Maria Virginia Sanna

Università di Cagliari

 

L'adulterio della tabernaria

 

 

 

ABSTRACT: In C.Th. 9.7.1 Constantin thought that the married "dominae tabernae", with which in the past "adulterium fieri non placuit (P.S. 2.26.11), could be prosecuted with the "accusatio adulterii", to save in any case the duty of marital fidelity.

 

In una costituzione di Costantino, che apre il titolo ad legem Iuliam de adulteriis del Teodosiano[1], si distingue, ai fini della proposizione dell'accusa di adulterio, a seconda che la donna fosse domina cauponae (o tabernae), oppure ministra:

 

C.Th. 9.7.1 (Imp. Costantinus A. Africano): Quae adulterium commisit utrum domina cauponae an ministra fuerit, requiri debebit, et ita obsequio famulata servili, ut plerumque ipsa intemperantiae vina praebuerit; ut, si domina tabernae fuerit, non sit a vinculis iuris excepta, si vero potantibus ministerium praebuit, pro vilitate eius quae in reatum deducitur accusatione exclusa liberi qui accusantur abscedant, cum ab his feminis pudicitiae ratio requiratur, quae iuris nexibus detinentur, hae autem immunes a iudiciaria severitate praestentur, quas vilitas vitae dignas legum observatione non credidit (Dat. III Non. Feb. Heracleae Constantino A. VII Et Constantio Caes. Conss.) (326 Febr. 3).

 

La costituzione, oggetto in passato di non particolare interesse, è stata di recente esaminata in due contributi apparsi contemporaneamente[2], uno della Bassanelli Sommariva[3], l'altro del Manfredini[4], che, pur con differenti opinioni sulla portata del provvedimento[5], sembrano concordi nell'affermare che la domina cauponae può essere accusata di adulterio, contrariamente alle sue ministrae, si potantibus ministerium non praebuit[6], ritenendo, dunque, possibile promuovere l'accusa di adulterio solo nei confronti della domina, e solo se essa non offre ai clienti intemperantiae vina, il vino dell'intemperanza[7]. In tal caso la domina sarà soggetta ai vincoli della legge, alla iudiciaria severitas; sarà digna legum observatione, chiaro riferimento alla lex Iulia de adulteriis di Augusto[8], con la quale vennero repressi come crimina per la prima volta sia l'adulterio, relazione sessuale di una donna sposata, sia lo stupro, relazione sessuale di una vidua o virgo, purché di onorata condizione, concedendo al marito e al padre un'accusatio privilegiata, iure viri et patris[9], da promuovere entro sessanta giorni dal divorzio[10], e una volta trascorso inutilmente il tempo a questi riservato, un’accusatio iure extranei, esperibile da qualsiasi cittadino, compresi il marito e il padre che non avessero accusato nello spazio di tempo loro riservato[11].

La Bassanelli e il Manfredini ritengono, pertanto, accusabile di adulterio solo la domina, si potantibus ministerium praebuit, ma pare ancor oggi meritevole di attenzione la diversa interpretazione del passo che era stata proposta dal Gotofredo[12], il quale, con una lettura più aderente al testo – che utilizza, in ogni caso, un linguaggio tecnico non preciso – aveva ritenuto il si vero potantibus ministerium praebuit riferito alle ministrae, per cui in C.Th. 9.7.1 si stabilirebbe che se la donna domina tabernae fuerit, non sarà esente dai vincoli della legge, se, invece, potantibus ministerium praebuit, e dunque è ministra, sarà esclusa dall'accusatio. La costituzione di Costantino stabilirebbe, pertanto, che la domina, contrariamente alle ministrae, potrebbe essere sempre perseguita per adulterio ('domina cauponae indistincte matronalibus legibus subiicitur, ministra solvitur'), mentre in precedenza con lei adulterium fieri non placuit, come si legge in

 

P.S. 2.26.11: cum his, quae publice mercibus vel tabernis exercendis procurant, adulterium fieri non placuit[13].

 

La lettura che vuole potantibus ministerium praebuit riferito alla sola ministra[14] non viene, però, seguita né da

 

I.Th. 9.7.1: Tabernae domina, hoc est uxor tabernarii si inventa fuerit in adulterio, accusari potest: si vero eius ancilla vel quae ministerium tabernae prebuit in adulterio fuerit deprehensa, pro vilitate dimittetur. Sed et si ipsa tabernarii uxor tam vilis ministerii officium egerit et in adulterio fuerit deprehensa, accusari non poterit a marito[15]

 

né da

 

Bas. 60.37.66 (Sch. A VIII, 2993): Τν ν ργαστηρί προενεχθεσαν ποτ μν κινδύνως, ποτ δ πικινδύνως μοιχεει τις. Ε γρ μνον δσποινα ν το ργαστηρίου λλους χουσα τος πηρετοντας τος εσιοσιν, πικίνδυνος πρς ατν μοιχεία ε δ ατ δι αυτς πηρτει κα τν ονον παρεχε τος πίνουσι, τ τηνικατα δι τν ετλειαν κα τν δουλικν πηρεσίαν οτε ατ οτε μετατς μαρτσας μοιχείας κρνεται[16].

Anche accettando la lettura del Manfredini e della Bassanelli[17], che considerano perseguibili per adulterio, tenendo conto anche di quanto si legge nell'Interpretatio e nei Basilici, le condotte sessuali delle dominae cauponae solo si intemperantiae vina praebuerint, per ritenere che Costantino abbia innovato rispetto alla disciplina precedente occorrerebbe considerare la domina cauponae che non serva il vino ricompresa in passato nella categoria di donne indicate in P.S. 2.26.11 [18], quae publice mercibus vel tabernis exercendis procurant, donne che, svolgendo pubblicamente la vendita di merci e servizi[19], sarebbero state considerate donne in quas stuprum non commititur[20], tanto che parte della dottrina è del parere che nel passo delle Pauli Sententiae adulterium corrisponda a stuprum. I termini adulterium e stuprum, come leggiamo in D. 48.5.6.1 [21], erano, infatti, utilizzati promiscui dalla lex Iulia, pur intendendosi proprie per adulterio la relazione sessuale di una donna unita in iustae nuptiae, e per stupro la relazione sessuale di una virgo e una vidua honorata, mentre le relazioni sessuali delle donne non honoratae non configuravano il crimen di stupro.

Si discute, peraltro, su quali donne fossero comprese tra quelle in quas stuprum non committitur, espressione con cui Ulpiano, concordando con Atilicino, definiva quelle donne che si possono avere come concubine senza incorrere nel crimen (di stupro)

 

D. 25.7.1.1 (2 ad l. Iul. et Pap.): Cum Atilicino sentio et puto solas eas in concubinatu habere posse sine metu criminis, in quas stuprum non committitur[22].

 

Non esiste nelle fonti un'elencazione delle donne comprese in tale categoria, ma tra esse vanno, in ogni caso, sicuramente comprese le adulterae damnatae citate dallo stesso Ulpiano nel successivo § 2 [23], le prostitute ed ex prostitute (le uxores volgares citate in D. 48.5.14.2)[24], le lenae e le attrici, di cui in D. 48.5.11.2 [25], e, secondo quella parte della dottrina, che, come abbiamo visto, ritiene che nel passo si parli di donne in quas stuprum non committitur e non di donne che non commettono adulterio, anche le donne di cui in P.S. 2.26.11 [26].

Dal momento che il passo delle Pauli Sententiae non parla, però, come C.Th. 9.7.1, di dominae tabernae cauponiae, ma di coloro quae publice mercibus vel tavernis exercendis procurant[27], pare necessario verificare, preliminarmente, cosa si intenda nella costituzione di Costantino per domina tabernae o domina cauponae. Se taberna significa, infatti, come è noto, originariamente capanna, abitazione, luogo utile ad habitandum – come leggiamo in D. 50.16.183 (Ulp. 28 ad ed.): Tabernae appellatio declarat omne utile ad habitandum aedificium, non ex eo quod tabulis cluditure poi, più in generale, bottega, negozio[28], il significato si specifica con l'aggettivo seguente, così taberna cauponia è l'albergo, l'osteria, la locanda, la taverna. Occorre, dunque, stabilire se nella costituzione, probabilmente risposta ad un caso pratico[29], domina cauponae sia la padrona della taberna, anche eventualmente sposata con un soggetto diverso dal tabernarius, la quale eserciti personalmente l'attività imprenditoriale, o, invece, come ritiene l'Interpretatio, solo l'uxor tabernarii; se il vile ministerium[30] di servire il vino si riferisca al servire i clienti in un luogo pubblico[31], che probabilmente era già sufficiente a far sì che la donna non fosse considerata una donna honorata, o sia, invece, una metafora per alludere all'attività di prostituzione che, secondo la dottrina prevalente, si sarebbe svolta nelle cauponae; se la domina, dal momento che nel passo si parla di adulterio, debba essere necessariamente una donna sposata, e, in tal caso, se con la tabernaria si potesse contrarre un legittimo matrimonio, o se si può ritenere, col Manfredini, che col termine adulterio ci si riferisse anche alle relazioni di una donna non sposata[32]. La dottrina prevalente sembra ritenere che le tabernariae fossero, in quanto tali, sempre equiparate a prostitute e lenae[33], perché nelle cauponae si esercitava la prostituzione, basandosi su due noti passi di Ulpiano:

 

D. 23.2.43pr. (Ulp. 1 ad l. Iul. et Pap.): Palam quaestum facere dicemus non tantum eam, quae in lupanario se prostituit, verum etiam si qua (ut assolet) in taberna cauponia vel qua alia pudori suo non parcit;

 

D. 23.2.43.9: Si qua cauponam exercens in ea corpora quaestuaria habeat (ut multae dssolent sub praetextu instrumentii cauponii prostitutas mulieres habere), dicendum hanc quoque lenae appellatione contineri.

