Paschoud, “Ancora sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio” cit., p. 740.

 

[54] Cfr. G. Bonamente, “Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di Costantino nel 312” cit., p. 66. F. Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la conversion de Constantin” cit., pp. 349 ss.

 

[55] A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 5 ss.; 19 ss.; 126 ss. Si veda, però, la risposta ad Augusto Fraschetti di F. Paschoud, “Ancora sul rifiuto di Costantino di salire al Campidoglio” cit., pp. 737 ss.

 

[56] Il panegirico del 313 parla di ioci triumphales: Paneg. 9,12,1; 9,18,3.

 

[57] Paneg. 10,30,5: Nulli tam laeti triumphi; 10,32,1: Quis triumphus illustrior?

 

[58] A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 50 ss. Sulla concezione del trionfo nella storia costituzionale romana, si veda A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, Milano 1996, con ampi riferimenti alla letteratura.

 

[59] CIL VI,1139=ILS 694.

 

[60] Cfr. A. Fraschetti, La conversione cit., p. 51.

 

[61] Cfr. H. Stern, Le calendrier du 354. Etude sur son texte et ses illustrations, Paris 1953, p. 162.

 

[62] A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 52-53; 62, osserva che il calendario di Filocalo al 29 ottobre, in relazione a Costantino, registra un adventus Divi. L’espressione “per amore della consuetudine”, utilizzata da Augusto Fraschetti, (p. 52), è tratta da Simmaco (rel. 3,3: consuetudinis amor magnus est), che la impiega, a proposito del culto della dea Vittoria, definito: “amicum triumphis patrocinium”.

 

[63] A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 94 ss., il quale richiama Libanio, or. 19,19; 20,24. Cfr. inoltre H.U. Wiemer, “Libanius on Constantine”, in Classical Quarterly, 44 (1994), pp. 511 ss.; P.L. Malosse, “Libanius on Constantine again”, in Classical Quarterly, 47 (1997), pp. 519 ss.

 

[64] Si vedano: Th. Mommsen, Römische Staatsrecht, IV, Leipzig 1887, p. 493 nt. 1; A. Piganiol, L’empire chrétien: 325-395, 2 ed., Paris 1972, pp. 39 ss.

 

[65] A. Fraschetti, La conversione cit., p. 94.

 

[66] A. Fraschetti, La conversione cit., p. 98 e nt. 35, il quale cita M.R. Salzman, On roman time. The codex-calendar of 354 and the rhythms of urban life in late antiquity, Berkley-Los Angeles-Oxford 1990, p. 120.

 

[67] Sull’epulum Iovis si vedano, con rinvii alla letteratura: J. Scheid, “Sacrifice et banquet à Rome”, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire de l’Ecole Française de Rome, 97 (1985); Id., “La spartizione sacrificale a Roma”, in Aa.Vv., Sacrificio e società nel mondo antico cit., pp. 280-281.

 

[68] A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 100 ss.

 

[69] A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 103 ss.

 

[70] Si tratta di un seminario, sul tema “Poteri religiosi e Istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra oriente e occidente”, tenutosi a Sassari-Sedilo-Oristano, dal 3 al 6 luglio 1999, organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Sassari, nel quadro del progetto strategico del Consiglio Nazionale delle Ricerche su “Sistemi giuridici del Mediterraneo”, coordinato dall’ISPROM-Istituto di Studi e Programmi per il Mediterraneo. Attilio Mastino ha letto la sua relazione, a Oristano, il 6 luglio 1999.

 

[71] Desidero ringraziare Attilio Mastino, per avermi cortesemente consentito la lettura della sua relazione, prima ancora della sua pubblicazione.

 

[72] Cfr. P. Ruggeri, “La casa imperiale”, in Aa.Vv., Uchi Maius, 1. Scavi e ricerche epigrafiche in Tunisia (a cura di M. Khanoussi-A. Mastino), Sassari 1997, p. 158, con rinvii alla letteratura.

 

[73] Sul divieto di Costantino dei sacrifici di animali, v. infra, pp. 119 ss.

 

[74] Paneg. 9,12,1; 9,19,3.

 

[75] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 18 nt. 6; G. Bonamente, “La ‘svolta costantiniana’” cit., p. 113; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 10 ss.

 

[76] Cfr. A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 22 ss.

 

[77] F. Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la conversion de Constantin” cit., pp. 351 ss.

 

[78] G. Bonamente, “Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di Costantino nel 312” cit., p. 66.

 

[79] Sul carattere precoce della conversione di Costantino, insiste ora A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 15 ss., con rinvii alla letteratura.

 

[80] Cfr. T.V. Buttrey, “The dates of the arches of Diocletian and Constantine”, in Historia, 32 (1983), pp. 375 ss.

 

[81] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 18; G. Bonamente, “Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di Costantino nel 312” cit., pp. 59 ss.; Id., “La ‘svolta costantiniana’” cit., p. 113; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 26 ss. Non contrasta con queste osservazioni il rilievo di P. Pensabene, “Progetto unitario e reimpiego nell’Arco di Costantino”, in Aa.Vv., Arco di Costantino. Tra archeologia e archeometria (a cura di P. Pensabene-C. Panella), Roma 1999, pp. 13 ss., il quale, ricordando l’“ambiguità più volte notata che caratterizza i primi anni di accesso al potere di Costantino”, cita ad esempio di essa il fatto che, nei tondi adrianei con scene di sacrificio, sarebbero stati rappresentati Costantino e Costanzo Cloro (o Licinio), “data la rilavorazione della testa di Adriano nel loro ritratto, come sacrificanti ad Apollo, Silvano, Diana ed Ercole, anche se la relazione di questi tondi con le rispettive scene di caccia può di nuovo far pensare soprattutto ad una esaltazione della religiosità dei due imperatori”. E la ragione principale della nostra opinione è che lo stesso Patrizio Pensabene, a proposito della pratica del reimpiego nell’arco di Costantino, osserva che il “riutilizzo di rilievi che rappresentano episodi bellici e cerimonie di cui sono protagonisti i buoni imperatori del II secolo, Traiano, Adriano e Marco Aurelio, e le statue di Adriano e di Marco Aurelio che compaiono ai lati di Costantino nel fregio dell’Adlocutio, non solo esprimono il suo collegamento ideale alla loro politica, contraddistinta dal buon governo in accordo col Senato, ma forniscono un quadro di ‘normalità’ alle vicende della guerra civile, messe sullo stesso piano delle guerre vittoriose contro i barbari. Il mezzo che mette in risalto tale volontà politica di legittimazione è semplice: la sostituzione delle teste-ritratto dei tre imperatori del II secolo con quella di Costantino e il diretto accostamento dei tondi ai fregi costantiniani che raccontano la guerra contro Massenzio. Infatti, attraverso l’illustrazione di scene di caccia imperiali, nei tondi adrianei, e delle divinità del Sole e della Luna, in quelli costantiniani, viene riproposto il concetto di immortalità e di eternità del potere imperiale e della dimensione cosmica della vittoria costantiniana, secondo una lunga tradizione che trovava il suo riferimento principale in Alessandro Magno, … tra l’altro era proprio la rappresentazione in successione delle scene di caccia proposta dall’Arco di Costantino (caccia all’orso, al cinghiale e al leone) ad essere divenuta una consolidata espressione della legittimità del sovrano”.

 

[82] Cfr. A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 26 ss., con rinvii alla letteratura.

 

[83] Per questi rilievi, relativi all’Arco di Costantino, si veda, per tutti, G. Bonamente, “Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di Costantino nel 312” cit., pp. 59 ss., con riferimenti bibliografici.

 

[84] V. supra pp. 113 ss.

 

[85] A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 9 ss.

 

[86] L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 19, il quale cita Can. 59.

 

[87] V. supra p. 107.

 

[88] Sui decennalia celebrati a Roma nel 315, si vedano: A. Alföldi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo cit., pp. 22 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 22 ss., con rinvii alla letteratura.

 

[89] Eusebio, vita Const. 1,48.

 

[90] Cfr., in tal senso, G. Bonamente, “Eusebio, Storia ecclesiastica IX 9 e la versione cristiana del trionfo di Costantino nel 312” cit., p. 65.

 

[91] L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 18 ss. e nt. 6.

 

[92] A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 11 ss.

 

[93] Cfr., in tal senso, le condivisibili osservazioni di A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 30-31, il quale rileva che “sostenere che Costantino sia asceso al Campidoglio nell’ottobre 312 e parallelamente essere costretti ad ammettere che già nel 313 fosse impossibile in sua presenza e nel contesto di un panegirico ogni accenno a quella visita, è ipotesi che dilaziona il rifiuto di Costantino nei confronti del culto che doveva essere reso a Giove Ottimo Massimo – il famoso Verzicht di Joannes Straub, tante volte messo in discussione – solo di circa un anno … Dilazionare di circa un anno il rifiuto costantiniano nei confronti del culto da rendersi a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio evidentemente muta poco, soprattutto in prospettiva, i termini del nuovo rapporto che, a partire dallo stesso Costantino (sicuramente a partire dalla celebrazione dei ‘pii’ decennali del 315), tenderanno ormai a stabilirsi tra imperatori cristiani e vita cerimoniale di Roma”.

 

[94] Cfr. A. Fraschetti, “Roma: spazi del sacro e spazi del profano della politica tra IV e V secolo”, in Storia della storiografia, 36 (1995), pp. 923 ss.; Id., La conversione cit., p. 257.

 

[95] V. supra pp. 108; 112 ss.

 

[96] Cfr. A. Alföldi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo cit., pp. 62 ss.; A. Chastagnol, “Les jubilés impériaux de 260 à 337”, in Crise et redressement dans les provinces européennes de l’Empire (milieu du IIIe milieu du IVe siècle ap. J.-C.). Actes du colloque de Strasbourg, décembre 1981 (éd. par E. Frézouls), Strasbourg 1983, pp. 18 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 21 ss.

 

[97] V. supra pp. 98; 107; 116.

 

[98] Eusebio, vita Const. 1,48.

 

[99] Cfr. A. Fraschetti, La conversione cit., p. 22. Pochi anni dopo, nel 323, il rifiuto dei sacrifici è ancora testimoniato dalla costituzione, riportata in CTh. 16,2,5 (sulla quale v. infra pp. 141 ss.) indirizzata a Elpidio, vicarius urbis, volta ad impedire che “alcuni ecclesiastici e altri che sono fedeli alla dottrina cattolica” fossero costretti a celebrare sacrifici in occasione dei lustri.

 

[100] Cfr. A. Fraschetti, La conversione cit., p. 81.

 

[101] Zosimo, 2,29,1-5. Cfr. H. Funke, op. cit., pp. 146 ss.; F. Lucrezi, op. cit., pp. 171 ss.; S. Montero, Política y adivinación en el Bajo Imperio Romano: emperadores y harúspices (193 d.C.- 408 d.C.) (Collection Latomus, 211), Bruxelles 1991, pp. 63 ss.; J. Curran, “Constantine and the ancient cults of Rome: the legal evidence”, in Greece and Rome, 43 (1996), pp. 71-72.

 

[102] A qualche anno prima, come vedremo (infra pp. 119 ss.), risalgono il divieto di eseguire in privato i sacrifici legati alla aruspicina e le limitazioni per le pratiche divinatorie compiute in pubblico.

 

[103] Così A. Fraschetti, La conversione cit., p. 63.

 

[104] Si deve, sin da ora, avvertire che una certa oscillazione, nel presente contributo, fra l’impiego dei termini divinatio e aruspicina, si giustifica sulla base di due considerazioni. La prima considerazione attiene ad una oggettiva difficoltà di distinguere a quale ‘tecnica’, le fonti, di volta in volta citate, si riferiscano: se alla divinazione in generale, o se, specificamente, alla aruspicina. La seconda considerazione concerne, invece, la insufficiente messa a punto, in dottrina, della distinzione fra le diverse ipotesi di divinazione, soprattutto con riguardo al sistema giuridico-religioso romano, con la conseguenza che non è sempre chiaro se una certa ricostruzione scientifica delle fonti si riferisca alla divinatio o alla aruspicina. Da parte nostra, abbiamo utilizzato il termine divinazione come termine generale per alludere a tutte quelle tecniche necessarie a conoscere “la volontà della divinità, attraverso i segni che essa manda agli uomini o attraverso la voce di uomini ispirati” (così, M. Sordi, “Presentazione”, in Aa.Vv., La profezia nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Milano 1993, pp. VII-VIII), delle quali tecniche la aruspicina è solo una delle tante. Anche se la aruspicina doveva avere regole e tecniche specifiche rispetto a quelle proprie delle altre forme di divinazione, alcune riflessioni critiche sulla divinazione in generale dovettero influenzare la legislazione costantiniana in materia di aruspicina. Si spiega così, nel nostro contributo, una oscillazione terminologica, con la quale si è voluto alludere alla contaminazione culturale fra le diverse tecniche. Per un tentativo, interessante, ma insufficiente per una analisi giuridica, si veda, però, C. Milani, “Note sul lessico della divinazione nel mondo antico”, ibidem, pp. 31-49. Sulla repressione della divinazione, in generale, per un primo esame, si vedano: L. Desanti, “La repressione della scienza divinatoria in età del Principato”, in Aa.Vv., Idee vecchie nuove sul diritto criminale romano (a cura di A. Burdese), Padova 1988, pp. 225-240 ss.; Ead., Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 11 ss., con rinvii alle fonti e alla bibliografia.

 

[105] Basti pensare, a tacere d’altro, alle disposizioni impartite in materia da Augusto (Dione Cassio 56,25,5) o da Tiberio (Svetonio, Tib. 63,2). Cfr., da ultimo, con rinvii alla bibliografia, L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 31 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 47 e ntt. 12-13; 48 nt. 17; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2”, in Nozione formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli 1997, pp. 171 ss.

 

[106] Sulla legislazione costantiniana in tema di aruspicina, per un primo esame, si vedano: M.A. Kugener, “Constantin et l’art fulgural des haruspices”, in Revue de l’instruction publique en Belgique, 56 (1913), pp. 138 ss.; H. Karpp, op. cit., pp. 147 ss.; B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I. Orientamento religioso della legislazione cit., pp. 274 ss.; A.A. Barb, op. cit., pp. 118 ss.; T.D. Barnes, Constantine and Eusebius cit., pp. 211-212; 246-247; F. Lucrezi, op. cit., pp. 171 ss.; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 23 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 137 ss.; K. Harl, “Sacrifice and pagan belief in fifth- and sixth-century Byzantium”, in Past and Present, 128 (1990), pp. 7-26; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 169 ss.

 

[107] Si veda il contributo di F. Sini, “Aspetti giuridici e rituali della religione romana: sacrifici, vittime e interpretazioni dei sacerdoti”, in questa stessa pubblicazione, par. 4, dal quale contributo abbiamo tratto l’espressione riportata fra virgolette nel testo. Sulla nozione di hostia, in generale, si vedano: J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, 2 ed., Leipzig 1885, pp. 170 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2 ed., München 1912, pp. 410 ss.; C. Krause, “Hostia”, in Real-Enzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, suppl. 5, Stuttgart 1931, cc. 236 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. 209 ss.; G. Dumézil, op. cit., pp. 477 ss.; I. Chirassi Colombo, “Hostia”, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, p. 862; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, p. 197. Per una analisi, specificamente giuridica, della nozione di hostia, si veda ora F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino 1995, pp. 89 ss.

