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ventrella-piccola.jpgCarmela Ventrella Mancini

Università di Bari

 

La sinfonia di Sacerdotium e Imperium nei concilii generali e particolari dei secoli VI e VII[1]

 

 

 

 

SOMMArio: 1. Introduzione. – 2. I concilii merovingi. – 3. I concilii visigoti. – 4. Conclusioni.

 

 

1. – Introduzione

 

Il periodo storico prescelto è particolarmente rilevante sotto il profilo dello sviluppo dei rapporti fra sacerdotium e imperium, per la comprensione del quale risulta imprescindibile l’apporto della legislazione sinodale delle province o di spazi geografici più estesi.

Nella complessità della situazione storico-politica dell’Impero romano e nel confronto con i diversi modelli offerti dalle nuove entità territoriali, i concilii provinciali, interprovinciali e generali rappresentano il simbolo della logica della sintonia fra i due poteri alla base di una concezione dualistica dinamica le cui linee evolutive sono rinvenibili, significativamente, nell’intero percorso conciliare. Nei regni romano-barbarici convertiti nei quali le Chiese locali s’impongono quali articolate, autonome realtà istituzionali lontane dall’influenza del vescovo di Roma, l’attività sinodale diventa il mezzo più importante di normazione con riflessi anche sulla legislazione civile, attesa l’universalità della sfera di applicazione decretata dallo stesso volere del potere secolare di dotare di certezza formale i canoni secondo quella tendenza che, per i concilii più rappresentativi, verrà a consolidarsi nel tempo. Sotto tal profilo, emblematiche le situazioni della Gallia merovingia e della Spagna visigota per le quali l’intensa attività conciliare mostra il vincolo che si viene ad instaurare tra la gerarchia ecclesiastica e il monarca, impegnati vicendevolmente in un’efficiente collaborazione per la riorganizzazione della società in profonda trasformazione. Diversa la posizione dell’Italia il cui quadro politico-religioso non favorisce la via conciliare almeno fino all’VIII secolo quando la situazione cambierà a seguito del delinearsi dei rapporti fra il papato e la potenza carolingia.

In questa prospettiva, i concilii esprimono l’ideazione di un ordine sociale in cui l’unità si realizza attraverso l’universalità della religione. Sotto tale profilo, la ricezione delle decisioni sinodali impone la direttiva indicata dai Padri risultando, in molte circostanze, l’apporto sollecitato della Chiesa risolutore anche per l’equilibrio politico nel sistema di forze contrastanti. L’evoluzione del concilio da assemblea religiosa ad assise “politica”, nella compresenza di uomini di Dio e dei “grandi” della terra, contribuirà, poi, a precisare il rapporto tra potere secolare e potere religioso, tra leggi e canoni; in un crescendo relazionale tra i due poteri, la Chiesa verrà chiamata a pronunciarsi su questioni politiche e amministrative, come dimostrano la ragione stessa di molti concilii, convocati principis praecepto, e la prassi in virtù della quale gli stessi devono essere regolarmente celebrati per affrontare questioni di fede o problematiche d’interesse generale del regno.

Nella condivisione di un progetto comune e nell’impiego di mezzi propri per il trionfo della fede, l’ideale modello dualistico[2] nella pratica si traduce in una compartecipazione al potere che determina inevitabili reciproche concessioni. Ne sono una chiara testimonianza l’ingerenza del monarca nelle nomine episcopali e l’attribuzione ai vescovi di compiti di giurisdizione secolare. In un’operazione volta all’acquisizione di valori supremi, pure la soluzione giuridica offerta dalle disposizioni conciliari consente di cogliere lo spirito armonico tra le due potestà che reggono il mondo traducendosi in una sorta d’intervento suppletorio o integrativo dell’una o dell’altra nella regolamentazione di alcuni istituti. Il risultato è un diritto riformato alla luce di rinnovati fondamenti ideologici e religiosi. Si pensi, per fare solo alcuni esempi, allo spazio d’azione riconosciuto, in forza della fede o ratione personae o loci, alla legislazione sinodale sul diritto vigente in ambiti tradizionalmente civilistici, come quelli riguardanti il testamento, la manomissione, o anche alle prerogative nel campo della vigilanza sull’applicazione delle misure adottate, per esempio in materia fiscale, non mancandosi, inoltre, di sottolineare l’incisività del consenso tra i Poteri sull’effetto derogatorio nei casi di giurisdizione esclusiva. L’idea del convergere in unum, in una predeterminata assonanza d’intenti, insita nella natura giuridica dell’istituto conciliare secondo la definizione isidoriana del concilium accolta da Graziano[3], si fa ancor più evidente quando la communis intentio va riferita ad un corpus deliberante misto. Il concilio diventa così l’espressione massima della cooperazione fra i due poteri, che procedendo ab uno eodemque principio[4] risultano solidali nel fronteggiare le contraddizioni dell’epoca offrendo alle questioni proposte, religiose e non, decisioni dotate di un’imperatività rafforzata dall’autorevolezza della volontà generale indicativa del corpus christianorum. Pregnante, in tal senso, la pratica rituale di chiusura dell’assemblea conciliare consistente in un contestuale e paritetico ringraziamento a Dio e al suo rappresentante in terra, appellato come piissimus, christianissimus o con altre qualificazioni elogiative del suo fervore religioso.