 

Ulpiano non equipara, però, automaticamente la tabernaria alla prostituta e alla lena[34], perché afferma nel principium che deve essere considerata prostituta non solo chi si prostituisce in un lupanare ma anche colei che, ut assolet, pudori suo non parcit in una taberna cauponia o altra (taberna), e che deve essere considerata lena l'esercente di una caupona che, ut multae assolent, tiene nel locale delle prostitute[35]; l'attività di prostituzione suole, dunque, essere esercitata, ma non è automaticamente presunta in qualsiasi caupona, o addirittura, come afferma il Manfredini – che si basa sul qua alia di D. 23.2.43pr. – in qualsiasi taberna. Inoltre, perché si possa parlare di prostituzione, è necessario che l'attività sia svolta palam, e non è svolta palam, afferma Ulpiano, quando la donna, pur percependo un compenso, svolga l'attività cum uno et altero, 'in maniera occasionale'[36], come leggiamo in

 

D. 23.2.43.1-2 (Ulp. 1 ad l. Iul. et Pap.): Palam autem sic accipimus passim, hoc est sine dilectu: non si qua adulteris vel stupratoribus se committit, sed quae vicem prostitutae sustinet. Item quod cum uno et altero pecunia accepta commiscuit, non videtur palam corpore quaestum facere.

 

Nel passo si tratta di prostituzione di donne libere, ma la circostanza che in D. 23.2.43.9 si parli di instrumenta cauponia[37] fa pensare che Ulpiano si riferisca anche a schiave incluse nel personale della caupona che in essa venivano fatte prostituire[38].

Non di ministrae schiave si parla, però, nella costituzione di Costantino, contrariamente a quanto ritenuto, ad esempio, dal Biondi [39] e più recentemente dalla Robinson[40], perché ci si chiede se la donna che ha commesso adulterio fosse domina o ministra, (quae adulterium commisit utrum domina cauponae an ministra fuerit requiri debebit), il che mostra che si trattava di una donna libera, perché le schiave non potevano commettere non solo adulterio, ma neanche stupro, come risulta da

 

D. 48.5.6pr. (Pap. 1 de ad.): Inter liberas tantum personas adulterium stuprumve passas lex Iulia locum habet. quod autem ad servas pertinet, et legis Aquiliae actio facile tenebit et iniuriarum quoque competit nec erit deneganda praetoria quoque actio de servo corrupto[41].

 

Poteva dunque accadere, e sarà accaduto nella maggior parte dei casi, che nella taberna cauponia ci fossero delle prostitute, sia libere sia schiave, ma poteva accadere che l'attività di prostituzione fosse svolta solo occasionalmente, come poteva anche accadere che non ci fossero ministrae che servissero il vino, pur se definito intemperantiae vinum. Nella costituzione non si afferma, infatti, che nella taberna cauponia fossero presenti sia la domina sia le ministrae che servivano il vino[42], ma solo che è necessario distinguere se la donna che ha commesso adulterio fosse domina o ministra.

Il Manfredini, che parte dal presupposto che Costantino intese riferirsi a ogni tipo di bottega e non solo alla locanda, a tutte le bottegaie[43], padrone e serve, sposate e no, e non a un tipo particolare di esse[44], ritiene che il riferimento al ministerium di servire il vino[45], già considerato nella lex di Romolo causa di ripudio, veicolo di dissolutezza e quindi di adulterio[46] e perciò proibito alle matronae[47], acquisti in Costantino un valore simbolico, diventi l’emblema, il prototipo della viltà e bassezza del mestiere di servire i clienti, anche quando si serva pane o carne. Di parere diverso il Rizzelli[48], secondo il quale l’offerta del vino ai clienti sembra descrivere semplicemente la mansione che in concreto nel caso sottoposto alla cancelleria imperiale individua la ministra e la distingue dalla domina.

Dal momento che l'accusa di adulterio era proponibile solo nei confronti delle donne sposate, occorre, comunque, chiedersi, sia che riteniamo la tabernaria accusabile di adulterio in ogni caso o solo quando non serviva ai clienti il vino, se fosse possibile contrarre con lei un legittimo matrimonio, considerato che Augusto – perseguendo, come è noto, il risanamento dei costumi della società romana e l'incremento demografico[49] – aveva stabilito con la lex Iulia et Papia divieti di matrimonio con le donne considerate non honoratae[50]. La dottrina prevalente[51] ritiene che, in base a tali leggi, fosse vietato a tutti gli ingenui[52] il matrimonio con meretrici, mezzane ed attrici, condannate in giudizi pubblici e adultere, identificate dalla maggior parte della dottrina come feminae probrosae[53], alle quali, non potendo contrarre matrimonio[54], non sarebbero state applicabili neppure le sanzioni verso i caelibi stabilite dalla stessa legge[55].

Se riteniamo la tabernaria una donna non honorata, con lei dovrebbe, dunque, essere proibito il matrimonio, ma si discute se i divieti della lex Iulia et Papia fossero ancora in vigore ai tempi di Costantino. Se è certo che furono abrogati dallo stesso Imperatore i divieti di capere per i celibi e gli orbi[56], per quanto riguarda i divieti di matrimonio, che parte della dottrina ritiene ancora in vita in quest'epoca[57], il fatto che in C.Th. 4.6.3 [58] si parli di divieti di sposare una tabernaria o la figlia di un tabernarius[59] solo per i senatori e i dignitari, fa dubitare del fatto che quando Costantino emanava la nostra costituzione il divieto di sposare la tabernaria fosse ancora in vigore per gli ingenui[60]. Se, pertanto, la tabernaria poteva contrarre un valido matrimonio, e, probabilmente, non esercitava personalmente l'attività di servire i clienti[61], appare comprensibile che Costantino l'abbia ritenuta sanzionabile di adulterio, dato che per l'Imperatore cristiano il matrimonio, ormai nella sua ottica un vincolo religioso, non doveva essere turbato dall'adulterio né sciolto alla leggera da accuse infondate riguardanti lo stesso adulterio. Così, da un lato, Costantino intervenne più volte in materia di adulterio, con l'intento di perseguirlo in maniera più severa[62]: stabilì la pena capitale in C.Th. 9.7.2 e in C.Th. 9.40.1 [63], escluse gli adulteri dai provvedimenti di clemenza[64], previde l'adulterio tra i tre soli casi in cui il marito poteva chiedere il ripudio[65]. Allo stesso tempo, nello stesso anno, solo qualche mese dopo, col chiaro intento di non permettere di foedare conubia[66], stabilì che solo il marito potesse esercitare, per l'adulterio, l'accusa privilegiata e che l'accusa iure extranei potesse essere esercitata esclusivamente dai parenti prossimi, compreso il padre:

 

C.Th. 9.7.2 (Imp. Costantinus A. Ad Evagrium): Quamvis adulterii crimen inter publica referatur, quorum delatio in commune omnibus sine aliqua legis interpretatione conceditur, tamen ne volentibus temere liceat foedare conubia, proximis necessariisque personis solummodo placet deferri copiam accusandi, hoc est patrueli consobrino et consanguineo maxime fratri, quos verus dolor ad accusationem impellit. Sed et his personis legem imponimus, ut crimen abolitione, compescant. In primis maritum genialis tori vindicem esse oportet, cui quidem ex suspicione etiam ream coniugem facere, nec intra certa tempora inscribtionis vinculo contineri veteres retro principes adnuerunt. Extraneos autem procul arceri ab accusatione censemus. Nam etsi omne genus accusationis necessitas inscribtionis adstringat, nonnulli tamen proterve id faciunt et falsis contumeliis matrimonia deformant. (P(ro)p(osita) Nicomediae VII Kal. Mai. Constantino A. VII et Constantio Caes. Conss.) (326 Apr. 25)[67].