 

[108] La natura “straniera” e “privata” dei responsi degli aruspici giustifica l’antica diffidenza dei Romani per l’aruspicina. Si veda, a questo proposito, P. Catalano, “Aruspici”, in Novissimo Digesto Italiano, I², Torino 1965, p. 1019, il quale ricorda il noto ‘disprezzo’ di Catone per gli aruspici (Cicerone, div. 2,124,51). Sulla natura straniera degli aruspici, si vedano: J. Bayet, La religione romana. Storia politica e psicologica, tr. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959 (rist. Torino 1992), p. 143; G. Dumézil, op. cit., pp. 516 ss. Sulla teoria ciceroniana della divinazione, si veda F. Guillaumont, Philosophe et augure. Recherches sur la théorie cicéronienne de la divination (Collection Latomus, 184), Bruxelles 1984, con rinvii alla bibliografia. Sugli aruspici, in generale, si vedano, inoltre, per un primo orientamento: A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’antiquité, IV, Paris 1882; Id., “Haruspices”, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III, Paris 1899, pp. 17-33; G. Blecher,De extispicio capita tria”, in Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten, 2 (1903-1905), pp. 171-245; C. Thulin, Die etruskische Disziplin, I-III, Göteborg 1906-1909; Id., “Haruspices”, in Real-Enzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, VII.2, Stuttgart 1912, cc. 2431-2468; Id.,Haruspices”, in Dizionario epigrafico di antichità romane (a cura di E. De Ruggero), III, Roma 1922, pp. 644 ss.; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, pp. 274 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, p. 157; R. Bloch, Les prodiges dans l’antiquité classique, Paris 1963, pp. 56 ss.; B. MacBain, Prodigy and expiation: a study in religion and politics in Republican Rome (Collection Latomus, 177), Bruxelles 1982, pp. 43 ss.; D. Sabbatucci, Divinazione e cosmologia, Milano 1989, pp. 141 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 11 ss.

 

[109] Così P. Catalano, “Aruspici” cit., p. 1019.

 

[110] Cfr. F. Lucrezi, op. cit., p. 171.

 

[111] La circostanza che la costituzione riportata in CTh. 9,16,1 (datata 1 febbraio 319) sia indirizzata a Massimo, praefectus urbi solo a partire dal 1 settembre del 319, indusse Th. Mommsen, Codex Theodosianus, I², Textus, Berlin 1905, p. 459, a ritenere che essa fosse stata emanata nel settembre del 319, dopo, quindi, CTh. 9,16,2, che risulta datata 15 maggio 319. O. Seeck, Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart 1919, pp. 58; 169, ritenne che CTh. 9,16,1 dovesse essere attribuita al mese di febbraio del 320. Ad ogni modo, secondo Otto Seeck, le due costituzioni sarebbero versioni di un identico provvedimento, la cui pubblicazione, il prefetto non cristiano avrebbe tenacemente cercato di ostacolare. Tale ipotesi è stata confermata da C. Dupont, “Les textes constantiniens et le préfet de la Ville”, in Revue historique français et étranger, 47 (1969), p. 629. Alla opinione di Otto Seeck ha aderito L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 24 ss., al quale si rinvia per un esame compiuto dei problemi relativi alla datazione delle due costituzioni; si vedano, inoltre: F. Lucrezi, op. cit., p. 171 nt. 3; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., p. 137 e nt. 25; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 170.

 

[112] Su C. 9,18,3 si veda L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 182 ss.

 

[113] Con riferimento alla legislazione costantiniana in materia di consultazioni aruspicali, rileva ora la “marginalità sociale degli esperti di divinazione” V. Neri, I marginali nell’occidente tardoantico. Poveri, infames e criminali nella nascente società cristiana, Bari 1998, pp. 262 ss.

 

[114] Sul significato dell’inciso accusatorem autem huius criminis non delatorem esse, sed dignum magis praemio arbitramur, in CTh. 9,16,1, si veda L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 25, che ha individuato in esso una precisazione volta a impedire che Massimo, scoraggiando gli accusatori, potesse rendere di fatto inapplicabile la costituzione, con la minaccia di applicare la sanzione prevista dallo stesso Costantino per i delatori. Si vedano inoltre: T. Spagnuolo Vigorita, Exsecranda pernicies. Delatori e fisco nell’età di Costantino, Napoli 1984, pp. 34 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., p. 138 e nt. 28.

 

[115] Inaccettabile è la tesi di B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I. Orientamento religioso della legislazione cit., p. 274, il quale, per dimostrare come la legislazione di Costantino sulla aruspicina sia stata, a suo avviso, sempre coerente, attribuisce all’imperatore “un divieto generale della aruspicina”. Contra F. Lucrezi, op. cit., p. 176.

 

[116] Cfr. F. Casavola, “Prefazione” a L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. VI, il quale osserva: “Le costituzioni del 319 (CTh. 9.16.1 e 2), che vietano agli aruspici di entrare in case private sia pure di amici, obbligandoli a celebrare i loro riti soltanto in pubblico, libera luce, tendono evidentemente ad arginare l’esplorazione del futuro, in un’età in cui i fattori di insicurezza sociale dovevano oscurare di ansietà le esistenze individuali”. Sulla esigenza di un controllo politico della divinazione, si vedano, inoltre: J. Carlier, “Divinazione”, in Enciclopedia Einaudi, IV, Torino 1978, p. 1236; F. Lucrezi, op. cit., p. 189.

 

[117] Cfr. O. Seeck, op. cit., pp. 58; 169; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 24 ss.; F. Lucrezi, op. cit., p. 171 nt. 3. Si vedano, però: F. Sitzia, rec. a L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 82 (1979), p. 235; A. Di Mauro Todini, op. cit., p. 110; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 169 ss.

 

[118] Non è possibile in questa sede soffermarsi sui complessi e discussi problemi relativi alla datazione di questa costituzione. Oltre a quanto osservato sopra (alla nota 111), ci limitiamo qui a rilevare che con ogni probabilità la costituzione riprodotta in CTh. 9,16,2 è anteriore a quella riportata in CTh. 9,16,1: è stato, infatti, osservato (L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 25) che quest’ultima reca una precisazione che manca alla prima – precisamente quella relativa alla non punibilità degli accusatori – inciso, questo, che, non consentendo a Massenzio di utilizzare la minaccia di quelle sanzioni che lo stesso Costantino aveva previsto per i delatori, lascia intendere la volontà di vincere le resistenze mosse da parte non cristiana nella concreta applicazione della legge.

 

[119] Cfr. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, Roma-Bari 1983, p. 171, il quale osserva che la legislazione costantiniana, in materia di sacrifici connessi alla aruspicina, sarebbe stata “una concessione, e non un avallo di ciò che era stato tràdito, fatta forse per neutralizzare i rischi di tali pratiche, con il metterli direttamente sotto il proprio controllo”.

 

[120] Cfr. M.A. Kugener, op. cit., pp. 138 ss.; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 26; F. Lucrezi, op. cit., pp. 173 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 140 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 176.

 

[121] Cfr. A. Piganiol, L’empereur Constantin, Paris 1932, p. 127; F. Heim, “Le auspices publics de Constantin à Théodose”, in Ktema, 13 (1988), pp. 43 ss.; A. Fraschetti, La conversione cit., p. 70.

 

[122] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 31 ss.

 

[123] Cfr. L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., p. 142; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 176.

 

[124] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 28 e nt. 29; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 172 ss.

 

[125] Livio 39,16,7: Hac vos religione innumerabilia decreta pontificum, senatus consulta, haruspicum denique responsa, liberant.

 

[126] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 28 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 173.

 

[127] Così G. Cervenca, “La riforma di Diocleziano”, in Aa.Vv., Lineamenti di Storia del diritto romano (sotto la direzione di M. Talamanca), 2 ed., Milano 1989, p. 538.

 

[128] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 28 ss., il quale richiama C. 9,8,7; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 169 ss. Sulla disciplina emanata dagli imperatori non cristiani in merito alla astrologia si vedano, anzitutto, i contributi di: F.H. Cramer, “Expulsion of astrologers from ancient Rome”, in Classica et Mediaevalia, 13 (1951), pp. 9 ss.; Id., “The Caesars and the stars”, in Seminar, 9 (1951), pp. 1 ss.; 10, (1952), pp. 1 ss.; contributi poi sostanzialmente confluiti in: Id., Astrology in Roman law and politics, Philadelphia 1954. Si vedano, inoltre: L. Desanti, “La repressione della scienza divinatoria” cit., p. 225 e nt. 2; Ead., Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 161 ss.; Ead., “Astrologi: eretici o pagani? Un problema esegetico”, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, X Convegno Internazionale in onore di Arnaldo Biscardi, Napoli 1995, pp. 687-696, con rinvii alla letteratura.

 

[129] Si veda Lattanzio, mort. pers. 11,7, il quale racconta che Diocleziano, prima di dare il via alle persecuzioni contro i cristiani, avrebbe inviato un aruspice ad Apollo Milesio. Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 28 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 173 ss.

 

[130] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 31, che cita Zosimo 2,16,1; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 174.

 

[131] Cfr. L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 170.

 

[132] Dione Cassio 56,25,5, riferisce di una disposizione di Augusto che proibiva agli indovini di fornire responsi sulla morte delle persone. Secondo Svetonio, Tib. 63, Tiberio avrebbe confermato tale misura. Si vedano, in proposito: L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 32-33; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 46 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 170 ss.

 

[133] L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 32 ss., ha correttamente rivendicato il carattere di originalità della legislazione costantiniana in materia di aruspicina, osservando che Costantino mostra nei riguardi della aruspicina “un disprezzo che ne riguarda anche quelle manifestazioni pubbliche ed ufficiali pur ritenute giuridicamente lecite”; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 174 ss.

 

[134] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 38 ss.

 

[135] Sulla influenza di Lattanzio sulla legislazione costantiniana, si vedano: C. Ferrini, “Le cognizioni giuridiche di Lattanzio, Arnobio e Minucio Felice”, in Memorie Accademia Scienze Modena, s. II, 10 (1894), pp. 195 ss. (=Id., Opere, 2, Milano 1929, pp. 467 ss.; 483 ss.); F. Amarelli, “Il De mortibus persecutorum nei suoi rapporti con l’ideologia coeva”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 36 (1970), pp. 234 ss.; T.D. Barnes, “Lactantius and Constantine”, in Journal of Roman Studies, 63 (1973), pp. 29 ss.; F. Amarelli, Vetustas-innovatio. Un’antitesi apparente nella legislazione di Costantino, Napoli 1978, pp. 47 ss.; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 39; M.P. Baccari, “Il conubium nella legislazione di Costantino” cit., in part. paragrafo 5, con ulteriori rinvii alla letteratura; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 173 ss.

 

[136] Lattanzio, mort. pers. 10,1-4.

 

[137] Eusebio, hist. eccl. 6,41,1; vita Const. 2,50.

 

[138] Lampridio, Alex. 43,7. Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 39 e nt. 65.

 

[139] Conc. Ancyr. can. 23: Qui auguria vel auspicia, sive somnia vel divinationes quaslibet, secundum morem Gentilium observant, aut in domos suas huiusmodi homines introducunt in exquirendis aliquibus arte malefica, aut ut domos suas lustrent; confessi, quinquennio poenitentiam agant, secundum regulas antiquitus constitutas. Nel IV sec., il concilio di Laodicea giunge a proibire espressamente per i cristiani la produzione di amuleti ed ogni altro comportamento riconducibile alla magia. Sulle accuse ai cristiani di praticare la magia, si vedano: A.A. Barb, op. cit., pp. 117 ss.; F. Lucrezi, op. cit., p. 184 e nt. 68; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 40; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 189 ss.; W.A. Meeks, I Cristiani dei primi secoli. Il mondo sociale dell’apostolo Paolo, tr. it. di A. Pradi, Bologna 1992, p. 354 e nt. 6; L. Desanti, “Astrologi: eretici o pagani” cit., pp. 695 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 176.

 

[140] L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 41; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 176.

 

[141] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 40; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 194 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 176.

 

[142] Paneg. 9,2,4; 9,4,4.

 

[143] Zosimo 2,29,4. Su questo aspetto della conversione di Costantino si vedano: F. Paschoud, “Zosime 2,29 et la version païenne de la conversion de Constantin” cit., pp. 334-353; G. Zucchelli, “La propaganda anticostantiniana e la falsificazione storica in Zosimo”, in Aa.Vv., I canali della propaganda nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Milano 1976, pp. 229 ss.; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 42 nt. 75; A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 87 ss. Sul racconto di Zosimo, in merito alla conversione di Costantino, v. supra pp. 101 ss.

 

[144] Quanto alla intenzione dell’imperatore di esprimere la sua “personale estraneità, anche sul piano religioso, nei confronti di tutti gli aspetti, privati e pubblici, attraverso cui gli aruspici solevano svolgere le loro cerimonie”, cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 36, il quale osserva a ragione che anche l’uso di aggettivi e pronomi – vestra e vos – “può farci capire come Costantino voglia far comprendere ai sudditi di essere lontano da questa superstiziosa tradizione dei padri”; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 175.

 

[145] Cfr. L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., p. 142, la quale osserva, a proposito di CTh. 16,10,1: “In definitiva, pare di capire che Costantino, nell’interdire l’aruspicina segreta, abbia avuto di mira proprio l’ispezione delle viscere, anziché l’esame dei fulmini o del volo degli uccelli. I sacrifici sembrano essere stata la principale preoccupazione di Costantino”.

 

[146] Sullo svuotamento di significato delle cerimonie precristiane, v. supra pp. 117 ss.

 

[147] Porfirio, ad Aneb. 29. Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 54 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 178 ss.

 

[148] Giamblico, myst. 3,13. Sulla insofferenza verso i riti divinatori si vedano: L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 52 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 195 ss. nt. 52; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 179 ss.

 

[149] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 65, con rinvii alla dottrina.

 

[150] La letteratura sulla persecuzione della magia, nella esperienza giuridica romana, è assai vasta. Per un primo ragguaglio bibliografico, si rinvia a: B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1989, p. 97; V. Giuffrè, La ‘repressione criminale’ nell’esperienza romana. Profili, 3 ed., Napoli 1993, pp. 92-93; 169. Sulla distinzione fra magia e religione, insiste, con particolare energia, P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale cit., pp. 136 nt. 66, il quale osserva la necessità di superare la tesi della “origine esclusivamente magica, presso tutti i popoli, della divinazione” e (p. 153) “il preconcetto evoluzionistico dell’origine magica anche degli istituti religiosi romani”. Di recente D. Sabbatucci, “Divinazione sotto giudizio”, in Sibille e linguaggi oracolari. Mito Storia Tradizione. Atti del convegno internazionale di studi, Macerata-Norcia 20-24 settembre 1994 (a cura di I. Chirassi Colombo-T. Seppilli), Pisa-Roma 1998, p. 39, ha espresso l’intendimento di “non definire il concetto di divinazione, ma rilevare l’esigenza storico-religiosa di relativizzarlo alla cultura per la quale viene usato – relativizzarlo, cioè, ad un determinato sistema di valori”.

 

[151] Nel Concilio di Elvira, dei primi del IV secolo, la Chiesa (v. can. 6) aveva previsto di negare la comunione, anche in punto di morte, a coloro che avessero compiuto malefici a danno di altri: sul punto, si veda L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 68.

 

[152] Sul rapporto tra Costantino e l’aristocrazia, si veda ora M. Marcone, “Costantino e l’aristocrazia pagana”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo cit., II, pp. 645 ss., con interessanti osservazioni anche per quanto attiene al rifiuto di compiere sacrifici.

 

[153] Sulla distinzione fra una divinazione pubblica e una divinazione privata, si veda D. Grodzynski, “Per bocca dell’imperatore (Roma, IV secolo)”, in Aa.Vv., Divinazione e razionalità. I procedimenti mentali e gli influssi della scienza divinatoria (a cura di J.P. Vernant), tr. it. di L. Zella, Torno 1982, p. 301, la quale osserva che “nella pratica della divinazione, si devono distinguere due elementi: l’oggetto sul quale verte la consultazione (persona privata o imperatore, oppure, più generalmente, affare privato o affare pubblico), e il modo in cui si consulta (in privato o in pubblico)”. J. Carlier, op. cit., p. 1236, rileva come nel IV secolo d.C., “il potere non contesta l’efficacia soprannaturale della divinazione, anzi la teme proprio per la sua efficacia, e conduce contro di essa una lotta che la condannerà alla clandestinità”. Si vedano, inoltre: L. Desanti, “La repressione della scienza divinatoria in età del Principato” cit., pp. 225-240 ss.; Ead., Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 11 ss., con rinvii alle fonti e alla bibliografia. Cfr., inoltre, L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 76; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 174 ss.