L’analisi attenta e puntuale degli atti conciliari induce a sostenere come, in una fase di consolidamento dei rapporti fra potere temporale e potere spirituale, il concilio diventa la manifestazione dell’aggregazione popolare. Alcuni concilii generali decretano infatti la rinascita ufficiale dei regni sulle nuove fondamenta della religione ponendosi gli stessi processi verbali quali atti costitutivi e al contempo programmatici della politica ecclesiastica regia; esemplare il III concilio di Toledo del 589, convocato da Recaredo I perché, come si legge nel discorso di apertura dell’assise tenuto dal re, dopo la sua conversione e il passaggio al cattolicesimo sancito solennemente e formalmente proprio dal concilio, la popolazione dei Goti si presenti alla Chiesa per essere accolta nel seno della sua fede; nella detta presentazione sono individuati tutti i princìpi a cui s’ispira il regno: il monarca, gloriosissimus, diventa il defensor fidei e, con lo stesso impegno profuso nelle cose terrene, si avvale del suo potere coercitivo per fornire le norme canoniche di quelle sanzioni necessarie a proteggere la purezza dei costumi e la disciplina ecclesiastica[5].

La cura regia per la diffusione della verità della fede diventa quindi strumentale alla realizzazione di un regno coeso anche sotto il profilo politico; da qui lo sforzo generale e totalizzante nella lotta contro il paganesimo e l’ebraismo, pericolosi per la compagine sociale, in una condanna che accompagna costantemente la legislazione a dimostrazione della difficoltà dell’opera di cristianizzazione, nelle forme differenziate di adattamento delle varie culture al messaggio evangelico[6].

Nel rivendicato collegamento fra obblighi della coscienza e bisogni materiali, la legislazione conciliare tenderà a presentarsi come diritto regolante anche la convivenza civile traducendosi in prescrizioni comportamentali orientate a condizionare prospettive concrete dell’itinerario terreno dell’uomo. Il dovere di uniformità imposto nelle pratiche cultuali risponde, infatti, all’esigenza di difendere l’ortodossia contro il “male” rappresentato dalle altre religioni e dalle sopravvivenze del passato. L’autenticità della religione cristiana si declama attraverso l’originalità degli atti di contrizione, in tempi e con modalità proprie che scongiurano il rischio di sovrapposizioni di credenze. Le norme conciliari affrontano aspetti non più solamente liturgici venendo infatti ad imporre l’organizzazione del Tempo cristiano anche nel calendario civile, in un processo graduale che segna altresì il coinvolgimento del potere secolare in materia di repressione di condotte sovversive sul piano dei contenuti delle ricorrenze religiose. Nella dimensione aggregante della missione in difesa della fede, la dottrina teologica diventa legge civile con l’approvazione dei canoni e le sanzioni penali sono complementari alle pene spirituali, destinate a chi non rispetta il momento cultuale. Nella fisionomia tracciata dagli interventi dei Padri, esse costituiscono la risposta all’intervento invocato dalla Chiesa al fine di ingenerare negli adepti la necessaria adesione ai precetti.

 

 

2. – I concilii merovingi

 

Le riflessioni qui sinteticamente esposte sono state suggerite da un esame sistematico dei concilii che si sono succeduti nelle varie aree geografiche interessate, dei quali però solo alcuni verranno tratteggiati negli aspetti salienti ai fini della ricostruzione che qui rileva; con specifico riferimento a quelli svoltisi su territorio gallico, già la copiosità degli stessi fra il 511 e il 695[7] evidenzia l’importanza dei suddetti concilii, fonte e culmine dell’attività legislativa nel senso sopra precisato.