 

Dalla costituzione, qualunque sia la tesi cui si ritiene di aderire sulla portata di tale riforma[68], appaiono evidenti le intenzioni di Costantino: salvaguardare i matrimoni, che non devono essere turbati da accuse di estranei con falsae contumeliae, perché il marito deve essere genialis tori vindex del matrimonio stesso, ruolo del marito che viene rafforzato anche dalla possibilità di accusare in base a un semplice sospetto, e senza la necessità, secondo parte della dottrina, dello scioglimento del matrimonio[69]. Se queste erano le intenzioni di Costantino, sembra plausibile che con la costituzione C.Th. 9.7.1 l'Imperatore cristiano ritenesse opportuno sottoporre all'accusa di adulterio da parte del marito anche donne che non potevano dirsi a pieno titolo honoratae[70], sul presupposto che, una volta sposate, fossero tenute, come tutte le altre, a rispettare l'obbligo di fedeltà imposto dal matrimonio[71].

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

[1] La costituzione è riportata anche nel codice di Giustiniano (C. 9.9.28) con l’inserimento di et matris familiae nomen obtinent dopo quae iuris nexibus detinentur.

 

[2] Pubblicato nello stesso anno anche il contributo del Rizzelli, In margine a Paul. Sent. 2,26,11, in BIDR 91, 1988, 733 ss.

 

[3] Bassanelli, Brevi considerazioni su C.Th. 9.7.1, in AARC 7, 1988, 309 ss.

 

[4] Manfredini, Costantino, la tabernaria, il vino, in AARC 7, cit., 325 ss.

 

[5] Il Manfredini, Costantino, cit., 325 s., ritiene che la costituzione abbia avuto una portata assai ampia e fortemente innovativa, nonostante il testo possa dare l'idea di un provvedimento speciale, marginale, applicativo della disciplina vigente; per la Bassanelli, Brevi considerazioni, cit., 309, si tratta, invece, di un'applicazione particolare del principio, pacificamente accettato e risalente alla stessa lex Iulia, non essere imputabili di adulterio le donne 'disonorate'.

 

[6] Così Bassanelli, Brevi considerazioni, cit., 311; Manfredini, Costantino, cit., 325. Per il Rizzelli, In margine, cit., 739, nella costituzione di Costantino si ritiene che la domina non sia di vilitas vitae tale da risultare a vinculis iuris excepta, mentre nei confronti della ministra si presume il contrario; la prova che la domina vina praebuerit farebbe venir meno la presunzione iniziale e scattare automaticamente l'opposta.

 

[7] O il vino all'intemperanza, secondo la lettura della Lanata, Lo statuto delle donne: a Bisanzio come in Tauride? (A proposito di J. Beaucamp, Le statut de la femme à Byzance (4-7 siècle). I. Le droit impérial. II. Les pratiques sociales, Paris, 1990, 1992), in RJ 13, 1994, 77 ss., in part. 92 s. L'autrice ritiene che nell'espressione intemperantiae vina praebuerit, intemperantiae sia dativo, retto da praebuerit, e non genitivo: la tabernaria offre alla lascivia l'incentivo del vino. Mentre la servente per la sua umile condizione sarà esentata dal rispetto delle norme, la domina tabernae, per la Lanata, conoscerà i rigori della legge «se avrà incoraggiato la lascivia di un avventore inducendolo a commettere adulterio con lei».

 

[8] La lex Iulia de adulteriis, come leggiamo in D. 48.5.1, fu emanata da Augusto, presumibilmente intorno al 18 a.C. (sulla datazione da ultimo, vedi Spagnuolo Vigorita, La data della lex Iulia de adulteriis, in Iuris vincula. Studi Talamanca, 8, Napoli, 2001, 79 ss. e la bibliografia ivi citata).

 

[9] Sull'accusatio adulterii si vedano, tra la vastissima bibliografia, Volterra, Per la storia dell'accusatio adulterii iure mariti vel patris, in Studi Cagliari, 17, 1928, 1 ss., ora in Scritti, 1, Napoli, 1991, 219 ss.; In tema di accusatio adulterii, in Studi Bonfante, 2, Milano, 1930, 109 ss., ora in Scritti, 1 cit., 313 ss.; Ankum, La captiva adultera. Problèmes concernent l’accusatio adulterii en droit romain classique, in RIDA 32, 1985, 153 ss.; La sponsa adultera: problèmes concernant l’accusatio adulterii en droit romain classique, in Estudios D’Ors, 1, Pamplona, 1987, 161 ss.; Rizzelli, Lex Iulia, Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce, 1997.

 

[10] La dottrina prevalente ritiene che in epoca classica il marito non potesse esercitare l'accusa finché durava il matrimonio (D. 48.5.12.10, D. 48.5.15.2, D. 48.5.31.1, D. 48.5.41.1).

 

[11] Nonostante la concessione di un'accusa privilegiata e temporalmente limitata e poi di un'accusa concessa ai terzi, il iudicium è un iudicium publicum; si veda Botta, Legittimazione, interesse ed incapacità all'accusa nei publica iudicia, Cagliari, 1996, 201 ss.

 

[12] Gothofredus, Codex Theodosianus cum perpetuis commentariis, III, Lipsiae, sumptibus M.G. Weidmanni, 1736 (rist. anast.: Hildesheim-New York, 1975), ad C.Th. 9.7.1, 60 ss.

 

[13] Per il Manfredini, Costantino, cit., 332 s., è difficilmente negabile che le parole quae tabernis exercendis procurant si riferiscano alle donne esercenti, alle padrone, che erano da lungo tempo, come mostra il placuit, sottratte all'applicazione della legge sull'adulterio, e quindi anche, a maggior ragione, alle ministrae, di condizione inferiore. Per il Rizzelli, In margine, cit., 740, tra la costituzione di Costantino e il passo delle Pauli Sententiae esistono delle analogie tali da supportare le ragioni di chi ritiene C.Th. 9.7.1 un rescritto intervenuto ad assicurare la corretta applicazione del diritto vigente in un caso concreto.

 

[14] Accogliendo la lettura del Gotofredo, si potrebbe arrivare a ritenere, col Puliatti, Quae ludibrio corporis sui quaestum faciunt. Condizione femminile, prostituzione e lenocinio nelle fonti giuridiche dal periodo classico all’età giustinianea, in Da Costantino a Teodosio il Grande, Atti del convegno internazionale Napoli 26-28 aprile 2001, a cura di CRISCUOLO, Napoli, 2003, 31 ss., che Costantino avrebbe considerato sanzionabili per adulterio non solo le dominae, ma anche le ministrae se non addette al servizio di mescita del vino. Dello stesso avviso si era mostrato il Neri, I marginali nell'Occidente tardoantico. Poveri, infames e criminali nella nascente società cristiana, Bari, 1998, 202, per il quale Costantino darebbe testimonianza della diffusione e liceità di quella 'forma semiprofessionale di prostituzione' esercitata dal personale femminile nelle locande, nelle cauponae, limitandola però espressamente alle cameriere che servono il vino ai clienti: i rapporti sessuali con il resto del personale, fino alla domina cauponae, sarebbero punibili come adulterio o stupro. Per il Laurence, Les femmes dans le Code Théodosien, in Le Code Théodosien. Diversité des approches et nouvelles perspectives. Études par Crogiez-Pétrequin et Jaillette, Rome, 2009, 259 ss., in part. 262 s. e ivi nt. 8, le ministrae non sarebbero, invece, mai accusabili: C.Th. 9.7.1 «stipule que l'accusation d'adultère est interdite lorsqu'il s'agit de servantes d'auberge (déjà dans les lois augustéennes)». Il Codice Teodosiano mostra, per l'autore, che i doveri morali delle donne sono legate al loro stato sociale e che l'adulterio non presenta la stessa gravità «pour une femme du petit peuple ou une esclave que pour une grande dame».

 

[15] Il Neri, Marginali, cit., 202, pone in evidenza come sia l'Interpretatio al codice teodosiano sia l'Editto di Teodorico (vedi Ed. Th. 62, che non considera stuprum il rapporto con vedove che ministerii laborem publice exercuerunt) pongano in evidenza la facilità con la quale sia padrone sia cameriere impegnate nel ministerium tabernae potessero essere considerate prostitute.

 

[16] Bas. 60.37.67 (Heimb. V. 751): Tabernae praepositam quandoque impune, quandoque non impune adulterat quis. Nam si tabernae tantum domina fuit, quae alios habuit ingredientibus ministrantes, non impune in eam committitur adulterium. Si vero ipsa per se ministravit, et vinum praebuit potantibus, tunc propter vilitatem et servile ministerium neque ipsa, neque is, qui cum ea peccavit, adulter censetur. Leges enim pudicitiae mulierum bonae existimationis prospexerunt, nulla viliorum et miseratione dignarum habita ratione. Nei Basilici si afferma, dunque, che la tabernae domina può non servire materialmente i clienti e, in particolare, non servire il vino, e allora potrà essere accusata di adulterio; se invece ipsa per se ministravit, allora propter vilitatem et servile ministerium non potrà essere accusata come adultera. Per il Puliatti, Quae ludibrio, cit., 57 s., dai Basilici si ricaverebbe che il reato in capo alla tabernae praeposita e ai suoi complici non si configura in tutti i casi, bensì solamente in quelli nei quali, pur avendo la disponibilità di inservienti da adibire al servizio della clientela ed esercitando la sola funzione di domina cauponae, essa si prostituisce, mentre il servile ministerium con la mescita del vino ai bevitori le procura l'impunità rispetto al reato di adulterio.