 

[154] Cfr. F. Lucrezi, op. cit., pp. 185 ss.

 

[155] D. Grodzynski, “Per bocca dell’imperatore” cit., pp. 312 ss.

 

[156] CTh.16,10,12,1: Imppp. Theod(osius), Arcad(ius) et Honor(ius) AAA. ad Rufinum P(raefectum) P(raetorio). Quod si quispiam immolare hostiam sacrificaturus audebit aut spirantia exta consulere, ad exemplum maiestatis reus licita cunctis accusatione delatus excipiat sententiam conpetentem, etiamsi nihil contra salutem principum aut de salute quaesierit. Sufficit enim ad criminis molem naturae ipsius leges velle rescindere, inlicita perscrutari, occulta recludere, interdicta temptare, finem quaerere salutis alienae, spem alieni interitus polliceri. Dat. VI Id. Nov. Const(antino)p(oli) Arcad(io) A. II et Rufino Conss.

 

[157] Cfr. D. Grodzynski, “Per bocca dell’imperatore” cit., p. 313; G. Lanata, Legislazione e natura nelle novelle giustinianee, Napoli 1984, p. 195; P. Catalano, “Ius Romanum. Note sulla formazione del concetto”, in La nozione di “Romano” tra cittadinanza ed universalità, (=Atti del II Seminario internazionale di studi storici “Da Roma alla Terza Roma”, 21-23 aprile 1982, [collezione diretta da P. Catalano-P. Siniscalco]), Studi II, Napoli 1984, pp. 531 ss. (=Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, pp. 53 ss.); L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., p. 156.

 

[158] CTh. 9,16,5: Imp. Constantius A. ad Populum. Post Alia. Multi magicis artibus ausi elementa turbare vitas insontium labefactare non dubitant et manibus accitis audent ventilare, ut quisque suos conficiat malis artibus inimicos. Hos, quoniam naturae peregrini sunt, feralis pestis absumat. Dat. Prid. Non. Decemb. Med(iolano) Constantio A. VIIII et Iuliano Caes. II Conss.

 

[159] Sulle regole sacrificali nella Bibbia ebraica, v. infra p. 152 nt. 208. Sul concetto di ‘purità’, nella cultura ebraica, per un primo esame, si vedano: W. Paschen, Rein und Unrein, München 1970; I. Zatelli, Il campo lessicale degli aggettivi di purità in ebraico biblico, Firenze 1978; Aa.Vv., La purità e il culto nel Levitico: interpretazioni ebraiche e cristiane (=Annali di Storie dell’esegesi, 13/1), Bologna 1996.

 

[160] Sul rapporto tra mantica e profezia ebraica, si veda P. Sacchi, “La profezia in Israele”, in Aa.Vv., La profezia nel mondo antico cit., pp. 3-20.

 

[161] Cfr. Agostino, civ. 7,35; 21,6-7. Si veda anche quanto Agostino scrive, nel De civitate Dei (5,9-10), a proposito del De divinatione di Cicerone. Sull’atteggiamento della Patristica nei confronti della divinazione, si vedano: D. Grodzynski, “Per bocca dell’imperatore” cit., p. 316; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 188 ss.

 

[162] Sulla legislazione di Costanzo II in tema di divinazione, si veda L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., pp. 146 ss.

 

[163] CTh. 9,16,1: Nullus haruspex limen alterius accedat nec ob alteram cau­sam

 

[164] Insiste a ragione su questo aspetto D. Grodzynski, “Per bocca dell’imperatore” cit., pp. 313 ss., la quale rileva che “le leggi del Codice teodosiano, soprattutto dopo Costantino, pongono l’accento sul carattere riprovevole della curiositas divinandi … Tale curiositas è condannata più ancora della divinazione in se stessa”.

 

[165] Sul rapporto fra religione precristiana e la politica di Costanzo e Costante, si vedano: A. Pastorino, Cristianesimo e impero dopo Costantino (337-395 d.C.). Dispense di Storia Romana per gli Studenti della Facoltà di Magistero. Anno accademico 1971-72, Torino 1972, pp. 108 ss. Si vedano, inoltre: R.C. Blockley, Ammianus Marcellinus. A study of his historiography and political thought (Collection Latomus, 141), Bruxelles 1975, pp. 107 ss.; G. De Bonfils, “Alcune riflessioni sulla legislazione di Costanzo II e Costante”, in Accademia romanistica costantiniana, Atti del V Convegno Internazionale (Spello-Perugia-Bevagna-Sansepolcro, 14-17 ottobre 1981), Rimini 1983, p. 303; Id., Ammiano Marcellino e l’imperatore, Bari 1986, pp. 123 ss.; S. Montero, op. cit., pp. 81 ss.

 

[166] Sul libro XVI del Codice Teodosiano si veda L. De Giovanni, Il libro XVI del Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema di rapporti Chiesa-Stato, Napoli 1985, pp. 126 ss.

 

[167] Sulla costituzione si veda La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361) (a cura di P.O. Cuneo), Milano 1997, pp. 88 ss.

 

[168] Sul divieto dei sacrifici di animali, nella legislazione costantiniana in materia di aruspicina, v. supra pp. 119 ss.

 

[169] Del tutto immotivati sono i dubbi sulla reale proibizione, da parte di Costantino, dei sacrifici di animali espressi da J. Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, tr. it. di E. Dupré Theseider, Firenze 1957 (rist. Firenze 1990), pp. 378 ss. Cfr., in senso analogo alla nostra opinione, L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 141, al quale si rinvia per l’esame delle questioni relative alla datazione della costituzione di Costanzo. Non è altrettanto convincente, invece, l’opinione di chi, come F. Martroye, “Mesures prises par Constantin contre la superstition”, in Bulletin de la Société nationale des Antiquaires de France, (1915), pp. 280 ss., individua nella costituzione, testé citata, un semplice richiamo o una mera conferma del divieto dei sacrifici cruenti, disposto da Costantino in materia di aruspicina. Tale tesi si fonda, sia su un erudito, quanto vano, tentativo di collocare la costituzione nel 354, sia sulla interpretazione della nozione di superstitio, nelle disposizioni costantiniane, nel senso di “superstition au sens vulgaire”, come ad esempio sarebbero state le pratiche degli aruspici o i riti dei Lupercali.

 

[170] Il divieto è anche confermato da Sozomeno, hist. eccl.1,8, sul quale si veda L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas cit., p. 143.

 

[171] Sulla descrizione in Eusebio della proibizione da parte di Costantino dei culti precristiani, si vedano: R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea cit., pp. 253 ss.; T.D. Barnes, Constantine and Eusebius cit., pp. 211-212; 246-247; G. Bonamente, “La ‘svolta costantiniana’” cit., p. 114.

 

[172] Eusebio, laus Const. 8,1-9; vita Const. 2,45,1; 4,23; 4,75.

 

[173] Eusebio, laus Const. 2.

 

[174] Eusebio, vita Const. 4,25,1.

 

[175] Eusebio, laus Const. 8; vita Const. 3,54,1-7. Sulla distruzione dei templi, per un primo esame, si vedano: L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 95 ss.; G. Bonamente, “Sulla confisca dei beni mobili dei templi in epoca costantiniana”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo cit., II, pp. 172 ss.; Id., “La ‘svolta costantiniana’” cit., p. 112, il quale, nel ritenere che le disposizioni di Costantino in materia di politica ‘antipagana’ non possano essere lette come un compromesso fra ‘innovazione’ e ‘tradizione’, osserva che l’imperatore “acconsentì alla distruzione di un numero limitatissimo di templi”. La circostanza che l’imperatore avrebbe disposto la restituzione degli idoli ai fedeli attesterebbe “che le cerimonie tradizionali dei templi non erano state vietate in maniera generale e assoluta, tanto che Costantino stesso si preoccupava di smentire le voci diffuse in tal senso”; R. Klein, “Distruzione dei templi nella tarda antichità. Un problema politico, culturale e sociale”, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, X Convegno Internazionale in onore di Arnaldo Biscardi cit., pp. 131 ss.

 

[176] Eusebio, vita Const. 3,58,2.

 

[177] Testimonianza evidente delle resistenze non cristiane alla lotta contro i sacrifici, è anche la costituzione di Costanzo, indirizzata a Tauro, prefetto del pretorio per l’Italia e l’Africa: CTh. 16,10,4: Impp. Constantius et Constans AA. ad Taurum P(raefectum) P(raetori)o. Placuit omnibus locis adque urbibus universis claudi protinus templa et accessu vetito omnibus licentiam delinquendi perditis abnegari. Volumus etiam cunctos sacrificiis abstinere. Quod si quis aliquid forte huismo­di perpetraverit, gladio ultore sternatur. Facultates etiam perempti fisco decernimus vindicari et similiter adfigi rectores provinciarum, si facinora vindicare neglexerint. Dat. Kal. Dec. Constantio IIII et Constante III AA. Conss. Per una analisi compiuta della questione relativa alla datazione della costituzione, riportata in CTh. 16,10,4, si rinvia a L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 139 ss. Si veda, inoltre, A. Di Berardino, “I cristiani e la città antica nell’evoluzione religiosa del IV secolo”, in Cristianesimo e istituzioni politiche. Da Costantino a Giustiniano (a cura di E. dal Covolo-R. Uglione), Roma 1997, pp. 76 ss.

 

[178] Troppo rigida è l’affermazione di P. Brown, Potere e cristianesimo nella tarda antichità, tr. it. di M. Maniaci, Roma-Bari 1995, p. 26, secondo il quale, “la condanna da parte di Costantino dei sacrifici e la chiusura e la spoliazione di molti templi minarono ulteriormente l’autonomia culturale delle città. I notabili locali si videro negato il diritto a fare ricorso proprio a quei rituali religiosi che un tempo avevano offerto ad ogni città la possibilità di dare pubblica espressione al proprio senso di identità”. Sul rapporto fra la politica costantiniana e gli “intellettuali” non cristiani, si veda L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 151 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 177 ss.

 

[179] Cfr., in senso analogo, L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 144-145; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 174 ss.

 

[180] Sul rescritto, per tutti, si vedano: I. Karannaiopulos, “Konstantin der Grosse und Kaiserkult”, in Historia, 5 (1956), pp. 345 ss.; M.A. De Dominicis, “Il rescritto di Costantino agli Umbri. (Nuove osservazioni)”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 65 (1962), pp. 173 ss. (=Id., Scritti romanistici, Padova 1970, pp. 25 ss.); Id., “Un intervento legislativo di Costantino in materia religiosa”, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 10 (1963), pp. 189 ss. (=Id., Scritti romanistici cit., pp. 89 ss.); R. Andreotti, “Contributo alla discussione del rescritto costantiniano di Hispellum”, in Problemi di storia e archeologia dell’Umbria, Atti del I Convegno di Studi umbri, Perugia 1964, pp. 249 ss.; J. Gascou, “Le Rescrit d’Hispellum”, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire de l’École Française de Rome, 79 (1967), pp. 649 ss.; S.R.F. Price, “Between man and God: sacrifice in the Roman imperial cult”, in Journal of Roman Studies, 70 (1980), p. 40; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 134 ss.; K. Tabata, “The Date and Setting of the Constantinian Inscription of Hispellum (CIL XI,5265=ILS 705)”, in Studi classici e orientali, 45 (1995), pp. 369 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 174 ss.

 

[181] Sulla nozione di superstitio, si vedano: W.F. Otto, “Religio und superstitio”, in Archiv für Religionswissenschaft, 14 (1911), pp. 406 ss.; F. Martroye, “Mesures prises par Constantin contre la superstition” cit., pp. 280 ss.; M.A. De Dominicis, “Il significato di ‘superstitio’ nei testi giuridici dell’età costantiniana, in Annali Università Macerata, 7 (1931); I. Pfaff, “Superstitio”, in Real-Enzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, IV.1, Stuttgart 1931, cc. 938 ss.; R.C. Ross, “Superstitio”, in The Classical Journal, 64 (1969), pp. 354 ss.; R. Andreotti, “Contributo alla discussione del rescritto costantiniano di Hispellum” cit., pp. 249 ss.; S. Calderone, “Superstitio”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 377 ss.; D. Grodzynski, “Superstitio”, in Revue des Etudes Anciennes, 76 (1974), pp. 36 ss.; L.F. Janssen, “Die Bedeutungsentwicklung von superstitio/supertes”, in Mnemosyne, 28 (1975), pp. 135 ss.; W. Belardi, Superstitio, Roma 1976, pp. 27 ss.; M.R. Salzman, “Superstitio in the Codex Theodosianus and the Persecution of Pagans”, in Vigiliae Christianae, 41 (1987), pp. 172 ss.; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 135 ss.; M. Sachot, Religio/superstitio. Histoire d’une subversion et d’un retournement, in Revue de l’Histoire des Religions, 208 (1991), pp. 355 ss.; W.A. Meeks, op. cit., p. 354 e nt. 6; F. Zuccotti, Furor haereticorum. Studi sul trattamento giuridico della follia e sulla persecuzione della eterodossia religiosa nella legislazione del tardo impero romano, Milano 1992, pp. 272 ss.; F. Sini, “Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 60 (1994), 65 ss.; M. Pérez Medina, “Superstitio en la legislación constantiniana”, in Florentia Iliberritana, 6 (1995), pp. 339-346; F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, pp. 60 ss.; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 174 ss.

 

[182] Così F. Stähelin, “Constantin d. Gr. und das Christentum”, in Zeitschrift für Schweizerische Geschichte, 17 (1937), pp. 411 ss. Si veda, però, L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 137 ss.

 

[183] L’espressione sacrifici domestici si trova in CTh. 16,10,1, sulla quale costituzione v. supra pp. 126 ss.

 

[184] V. supra pp. 123 ss.

 

[185] Cfr., in senso analogo, L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 144 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., p. 175.

 

[186] Non sembra cogliere bene questo aspetto G. Forni, “Flavia Constans Hispellum. Il tempio ed il pontefice della gente Flavia costantiniana”, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, IX Convegno Internazionale, Napoli 1993, p. 406, il quale si limita a rilevare che il rescritto agli ispellati dovrebbe essere ricondotto all’obiettivo di “rinsaldare la propria dinastia, assumendo una posizione di equidistanza sia dalla paganità occidentale, sia dalla cristianità incipiente, che mal avrebbero entrambe tollerato un dio vivente fra gli uomini, e cercando di svuotare all’interno la pratica rituale e il sentimento religioso a vantaggio dell’aspetto fastoso e spettacolare”.

 

[187] Sul punto si veda, per tutti, L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 149 ss., il quale richiama Filostorgio, hist. eccl. 2,17, e Teodoreto, hist. eccl. 1,34.

 

[188] Sulla legislazione costantiniana in materia di sacrifici, può aver assunto un peso determinante il più generale atteggiamento manifestato da Costantino nei confronti della violenza, sebbene, bisogna ammettere che sotto questo profilo una elasticità e una certa prudenza, nella ricostruzione dei diversi aspetti legati alla vita dell’imperatore, sia d’obbligo più che mai. Cfr. E. Butturini, “Dallo stato-religione alla religione di stato. Servizio militare e obiezione di coscienza dopo la svolta costantiniana”, in La pace nel mondo antico. Atti del convegno nazionale di studi, Torino 9-10-11 aprile (a cura di R. Uglione), Torino 1991, pp. 282 ss., il quale parla di “leggi piene di umanità”, a proposito, fra l’altro, di quelle che proibivano i giochi gladiatori o di quelle relative alle “pene deturpanti”. Si vedano, inoltre: J.J. Van De Casteele, “Indices d’une mentalité chrétienne dans la législation de Constantin”, in Bulletin de l’Association G. Budé, 14 (1955), pp. 86-90; E. Butturini, La croce e lo scettro. Dalla nonviolenza evangelica alla chiesa costantiniana, San Domenico di Fiesole 1990, pp. 36-58.