Esemplare della natura dei rapporti tra potere secolare e potere religioso è il concilio generale tenutosi ad Orléans nel 511, assemblea che apre la stagione dei concilii merovingi e che getta le basi di quel rinnovamento culturale e sociale operato dalla Chiesa. Nella riproposizione del modello ispiratore di Costantino, non soltanto è il re a convocare il primo grande concilio del suo regno come espressamente riferito dalla breve prefazione ai canoni (Cum autore Deo ex evocatione gloriosissimi regis Clothovechi in Aurelianensi urbe fuisset concilium summorum antestitum congregatum), ma è lui stesso a delinearne la portata dei lavori: secundum voluntates vestrae consultationem et titulos, quos dedistis, ea quae nobis visum est definitione respondimus; secondo uno schema che si ripeterà nella prassi conciliare, nella stessa lettera sinodale la Chiesa tutta esprime grande riconoscenza al “proprio figlio e gloriosissimo re”, che per la sua grande fede aveva deciso di consultare i sacerdoti per il riordino di alcune situazioni e per voler dotare le deliberazioni di quell’efficacia qualificata derivante dell’approvazione regia: … Tanti consensus regis ac domini maiori auctoritate servandam tantorum firmet sententiam sacerdotum[8].

Il significato della sinfonia risulta più chiaro ove si osservi la prima disposizione che, in un riconoscimento indiretto alla Chiesa di un autonomo diritto di normazione attraverso lo strumento conciliare, sancisce l’equiparazione dei canoni al diritto romano[9]; si stabilisce infatti che, in conformità al diritto dei canones ecclesiastici e alla lex Romana, i vescovi, nonostante la riprovazione dei crimini di omicidio, adulterio e furto, non potranno consegnare alla giustizia terrena i rei che si siano rifugiati presso la Chiesa se non dopo un giuramento sui vangeli che sottragga gli stessi all’inflizione della pena capitale, delle mutilazioni o di misure equivalenti. In caso di trasgressione seguirà la privazione della comunione ecclesiale e, con notevoli ripercussioni anche sul piano sociale, l’esclusione dello spergiuro da tutti i rapporti con i cattolici. Il risultato è dunque quello di una ridefinizione degli istituti secondo un’impostazione religiosa che si arricchisce di contenuti diversi. Nel caso di specie, nella configurazione del diritto d’asilo, il riferimento al “sacramento” (… quod si sacramenta sua quis convictus fuerit violasse …) e alla grave sanzione ecclesiastica, che ne deriva in caso di violazione, da un lato interviene a intensificare il senso di cogenza della norma, dall’altro evidenzia come la stessa doverosità nell’uso della misericordia da parte della Chiesa diventi ora presupposto indispensabile per l’esercizio di un diritto[10]. Sempre nell’ambito del diritto d’asilo, il principio esposto viene confermato nella disposizione successiva ove a delinearsi sia il rapimento. A tal proposito è doveroso sottolineare che la riduzione in schiavitù, del rapitore da parte del padre della donna, quale conseguenza del reato di ratto, sia posta come alternativa alla libera facultas redimendi, introducendo un’importante novità giuridica nel solco della tendenza manifestata dalle disposizioni conciliari a limitare, e infine ad eliminare, i casi di servitù. In una sinergia di forze destinate alla guida della societas christiana, oltre all’intervento mitigatore del potere religioso sull’amministrazione della giustizia secolare, in un vicendevole controllo dell’un potere sull’altro secondo il progetto codificato dalle norme, le Chiese, pur nella riconosciuta autonomia gestionale, hanno l’obbligo di destinare i beni donati dal re (dominus noster rex) al sostentamento, oltre che del clero, anche dei poveri, al riscatto dei prigionieri, pena l’allontanamento dalla comunione in caso di mancato ravvedimento dopo il pubblico biasimo da parte dei vescovi della provincia[11].

Come precedentemente detto, il potere secolare interviene nella nomina dei chierici, che deve avvenire regis iussione aut cum iudicis voluntate[12].

Punti di novità sono rappresentati dall’ampliamento del riconoscimento civile, con la concessione della sospensione del lavoro, di altri tempi sacri oltre alla domenica e alle principali festività. È ciò che accade per le Rogazioni, annoverate per la prima volta tra le osservanze religiose, durante le quali servi et ancellae ab omni opere relaxentur, quo magis plebs universa conveniat. Nello stesso tempo, è necessario astenersi e utilizzare solo i cibi permessi in quaresima[13].