 

[17] Osserva la Bassanelli, Brevi considerazioni, cit., 311 nt. 6, che la lettura del Gotofredo, «fondata principalmente su argomenti di tipo grammaticale e sintattico, certo convincenti», non appare pienamente soddisfacente sotto il profilo logico giuridico. Costantino avrebbe, infatti, inteso esentare dai vincoli imposti dalla lex Iulia la ministra non in virtù della sua condizione giuridica subordinata di servente, ma a causa del comportamento pubblico degradante a cui il suo lavoro la induce, per la stessa ragione cioè che aveva condotto i giuristi classici ad accomunare le tabernariae alle lenae e alle prostitute. Non si comprenderebbe, allora, per l'autrice, il motivo per cui Costantino avrebbe sottoposto alla lex Iulia le dominae tabernae sempre e comunque, facendo prevalere il loro status giuridico sul comportamento tenuto in pubblico. Per il Manfredini, Costantino, cit., 334 s., fra una prima interpretazione del si vero potantibus ministerium praebuit riferita alla sola ministra, proposta dal Gotofredo e un'altra che la riferisce alla domina, a sostegno della quale si possono addurre l'Interpretatio visigotica e la versione dei Basilici, quest'ultima è forse più plausibile perché confortata da dati testuali.

 

[18] Occorre, innanzitutto, chiedersi se le Pauli Sententiae siano state redatte anteriormente alla costituzione di Costantino, che è del 326 d.C. Sebbene regni grande incertezza in dottrina relativamente sia alla datazione sia all'autenticità dell'opera (si vedano, per la dottrina più risalente, Levy, Paulus und der Sentenzenverfasser, in ZSS 50, 1930, 272 ss.; Vulgarization of Roman Law in the Early Middle Ages, in BIDR 55-56, 1951, 222 ss. (ora entrambi in Gesammelte Schriften, 1, Graz, 1963, 99 ss. e 222 ss.), Volterra, Sull’uso delle Sententiae di Paolo presso i compilatori del Breviarium e presso i compilatori giustinianei, 1934, ora in Scritti, 4, Napoli, 1993, 141 ss., e, per quella più recente, Liebs, Die pseudopaulinischen Sentenzen II, in ZSS 113, 1996, 132 ss.; Römische Jurisprudenz in Africa mit Studien zu den pseudopaulinischen Sentenxen, 2, Berlin, 2005, 46 ss.) da ultimo, il Marotta, La recitatio degli scritti giurisprudenziali tra III e IV secolo d.C., in Scritti Franciosi, 3, Napoli, 2007, 1643 ss., ritiene che in C.Th. 1.4.2 (Imp. Costantinus A. Ad Maximum P(raefectum) P(raetorio)): Universa, quae scriptura Pauli continentur, recepta auctoritate firmanda sunt et omni veneratione celebranda. Ideoque sententiarum libros plenissima luce et perfectissima elocutione et iustissima iuris ratione succintos in iudiciis prolatos valere minime dubitatur (Dat. V K. Oct. Trev(iris) Constantio et Maximo Conss.) (327 [?] Sept. 27), non sarebbe stato intento di Costantino sciogliere eventuali dubbi sull'autenticità dell'opera, ma chiarire, in termini definitivi, che essa, plenissima luce et perfectissima elocutione et iustissima iuris ratione, riferiva opinioni oggetto di ius receptum. Per la Bassanelli, Brevi considerazioni, cit., 309 ss., non è plausibile che il testo delle Sententiae sia successivo alla costituzione di Costantino, perché ne tradirebbe lo spirito e il contenuto; l'estensore del provvedimento imperiale, e tanto più chi tale decisione aveva sollecitato, avrebbe cercato di risolvere le difficoltà sorte nell’applicazione di P.S. 2.26.11 e darebbe, pertanto, come presupposta l’affermazione secondo cui adulterium fieri non placuit con le tabernariae. Secondo il Rizzelli, In margine, cit., 739, la costituzione di Costantino sarebbe stata emanata per fugare ogni dubbio circa l'applicabilità nel caso concreto della regola fissata nelle Pauli Sententiae anche all'esercente che sia domina di una taberna (cauponia). Il Manfredini, Costantino, cit., 333, ritiene che Costantino abbia emanato la Costituzione mentre si apprestava (se non l'aveva già fatto) a riconoscere autenticità e forza normativa alle Sententiae.

 

[19] Osserva il Rizzelli, In margine, cit., 740 s., nt. 17, che, pur occupandosi il testo delle Pauli Sententiae in generale di coloro che publice procurant, la distinzione fra domina e ministrae, formulata, invece, in modo espresso in C.Th. 9.7.1, è in esso implicita, tenendo conto del fatto che chi serve i clienti è necessariamente la ministra, per definizione a tale attività preposta, mentre solo in maniera eventuale l'esercente.

 

[20] Così Esmein, Le délit d'adultère à Rome, in NRHD 2, 1878, 1 ss., 397 ss., il Manfredini, Costantino, cit., 329 s., e la Bassanelli, Brevi considerazioni, cit., 317, ritengono che con le tabernariae, da lungo tempo, non si commettesse né stupro né adulterio. Ci si basa, però, per ritenere le donne in questione donne in quas stuprum non committitur esclusivamente su P.S. 2.26.11, che potrebbe non riportare, come già osservava il Talamanca, Rec. ad AARC. VII, in BIDR 92-93, 1989-90, 671 ss., in part. 675 s., in maniera affidante la disciplina classica, «anche a voler tralasciare ogni questione sul dettato letterale del passo».

 

[21] D. 48.5.6.1 (Pap. 1 de ad.): Lex stuprum et adulterium promiscue et ϰατακρηστικώτερον appellat. sed proprie adulterium in nupta committitur, propter partum ex altero conceptum composito nomine: stuprum vero in virginem viduamve committitur, quod Graeci φθορν appellant. Vedi anche D. 48.5.35.1 (Mod. 1 reg.): Adulterium in nupta admittitur: stuprum in vidua vel virgine vel puero committitur, D. 50.16.101pr. (Mod. 9 diff.): Inter stuprum et adulterium hoc interesse quidam putant, quod adulterium in nuptam, stuprum in viduam committitur. sed lex Iulia de adulteriis hoc verbo indifferenter utitur, I. 4.18.4: …sed eadem lege Iulia etiam stupri flagitium punitur, cum quis sine vi vel virginem vel viduam honeste viventem stupraverit.

 

[22] Per l'Esmein, Le délit, cit., 1 ss., la categoria delle donne in quas stuprum non committitur comprendeva non solo «qui elles vendent leurs faveurs», ma anche «toutes celles qui faisaient un commerce ou vendaient au marché». Il Volterra, Per la storia, cit., 219 ss.; In tema, cit., 313 ss., aveva ritenuto che la categoria corrispondesse a quella delle donne con le quali era vietato contrarre matrimonio. Il Tomulescu, Justinien et le concubinat, in Studi Scherillo, 1, Milano, 1972, 299 ss., in part. 317 nt. 52, ritiene che Augusto abbia permesso il concubinato con «les femmes qui ne pouvaient être épousées, c'est-à-dire les ingénues in quas stuprum non committitur». Osserva, però, il Rizzelli, In margine, cit., 735 nt. 4, 741 nt. 18, che la categoria delle donne in quas stuprum non committitur, mai fissata in modo rigido, ma presumibilmente aperta e destinata a variare nelle persone che la compongono, a un certo punto dev’essersi configurata come autonoma, non più coincidente (se pure lo sia stata inizialmente) con quella delle donne con le quali non si commette adulterium, forse già con Atilicino, o, con maggior verosimiglianza, con Ulpiano, a cui appartengono le parole di D. 25.7.1.1.

 

[23] D. 25.7.1.2 (Ulp. 2 ad l. Iul.et Pap.): Qui autem damnatam adulterii in concubinatu habuit, non puto lege Iulia de adulteriis teneri, quamvis, si uxorem eam duxisset, teneretur.

 

[24] D. 48.5.14.2 (Ulp. 2 de ad.): Sed et in ea uxore potest maritus adulterium vindicare, quae volgaris fuerit, quamvis, si vidua esset, impune in ea stuprum committeretur.

 

[25] D. 48.5.11.2 (Pap. 2 de ad.): Mulier, quae evitandae poenae adulterii gratia lenocinium fecerit aut opera suas in scaenam locavit, adulterii accusari damnarique ex senatus consulto potest.

 

[26] Così l'Esmein, Le délit, cit., 19, e il Tomulescu, Le concubinat, cit., 317 nt. 52.