 

[189] CTh. 15,12,1 (cfr. C. 11,44,1). Sulla legge in materia di giochi gladiatori e sulla crudeltà dei giochi nell’arena, si veda quanto osservano, da un lato, Seneca, epist. 1,7,5, e, dall’altro, Lattanzio, inst. 6,20,10-12; epit. 58,3-5; Agostino, conf. 6,8,13, citati da L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 85-86; 93.

 

[190] Aurelio Vittore, Caes. 41,4-5.

 

[191] CTh. 9,40,2. Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 94.

 

[192] CTh. 9,3,1. Con riguardo a questa costituzione, R. Martini, “Su alcuni provvedimenti costantiniani di carattere sociale”, in questa stessa pubblicazione, paragrafo 5, a ragione osserva: “La cosa veramente importante è che tutto questo non viene disposto per i carcerati come potremmo pensare noi moderni, ossia per coloro che fossero stati condannati alla pena del carcere, ma, in conformità ai concetti del mondo antico, greco e romano, per coloro che fossero stati in attesa di giudizio”.

 

[193] Eusebio, vita Const. 3,58, racconta che Costantino avrebbe fatto delle donazioni ai poveri di Eliopoli. Si veda per un provvedimento analogo, a favore dei pupilli e delle vedove, Eusebio, vita Const. 4,28. Si ricordi ancora i provvedimenti a favore dei poveri d’Italia e d’Africa in CTh. 11,27,1-2. Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 88.

 

[194] G. Costa, Religione e politica nell’Impero romano, Torino 1923, p. 259.

 

[195] Sull’amore dell’imperatore Costantino per gli animali, si veda, però, il contributo di V. Poggi, “Perché in Sardegna Costantino è santo”, in questa stessa pubblicazione, in part. paragrafo 7.

 

[196] In questo senso sembrano ancora interpretare la costituzione C. Dupont, Le Droit Criminel dans les Constitutions de Constantin. Les infractions, Lille 1953, p. 105; M. Sargenti, “Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’imperatore Giuliano”, in Accademia romanistica costantiniana, Atti III Convegno Internazionale (Perugia-Trevi-Gualdo Tadino, 28 settembre-1º ottobre 1977), Perugia 1979, pp. 47 ss. (=Id., Studi sul diritto del tardo impero cit., pp. 208 ss.). Ritiene, invece, che la costituzione sia un esempio di misura a protezione degli animali D. Serrigny, Droit public et administratif romain, II, 1862, p. 273, (citato da C. Dupont, op. ult. cit., p. 105); A. Cosseddu, “Maltrattamento di animali”, in Digesto delle Discipline Penalistiche, VII, 4 ed., Torino 1993, p. 529, che cita CTh. 8,5,2 come esempio di una “tradizione peraltro, sicuramente già radicata nell’antichità, volta ad evitare trattamenti comportanti inutili sofferenze per gli animali”. Sul cursus publicus, si vedano, inoltre, con rinvii alla letteratura: F. De Martino, Storia della costituzione romana, V, 2 ed., Napoli 1975, pp. 302; 312-313; G.B. Impallomeni, “Una epigrafe concordiese in tema di ‘cursus publicus’ in probabile relazione con CTh. 8,5,12”, in Accademia romanistica costantiniana, Atti V Convegno Internazionale cit., pp. 329-334 (=Id., Scritti di diritto romano e tradizione romanistica. Pubblicati a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, Padova 1996, pp. 477-481); L. Di Paola, Viaggi, trasporti e istituzioni. Studi sul cursus publicus, Catanzaro 1999, con ampio esame della letteratura.

 

[197] Sulle res mancipi, per un primo esame, si vedano: P. Bonfante, “Res mancipi e res nec mancipi”, Roma 1888-89, pp. 1 ss. (=Id., “Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana. ‘Res mancipi e ‘res nec mancipi’”, in Id., Scritti giuridici varii, II. Proprietà e servitù, Torino 1926, pp. 1 ss.); F. De Visscher, “‘Mancipium’” et “‘res mancipi’”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 2 (1936), pp. 263 ss. (=Id., Nouvelles Études de droit romain, Milano 1949, pp. 193 ss.); F. Gallo, Studi sulla distinzione tra res mancipi e res nec mancipi, Torino 1958; G. Franciosi, “‘Res mancipi’ e ‘res nec mancipi’”, in Labeo, 5 (1959), pp. 370 ss.; G. Scherillo, “‘Res mancipi’ e ‘res nec mancipi- cose immobili e mobili”, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, pp. 83 ss.; B. Biondi, “‘Res mancipi” e “res nec mancipi’”, in Novissimo Digesto Italiano, XV, Torino 1968, pp. 568 ss.; L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorum nell’età repubblicana, I, Milano 1969, pp. 18 ss.; A. Corbino, Ricerche sulla configurazione originaria delle servitù, I, Milano 1981, pp. 51 ss.; M.V. Giangrieco Pessi, Ricerche sull’actio de pauperie dalle XII Tavole ad Ulpiano, Napoli 1995, pp. 138 ss.; Ead., “L’interpretatio prudentium nell’evoluzione dell’actio de pauperie: res mancipi e res nec mancipi”, in Nozione formazione e interpretazione del diritto cit., pp. 285 ss.

 

[198] La tutela degli animali, se in origine aveva trovato le sue naturali radici nei dettami di un sistema giuridico-religioso fortemente intriso da elementi naturalistici – pensiamo alla tradizione relativa al riposo sacrale degli animali (Catone, agr. 138; Columella 2,22; Dionisio d’Alicarnasso 1,33), al divieto di uccisione del bue da lavoro e alla menzione di esso come socius dell’uomo (Varrone, rust. 2,5,3-4; Columella 6 praef. 7; Plinio, nat. hist. 8,45;70) – dovette arricchirsi di nuovi contenuti, a seguito della nascita di forme di sfruttamento capitalistico della terra e del bestiame, divenendo funzionale alla necessità di proteggere il valore economico dei fattori di produzione. Tuttavia, anche in un tale ambiente, la preziosità delle res mancipi non dovette mai assumere le sembianze di un mero criterio di classificazione economica, ma continuò ad esprimere tutto un sistema di relazioni non solo economiche, ma anche affettive. Sotto questo profilo, si comprende come, nella polemica tra Sabiniani e Proculiani in merito agli animalia quae collo dorsove domantur, gli elefanti e i cammelli, pur potendo anch’essi coadiuvare l’uomo nel lavoro, non furono inclusi nel catalogo dei beni mancipi, evidentemente perché non potevano essere considerati ‘preziosi’ alla stessa maniera degli altri animali da tiro e da soma. Sul tema del riposo sacrale degli animali, si vedano: G. Wissowa, “Feriae”, in Real-Enzyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, 6.2, 1909, cc. 2211 ss.; Id., Religion und Kultus der Römer cit., pp. 433 ss.; B. Albanese, “La successione ereditaria in diritto romano antico”, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo, 20 (1949), p. 313; F. Gallo, Studi sulla distinzione tra res mancipi e res nec mancipi cit., pp. 51 ss.; P. Braun, “Les tabous des ‘feriae’”, in L’Année Sociologique, (1959), pp. 49 ss.; M. Andréev, “Les notions ‘familia’ et ‘pecunia’ dans le textes des XII tables”, in Acta antiqua Philippopolitana, 1, Studia historica et philologica, Sofia 1963, pp. 173-176; G. Diósdi, “‘Familia pecuniaque. Ein Beitrag zum altrömischen Eigentum”, in Acta antiqua Academiae scientia­rum Hungaricae, 12 (1964), pp. 87 ss.; G. Nicosia, “Animalia quae collo dorsove domantur”, in Iura, 18 (1967), pp. 62 e nt. 54 ss.; P. Voci, Diritto ereditario romano, I, 2 ed., Milano 1967, p. 31 e nt. 73. Per i problemi legati alla polemica tra Sabiniani e Proculiani, in merito agli animalia quae collo dorsove domantur, rinviamo alla lettura anzitutto di G. Nicosia, “Animalia quae collo dorsove domantur” cit., pp. 45 ss.; Id., “Il testo di Gai. 2.15 e la sua integrazione”, in Labeo, 14 (1968), pp. 167 ss. Si vedano, inoltre: A. Guarino, rec. a G. Nicosia, “Animalia quae collo dorsove domantur” cit., in Labeo, 14 (1968), pp. 227 ss. (=Id., “Collo dorsove domantur”, in Id., Pagine di diritto romano, VI, Napoli 1995, pp. 528 ss.); Id., “Ineptiae iuris romani”, in Daube noster. Essays in Legal history for D. Daube cit., pp. 119 ss. (=Id., “Elefanti che imbarazzano”, in Id., Pagine di diritto romano, II, Napoli 1993, pp. 313 ss.); G. Falchi, Le controversie tra Sabiniani e Proculeiani, Milano 1981, pp. 99 ss.

 

[199] Su questo tema, ci limitiamo a citare il recente contributo di C. Grottanelli, Il sacrificio cit., pp. 72 ss.

 

[200] Insiste, ora, “sulla comunione esistente tra uomini e animali”, nella “tradizione Cristiana”, A. Linzey, Teologia animale. I diritti animali nella prospettiva teologica, tr. it. di A. Arrigoni, Torino 1998, pp. 31 ss., con rinvii alla letteratura.

 

[201] Cfr. A. Gerken, Teologia dell’eucaristia, tr. it. di B. Mabritto-A. Bressan, Alba 1977, pp. 52 ss.; A. Donghi, “Eucaristia”, in Dizionario di mistica (a cura di L. Borriello-E. Caruana-M.R. Del Genio-N.Suffi), Città del Vaticano 1998, pp. 483 ss., con rinvii alla letteratura.

 

[202] San Paolo, Lettera agli Ebrei 7,27. La traduzione è di S. Cipriani, in Le lettere di S. Paolo (a cura di S. Cipriani), Assisi 1962, p. 780.

 

[203] Per una serrata critica di questo pregiudizio si vedano ora: J. Barr, “Uomo e natura. La controversia teologica e l’Antico Testamento”, in Aa.Vv., Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente (a cura di M. Tallacchini), tr. it. di A. Maccarini, Milano 1998, pp. 73 ss., il quale, a proposito della tesi secondo cui l’idea del predominio dell’uomo sulla natura risulterebbe dalla Genesi, rileva che “l’enfasi della Genesi non sembra riguardare il potere dell’uomo o le sue attività di sfruttamento … vi sono fattori che indicano che non si tratta semplicemente di una questione di potere o sfruttamento. Un punto strutturalmente importante, in linea generale, è il fatto che la più ovvia di tutte le relazioni tra uomo e animale, ossia l’uso di carne animale per nutrirsi, qui non viene presa in considerazione. In Genesi 1 si afferma esplicitamente che in principio l’uomo era vegetariano, come lo erano anche gli animali … l’autorità di mangiar carne animale viene espressamente conferita solo dopo il Diluvio: si veda Genesi 9,2-3 … Dunque il ‘dominio’ umano previsto da Genesi 1 non comprendeva l’idea di cibarsi degli animali, né implicava alcuna conseguenza terrorizzante per il mondo animale. Lo sfruttamento umano della vita degli animali non viene considerato come parte inevitabile dell’esistenza umana, come qualcosa di dato e anzi incoraggiato nelle condizioni ideali delle origini della creazione; tutt’al più, è qualcosa che viene dopo, dopo un deterioramento nella condizione umana, come una sorta di condizione sub-ottimale”; si vedano, inoltre: R. Attfield, “Gli atteggiamenti cristiani verso la natura”, ibidem, pp. 103 ss.; I.G. Barbour, “Ambiente e uomo”, ibidem, pp. 85 ss. Una critica nei confronti di questo pregiudizio si trova anche in A. Linzey, op. cit., pp. 66 ss., al quale si rinvia per l’analisi della letteratura; e nel recente volume, relativo al rapporto tra ecologia e ebraismo, Aa.Vv., Ecologia & ebraismo. Dove la natura e il sacro si incontrano (a cura di E. Bernstein), tr. it. di M. Freddi, Firenze 2000.

 

[204] G. Ditadi, I Filosofi e gli animali, Este 1994, p. 75.

 

[205] G. Ditadi, I Filosofi e gli animali cit., p. 3.

 

[206] Da ultimo, per l’atteggiamento dei cristiani fra II e III secolo nei confronti dell’ambiente naturale, si vedano i contributi di: E. Gallicet, “I cristiani del II e III secolo di fronte alla natura”, in L’uomo antico e la natura cit., pp. 305-322; A. Nazzaro, “La natura in Ambrogio di Milano”, ibidem, pp. 323-355; C. Moreschini, “Cosmo, natura e uomo nel mondo tardoantico”, ibidem, pp. 357-375.

 

[207] G. Ditadi, I Filosofi e gli animali cit., pp. 76 ss.

 

[208] Nella Bibbia, le regole relative al sacrificio e alla spartizione alimentare sono contenute in particolare nel Levitico, nel Deuteronomio e in alcuni passi tratti dai libri dei Numeri e dell’Esodo. In particolare modo, nel Levitico (1-7) sono distinte le varie specie di sacrifici animali: l’olocausto, il sacrificio di comunione, il sacrificio espiatorio, la Pasqua. Sul sacrificio nell’Antico Testamento, si vedano: R. Dussaud, Les origines cananéennes du sacrifice israélite, Paris 1941; L. Moraldi, Espiazione sacrificale e riti espiatori nell’ambiente biblico e nell’Antico Testamento, Roma 1956; R. De Vaux, Les sacrifices de l’Ancien Testament, Paris 1964; G.B. Gray, Sacrifice in the Old Testament, New York 1970; A.F. Rainey, “The order of sacrifices in Old Testament ritual”, in Biblica, 51 (1970), pp. 485 ss.; M.G. Amadasi Guzzo, “Sacrifici e banchetti: Bibbia ebraica e iscrizioni puniche”, in Aa.Vv., Sacrificio e società nel mondo antico cit., pp. 96-122; C. Grottanelli, “Aspetti del sacrificio nel mondo greco romano e nella Bibbia ebraica”, ibidem, pp. 123-162; N. Kiuchi, The Purification offering in the priestly literature. Its meaning and function, Sheffield 1987. Sugli animali nella Bibbia, si veda, da ultimo, Gli Animali e la Bibbia: i nostri minori fratelli (a cura di P. Stefani), Roma 1994.

 

[209] La tesi di un rifiuto del sacrificio, in senso alla cultura ebraica, è oggetto di critica da parte di H. Ringgren, Israele. I padri, l’epoca dei re, il giudaismo, tr. it. di M.R. Limiroli, Milano 1987, pp. 200 ss., il quale cita il Salmo 50 come esempio di un rifiuto solo apparente del sacrificio.

 

[210] L’ambiente nel quale operò Zarathustra è con una certa probabilità quello orientale dell’altopiano iranico, nell’area sud-orientale. Quanto al periodo, in cui egli avrebbe operato, si propende in letteratura per una cronologia alta, sulla fine del II millennio a.C. Sul punto, si veda G. Gnoli, “Zarathustra”, in Lessico universale italiano di lingua, lettere, arti, scienze e tecnica, XXIV, Roma 1981, p. 684.