Il paradigma conciliare di Orléans si riproduce anche nel concilio successivo, quello epaonense, convocato nel 517 dal re Sigismondo dopo la sua conversione. Nella lettera sinodale si ricorda l’opportunità di una convocazione sistematica del concilio almeno ogni due anni nonostante gli antichi canoni prescrivano due concilii provinciali all’anno[14]. Si stabilisce, ratione personae, la giurisdizione della Chiesa sui chierici[15]; inoltre, a tutela del patrimonio dell’istituzione da ogni interferenza privata, si sanciscono la nullità della vendita di un bene ecclesiastico[16], l’incapacità del vescovo a disporre per via testamentaria delle sostanze e dei beni della Chiesa, rimanendo gli stessi immuni dalle prescrizioni legali e quindi da ogni azione di rivendicazione all’autorità del re anche quando il possesso sia avvenuto in assenza di un titolo “di precario”[17].

Ancora, il concilio di Lione (aa. 518-523), costringendo[18] il re Sigismondo a riconoscere la sentenza di scomunica inflitta nei confronti di un suo funzionario, Stefano, che aveva sposato la cognata Palladia, evidenzia un accoglimento, sia pur forzato, della dottrina della Chiesa in materia di matrimonio estendendo la nozione di incesto all’affinità nel senso già delineato dal can. 30 del concilio epaonense[19].

Come anticipato, la difficoltà di una reale adesione dei popoli neoconvertiti al cristianesimo è dimostrato dalla persistenza del conflitto fra la cultura cristiana e quella pagana; quasi tutti i concilii dedicano ampio spazio a forme di contenimento e di repressione delle forme di sopravvivenza delle originarie e svariate credenze religiose delle gentes. A tal proposito, il II concilio d’Orléans, convocato per ordine dei tre figli di Clodoveo (ex praeceptione gloriosissimorum regum) nel 533 per vegliare sull’osservanza della legge cattolica come si legge nella prefazione degli atti (de observatione legis catholicae)[20], al can. 20 punisce con l’esclusione dalla comunione i cattolici che, dimostrando di non aver custodito la grazia ricevuta con il battesimo, ritornano al culto degli idoli[21].

Nel 535, con il consenso di Teodeberto, re gloriosissimo e piissimo (consentiente domno nostro gloriosissimo piissimove regi Theudebertho), si celebra il concilio arvernense che, mentre conferma le prescrizioni in materia di tutela dei beni ecclesiastici[22], sembra riportare l’elezione episcopale nella giurisdizione esclusiva della Chiesa stabilendo che il vescovo deve essere eletto dai chierici e dal popolo e deve avere il consenso del metropolita[23].

L’alleanza tra le due Autorità per la propagazione della fede si esplica altresì nella collaborazione del potere civile a perseguire materialmente le deviazioni dall’ortodossia preparando gradualmente il terreno di quello che rappresenterà il c.d. braccio secolare. Sotto tale profilo, significativo il concilio che nel 538, dietro invito del re Childeberto, si svolse ad Orléans per la terza volta. Le disposizioni, oltre a ribadire le norme contro gli ebrei, quelle in materia d’incesto e di schiavitù, impongono al giudice laico (iudex civitatis vel loci) di riportare gli eretici sulla retta via della “religione del re”, pena la scomunica di un anno[24].

L’armonia tra sacerdotium e imperium si realizza persino in materia di immunità ecclesiastiche; così a proposito del privilegio del foro, si viene ad ammettere la possibilità di una giurisdizione concorrente alternativa con il potere civile fondata su un atto di autorizzazione del potere religioso: Clericus cuiuslebit gradus sine pontificis sui permisso nullum ad saecolare iudicium praesumat adtraere neve laico inconsulto sacerdote clericum in saecolare iudicio leceat exebere[25]. Come si specificherà nel concilio successivo a proposito di controversie tra un chierico e un laico, le parti possono, ex voluntate communi, decidere di rivolgersi al tribunale secolare, confermando, sempre per il chierico, il presupposto processuale indispensabile rappresentato dal permesso del vescovo e prescrivendo che, in questo caso, il giudice civile (iudex publicus) potrà procedere solo in presenza del rappresentante ecclesiastico[26].

Un vulnus apparente al legame tra le due potestà nella gestione della giustizia potrebbe intravedersi in alcune disposizioni nelle quali si prevede l’applicazione della disciplina ecclesiastica nonostante un provvedimento benevolente del potere secolare. Nella specie, il can. 28 del IV concilio d’Orléans stabilisce che gli omicidi volontari perpetrati nei confronti di un innocente, anche ove graziati dal re, non sfuggiranno alla penitenza del vescovo. Tale difformità di trattamento, giustificata dalla gravità del reato, lungi dal costituire una disarmonia, bene s’incardina in una prospettiva politica della religione nella quale l’indipendenza dei poteri nel governo degli uomini si realizza attraverso l’operatività in ambiti diversi, agendo la Chiesa per il superiore fine ultraterreno[27].