 

[27] Il verbo exercere in connessione con taberna o caupona è utilizzato nel senso di svolgere professionalmente un'attività (D. 4.9.1.5 (Ulp. 14 ad ed.): Caupones autem et stabularios aeque eos accipiemus, qui cauponam vel stabulum exercent, institoresve eorum, D. 4.9.3.2 (Ulp. 14 ad ed.): Eodem modo tenentur caupones et stabularii, quo exercentes negotium suum recipiunt, D. 23.2.43.9 (Ulp. 1 ad l. Iul. et Pap.): Si qua cauponam exercens..., D. 47.5.1pr. (Ulp. 38 ad ed.): In eos, qui naves cauponas stabula exercebunt...). Si veda, di recente, Bianchini, Attività commerciali fra privato e pubblico in età imperiale, in Studi Labruna, 1, Napoli, 2007, 423 ss., in part. 435 ss.

 

[28] Mentre il termine taberna indica, dunque, un edificio idoneo ad essere abitato, col termine taberna instructa si intende un insieme di beni e di uomini destinati ad una negotiatio, D. 50.16.185 (Ulp. 28 ad ed.): Instructam autem tabernam sic accipiemus, quae et rebus et hominibus ad negotiationem paratis constat). La Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione giurisprudenza classica, in Antecessori oblata, Cinque studi dedicati ad Aldo Dell’Oro, Padova, 2001, 23 ss., ritiene che spesso si individui come elemento identificativo della taberna la negotiatio o il negotium in essa esercitati e che un significato peculiare assunto nelle fonti dal termine taberna, pur sempre nell’ambito della più ampia accezione di locale in cui si prestano determinati servizi alla clientela, sia quello di taberna cauponia, locanda nella quale i viaggiatori possono alloggiare e consumare cibi e bevande.

 

[29] In questo senso De Dominicis, Sulle origini romano-cristiane del diritto del marito ad accusare 'constante matrimonio' la moglie adultera, in SDHI 16, 1950, 221 ss., «nella frase introduttiva è patente l'eco della questione sottoposta». La Bassanelli, Brevi considerazioni, cit., 319 s., ritiene si tratti di una risposta della cancelleria imperiale ad un quesito proposto se non da un privato, da un funzionario giusdicente, di un provvedimento legato ad un caso concreto. Anche per il RIZZELLI, In margine, cit., 739, si tratterebbe di una risposta della cancelleria imperiale ad un quesito, il che spiegherebbe perché si parla solo di donne delle taverne o osterie tralasciando tutti gli altri locali commerciali aperti al pubblico ricordati nelle Pauli Sententiae, perché si utilizza il termine domina suscettibile di generare incertezza nell'interprete di una lex generalis, perché si allude agli accusati che andranno liberi se l'accusa risulterà improponibile, il che suggerisce l'esistenza di un reale giudizio nel corso del quale sia stata interpellata la cancelleria.

 

[30] Si trova l'espressione vile ministerium in riferimento all'attività di prostituzione in un'altra costituzione di Costantino, C.Th. 15.8.1 (Imp. Costantinus A. Ad Severum P(raefectum) U(rbi): Si quis feminas, quae se dedicasse venerationi Christianae legis sanctissimae dinoscuntur, ludibriis quibusdam subicere voluerit ac lupanaribus venditas faciat vile ministerium prostituti pudoris explere, nemo alter easdem coëmendi habeat facultatem, nisi aut ii, qui ecclesiastici esse noscuntur aut Christiani homines demonstrantur, conpetenti pretio persoluto. (Dat. IIII Non. IVL Hierap(oli) Placido et Romulo Conss.) (343 Iul. 4).

 

[31] Per il Rizzelli, In margine, cit., 740, il publice delle Pauli Sententiae è impiegato a spiegare che il procurare mercibus vel tavernis exercendis avviene a contatto con i clienti, pubblicamente, e che tale attività consiste nell'assicurare il funzionamento dell'azienda cui si sovrintende, mediante i propri servizi offerti al pubblico, ma fra coloro che publice mercibus vel tabernis exercendis procurant, l'attenzione del legislatore e dei giuristi sembra rivolta in particolare a quante lavorano nelle osterie.

 

[32] Il Manfredini, Costantino, cit., 328, si chiede perché, dal momento che l'adulterio in senso ampio può comprendere anche lo stuprum, per l'interprete visigotico la domina tabernae debba necessariamente essere l'uxor tabernarii e non una donna nubile o vedova.

 

[33] Per la Lanata, Lo statuto, cit., 92 s., Costantino, preceduto da Ulpiano in D. 23.2.43pr., presumerebbe implicitamente che la taberna cauponia fosse un luogo di malaffare. Per il Manfredini, Costantino, cit., 332, l'assimilazione, nel pensiero giurisprudenziale, tra meretrici e lenae da una parte e tra queste ultime e le tabernariae dall'altra, assicura che anche alla tabernaria, senza distinzione di funzioni, non si applicava la lex Iulia de adulteriis. Per il Rizzelli, In margine, cit., 742, mentre in C.Th. 9.7.1 e P.S. 2.26.11 la tenutaria dell'osteria è accomunata alla ministra - a sua volta identificata con una prostituta – se venga a contatto con i clienti, in D. 23.2.43.9 l'exercens cauponam soggiace al medesimo regime cui è sottoposta la lena, ai fini della lex Iulia et Papia, solo se corpora quaestuaria habeat.

 

[34] Vedi anche D. 3.2.4.2 (Ulp. 6 ad ed.): Ait praetor: qui lenocinium fecerit. lenocinium facit qui quaestuaria mancipia habuerit: sed et qui in liberis hunc quaestum exercet, in eadem causa est. sive autem principaliter hoc negotium gerat sive alterius negotiationis accessione utatur (ut puta si caupo fuit, vel stabularius et mancipia talia habuit ministrantia et occasione ministerii quaestum facientia: sive balneator fuerit, velut in quibusdam provinciis fit, in balineis ad custodienda vestimenta conducta habens mancipia hoc genus observantia in officina), lenocinii poena tenebitur.

 

[35] La Robinson, Ancient Rome. City Planning and Amministration, Routledge, London, New York, 1992, 138, traduce il verum etiam si qua (ut adsolet) in taberna cauponia vel qua alia pudori suo non parcit del principium con «but also her who is not ashamed to work in a bar or inn» e ritiene che nel § 9 si consideri prostituta colei che «sells her body while working in an inn, as many women customarily do». Ma, come rileva anche il Talamanca, Pubblicazioni, in BIDR 96-97, 1993-1994, 847 ss., in part. 852, nel principium si parla, invece, di colei che non risparmia il proprio pudore in una taberna cauponia o altro esercizio del genere, e il § 9 si riferisce alla qualifica di lena data a colei che cauponam exercens in ea corpora quaestuaria habeat, non alla prostituta.

 

[36] Il Neri, Marginali, cit., 202 ss., ritiene che l'attività di prostituzione praticata nelle cauponae sia una forma di prostituzione 'semiprofessionale', che deve essere stata relativamente frequente anche nei regna barbarici.

 

[37] Nerazio, il cui pensiero è riportato da Paolo, comprende nel legato dell'instrumentum tabernae cauponiae gli institores, Paolo ritiene, invece, compresi nell'instrumentum tabernae cauponiae quegli oggetti che solent cenam traici e nell'instrumentum cauponae anche gli institores, come leggiamo in D. 33.7.13pr. (Paul. 4 ad Sab.): Tabernae cauponiae instrumento legato etiam institores contineri Neratius existimat: sed videndum, ne inter instrumentum tabernae cauponiae et instrumentum cauponae sit discrimen, ut tabernae non nisi loci instrumenta sint, ut dolia vasa ancones calices trullae, quae circa cenam solent traici, item urnae aereae et congiaria sextaria et similia: cauponae autem, cum negotiationis nomen sit, etiam institores. Si vedano anche D. 33.7.15pr. (Pomp. 6 ad Sab.): Si ita testamento scriptum sit: quae tabernarum exercendarum instruendarum pistrini cauponae causa facta parataque sunt, do lego, his verbis Servius respondit et caballos, qui in pistrinis essent, et pistores, et in cauponio institores et focariam, mercesque, quae in his tabernis essent, legatas videri e D. 33.7.17.2 (Marc. 7 inst.): Instrumento balneatorio legato dictum est balneatorem sic instrumento contineri balneario, quomodo instrumento fundi saltuarium et topiarios, et instrumento cauponio institorem, cum balneae sine balneatoribus usum suum praebere non possint.

 

[38] La Sicari, Prostituzione e tutela giuridica della schiava. Un problema di politica legislativa nell'Impero Romano, Bari, 1991, 70 s., osserva che l'insistere sulla mistificazione, spesso perpetrata, di celare un turpe commercio di prostitute dietro il paravento di un'attività gestoria legata ad una locanda risponde all'esigenza di identificare la reale natura di quel comportamento per trarne le dovute conseguenze giuridiche. Così, se una schiava era stata venduta con la clausola ne corpore quaestum faceret, non potrà essere prostituita in caupona sub specie ministrandi, altrimenti si ravviserebbe una fraus legi, come leggiamo in C. 4.56.3 (Imp. Alexander A. Aurelio Aelio): Eam, quae ita venit, ne corpore quaestum faceret, nec in caupona sub specie ministrandi prostitui, ne fraus legi dictae fiat, oportet (PP. id. Ian. Fusco II et Dextro Conss.) (a. 225). La Gardner, Women in Roman Law & Society, London-Sidney, 1986, 250 ss., affrontando il problema dell'ambito semantico del termine prostituta, ritiene che le donne che lavoravano nelle tabernae fossero prostitute anche se non iscritte nell'apposito registro.