 

[211] Cfr. G. Gnoli, op. cit., p. 684, il quale osserva: “Pur essendo innegabile un valore simbolico e metaforico del linguaggio naturalistico delle Gatha e dell’Avesta più antico (G.G. Cameron, G.G. Gnoli, H.-P. Schmidt, S. Insler, M. Eliade), benché vi si sia opposti da varî punti di vista (J. Duchesne-Guillemin, V.I. Abaev), non si può negare neppure il valore sociale del messaggio zoroastriano che, anche per quanto riguarda il culto e il rito sacrificale sembra ergersi a difesa delle comunità di allevatori continuamente minacciate dalla furia guerresca delle ‘società di uomini’ espressione dell’aristocrazia guerriera. Non senza fondamento si è vista nella dottrina di Z(arathustra) la religione di uomini dediti all’agricoltura e alla pastorizia in un mondo ancora tutto dominato da capi militari che vivono di conquista e di guerra, un movimento di poveri sorto presso strati sociali diversi da quelli dominanti nella religione indiana dei Veda (A. Meillet). Da questo punto di vista, anche se vi è divergenza di opinioni sulla presunta condanna che Z(arathustra) avrebbe lanciato contro il sacrificio cruento del bestiame, specie bovino, e il rito di hama, analogo a quello indiano del soma (si sono dichiarati contro la tesi di una siffatta condanna, con diversi argomenti, M. Molé, M. Boyce), non c’è dubbio che la testimonianza di Z(arathustra) si inserisca nella più vasta dinamica dei fenomeni di reazione antisacrificale che si producono nelle società dedite all’allevamento (A.M. Di Nola)”. Di recente B. Schlerath, “Cibo degli dei e cibo degli uomini nella tradizione vedica”, in Homo edens. Regimi miti e pratiche dell’alimentazione nella civiltà del mediterraneo (a cura di O. Longo-P. Scarpi), Milano 1989, pp. 120 ss., pur riconoscendo che Zarathustra avrebbe espresso un “appassionato rifiuto … del sacrificio sanguinoso e crudele dei bovini”, ha però sostenuto senza particolari argomenti: “È assai probabile che Zarathustra non abbia rifiutato del tutto il sacrificio dei bovini, ma che abbia sostenuto solo un altro tipo di uccisione, verosimilmente senza versamento di sangue, così come si sacrifica in India”. Sul tema del vegetarianesimo di Zarathustra, si veda ora G. Ditadi, I Filosofi e gli animali cit., pp. 8 ss.; Id., “Premessa”, in Plutarco, L’intelligenza degli animali e la giustizia loro dovuta (a cura di G. Didati), Este 2000, pp. 52 ss.

 

[212] Traiamo la citazione da G. Ditadi, I Filosofi e gli animali cit., p. 8.

 

[213] Cfr. G. Ditadi, I Filosofi e gli animali cit., p. 9; Id., “Premessa” cit., p. 53.

 

[214] Traiamo la citazione da G. Ditadi, I Filosofi e gli animali cit., p. 9.

 

[215] Bundahishn, 4. Cfr. G. Ditadi, I Filosofi e gli animali cit., p. 7; Id., “Premessa” cit., pp. 47 ss.

 

[216] Si veda, però, C. Grottanelli, Il sacrificio cit., pp. 83 ss., il quale, richiama l’attenzione sulla permanenza, in seno alla religione cristiana, di sacrifici di animali.

 

[217] Matteo 9,13. Per il testo (e la relativa traduzione), si veda La bibbia di Gerusalemme cit., p. 2105.

 

[218] Marco 12,30. Per il testo (e la relativa traduzione), si veda La bibbia di Gerusalemme cit., p. 2181.

 

[219] Arnobio si sofferma in vari luoghi della sua opera sulla inutilità del sacrificio di animali: si veda, ad es., Arnobio, nat. 7,3-4; 7,27-29. Sul tema, si vedano: O. Gigon, “Arnobio: cristianesimo e mondo romano”, in Aa.Vv., Mondo classico e Cristianesimo, Roma 1982, pp. 94 ss.; F. Mora, Arnobio e i culti di mistero. Analisi storico-religiosa del V libro dell’Adversus Nationes, Roma 1994, pp. 19 ss.; G.M. Pintus, “Sacrifici animali e dèi di coccio (Arn., adv. nat. VII)”, in L’Africa romana. Atti dell’XI convegno di studio. Cartagine, 15-18 dicembre 1994 (a cura di M. Khanoussi-P. Ruggeri-C. Vismara), Ozieri 1996, pp. 1629-1636.

 

[220] Cfr. G.M. Pintus, op. cit., p. 1630, la quale osserva che, in Arnobio, “il virulento attacco contro il sacrificio delle religioni politeiste si basa su due punti principali: la menzogna della divinità e l’inutilità dell’offerta. Gli dei pagani sono, infatti, ‘dei di bronzo, dei di coccio, di gesso, di marmo’, e la conseguenza immediata è la stoltezza dell’uomo”.

 

[221] Cfr. G.M. Pintus, op. cit., p. 1632.

 

[222] Cfr. S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, 2 ed., Bologna 1928, p. 585 nt. 1, il quale osserva che “fera bestia non vuol dire bestia feroce”, potendo essere considerato tale anche un canarino. Le ferae bestiae sono gli animali selvatici, la cui specie l’uomo non ha ancora assoggettata, senza che sia rilevante la circostanza che singoli capi siano mansueti. Sulla classificazione delle ferae bestiae, si vedano, inoltre: L. Landucci, “Il diritto di proprietà e il diritto di caccia presso i romani”, in Archivio Giuridico ‘Filippo Serafini’, 29 (1882), pp. 307 ss.; Id., “Caccia”, in Enciclopedia Giuridica, parte I, sez. I, Milano 1898, p. 15; F. Glück, Commentario alle Pandette, tr. it. di S. Perozzi, 41, Milano 1905, p. 52; M.J. Garcia Garrido, “Derecho a la caza y ‘ius prohibendi’”, in Anuario de historia del derecho español, 26 (1956), p. 278; P. Bonfante, Corso di diritto romano, II. La proprietà, parte II, Milano 1968, p. 75; G. Polara, Le venationes”. Fenomeno economico e costruzione giuridica, Milano 1983, pp. 7 ss.; A. Ortega y Carrillo de Albornoz, “Las ‘ferae bestiae’ en el derecho romano, en el Código civil y en la ley de caza de 1970”, in Cuadernos informativos de derecho histórico público, procesal y de la navegación, 4-5 (1987), pp. 483 ss.; O. Longo, “Le regole della caccia nel mondo greco-romano”, in Aufidus, 1 (1987), pp. 59 ss.

 

[223] Cfr. infra pp. 165 ss. e nt. 244; 168 ss.

 

[224] Sul consortium ercto non cito e i rapporti storici con la societas, si vedano, con ulteriore bibliografia: V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano, Napoli 1950, pp. 3 ss.; M. Bretone, “‘Consortium’ e ‘communio’”, in Labeo, 6 (1960), pp. 163 ss.; A. Torrent, “Consortium ercto non cito”, in Anuario de historia del derecho español, 34 (1964), pp. 479 ss.; M.G. Bianchini, Studi sulla societas, Milano 1967; M. Kaser, “Neue Literatur zur ‘societas, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 41 (1975), pp. 278 ss.; Tondo, “Il consorzio domestico nella Roma antica”, in Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria, 40 (1975), pp. 131 ss.; A. d’Ors, “‘Societas’ y ‘consortium’”, in Revista de estudios históricos-jurídicos de la Universidad Católica de Valparaíso, 2 (1977), pp. 33 ss.; L. Gutierrez Masson, Del consortium a la societas”, I. Consortium ercto non cito, Madrid 1987; M. Talamanca, “Società (Diritto romano)”, in Enciclopedia del diritto, XLII, Milano 1990, pp. 814 ss.

 

[225] V. supra p. 149 nt.198; infra p. 168.

 

[226] Cfr. G.M. Pintus, op. cit., p. 1633.

 

[227] Come non prendere in considerazione la ricca tradizione relativa all’operato dei Santi? Pensiamo a San Rocco e al suo cane; a San Francesco d’Assisi; a Sant’Antonio Abate, l’amico dei leoni, o ancora a Sant’Antonio da Padova che predicava ai pesci. Sul legame tra i Santi e gli animali, si veda F. Rossetti, Gli animali che vissero con i Santi, Assisi 1995. Si vedano, inoltre: P. Dronke, “La creazione degli animali”, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto medioevo, 7-13 aprile 1983 (Settimane di studio sull’alto medioevo, XXXI), Spoleto 1985, pp. 809-848; P. Boglioni, “Il santo e gli animali nell’alto medioevo”, ibidem, pp. 935-993. Sulla concezione del mondo animale in San Francesco, si veda A. Marini, Sorores alaudae. Francesco d’Assisi, il Creato, gli animali, Assisi 1989.

 

[228] Sulla visione del mondo animale nei Padri della Chiesa, si veda Uomini e animali visti dai padri della chiesa (a cura di E. Bianchi), Magnano 1997.

 

[229] Quanto al magistero pontificio, si deve a Pio XII l’affermazione, secondo la quale “il mondo animale merita il rispetto e la considerazione dell’uomo, ed ogni atto di crudeltà verso di esso va senza altro condannato ed inoltre rende brutale l’uomo” (citato in E. Fusaro, Meraviglie di natura e di animali, Venezia 1976, p. 152). La sua voce non fu isolata, se anche Paolo VI, nell’ottobre del 1969, rivolgendosi al Consiglio direttivo del Fondo Mondiale per la natura, osservò: “Sebbene l’uomo sia il padrone della natura, egli non deve distruggerla. Egli deve ammirarla, esplorarla e conoscerla. Egli coltiva la terra ed alleva animali. Quante volte la Sacra Scrittura si riferisce alla coltivazione della terra, alla pesca, al pascolo delle pecore e dei bovini …”. In occasione di una riunione, tenutasi a Stoccolma nel 1970, per l’Anno della preservazione della Natura, egli scrisse ai congressisti: “Nessuno può appropriarsi in modo assoluto ed egoistico dei beni ambientali, che non sono res nullius, proprietà di nessuno, ma res omnium, patrimonio della Umanità ed il loro uso deve essere regolato per il bene di tutti”. E ancora, nella Udienza generale del 4 ottobre 1972: “Gli animali sono la parte più piccola della Creazione divina, ma un giorno noi li vedremo nel mistero del Cristo” (per queste testimonianze sul pensiero di Paolo VI, si veda E. Fusaro, op. cit., p. 23). In occasione del messaggio pronunciato per la Giornata Mondiale della pace, l’8 dicembre 1989, Giovanni Paolo II ha dichiarato (si veda L’Osservatore Romano, supplemento, mercoledì 6 dicembre 1989): “Si avverte ai nostri giorni la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata, oltre che dalla corsa agli armamenti, dai conflitti regionali e dalle ingiustizie tuttora esistenti nei popoli e tra le nazioni, anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle sue risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita. Tale situazione genera un senso di precarietà e di insicurezza che a sua volta favorisce forme di egoismo collettivo, di accaparramento e di prevaricazione. Di fronte al diffuso degrado ambientale l’umanità si rende conto che non si può continuare a usare i beni della terra come nel passato. L’opinione pubblica e i responsabili politici ne sono preoccupati, mentre studiosi delle più diverse discipline ne esaminano le cause. Sta così formandosi una coscienza ecologica, che non deve essere mortificata ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete”. Come è stato osservato (N. Lanzi, “Prefazione” a Giovanni Paolo II, La visione cristiana dell’ambiente. Testi del magistero pontificio scelti a cura di Padre Bernardo J. Przewozny, Pisa 1991, p. 8; si leggano, inoltre, le osservazioni introduttive al libro a cura di B.J. Przewozny, “L’ambiente nel magistero di Giovanni Paolo II”, p. 31), la circostanza che l’Uomo sia chiamato a dominare il creato (secondo Gen. 1,26,28) non significa che egli sia “padrone assoluto della natura secondo il pensiero cartesiano. Dominare e costruire, infatti, non ha mai significato saccheggiare, né la natura può essere ridotta a cosa da usare e sfruttare soltanto”. Si vedano, però, i due editoriali apparsi di recente in La Civiltà Cattolica – il primo dal titolo: “Gli animali hanno ‘diritti’”, in La Civiltà Cattolica, 3568 (1999), pp. 319-331; il secondo dal titolo: “Il rapporto uomo-natura nella visione cristiana. È lecita la sperimentazione sugli animali?”, in La Civiltà Cattolica, 3570 (1999), pp. 531-543 – editoriali che hanno suscitato una aspra polemica fra alcuni lettori e i Gesuiti, i quali hanno risposto, alle accuse dei primi di insensibilità verso gli animali, con un intervento di G. De Rosa S.I., “Gesuiti, vergognatevi!”, in La Civiltà Cattolica, 3575 (1999), pp. 477-481. La comune partecipazione di tutte le creature viventi al Mistero della Creazione è una idea già presente in Paolo, nella Lettera ai Romani (8,22): “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto”. Non a caso, come ha osservato E. Fusaro, op. cit., p. 142: “Paolo chiama il Cristo Risorto, non Primogenito dell’umanità, ma Primogenito di tutte le Creature”. Tale idea è ora un messaggio contenuto nel Catechismo della Chiesa cattolica (Catechismo della Chiesa cattolica, Città del Vaticano 1992, p. 101): “339 Le varie creature, volute nel loro proprio essere, riflettono, ognuna a suo modo, un raggio dell’infinità sapienza e bontà di Dio. Per questo l’uomo deve rispettare la bontà propria di ogni creatura, per evitare un uso disordinato delle cose, che disprezza il Creatore e comporta conseguenze nefaste per gli uomini e per il loro ambiente. 340 L’ordine e l’armonia del mondo creato risultano dalla diversità degli esseri e dalle relazioni esistenti tra loro. La bellezza della creazione riflette la bellezza infinita del Creatore”.

 

[230] Sulla concezione cristiana dell’ambiente, si veda Aa.Vv., Ambiente e tradizione cristiana, Brescia 1990, ove sono raccolte le relazioni presentate al Convegno di studi nazionale delle ACLI su: “Ambiente e tradizione cristiana”, tenutosi a Milano, il 19 novembre 1988; e gli interventi tenuti al forum su: “La questione ambientale e la tradizione cristiana”, organizzato dalle ACLI e dalla Associazione Anni Verdi, il 22 giugno 1988, a Roma.

 

[231] Nel libro di E. Fusaro, op. cit., p. 141, leggo: “Il S. Ufficio richiesto se sia peccaminoso torturare i muti animali, rispose: ‘Sì’. E richiesto ancora se tali peccati siano degradanti per l’anima umana rispose ‘Sì’. E richiesto ancora se gli animali hanno diritti di qualche tipo (Ratione Creatoris et ratione ordinis naturae) nei confronti dei loro padroni, rispose: ‘Sì’…”.

 

[232] Sul rifiuto del sacrificio cruento, si vedano: E. Tagliaferro, “Anaimaktos thusia-logike thusia. A proposito della critica al sacrificio cruento”, in Sangue e antropologia nella liturgia, Atti della 4 settimana, Roma 21-26 novembre 1983 (a cura di F. Vattioni), III, Roma 1983, pp. 1573-1595; C. Grottanelli, “Appunti sulla fine dei sacrifici”, in Egitto e Vicino Oriente, 12 (1989), pp. 175-192; Id., Il sacrificio cit., 70 ss.

 

[233] Sul vegetarianismo esiste una vasta bibliografia. Per una visione complessiva relativa all’antichità, l’opera classica è ancora quella di J. Haussleiter, Der Vegetarismus in der Antike, Berlin 1935. Si vedano, inoltre: M.V. Bacigalupo, op. cit., pp. 11 ss.; M. Detienne, “La cuisine de Pythagore”, in Archives de sociologie des religions, 29 (1970), pp. 141-162; D.A. Dombrowski, The Philosophy of Vegetarianism, Toronto 1984; F. Della Corte, “Il vegetarismo di Ovidio”, in Opuscola, 10, Genova 1987, pp. 167-176; D.A. Dombrowski, “Porphiry and vegetarianism: a contemporary philosophical approach”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.36.2, Berlin-New York 1987, pp. 774-791; F.J. Simoons, Non mangerai di questa carne, tr. it. di A. Buzzi, Milano 1991; G. Camassa, op. cit., pp. 90 ss.; C. Grottanelli, Il sacrificio cit., pp. 70 ss., con rinvii alla letteratura.

 

[234] Nella filosofia greca, l’idea della affinità tra gli uomini e gli altri esseri animati era stata affermata sul presupposto del possesso della ragione da parte degli animali non umani. Sul tema, si veda, anzitutto, M. Detienne, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, tr. it. di A. Giardina, Roma-Bari 1978, pp. 3 ss., il quale rileva che, nella cultura greca, dèi, uomini e animali sono uniti dal possesso della metis, una sorta di intelligenza propria del polipo e della volpe, come del politico e del sofista; sul tema della ragione animale, si vedano, inoltre: H.E. Ziegler, Der Begriff des Instinktes einst und jetzt. Eine Studie über die Geschichte und die Grundlagen der Tierpsychologie, Jena 1920; M. Pohlenz, “Tierische und menschliche Intelligenz bei Poseidonios, in Hermes, 76 (1941), pp. 1-13; M. Thomas, “Les anciens philosophes et le problème de l’instinct”, in Scientia. Rivista internazionale di sintesi scientifica, 81 (1947), pp. 21-32; M.V. Bacigalupo, op. cit., pp. 35-50; L. Bodson, “Attitudes toward animals in Greco-Roman antiquity”, in International Journal for the study of animal problems, 4 (1983), pp. 312-320; J.L. Labarrière, Imagination humain et imagination animale chez Aristote, in Phronesis, 29 (1984) pp. 17-49; M. Vegetti, op. cit., pp. 19 ss.; G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico” cit., pp. 25 ss.; U. Dierauer, “Raison ou instinct? le développement de la zoopsychologie antique”, in L’animal dans l’antiquité cit., pp. 3-28.

 

[235] Su questo significato dell’astensione dai sacrifici cruenti, si veda M. Detienne, “Pratiche culinarie e spirito di sacrificio”, in Aa.Vv., La cucina del sacrificio in terra greca cit., pp. 12 ss., il quale, dopo avere osservato che la centralità del sacrificio di animali nel pensiero sociale e religioso dei Greci si giustifica in virtù della ‘coincidenza’ tra alimentazione carnea e pratica sacrificale, pone in rilievo la relazione fra il sacrificio e “la pratica dei rapporti sociali, a tutti i livelli del ‘politico’, all’interno del sistema che i greci chiamano polis”. In particolare, per i pitagorici, l’astensione dalla carne “non è semplicemente un comportamento anomalo: è un rifiuto intenzionale di compiere l’atto centrale della religione politica. Questo vegetarianismo dichiarato è un modo particolarmente efficace di ‘rinunciare al mondo’”. E ancora: “L’orfismo non conosce la tensione tra rinuncia al mondo e salvezza della città che contraddistingue la posizione dei pitagorici. Chi sceglie il genere di vita orfico è un marginale, un individuo votato al vagabondaggio ed escluso dalla città, da quando la voce di Orfeo, convertita in scrittura, ha rivelato agli uomini che chiunque uccide un animale, chiunque distrugge un essere vivente compie un omicidio (phonos). La città degli uomini è dunque fondata sull’omicidio, vive del sangue versato: il crimine è un’istituzione, gli esseri viventi si mangiano tra loro, è il regno dell’antropofagia legale … Il radicalismo dell’atteggiamento orfico si accompagna a una critica sistematica della teologia ufficiale e del discorso ‘ortodosso’ della città su se stessa, nei suoi rapporti con gli dèi e con il mondo animale, tra la sfera naturale e quella soprannaturale”. Sul valore ‘politico’ dell’astensione dalle carni, si vedano, inoltre: M. Vegetti, op. cit., pp. 20 ss.; G. Camassa, op. cit., pp. 90 ss.

 

[236] Per le fonti v. O. Kern, Orphicorum Fragmenta, Berlin 1922, 60-235; con riferimento alla antropogonia v. Olimpiodoro, in Phd. p. 2,21 (ed. W. Norvin=Orphicorum Fragmenta 220); v. anche Hymn. Apoll. 336; Platone, Leg. 701 c. Sul racconto orfico della morte di Dioniso, si veda M. Detienne, “Pratiche culinari e spirito di sacrificio” cit., pp. 7 ss.; si veda, inoltre, R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica-E. Czerkl, 3 ed., Milano 1992, pp. 170 ss.; W. Burkert, I Greci cit., p. 429 nt. 15.

 

[237] V. supra p. 162 nt. 235.

 

[238] Cfr. M. Detienne, “Pratiche culinari e spirito di sacrificio” cit., p. 13.

 

[239] Cfr. W. Burkert, Lore and science in ancient Pythagoreanism, Cambridge 1972, pp. 178 ss.; M. Detienne, I giardini di Adone, tr. it. di L. Berrini Pajetta, Torino 1975, pp. 164-172; Id., Dionysos mis a mort, Paris 1977, pp. 145 ss.; M. Vegetti, op. cit., p. 20; G. Camassa, op. cit., pp. 91 ss.

 

[240] L’espressione città profana, per alludere all’atteggiamento empio di coloro che, a vario titolo, si rendono colpevoli, agli occhi dei pitagorici e degli orfici, delle stragi di animali è parafrasata da M. Vegetti, op. cit., p. 21: “Il doppio disegno dei pitagorici – l’ascesa ad una condizione sovrumana da un lato, il dominio sulla città dall’altro – passa dunque per la via di una doppia purezza: quella della costruzione del sapere teorico sui numeri, e quella del rispetto magico verso il corpo dell’animale vivo. Al polo opposto, sta l’atteggiamento profano di quegli uomini della città, che i pitagorici condannano come impuri ed assassini: i cacciatori, i pescatori, gli allevatori, che uccidono l’animale per farne una merce, i macellai che ne spartiscono il cadavere, i cuochi che lo preparano al pasto, infine i medici laici …”.

 

[241] Cfr. M. Detienne, I giardini di Adone cit., pp. 47 ss.; W. Burkert, Homo necans cit., pp. 110 ss.

 

[242] Cfr. M. Vegetti, op. cit., p. 20.

 

[243] Nella poesia omerica, la presenza di precise e complesse regole, in tema di sacrificio a scopo alimentare o di culto, sembrerebbe attestare l’esistenza di una tutela giuridico-religiosa degli animali. In tale direzione, si può interpretare il celebre episodio della Odissea (9,395) sulla uccisione delle vacche care al Sole.

 

[244] L’idea pitagorica della partecipazione degli animali al diritto era però assai controversa nella filosofia greca. Come Pitagora ed Empedocle, anche i sofisti, contrapponendo il nÒmoj alla fÚsij, sostenevano la “comune soggezione alla legge naturale” (così R. Mondolfo, Problemi del pensiero antico, Bologna 1936, p. 80) dell’uomo e degli altri animali. Al contrario, Aristotele (de an. 414 a32-b19), gli stoici (si veda Plutarco, sol. an. 964b, dal quale apprendiamo che la giustificazione che davano gli stoici dell’esclusione di rapporti giuridici tra uomo e animale era che, non avendo gli animali la ragione, essi non erano neppure in condizione di rendere giustizia agli uomini, né quindi era pensabile il contrario) e, forse anche, gli epicurei (Porfirio, abst. 1,12,5-6; Epicuro, sent. 32), negano l’esistenza di un diritto comune a uomini e ad animali. Sulla contrapposizione fra nÒmoj e fÚsij, (oltre ai riferimenti alla nt. 12), si vedano: A. Biscardi, Diritto greco antico, Milano 1982, pp. 343 ss.; J. Triantaphyllopoulos, “Contra naturam”, in Sodalitas, III, Napoli 1984, pp. 1415 ss.; S. Querzoli, op. cit., p. 77 nt. 4, con ampio esame della letteratura; L.M. Napolitano Valditara, “Il contrasto fra nÒmoj e fÚsij. Posizioni diverse e diverse indicazioni di condotta”, in Il dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo cit., pp. 11 ss.; F. Cancelli, Le leggi divine di Antigone e il diritto naturale cit., pp. 29 ss. Per quanto riguarda la posizione di Epicuro, secondo V. Goldschmidt, La doctrine d’Epicure et le droit, Paris 1977, pp. 50 ss., anche tale filosofo avrebbe riconosciuto la partecipazione degli animali al diritto. Sulla concezione epicurea, si veda A. Alberti, “The Epicurean theory of law and justice”, in Justice and generosity. Studies in Hellenistic social and political philosophy. Proceedings of the Sixth Symposium Hellenisticum (ed. by A. Laks-M. Schofield), Cambridge 1995.

 

[245] Aristocrate, theos. 68. La traduzione è di G. Giannantoni, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti (a cura di G. Giannantoni), I, Roma-Bari 1969, p. 196. Si veda, inoltre, G. Ditadi, I Filosofi e gli animali cit., pp. 20; 267 ss.

 

[246] Porfirio, abst. 2,21. La traduzione è di G. Giannantoni, op. cit., p. 414. Sul rifiuto dei sacrifici in Empedocle, si veda J.-F. Balaudé, “Parenté du vivant et végétarisme radical. Le ‘Défi’ d’Empédocle”, in L’animal dans l’antiquité cit., pp. 31-53.

 

[247] Porfirio, abst. 2,21. Cfr. E. Bignone, Empedocle, studio critico, traduzione e commento delle testimonianze e dei frammenti, Torino 1916, p. 501; M.V. Bacigalupo, op. cit., p. 13.

 

[248] Cfr. G. Santese, “Animali e razionalità in Plutarco”, in Filosofi e animali nel mondo antico cit., pp. 145-149; G. Didati, “Premessa” cit., pp. 171 ss.

 

[249] Si veda in particolare la presa di posizione di Plutarco contro la caccia nel De sollertia animalium 959c ss. Su questo aspetto della opera di Plutarco si veda ora G. Didati, “Premessa” cit., pp. 207 ss.

 

[250] Plutarco, nell’opera De esu carnium 994e-995b, 997b, in contrasto con gli Stoici, ritiene la sarcofagia una pratica contro natura, dal momento che gli uomini non possiedono né i mezzi per uccidere la preda, né quelli per digerire la carne. Cfr. O. Longo, “Introduzione”, in Plutarco, Le virtù degli animali (a cura di A. Zinato), Venezia 1995, pp. 23 ss.; G. Didati, “Premessa” cit., pp. 180 ss.

 

[251] V. supra p. 149 nt. 198.

 

[252] V. infra p. 169.

 

[253] V. infra p. 173.

 

[254] V. infra p. 174.

 

[255] V. infra pp. 175 ss. e nt. 264.

 

[256] Un quadro generale dell’opera si trova in Marco Tullio Cicerone, Lo Stato (a cura di F. Cancelli), Milano 1979. Sulla definizione ciceroniana di res publica si veda G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996, pp. 114 ss. Su Cicerone “giurista”, per un primo esame, si vedano: A. Gasquy, Cicéron jurisconsulte, Paris 1887; B. Brugi, “Cicerone giureconsulto”, in Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, 29 (1920), pp. 117-124; E. Costa, Cicerone giureconsulto, Bologna 1927; U. Brasiello, “Cicerone avvocato”, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 13 (1959), pp. 561-575; V. Arangio-Ruiz, “Cicerone giurista”, in Marco Tullio Cicerone. Scritti commemorativi pubblicati nel bimillenario della morte, Roma 1961, pp. 1-19 (=Id., Scritti di diritto romano, IV, Napoli 1977, pp. 259-279); G. Pugliese, “Cicerone tra diritto e retorica”, in Scritti in onore di A.C. Jemolo, IV, Milano 1963, pp. 563-581 (=Id., Scritti giuridici scelti, III, Diritto romano, Napoli 1985, pp. 71-97); P. De Francisci, “Cicerone e il diritto”, in Scritti in memoria di A. Giuffrè, I, Milano 1967, pp. 273-280; F. Serrao, “Cicerone e la ‘lex publica’”, in Aa.Vv., Legge e società nella repubblica romana (a cura di F. Serrao), Napoli 1981, pp. 401-438; G. Ciulei, “War Cicero Jurist”, in Helikon, 29-30 (1989-1990), pp. 387-394; F. Cancelli, “La giustizia tra i popoli nell’opera e nel pensiero di Cicerone”, in Atti del convegno. La giustizia tra i popoli nell’opera e nel pensiero di Cicerone, Roma 1993, pp. 25-51.

 

[257] L’importanza di Cicerone, nella diffusione delle concezioni di favore per la condizione animale, elaborate da Pitagora ed Empedocle, non può naturalmente essere messa in discussione, osservando che proprio tali concezioni erano avversate dall’autore. Si veda, a questo proposito, E. Costa, Cicerone giureconsulto, Roma 1964 (ed. an.), il quale, pur osservando che la “dottrina propugnata da Pitagora e proseguita da Empedocle, che dalla ricognizione di una comune condizione di natura fra tutti gli esseri viventi desumeva una pur comune partecipazione di tutti questi ad un diritto precostituito dalla natura stessa, è respinta e combattuta decisamente dal Nostro …”, riconosce: “Proseguita tuttavia in Roma, già al tempo del Nostro e nel secolo successivo, dai pitagorici, cotal dottrina s’infiltra pure nel pensiero di taluno fra i giuristi classici, fino a dar vita a quel concetto del ius naturale, accolto da Ulpiano, non humani generis proprium, sed omnium animalium quae in terra, quae in mari nascuntur”. Si vedano: L. Bodson, “L’animale nella morale collettiva e individuale dell’antichità greco-romana”, in Filosofi e animali nel mondo antico cit., p. 74; M. Kaser, Ius gentium cit., p. 71. In generale sulla concezione degli animali in Cicerone si veda, da ultimo, S. Rocca, Uomini e animali in Cicerone, Genova 1998.

 

[258] V. infra p. 185.

 

[259] Sulla nozione di civitas in Cicerone si vedano: P. Rodríguez, “El significado de civitas en Cicerón”, in Veleia, 7 (1990), pp. 233 ss.; P. Catalano, “Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 61 (1995) (=Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996), pp. 723 ss.; R. Stark, “Ciceros Staatsdefinition”, in Das Staatsdenken der Römer (hrsg. von R. Klein), Darmstadt 1966, pp. 332 ss.; G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996, pp. 113 ss.; F. Sini, “Aspetti giuridici e rituali della religione romana” cit., par. 5.

 

[260] V. infra p. 185. In generale, sul fondamento naturalistico del ius nella opera di Cicerone, si vedano: U. Knoche, “Ciceros Verbindung der Lehre vom Naturrecht mit dem römischen Recht und Gesetz. Ein Beitrag zu der Frage: Philosophische Begründung und politische Wirklichkeit in Ciceros Staatsbild ”, in Cicero. Ein Mensch seiner Zeit (hrsg. von G. Radke), Berlin 1968, pp. 38-60; M. Ducos, Les romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecques et de la tradition romain à la fin de la République, Paris 1984, pp. 225 ss.; D.H. Van Zyl, “Cicero and the law of natural”, in South African Law Journal, 103 (1986), pp. 55-68; N. Wood, Cicero’s social and political thought, Berkeley-Los Angeles London 1988, pp. 70 ss.; L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana, Firenze 1990, pp. 113 ss.; J. Annas, The morality of happiness, Oxford 1993, pp. 302 ss.; P.A. Vander Waerdt, “Philosophical influence on Roman Jurisprudence? The case of Stoicism an natural Law”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.36.7, Berlin-New York 1994, pp. 4851 ss.; F. Fontanella, “Ius pontificum, ius civile e ius naturae nel De legibus II, 45-53”, in Athenaeum, 84 (1996), p. 260; S. Querzoli, op. cit., p. 75 nt. 1; G. Hamza, “Bemerkungen über den begriff des Naturrechts bei Cicero”, in Nozione formazione e interpretazione del diritto cit., pp. 349-362.