 

[39] Biondi, Diritto romano cristiano, 3, Milano, 1952, 477.

 

[40] Robinson, Slaves and the criminal law, in ZSS 111, 1981, 213 ss., in part. 222, cita C.Th. 9.7.1 come caso di «corruption of a slave».

 

[41] Di schiave si parla, però, in I.Th. 9.7.1: si vero eius ancilla vel quae ministerium tabernae prebuit in adulterio fuerit deprehensa, pro vilitate dimittetur.

 

[42] Potrebbe anche trattarsi di un'osteria tenuta solo dal tabernarius e dalla moglie, in cui il primo serve i clienti e la seconda sta alla cassa, oppure il vino potrebbe essere servito da camerieri maschi, e non da donne.

 

[43] Per la Bassanelli, Brevi considerazioni, cit., 320, l'attenzione della cancelleria è, invece, incentrata unicamente sulle donne presenti nelle taverne e osterie, tralasciando tutti gli altri locali aperti al pubblico ricordati dalle Sententiae.

 

[44] Anche nelle Pauli Sententiae il riferimento alle merci unito al termine taberna farebbe pensare, per l'autore, che ci si riferisse alle esercenti di ogni tipo di bottega, non solo delle locande.

 

[45] Manfredini, Costantino, cit., 325 ss. Il Talamanca, Rec. ad AARC. VII, cit., 671 ss., ritiene difficile che, se il legislatore avesse considerato, come ritiene il Manfredini, l'espressione potantibus ministerium praebere come una metafora da ricondursi a quel filone di pensiero che trovava contrario ai boni mores della materfamilias l'uso del vino, metafora adottata da Costantino per esprimere la condizione della domina che si mette sullo stesso piano delle ministrae, l'avrebbe scelta se si fosse riferito a tutte le tabernae, con relative dominae e tabernariae.

 

[46] Il Durry, Le femmes et le vin, in REL 33, 1955, 108 ss., ricollega, invece, il divieto di bere il vino alla possibilità di favorire l'aborto.

 

[47] Bere vino era proibito alle matronae, come osserva il Minieri, Vini usus feminis ignotus, in Labeo 28, 1982, 150 ss., perché in netta antitesi con la rigida morale familiare e la stessa istituzione della familia: permettere in una società patriarcale che le donne bevano vino significherebbe permettere una libertà di costumi che potrebbe portare all’adulterio. Il bere vino è considerato colpa grave come l’adulterio, osserva la FAYER, La familia romana, 3, Concubinato Divorzio Adulterio, Roma, 2005, 202, perché il vino è veicolo di dissoluzione, e, pertanto, induce all’adulterio; inoltre, sulla base dell’equiparazione simbolica del vino al sangue, per cui il vino, come il sangue, sarebbe sede e veicolo del principio della vita, la donna, bevendo vino, avrebbe introdotto in sé un principio di vita estraneo, provocando la stessa commixtio sanguinis che provocava con l’adulterio. L’adultera verrebbe individuata come venefica perché, intrattenendo un rapporto sessuale con un uomo diverso dal marito, introdurrebbe un elemento estraneo nel proprio sangue inquinandolo, essendo causa di turbatio sanguinis e quindi di veneficio. La Beltrami, Il sangue degli antenati, Stirpe, adulterio e figli senza padre nella cultura romana, Bari, 1998, 53 ss., osserva che venenum sta anche a significare una ‘sostanza colorante’, e il suo significato ultimo sembra essere quello di ‘qualcosa che modifica ciò con cui entra in contatto', come si ricaverebbe da D. 50.16.236 (Gai 4 ad l. duod. tab.): Qui venenum dicit, adicere debet, utrum malum an bonum: nam et medicamenta venena sunt, quia eo nomine omne continetur, quod adhibitum naturam eius, cui adhibitum esset, mutat. Il termine venefica in relazione ad un’adultera potrebbe non indicare, per l’Autrice, che essa ha compiuto un vero avvelenamento, ma che potrebbe essere ritenuta automaticamente colpevole di veneficium per aver compromesso la trasmissione del sangue della stirpe dello sposo.

 

[48] Rizzelli, In margine, cit., 739.

 

[49] Osservava il Biondi, Il diritto romano cristiano, 2, cit., 264, che la lex Iulia de adulteriis, che può considerarsi quasi come il codice pagano della morale sessuale accolta dalla legge, rappresenta un gran passo verso il risanamento morale, anche se la restaurazione dei costumi tendeva non tanto a raggiungere un maggior grado di perfezione interiore, quanto a ripristinare le antiche tradizioni del popolo romano.

 

[50] Oltre, come è noto, a un'incapacità totale di succedere per i caelibi (lex Iulia de maritandis ordinibus, Gai 2.111: Caelibes quoque, qui lege Iulia hereditatem legataque capere vetantur) e un'incapacità parziale per coloro che, anche se sposati, non avessero figli (lex Papia Poppea nuptialis, Gai 2.286a: orbi, qui per legem Papiam dimidias partes hereditatum legatorumque perdunt).

 

[51] Volterra, In tema, cit., 116 nt. 9; Bonfante, Corso di diritto romano. 1. Diritto di famiglia, rist. Milano, 1963, 278; Solazzi, Glossemi nelle fonti giuridiche romane. 1. Prostitute e donne di teatro nelle leggi augustee, in BIDR 46, 1939, 49 ss., ora in Scritti, 4, Napoli, 1963, 181 ss.; Ciapparoni, voce Prostituzione (Diritto romano e intermedio), in NNDI 14, 1967, 228 ss.; Manfredini, Costantino, cit., 330; Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 137; Astolfi, La Lex Iulia et Papia, 4a ed., Padova, 1996, 97; McGinn, Prostitution, Sexuality, and the Law in Ancient Rome, New York-Oxford, 1998, 72.

 

[52] Il divieto di matrimonio con coloro che corpore quaestum faciunt sembrerebbe, però, previsto per i soli senatori in Tit. Ulp. XIII.1: Lege Iulia prohibentur uxores ducere senatores quidem liberique eorum libertinas et quae ipsae quarumve pater materve artem ludicram fecerit, item corpore quaestum facientem. Il divieto non appare, però, nel passo del Digesto, che sembra riportare il tenore letterale della lex Iulia, D. 23.2.44pr. (Paul. 1 ad l. Iul. et Pap.): Lege Iulia ita cavetur: ‘Qui senator est quive filius neposve ex filio proneposve ex filio nato cuius eorum est erit, ne quis eorum sponsam uxoremve sciens dolo malo habeto libertinam aut eam, quae ipsa cuiusve pater materve artem ludicram facit fecerit. neve senatoris filia neptisve ex filio proneptisve ex nepote filio nato nata libertino eive qui ipse cuiusve pater materve artem ludicram facit fecerit, sponsa nuptave sciens dolo malo esto neve quis eorum dolo malo sciens sponsam uxoremve eam habeto. Già il Mommsen aveva, pertanto, proposto di eliminare l'inciso item corpore quaestum facientem nel §1 e di inserirlo nel §2, relativo ai ceteri ingenui, Tit. Ulp. XIII.2: Ceteri autem ingenui prohibentur ducere lenam et a lenone lenave manumissam et in adulterio deprehensam et iudicio publico damnatam et quae artem ludicram fecerit: adicit Mauricianus et a senatu damnatam. La maggior parte della dottrina, aderendo alla tesi dell'insigne studioso, ritiene, pertanto, che i matrimoni con coloro quae corpore quaestum faciunt fossero vietati sia per i senatori sia per gli ingenui, come risulta anche da un altro passo dei Tituli, nel quale si adduce come esempio di matrimonio contratto contra legem Iuliam et Papiam il matrimonio di un ingenuo con un'uxor famosa e di un senatore con una liberta, Tit. Ulp. XVI.2: Aliquando nihil inter se capiunt, id est si contra legem Iuliam Papiamque Poppaeam contraxerint matrimonium, verbi gratia si famosa<m> quis uxorem duxerit, aut libertinam senat<or>.