 

[261] Su Seneca “giureconsulto” si vedano: F. Stella Maranca, Seneca giureconsulto, Lanciano 1926 (rist. an. Roma 1966); J. Santa Cruz Teijero, “Séneca y la esclavitud”, in Anuario de historia del derecho español, 14 (1942-1943), pp. 612 ss.; J.M. Stampa Braun, “Las ideas penales y criminológicas de L.A. Séneca”, Valladolid 1950; A. D’Ors, “Séneca ante el tribunal de la jurisprudencia”, in Octava Semana Española de Filosofía (=Estudios sobre Séneca – Ponencias y comunicaciones), Madrid 1966, pp. 105 ss.; J. Murillo Rubiera, “Las ideas juridicas de Séneca”, in Revista general de legislación y jurisprudencia, 115 (1967), pp. 32 ss.; F. Hernandez-Tejero, “El pensamiento iuridico en Seneca ‘de beneficiis’”, in Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad de Madrid, 12 (1968), pp. 7 ss.; J. Santa Cruz Teijero, “Algunas referencias juridicas de los escritos de Séneca”, in Studi in onore di G. Grosso, I, Torino 1968, pp. 223 ss.; Id., Digresiones romanisticas en torno al epistolario de Séneca a Lucilio, Valencia 1969; R. Düll, “Seneca iurisconsultus”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, pp. 364 ss.; A. Mantello, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale. Sen., de ben. 3.18.1 ss. - D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post. Lab.), Milano 1979; R.A. Tortora, “La ‘inferiorità’ del diritto nel pensiero di Seneca”, in Jus, 26 (1979), pp. 98 ss.; G. Giliberti, “‘Beneficium’ e ‘iniuria’ nei rapporti col servo. Etica e prassi giuridica in Seneca”, in Sodalitas, IV, Napoli 1984, pp. 1843 ss.

 

[262] Cfr. A. Mantello, “Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 33 (1991), p. 401.

 

[263] Cfr. V. Goldschmidt, op. cit., pp. 51 ss.; C.F. Saylor, “Man, animal and the bestial in Lucretius”, in Classical Journal, 67 (1972), pp. 306 ss.; G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico” cit., p. 35.

 

[264] Cfr. S. Rocca, “Animali”, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 173 ss., la quale osserva che “mentre il rea­lismo teocriteo prevedeva che il bifolco ricorresse al­la maniera forte per farsi obbedire e facesse uso del bastone (4. 49), V(irgilio) evita di seguire il suo modello per questa via; anzi arriva a non nominare mai la pelle o il vello della pecora che presuppone l’uccisione dell’animale”. E ancora: “le istruzioni di V(irgilio) circa il rapporto con gli animali da cortile chiarisce ciò che egli intende con tueri (G 3,295 ss., 394 ss.), lo sforzo cioè di creare uno spazio sicuro e concedere loro ciò che più giova e li rende felici”. Si vedano, inoltre, con rinvii alla letteratura: S. Rocca, Etologia virgiliana, Genova 1983; F. Sini, Bellum nefandum cit., pp. 159 ss.; 216 ss.

 

[265] Cfr. F. Sini, Bellum nefandum cit., pp. 218-219 e nt. 106.

 

[266] Virgilio, georg. 4,153 ss. Sulle api, come modello di organizzazione giuridica in Virgilio, v. R. Joudoux, “La philosophie politique des Géorgiques d’après le livre IV, vers 149 à 169”, in Bulletin de l’Association G. Budé, 30 (1971), pp. 67 ss.; F. Della Corte, “Ape”, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 211 ss.; F. Sini, Bellum nefandum cit., pp. 159 ss.; 229 ss.

 

[267] Sulla similitudine, in generale, come espressione del rapporto simpatetico esistente tra uomo e animali, si vedano: B. Snell, op. cit., pp. 269 ss.; M. Vegetti, op. cit., p. 16 ss.; e con specifico riferimento alle similitudini in Virgilio, si veda F. Della Corte, “Ape” cit., p. 212.

 

[268] Cfr. C. Ampolo, “La nascita della città”, in Aa.Vv., Storia di Roma, I. Roma in Italia (sotto la direzione di A. Momigliano-A. Schiavone), Torino 1988, pp. 155 ss., il quale rileva: “La città antica va cioè vista come stretta unità di elementi politici e istituzionali, religiosi (gli dèi sono i veri re della città) e sociali, basati sul nesso giuridico-economico tra cittadino e proprietà della terra”. Sulla nozione di urbs-civitas, si vedano inoltre: G. Lombardi, “Su alcuni concetti del diritto pubblico romano; civitas, populus, res publica, status rei publicae”, in Archivio Giuridico ‘Filippo Serafini’, 126 (1941), pp. 192 ss.; F. Casavola, “Il concetto di ‘Urbs Roma’: giuristi e imperatori romani”, in Idea giuridica e politica di Roma e personalità storiche, I (=Rendiconti del X Seminario “Da Roma alla Terza Roma”, Campidoglio 21 aprile 1990, [a cura di P. Catalano-P. Siniscalco]), Roma 1991, pp. 39-55, (poi in Labeo, 38 (1992), pp. 20-29) (=Id., Sententia legum tra mondo antico e moderno, I, Diritto romano, Napoli 2000, pp. 353-364), con rinvii alla letteratura; M.P. Baccari, “Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 61 (1995) (=Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996), pp. 759 ss.; Ead., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996, pp. 66 ss.

È interessante osservare come questo quadro sia presente nel grammatico Carisio, il quale per definire il nomen contrappone, come esempio di nome comune, una sequenza di due soli elementi – Roma, Tevere – ad una sequenza costituita invece da tre elementi – urbs civitas flumen –, come esempio di nome comune: Carisio, gramm. 152-3 K.=193-4 B.: Nomen est pars orationis cum casu sine tempore significans rem corporalem aut incorporalem proprie communiterve, proprie, ut Roma Tiberis, communiter, ut urbs civitas flumen. Nomina aut propria sunt aut appellativa. Appellativa autem quae generaliter communiterque dicuntur quaeque in duas species dividuntur, quarum altera significat res corporales, quae videri tangique possunt, ut est homo terra mare, altera incorporales, ut est pietas iustitia dignitas, quae intellectu tantum modo percipiuntur, verum neque videri nec tangi possunt. Poiché, naturalmente, il rapporto tra gli elementi della sequenza è tra Roma e urbs civitas, da un lato, e Tevere e flumen, dall’altro, sembrerebbe che il grammatico abbia inteso porre in evidenza il carattere unitario, ancorché complesso, della nozione “urbs civitas”. Si può ritenere che la distinzione e combinazione di elementi corporali (urbs) e incorporali (civitas), presentata da Carisio, non era sconosciuta alla giurisprudenza romana, quando si consideri la suggestiva ipotesi, da ultimo ricordata, sia pure con una certa cautela, da Mario Bretone, che la distinzione gaiana, tra res corporales e res incorporales, “dipendeva dalla tradizione grammaticale raccolta da Carisio e risalente sino a Dionisio Trace”. Cfr. M. Bretone, Diritto e tempo nella tradizione europea, Roma-Bari 1994, il quale parla di “consonanza” tra Gai. 2,12-14 e il frammento di Carisio testé riportato.

 

[269] Cfr. F. Della Corte, “Ape” cit., p. 212, il quale rileva che Virgilio “non rinunciava cioè a tutta l’attrattiva che esercitava su di lui questa perfetta res publica …, comunità di esseri dotati non di intelletto, ma d’istinto tale che faceva convogliare tutti gli sforzi sulla propagazione della specie, sulla sua conservazione e persino sui bisogni dell’uomo”. L’espressione res publica è di R. Joudoux, op. cit., pp. 67 ss.

 

[270] Sul concetto di pax deorum, si vedano: P. Voci, “Diritto sacro romano in età arcaica”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 19 (1953), pp. 49 ss. (=Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, pp. 226 ss.); M. Sordi, “Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma”, in Aa.Vv., La pace nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Milano 1985, pp. 146 ss.; E. Montanari, “Il concetto originario di pax e pax deorum”, in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma”, Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss. (=Id., “Tempo della città e pax deorum: l’infissione del clavus annalis”, Appendice I, in Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 ss.); F. Sini, Bellum nefandum cit., pp. 256 ss., con ampio esame della letteratura; M. Humbert, “Droit et religion dans la Rome antique”, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, pp. 195 ss.; F. Sini, “Populus et religio dans la Rome républicaine”, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari, 2 (1995), pp. 77 ss.; R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, pp. 167 ss.; F. Sini, “La negazione del linguaggio precettivo dei sacerdoti romani”, in Il linguaggio dei giuristi romani. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Lecce, 5-6 dicembre 1994 (a cura di O. Bianco-S. Tafaro), Galatina 2000, pp. 157 ss.

 

[271] Cfr. F. Sini, Bellum nefandum cit., pp. 218-219 nt. 106.

 

[272] Così P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 101 ss. Sulla nozione di ius Quiritium e di Quirites si vedano, inoltre: F. Bozza, “Ius Quiritium”, in Studi Senesi, 64 (1952), pp. 1 ss.; F. De Visscher, “Ex iure Quiritium”, in Droits de l’antiquité et sociologie juridique. Mélanges H. Lévy-Bruhl, Paris 1959, pp. 317 ss.; G. Galeno, “Ius Quiritium”, in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino 1963, pp. 388-389; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, pp. 89-95; L. Labruna, “Quirites”, in Novissimo Digesto Italiano, XIV, Torino 1967, pp. 708-712.

 

[273] Cfr. L. Canali, “Introduzione e traduzione”, in Virgilio, Bucoliche. Georgiche. L’amore profondo per la terra, per gli animali, per i cicli della natura, Milano 1992, p. 236 nt. 25, il quale parla di un “significato religioso e provvidenziale all’organizzazione ‘civile’ degli alveari”.

 

[274] Sul significato del termine aequus e sulla nozione di aequitas, per un primo esame, segnaliamo: A. Guarino, “Equità”, in Novissimo Digesto Italiano, VI, Torino 1963, pp. 619-624; A. Biscardi, “Riflessioni minime sul concetto di ‘aequitas’”, in Studi in memoria di G. Donatuti, I, Milano 1973, pp. 137-142; O. Robleda, “L’equità in Diritto romano”, in Apollinaris, 51 (1978), pp. 404-414 ss.; L. Vacca, “Considerazioni sull’aequitas come elemento del metodo della giurisprudenza romana”, in Studi in memoria di G. D’Amelio, I, Milano 1978, pp. 397 ss.; P. Silli, Mito e realtà dell’aequitas christiana. Contributo alla determinazione del concetto di aequitas negli atti degli scrinia costantiniani, Milano 1980; Id., “‘Aequitas’ e ‘epieikeia’ nella legislazione giustinianea”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 50 (1984), pp. 281-340; P. Cerami, “La concezione celsina del ‘ius’. Presupposti culturali e implicazioni metodologiche. I. L’interpretazione degli atti autoritativi”, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo, 38 (1985), pp. 1 ss.; F. Gallo, “Sulla definizione celsina del ius”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 53 (1987), pp. 7-52 (=Id., L’officium del pretore nella produzione e applicazione del diritto. Corso di diritto romano, Torino 1997, pp. 221-266) (=Id., Opuscula selecta [a cura di F. Bona-M. Miglietta], Padova 1999, pp. 553-604); Id., “Diritto e giustizia nel titolo primo del Digesto”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 54 (1988), pp. 1-36 (=Id., Opuscula selecta cit., pp. 605-648); P. Silli, “Equità (storia del diritto)”, in Digesto delle Discipline Privatistiche. Sezione Civile, VII, Torino 1991, pp. 477 ss.; W. Waldstein, “Aequitas und summum ius”, in Tradition und Fortentwicklung im Recht. Festschrift zum 90. Geburtstag von Ulrich von Lübtow am 21. August 1990 (hrsg. von K. Slapnicar), Berlin 1991, pp. 23 ss.; M. Talamanca, “‘L’aequitas naturalis’ e Celso in Ulp. 26 ad ed. D. 12,4,3,7”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 96-97 (1993-1994), pp. 1 ss.; A. Biscardi, “Aequitas ed epieikeia”, in Rendiconti dell’Accademia dei Lincei, 5 (1994), pp. 389-397; Aa.Vv., Aequitas and Equity. Equity in Civil Law and mixed Jurisdictions (ed. by A.M. Rabello), Jerusalem 1997; R. Quadrato, “Favor rei ed aequitas: la regula di D. 50,17,125”, in Nozione formazione e interpretazione del diritto cit., pp. 171-234; P. Voci, “‘Ars boni et aequi’”, in Index, 27 (1999) (=In memoria di Giambattista Impallomeni), pp. 1-22.

 

[275] Sul concetto di utilitas, si vedano: F.B. Cicala, Il concetto di utile e sue applicazioni in diritto romano, Milano-Torino-Roma 1910; A. Steinwenter, “Utilitas publica-utilitas singulorum”, in Festschrift für P. Koschaker, I, Weimar 1939, pp. 84 ss.; J. Gaudemet, “Utilitas publica”, in Revue historique de droit français et étranger, 19 (1951), pp. 465 ss.; H. Hankum, “Utilitatis causa receptum. Sur la méthode pragmatique des juristes romains classiques”, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 15 (1968), pp. 259 ss.; G. Longo, “Utilitas publica”, in Labeo, 19 (1972), pp. 7 ss.; M. Navarra, “Utilitas Publica-utilitas singulorum tra IV e V sec. d.C. Alcune osservazioni”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 63 (1997), pp. 269-291.

 

[276] Cfr. F. Sini, Bellum nefandum cit., pp. 211 ss.

 

[277] Sulla concezione del ius publicum in Cicerone si vedano: G. Lombardi, “Il concetto di ius publicum negli scritti di Cicerone”, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 72 (1939), pp. 465 ss.; G. Aricò Anselmo, “Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone”, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo, 37 (1983), pp. 447 ss. Sulla aequitas in Cicerone, si vedano: O. Robleda, “La aequitas en Ciceron”, in Humanidades, 1 (1950), pp. 31-57; B. Riposati, “Una singolare nozione di aequitas in Cicerone”, in Studi in onore di B. Biondi, II, Milano 1965, pp. 445-465; A. Zamboni, “L’aequitas in Cicerone”, in Archivio Giuridico ‘Filippo Serafini’, 170 (1966), pp. 167-203; P. Pinna Parpaglia, Aequitas in libera repubblica, Milano 1973, pp. 90 ss., con ampio esame della letteratura precedente. Sulla utilitas in Cicerone, si veda T. Jossa, “L’utilitas rei publicae nel pensiero di Cicerone”, in Studi Romani, 12 (1964), pp. 269-288.

 

[278] D. 1,1,11 (Paul. 14 ad Sab.): Ius pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale. Altero modo, quod omnibus aut pluribus in quaque civitate utile est, ut est ius civile. Nec minus ius recte appellatur in civitate nostra ius honorarium.

La letteratura sul presente frammento è vastissima, anche, ma non solo, in relazione al problema della genuinità di esso. Sembrano porre in dubbio, pur nella diversità di posizioni, la genuinità del frammento: G. Lombardi, Sul concetto di ius gentium cit., pp. 224 ss.; A. Burdese, “Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica” cit., p. 418; G. Nocera, Ius naturale nella esperienza giuridica romana cit, p. 28.; F. Gallo, “Sulla definizione celsina del ius” cit., p. 585 nt. 108. Mostrano, invece, di propendere per una sostanziale genuinità del frammento: C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto cit., pp. 178 ss.; M. Bartosek, op. cit., pp. 492 ss.; C.A. Maschi, “Il diritto naturale come ordinamento giuridico inferiore?” cit., pp. 425 ss.; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, pp. 277 ss.; G. Grosso, op. cit., pp. 99 ss.; W. Waldstein, “Entscheidungsgrundlagen der klassischen römischen Juristen”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, pp. 82 ss.; F. Sini, Bellum nefandum cit., p. 222 e nt. 110.

 

[279] D. 1,1,1,2 (Ulp. 1 inst.): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim.