 

[53] Il termine probrum avrebbe sempre il significato di ‘vergogna o bruttura’, come risulta da D. 23.2.41pr. (Marc. 26 dig.): Probrum intelligitur etiam in his mulieribus esse, quae turpiter viverent vulgoque quaestum facerent, etiamsi non palam e D. 50.16.42 (Ulp. 57 ad ed.): Probrum et obprobrium idem est. probra quaedam natura turpia sunt, quaedam civiliter et quasi more civitatis. ut puta furtum, adulterium natura turpe est: enimvero tutelae damnari hoc non natura probrum est, sed more civitatis: nec enim natura probrum est, quod potest etiam in hominem idoneum incidere. Per l’Astolfi, Femina probrosa, concubina, mater solitaria, in SDHI 31, 1965, 15 ss.; La lex Iulia et Papia 4, cit., 49 ss., pur essendo usata l’espressione feminae probrosae da Svetonio in senso generico e atecnico, la probositas non consisterebbe necessariamente in una immoralità sessuale, bensì nella degradazione morale e sociale, che può derivare anche da un atto non contrario alla decenza e al pudore pubblico, ma deve essere provata in maniera certa, con la notorietà del comportamento e, quindi, con un esercizio pubblico dell’attività probrosa.

 

[54] Mentre per il Volterra tali matrimoni, come tutti quelli contratti contra leges, sarebbero stati giuridicamente inesistenti, secondo altra parte della dottrina i divieti della lex Iulia et Papia non avrebbero comportato né inesistenza né nullità del matrimonio, ma avrebbero avuto l'effetto di renderlo iniustum. Così già per il Savigny, System des heutigen Römischen Rechts, Berlin, 1840, 2 (Sistema del diritto romano attuale, trad. it. Scialoja, Torino, 1888, 516 ss.), i giuristi romani avrebbero distinto fra matrimoni privi di requisiti secondo il ius civile, o meglio, per usare le sue parole, «der alten jus civile», che sarebbero stati nulli, e matrimoni che, pur avendo tutti i requisiti stabiliti per il iustum matrimonium, contravvenivano a qualche divieto di legge, come quelli sanciti dalla lex Iulia et Papia Poppea, che sarebbero stati di per sé giuridicamente validi, pur essendo i coniugi 'per quanto riguarda le condizioni di capacità' considerati caelibes. Il matrimonio con la tabernaria sarebbe, in quest'ottica, un matrimonium iniustum, ma anche il matrimonio con un'ex-prostituta, che non può che essere iniustum già in epoca classica non impediva, peraltro, l'accusa di adulterio, come leggiamo in D. 48.5.14.2, riportato supra.

 

[55] Situazione a cui avrebbe posto rimedio Domiziano, eliminando il diritto di usare la lettiga e di capere legata hereditatesque, come riferisce Svetonio 8.3: probrosis feminis lecticae usum ademit iusque capiendi legata hereditatesque. Il Nardi, La incapacitas delle feminae probrosae, in Studi Sassaresi, 2, 1939, 151 ss., aveva ritenuto che l’espressione feminae probrosae, che si trova solo nel passo di Svetonio e in nessun testo giuridico, non avesse un preciso significato tecnico e non potesse che significare donne «moralmente turpi», con specifico riferimento al campo sessuale.

 

[56] C.Th. 8.16.1 (Imp. Costantinus A. Ad Populum): Qui iure veteri caelibes habebantur, inminentibus legum terroribus liberentur adque ita vivant, ac si numero maritorum matrimonii foedere fulcirentur, sitque omnibus aequa condicio capessendi quod quisque mereatur. Nec vero quisquam orbus habeatur: proposita huic nomini damna non noceant. Quam rem et circa feminas aestimamus earumque cervicibus inposita iuris imperia velut quaedam iuga solvimus promiscue omnibus. Verum huius beneficii maritis et uxoribus inter se usurpatio non patebit, quorum fallaces plerumque blanditiae vix etiam opposito iuris rigore cohibentur, sed maneat inter istas personas legum prisca auctorita[s] (Dat. Prid. Kal. Feb. Serdicae, P(ro)p(osita) Kal. April. Roma(ae) Constantino A. VI et Constantino C. Conss.)(a. 320). Sulla costituzione si veda Spagnuolo Vigorita, Imminentes legum terrores. L'abrogazione delle leggi caducarie augustee in età costantiniana, in AARC 7, cit., 251 ss., Venturini, Accusatio adulterii e politica costantiniana (Per un riesame di C.Th. 9.7.2), in SDHI 54, 1988, 66 ss., e bibliografia citata.

 

[57] Per Domingo, La legislacion matrimonial de Costantino, Pamplona, 1989, 33 ss., «Costantino mantuvo las prohibiciones clasicas, pero amplio las de caracter social con C.Th. 4.6.3». Per Astolfi, Lex Iulia et Papia, cit., 372 s., i divieti di matrimonio avrebbero mantenuto vigore per tutta l'epoca postclassica. Il Puliatti, Quae ludibrio, cit., 51, ritiene che Costantino in C.Th. 4.6.3, disponendo i divieti per i senatori, avrebbe dato per vigente il divieto generale per gli ingenui, come risulterebbe dal fatto che colpisce l'infrazione per i senatori penalmente, con l'irrogare la perdita della cittadinanza e l'infamia, e patrimonialmente, con la sottrazione delle donazioni a moglie e figli illegittimi. Per il Neri, I marginali, cit., 199, Costantino allargò sia l'ambito delle élites toccate da queste proibizioni, estendendolo anche a quelle locali, sia l'ambito delle categorie di donne con le quali era vietato il matrimonio, includendovi anche altre categorie di donne di bassa condizione. Il Laurence, Les mésalliances dans le Code Théodosien, in Droit, Religion et Société dans le Code Théodosien, Genève, 2009, 159 ss., pone in evidenza che la costituzione di Costantino, rispetto alla disposizione della lex Iulia de maritandis ordinibus relativa ai senatori, estende il divieto «all’esclave, la fille d'esclave, la fille d'affranchie, l'aubergiste, les filles d'aubergiste, celles de souteneur et de gladiateur, la marchande publique, la femme humble ou avilie», ma «a fortiori, le matrimonium était impossible avec les femmes qui ne pouvait épouser un ingénu d'après la lex Iulia: une prostituée ou ancienne prostituée, une entremetteuse ou une adultère».

 

[58] C.Th. 4.6.3 (Imp. Costantinus A. Ad. Gregorium): Senatores seu perfectissimos, vel quos (in civ)itatibus duumviralitas vel quinquennalitas vel fla[monii] vel sacerdotii provinciae ornamenta condecorant, pla(cet m)aculam subire infamiae et peregrinos a Romanis legibus (fieri, s)i ex ancilla vel ancillae filia vel liberta vel libertae (filia), sive Romana facta seu Latina, vel scaenica (vel scaenicae) filia, vel ex ta(bern)aria vel ex tabernari filia vel humili vel abiecta vel leno(nis ve)l harenarii filia vel quae mercimoniis publicis praefuit, (suscep)tos filios in numero legitimorum habere voluerint (aut pr)op(r)io iudicio aut nostri prerogativa rescribti, ita ut (quidq)uid talibus liberis pater donaverit, sive illos legitimos (seu natur)ales dixerit, totum retractum legitimae subo(li redda)tur aut fratri aut sorori aut patri aut matri. (L[ecta XII] k. Avg. Carthag(ine) Nepotiano et Facundo Conss.) (336 Iul. 21).

 

[59] Per il Manfredini, mentre vigeva la disciplina tradizionale che considerava le tabernariae donne non honoratae, come confermato dal testo delle Pauli Sententiae, Costantino avrebbe emanato una costituzione che si sarebbe messa in antinomia non solo con la tradizione giurisprudenziale ma anche con un'altra costituzione da lui stesso emanata, che prevede il divieto per i senatori di sposare una tabernaria, C.Th. 4.6.3.

 

[60] Il De Robertis, La condizione sociale e gli impedimenti al matrimonio nel basso impero, in Annali Bari 1939, 45 ss., ora in Scritti, 1, Bari, 1987, 177 ss., aveva ritenuto i divieti di matrimonio per gli ingenui non più esistenti nel diritto postclassico. Per il Cardascia, La distinction entre honestiores et humiliores et le droit matrimonial, in Studi Albertario, 2, Milano, 1953, 656 ss., in part. 666, Costantino «ne remet pas en vigueur les empêchements limitant la liberté des simples ingenui, empêchements qui étaient tombés en désuétude». La Dupont, Les Constitutions de Constantin et le droit privé au début du IV Siècle, Roma, 1968, 79 s., ritiene che le leggi caducarie di Augusto 'disparaissent presque complètement' e il matrimonio e la fecondità non furono più considerati doveri essenziali dei buoni cittadini. Rimasero solo, secondo l'autore, 'les restrictions du ius capiendi entre époux'. Dal momento che per il cristianesimo il matrimonio era uno stato meno perfetto del celibato, Costantino «se trouvait donc, en quelque sorte, forcé d'abroger des lois manifestement contraires aux ministres d'un culte qu'il avait reconnu et qu'il protégeait». Vedi anche Mc Ginn, The Social Policy of Emperor Constantine in Codex Theodosianus 4,6,3, in TR 67, 1999, 57 ss., il quale ritiene che C.Th. 4.6.3 «forbids marriage with the types of women it names as concubines and redefines the notion of imperial elite with the types of men it lists as liable to its strictures».