Non è certamente possibile prendere qui in esame la letteratura sulla distinzione fra ius publicum e ius privatum. Per un primo esame, si vedano: F. Stella Maranca, “Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine politiche”, in Id., Scritti vari di diritto romano, Bari 1931, pp. 102 ss.; S. Romano, “La distinzione fra ius publicum e ius privatum nella giurisprudenza romana”, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, IV, Padova 1940, pp. 157 ss.; G. Nocera, Ius publicum (D. 2,14,38). contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946; M. Kaser, “Ius publicum-ius privatum”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 17 (1951), pp. 267 ss.; G. Lombardi, “Diritto pubblico”, in Novissimo Digesto Italiano, V, Torino 1963; P. Catalano, “La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone)”, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, p. 676; H. Ankum, “La noción de ‘ius publicum’ en derecho romano”, in Anuario de historia del derecho español, 53 (1983), pp. 524 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali in Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 213 ss.; G. Aricò Anselmo, op. cit., pp. 447 ss.; M. Kaser, “‘Ius publicum’ und ‘ius privatum’”, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.), 103 (1986), pp. 1 ss.; G. Nocera, “Privato e pubblico (Diritto romano)”, in Enciclopedia del diritto, XXXV, Milano 1986, pp. 615 ss.; Id., Il binomio pubblico e privato nella storia del diritto, Napoli 1989; P. Stein, “Ulpian and the distinction between ius publicum and ius privatum”, in Collatio iuris Romani. Etudes dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65ème anniversaire, II, Amsterdam 1995, pp. 499 ss.; V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000, pp. 153 ss. Per una riflessione generale sul diritto pubblico romano, in particolare attraverso l’analisi dei rapporti tra “categorie contemporanee ed istituzioni antiche”, si veda ora G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1983, pp. 6 ss.; Id., Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari 1989, passim; Id., Res publica res populi cit., pp. 42 ss.; 205 ss.

 

[280] Virgilio, georg. 4,156-157; 184; 212-218. Si veda anche supra pp. 177; 179; 181 nt. 275.

 

[281] Cfr. P. Catalano, “Giustiniano”, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, p. 763.

 

[282] Così F. Sini, Bellum nefandum cit., pp. 216 ss.

 

[283] Cfr. P. Catalano, “Giustiniano” cit., p. 762.

 

[284] Cfr. C. Castello, “Il pensiero giustinianeo sull’origine degli status hominum”, in Studi in memoria di E. Albertario, II, Milano 1953, pp. 197 ss.; F. Goria, “Schiavi, sistematica delle persone e condizioni economico-sociali nel Principato”, in Aa.Vv., Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, pp. 372 ss.; L. Lantella, “Il lavoro sistematico nel discorso giuridico romano”, ibidem, p. 219; P. Catalano, “Giustiniano” cit., p. 762; F. Sini, Bellum nefandum cit., p. 225 nt. 114.

 

[285] Si veda supra p. 170.

 

[286] V. supra p. 172.

 

[287] Cfr. F. Sini, “Aspetti giuridici e rituali della religione romana” cit., il quale osserva finemente che, nella religione politeista romana, una “coerente traduzione nella sfera religiosa” della concezione secondo cui “il sistema giuridico-religioso romano fosse caratterizzato da una comunanza di diritti tra (dèi) uomini e animali” consentiva di “considerare quali possibili vittime sacrificali anche gli stessi esseri umani”.

 

[288] Cfr. G. Grosso, op. cit., p. 101. Si veda, inoltre, C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto cit., p. 163.

 

[289] Sulle relazioni tra Costantino e gli ‘intellettuali’, si veda L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 151 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 177 ss.

 

[290] Giuliano, or. 1,6,8 c-d, sul quale si veda L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 152.

 

[291] Eusebio, vita Const. 4,51,2; 4,52,1. Cfr. R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea cit., p. 172.

 

[292] Eusebio, vita Const. 4,32.

 

[293] Eutropio, 10,7,2.

 

[294] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 151 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 181 ss.

 

[295] Ammiano, 19,12,6; Libanio, or. 1,115; Imerio, or. 14,20 ss.

 

[296] Imerio, or. 14,20-27.

 

[297] Sozomeno, hist. eccl. 1,5.

 

[298] Eunapio, vit. soph. 6,2,2-3; Giovanni Lido, mens. 4,2.

 

[299] Origene, Cels. 3,59.

 

[300] OGIS 721.

 

[301] Per tutte queste notizie si veda L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 161.

 

[302] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 161.

 

[303] Eusebio, hist. eccl. 6,19,7.

 

[304] Cfr. R.P.C. Hanson, “The christian attitude to pagans religion up to the time of Constantine the Great”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.23.2, Berlin-New York 1980, pp. 910-973; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 168; M. Pérez Medina, “Sobre la prohibición de sacrificios por Constantino” cit., p. 237.

 

[305] Eusebio, praep. evang. 13,18,17.

 

[306] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 172.

 

[307] Sul legame tra l’opera di Lattanzio e le Institutiones di Ulpiano si vedano: C. Ferrini, op. cit., pp. 467 ss.; J. Gaudemet, “Lactance et le droit romain”, in Accademia Romanistica Costantiniana, Atti II Convegno Internazionale, Spello-Isola Polvese sul Trasimeno-Montefalco (18-20 settembre 1975), Perugia 1976, pp. 81 ss.; F. Amarelli, Vetustas-innovatio cit., p. 140; Id., “Due recenti studi su Lattanzio”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 50 (1984), pp. 474 ss.; M.P. Baccari, “Il conubium nella legislazione di Costantino” cit., in part. paragrafo 5.

 

[308] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 172.

 

[309] Sulla Oratio ad sanctorum coetum, la cui autenticità fu con decisione negata da I.A. Heikel, Eusebius Werke, GCS, Leipzig 1902, si vedano ora, per l’autenticità: R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea cit., pp. 15-16 ss.; S. Mazzarino, Antico, tardoantico ed èra costantiniana, I, Bari 1974, pp. 99 ss., il quale data il discorso al 325, dopo la vittoria su Licinio; C. Monteleone, “Costantino”, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 913 ss.; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., pp. 174 ss.; U. Pizzani, “Costantino e l’‘Oratio ad sanctorum coetum’”, in Costantino il Grande. Dall’Antichità all’Umanesimo cit., II, pp. 791 ss., il quale, invece, riporta il discorso alla sconfitta contro Massenzio; contra A. Fraschetti, La conversione cit., p. 78 nt. 3; L. De Giovanni, “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 182 ss.

 

[310] Or. ad sanct. coet. 9.

 

[311] Or. ad sanct. coet. 20. La conoscenza di Virgilio da parte di Costantino doveva essere notevole, se, come è stato osservato (L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 178), l’imperatore, nella Oratio ad sanctorum coetum, interpreta la quarta ecloga “minuziosamente … quasi verso per verso”.

 

[312] V. supra pp. 175 ss. e nt. 264.

 

[313] Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano cit., p. 178; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2” cit., pp. 183 ss.

 

[314] V. supra pp. 161 ss.

 

[315] Sulla humanitas di Costantino e il rapporto di essa con la nozione di ius naturale si veda la relazione di M.P. Baccari, “Il conubium nella legislazione di Costantino”, in questa stessa pubblicazione. In generale sulla humanitas, si vedano: C.A. Maschi, “‘Humanitas’ come motivo giuridico con un esempio nel diritto dotale romano”, in Annali Triestini, 18 (1948) (=Scritti in memoria di L. Cosattini, Trieste 1948), pp. 263-362; Id., “Humanitas romana e caritas cristiana come motivi giuridici”, in Jus, 1 (1950), pp. 266-274; O. Robleda, “La Humanitas y el Derecho”, in Humanidades, 7 (1955), pp. 9-34; R.M. Honig, Humanitas und Rhetorik in spatrömischen Kaisergesetzen: Studien zur Gesinnungsgrundlage des Dominats, Göttingen 1960; S. Riccobono jr., “L’idea di humanitas come fonte di progresso del diritto”, in Studi in onore di B. Biondi cit., pp. 583-614; F. Casavola, “Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d.C.: il senso del passato”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, pp. 157-160; H. Kupiszewski, “‘Humanitas’ et le droit romain”, in Maior viginti quinque annis. Essays in commemoration of the sixth lustrum of the Institute for Legal History of the Univ. Of Utrecht (ed. by J. E. Spruit), Assen 1979, pp. 85-103; C. Castello, “‘Humanitas’ e ‘favor libertatis’. Schiavi e liberti nel I Secolo”, in Sodalitas, V, Napoli 1984, pp. 2175-2189; J. Daza, “Aequitas et Humanitas”, in Mélanges J. Iglesias. Estudios en homenaje al profesor J. Iglesias, III, Madrid 1988, pp. 1211-1231; A. Palma, Humanior interpretatio. Humanitas nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino 1992; G. Crifò, “A proposito di humanitas”, in Ars boni et aequi cit., pp. 79 ss.; R.A. Bauman, Human rights in ancient Rome, London-New York 2000, pp. 20 ss., con rinvii alla letteratura.

 

[316] Con riferimento alla tradizione, che attesta la attenzione di Costantino per i cavalli, i riferimenti più immediati sono alla statua equestre di Marco Aurelio, per secoli ritenuta dell’imperatore Costantino, e alla Ardia, la corsa equestre, con la quale il popolo sardo rievoca la vittoria riportata dall’imperatore su Massenzio. L’Ardia si tiene ogni anno, il 6 luglio, in Sardegna, a Sedilo (in provincia di Oristano), ove si trova una chiesa, meta di devozione e di pellegrinaggi da tutta l’Isola, dedicata a Santu Antine (San Costantino).

 

[317] Cfr. A. Fraschetti, La conversione cit., pp. 107 ss.; 239 ss., il quale osserva che i “rapporti tra Costantino e una città come Roma si rivelano dunque in prospettiva notevolmente più complessa dei rapporti tra lo stesso Costantino e l’aristocrazia romana … questi rapporti investono … lo stesso paesaggio urbano, a partire da quel polo assolutamente centrale rappresentato tradizionalmente dal tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio”. E ancora: “Nella città antica, dunque anche a Roma, lo spazio urbano è un complesso strutturato, non solo entourage matériel, ma anche ambito nel cui contesto i cittadini manifestano la loro presenza, consci che quello spazio gli appartiene in quanto tradizionalmente e unanimemente condiviso … La nuova vita cerimoniale, che si sviluppa a partire dall’età di Costantino, una volta eliminata l’ascesa al Campidoglio (più in particolare al tempio di Giove Ottimo Massimo) da parte dell’Augusto al momento del suo arrivo, tende a privilegiare altri luoghi come momento dell’incontro dello stesso Augusto con la ‘sua’ città: la visita nella curia, là dove si raccolgono i senatori; nelle immediate vicinanze della curia la zona degli antichi rostra, la tribuna degli oratori, intorno alla quale affluisce il popolo composto e festante in attesa dell’adlocutio imperiale; il circo, dove quello stesso popolo può esprimersi all’evenienza più liberamente, anche con manifestazioni di dissenso politico soprattutto in materia religiosa”.

 

[318] Sulla centralità di questi riferimenti allo spazio urbano, con particolare riguardo alla Basilica di Pietro, si veda G. La Pira, Chiesa e Stato dal IV al VI secolo, in Prospettive, 2 (1974), pp. 134-135, riedito in questa stessa pubblicazione.

 

[319] Numerosi sono gli esempi che depongono a favore di Virgilio come “esperto di diritto”: cfr. P. Catalano, “Ius/iustitia/Iustitia” in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, pp. 66 ss., con rinvii alla letteratura anche meno recente. Non è possibile soffermarsi su questi aspetti peraltro già sufficientemente noti. Qui è necessario, invece, tenere presente, la linea di continuità fra Virgilio, Marciano, Ulpiano e Giustiniano. Si veda, per tutti, P. Catalano, “Giustiniano” cit., pp. 761-762, il quale dopo aver posto l’accento sulla “linea che univa Virgilio a Marciano” in merito al “concetto di res communes omnium secondo lo ius naturale”, osserva: “La dottrina marcianea delle res communes omnium contribuisce a precisare e consolidare la sfera dello ius naturale, riguardo al quale tutti gli uomini sono eguali … Certo Marciano è il primo giurista presso cui troviamo una classificazione delle fonti della schiavitù; e tale classificazione sottolinea che l’istituto, proprio dello ius gentium, è contrario allo ius naturale … E si può supporre che, nella parte del 1º delle Institutiones precedente il frammento conservato in D. 1,5,5, Marciano precisasse che alle origini della storia degli uomini la divisione fra liberi e servi non esisteva (non differenziandosi egli, in ciò, da Fiorentino, Trifonino, Ulpiano). Si vedano al riguardo: F. Goria, op. cit., pp. 363-364; 375; L. Lantella, op. cit., p. 219. Non è qui possibile soffermarsi sul fondamento naturalistico della concezione gaiana in tema di distinzione fra liberi e servi o in tema di relazioni familiari, sulla quale distinzione si vedano, però: R. Quadrato, “La persona in Gaio. Il problema dello schiavo”, in Iura, 37 (1986), pp. 1 ss.; Id., “‘Hominis appellatio’ e gerarchia dei sessi D. 50,16,152 (Gai. 10 ad l. Iul. et Pap.)”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 91 (1988), pp. 332 ss.

 

[320] V. supra pp. 175 ss. e nt. 264.

 

[321] Cfr. P. Catalano, “Giustiniano” cit., p. 759, il quale rileva: “Per comprendere le implicazioni del richiamo di G(iustiniano) a V(irgilio) si deve tener conto, oltre che di altri passi delle Institutiones e dei Digesta (… specialmente per quanto attiene al ius naturale), di due costituzioni, rispettivamente del 535 e del 537: Nov. 25 e 47 … La teoria virgiliana della continuità del potere da Enea a Romolo ad Augusto … viene tradotta in termini giustinianei nella praefatio della Nov. 47 (del 31 agosto 537) riguardante la datazione dei documenti … Più complesse (e meno chiaramente virgiliane) sono le implicazioni ideologiche del riferimento ai ‘tempi di Enea e di Romolo’ contenuto nel proemio della Nov. 25, dell’anno 535 … La leggenda di Enea aveva consentito a V(irgilio) di sviluppare il sincretismo romuleo inserendo anche elementi greci … e, secondo la stessa linea, era stato dato rilievo agli Arcadi nella preistoria romana; tutto questo conviene perfettamente a un imperatore che risiede nella Nuova Roma … Il regno degli Arcadi svolge perciò nella concezione di G(iustiniano) anche la funzione di collegamento con un’età originaria, comune a tutta l’umanità, che viene codificata dalla legislazione. Nella concezione giustinianea del diritto, espressa specialmente nelle Institutiones e nei Digesta … è compresa l’esistenza di un’età originaria senza guerre, senza schiavitù (cf. anche Nov. 74, 78 e 89), senza proprietà privata”.

 

[322] Ha osservato a questo proposito P. Catalano, “Giustiniano” cit., p. 762, che il “giusnaturalismo di G(iustiniano) ha radice, anche per il suo aspetto religioso, nella tradizione giurisprudenziale e filosofica precristiana … Le leggi di natura, considerate immutabili (è spontaneo confrontare con Paolo D. 1,1,11 e con I. 1,2,11), riguardano anche gli animali diversi dagli uomini (cf. Ulp. D. 1,1,1,3-4; I. 1,2 pr.) e sono di origine divina (cf. Marcian. D. 1,3,2; I. 1,2,11). Nell’Eneide il mito di Saturno viene storicizzato con precise localizzazioni degli aurea saecula: il regno nel Lazio (6,793-94; 7,49,180, 202 ss.; 8,319 ss. …) e l’arce Saturnia in Campidoglio (8,357-58 …). L’età dell’oro è caratterizzata, anche secondo V(irgilio), dalla mancanza di proprietà privata … e di schiavitù … Durante il regno dell’aureus Saturnus non esisteva la impia gens che per prima, nell’età del bronzo, banchettò con gli animali uccisi (G 2,537 …)”.

 

[323] Si veda, a proposito della linea di continuità fra Virgilio, Marciano e Giustiniano, sia pure sul piano specifico delle res communes omnium, P. Catalano, “Giustiniano” cit., p. 762, il quale osserva che “la decisione giustinianea di continuare questa linea sboccava necessariamente in una interpretazione universalista (o ecumenica) anche delle parole di Celso (II sec. d.C.) riportate in D. 43,8,3 pr. Litora, in quae populus Romanus imperium habet, populi Romani esse arbitror; l’affermazione dell’imperium populi Romani consentiva così, peraltro, ai compilatori di far fronte al problema del deterioramento nell’uso di lido e mare”.