 

[61] Occorre anche rilevare che, se riteniamo che nella taberna si svolgesse l'attività di prostituzione, la tabernaria, se anche non l'avesse svolta personalmente, l'avrebbe diretta, rientrando, pertanto, nella categoria delle lenae. Per il Puliatti la tabernaria sarebbe, infatti, «la donna che conduce una locanda e dissimulatamente funge da mezzana».

 

[62] Osserva il Laurence, Les femmes, cit., 264, che si nota in particolare in Costantino un aggravamento delle pene «qui sanctionnent les atteintes à la morale sexuelle, et un régime plus lourd pour les femmes en la matière, accompagné d'une lutte réelle contre la prostitution».

 

[63] C.Th. 9.40.1 (Imp. Costantinus A. Ad Catullinum): Qui sententiam laturus est, temperamentum hoc teneat, ut non prius capitalem in quempiam promat severamque sententiam, quam in adulterii vel homicidii vel maleficii crimen aut sua confessione aut certe omnium, qui tormentis vel interrogationibus fuerint dediti, in unum conspirantem concordantemque rei finem convictus sit et sic in obiecto flagitio deprehensus, ut vix etiam ipse ea quae commiserit negare sufficiat. (Dat. III Non. Nov. Trev(iris), Acc. XV Mai. Hadrumet(o) Volusiano et Anniano Conss.) (314 [?] Nov. 3).

 

[64] C.Th. 9.38.1 (Imp. Costantinus A. Ad Maximum P(raefectum) P(raetori)o): Propter Crispi atque Helenae partum omnibus indulgemus praeter venificos homicidas adulteros (Acc. III Kal. Nov. Rom(ae) Probiano et Iuliano Conss.) (322 Oct. 30), C.Th. 9.38.3 (Impp. Val(entini)anus, Valens et Gr(ati)anus AAA. Ad Viventium P(raefectum) U(rbi): Ob diem paschae, quem intimo corde celebramus, omnibus, quos reatos adstringit, carcer inclusit, claustra dissolvimus. Adtamen sacrilegus in maiestate, reus in mortuos, veneficus sive maleficus, adulter raptor homicida communione istius muneris separentur. (Acc. Dat. III Non. Mai. Rom(ae)Lupicino et Iovino Conss.) (367[369] Mai. 5), C.Th. 9.38.4 (Impp. Val(entini)anus, Valens et Gr(ati)anus AAA. Ad Olybrium P(raefectum) U(rbi): Paschae celebritas postulat, ut, quoscumque nunc aegra exspectatio quaestionis poenaeque formido sollicitat, absolvamus. Decretis tamen veterum mos gerendus est, ne temere homicidii crimen, adulterii foeditatem, maiestatis iniuriam, maleficiorum scelus, insidias venenorum raptusque violentiam sinamus evadere (Lecta VII Id. Iun. Val(entini)ano et Valente II AA. Conss.) (368 Iun. 6), C.Th. 9.38.7 (Impp. Gr(ati)anus, Val(entini)anus et Theod(osius) AAA. Ad Marcianum Vic(arium): Religio anniversariae obsecrationis hortatur, ut omnes omnino periculo carceris metuque poenarum eximi iuberemus, qui leviore crimine rei sunt postulati. Unde apparet eos excipi, quos atrox cupiditas in scelera compulit saeviora: in quibus est primum crimen et maxime maiestatis, deinde homicidii veneficiique ac maleficiorum, stupri atque adulterii parique immanitate sacrilegii sepulchrique violatio, raptus monetaeque adulterata figuratio (Dat. XI Kal. April. Med(iolano) Richomere et Clearcho Conss.) (384 Mart. 22).

 

[65] C.Th. 3.16.1 (Imp. Costant(inus) A. Ad Ablavium P(raefectum) P(raetori)o): ...In masculis etiam, si repudium mittant, haec tria crimina inquiri conveniet, si moecham vel medicamentariam vel conciliatricem repudiare voluerint. (Dat....Basso et Ablavio Conss.) (331...).

 

[66] Vedi De Dominicis, Sulle origini romano-cristiane, cit., 233 ss., il quale accentra l'attenzione sulle parole tamen ne volentibus temere liceat foedare connubia, in cui foedare significa intaccare, per cui l'intento dell'Imperatore sarebbe quello di ovviare ai casi di attentati all'esistenza e integrità dei matrimoni derivanti dall'esercizio temerario (temere) di accuse di adulterio promosse da estranei al gruppo familiare.

 

[67] C. 9.9.29 (Imp. Costantinus A. Ad Evagrium): Quamvis adulterii crimen inter publica referatur, quorum delatio in commune omnibus sine aliqua legis interpretatione conceditur, tamen ne volentibus temere liceat foedare conubia, proximis necessariisque personis solummodo placet deferri copiam accusandi, hoc est patri fatri nec non patruo et avunculo, quos verus dolor ad accusationem impellit. Sed et his personis legem imponimus, ut crimen abolitione, si voluerint,compescant. In primis maritum genialis tori vindicem esse oportet, cui quidem ex suspicione etiam ream coniugem facere licet vel eam, si tantum suspicatur, penes se detinere non prohibetur: nec inscriptionis vinculo contineri, cum iure mariti accusaret, veteres retro principes adnuerunt. Extraneos autem procul arceri ab accusatione censemus: nam etsi omne genus accusationis necessitas inscriptionis adstringat, nonnulli tamen proterve id faciunt et falsis contumeliis matrimonia deformant. Sacrilegos autem nuptiarum gladio puniri oportet. (PP. Nicomediae VII k. Mai. Constantino A. VII et Constantio C. Conss.) (326 Apr. 25).

 

[68] Sia che si ritenga, con il Volterra, Per la storia, cit., 54, che l'accusa privilegiata, riservata al solo marito, diminuisca fortemente il suo valore, e che perda sempre più d'importanza la distinzione fra accusatio iure mariti e accusatio iure extranei, sia che si ritenga, con il Venturini, Accusatio, cit., 99, che, perlomeno in caso di adulterio flagrante, la disciplina di Costantino confermi la differenziazione formale fra accusa iure mariti e accusa iure extranei, limitandosi «ad obliterare, in rapporto alla prima, la menzione del pater e a restringere il novero dei soggetti ammessi alla seconda».

 

[69] Nella versione giustinianea, C. 9.9.29, dopo ex suspicione ream coniugem facere licet, troviamo, come si è visto, vel eam, si tantum suspicatur, penes se detinere non prohibetur. Secondo la dottrina prevalente, non si tratterebbe di un'innovazione giustinianea, ma di una precisazione; così per il De Dominicis, Sulle origini, cit., 233 ss., nella costituzione sarebbe implicito che le accusationes vengono intentate contro uxores ancora legate dal vincolo matrimoniale, altrimenti non ci si potrebbe spiegare quale pericolo corressero i matrimoni. Su tale presupposto, Costantino avrebbe esteso anche al marito la possibilità di accusare senza prima dover sciogliere il matrimonio, tenendo presente la tendenza della legislazione di questo periodo e del successivo a circoscrivere la possibilità di divorziare. Solo in una concezione cristiana, secondo cui l'adulterio non è più causa di scioglimento del matrimonio, si giustificherebbe come tanto il coniuge quanto le proximae personae potessero postulare criminalmente la punizione dell'uxor senza che il matrimonio dovesse essere sciolto.

 

[70] Per la Dupont, Les Constitutions, cit., 108, Costantino volle sottomettere alle leggi sull'adulterio un maggior numero di persone, dichiarando con C.Th. 9.7.1 che «les tenancières d'auberge ne pourront plus invoquer la bassesse de leur condition pour soustraire leur mauvaise conduite au châtiment». Si tratta probabilmente, per l'autore, di «un désir de relever la moralité dans les classes inférieures de la société».

 

[71] Parte della dottrina ha ritenuto che non si tratti di un'innovazione, perché anche in epoca classica, se una donna rientrante nella categoria delle donne in quas stuprum non committitur si fosse, comunque, sposata, dovendo a tal punto essere tutelato non solo il suo onore, ma anche quello del marito, poteva essere accusata di adulterio se intaccava tale onore con una relazione 'extra-coniugale', Così l'Esmein, Le délit, cit., 19 s., per il quale se una donna di tal fatta si sposava, «doit conserver intact, non plus seulement son honneur propre, mais aussi celui du mari». Più di recente, osserva il Rizzelli, In margine, cit., 735 nt. 4, 741 nt. 18, che se una donna che rientrava nel gruppo delle persone in quas stuprum non committitur si sposava, non per questo si sottraeva alle sanzioni previste per l’adulterio, perché poteva rilevare l’eventuale iniuria nei confronti del marito, come si è visto per l'uxor quae volgaris fuerit di D. 48.5.14.2. Come già osservato, nella costituzione di Costantino si tratta però di una donna che continua a svolgere l'attività di tabernaria, mentre Ulpiano parla di un'uxor che è stata vulgaris in passato, ma non lo è più da quando si è sposata.