In una visione provvidenziale del regno, il proemio del V concilio d’Orléans (a. 549) afferma che è segno evidente della grazia divina vedere uniti in concilio prìncipi e sacerdoti (vota principum concordant animis sacerdotum) in un significativo allineamento nell’aspirazione al raggiungimento di un’univoca norma vivendi. La felice congiunzione di voleri per il ristabilimento dell’unificazione spirituale ha spinto il re Childeberto, pro amore sacrae fidei, a convocare i vescovi per rinnovare le leggi e ristabilire i costumi.

La storia dei singoli concilii e delle stesse convocazioni evidenziano come tali assemblee, oltre a porsi come organi legislativi, sono, in alcune vicende significative sotto il profilo dell’equilibrio politico, chiamate a risolvere casi di giustizia intervenendo a giudicare e a sanzionare crimini perpetrati nei confronti dei regnanti. È quanto si realizza nel concilio di Parigi del 577, convocato dal re Chilperico per chiedere ai vescovi riuniti di condannare per tradimento nei confronti della sua persona l’arcivescovo Pretestato[28] o ancora il concilio di Berny nel 580, indetto dallo stesso re per giudicare Gregorio di Tours, accusato di essere l’autore di gravi delazioni nei confronti della regina Fredegonda[29]. Oltre a ciò, non è raro il caso di concilii che, per porre fine a problematiche gravi sotto il profilo dell’unità della Chiesa e del regno, vengono convocati dal re per dare rilevanza civile a pronunce ecclesiastiche, estendendone la portata applicativa oltre i casi di trasgressione dell’ortodossia dottrinale e realizzando, in questo modo, una alterazione della natura della pena religiosa, trasformata in strumento di repressione secolare. Tra gli altri, sintomatico il concilio cabilonense nel 579, convocato su proposta del re Gontrano, per confermare la sentenza di deposizione dei vescovi Salonio e Sagittario pronunciata nel concilio tenuto a Lione nel 567 [30].

Interessante, sotto il profilo giurisdizionale, il concilio di Macon, convocato da re Gontrano tra il 581-583. Solo la gravità dei crimini capitali giustifica l’eccezione al privilegio del foro ecclesiastico: il giudice civile potrà procedere nei confronti del chierico anche senza l’autorizzazione del vescovo (can. 7); negli altri casi, invece, l’inosservanza di tale privilegio viene sanzionata con l’inflizione di pene corporali, nel caso in cui il responsabile sia un chierico inferiore o, negli altri casi, con la privazione della libertà personale per trenta giorni (can. 8)[31].

Le proibizioni per i chierici di assistere ai processi criminali e all’esecuzione dei condannati vengono riaffermate dal concilio matisconense convocato nel 585 (can. 19)[32]. Con riferimento a quest’ultimo, rilevante il I canone a proposito della santificazione della domenica. Si legge che il popolo cristiano con fare temerario ha interrotto il culto nel giorno di domenica e, come nei giorni feriali, attende ininterrottamente al lavoro[33]. Per questo, con lettera sinodale, si stabilisce l’obbligo di riportare questo culto nelle Sante Chiese pena l’applicazione delle punizioni stabilite in forza della divina autorità: Omnes autem, qui definitiones nostras per inoboedientiam evacuare contendit, anathema percellatur (can. 4)[34]. L’astensione dai lavori servili è prescritta anche durante la settimana santa (can. 2)[35].

Un capitolare di Colonia del 29 febbraio 594 imporrà, poi, per il regno di Childeberto II, gli stessi divieti e le medesime sanzioni del concilio matisconense in ordine al riposo domenicale. Il cap. 14 disporrà, infatti, l’astensione dai lavori servili, escluse le attività del cucinare e del mangiare: sono previsti il pagamento di quindici solidi ove il trasgressore sia salicus, sette e mezzo se romanus, tre solidi o la fustigazione se schiavo[36].

Anomalo il concilio di Parigi del 614, convocato dal re Clotario II, il quale, pur confermando con un editto le decisioni dell’assemblea, contrariamente alla prassi vi apporterà alcune modifiche di non lieve entità, tra cui quella in materia di elezione del vescovo, per la quale si prevede anche l’ordine del principe (ordinatio principis), oltre alla nomina da parte del metropolita, degli altri vescovi della provincia, del clero e del popolo della città, di cui al can. 2, e la possibilità che ci siano vescovi eletti tra il personale di palazzo (n. 1). L’editto in modo efficace si conclude ricordando che il re Clotario aveva sottoscritto quelle deliberazioni in Christi nomine e che le stesse erano state adottate dal comune volere dei vescovi e dei grandi uomini del regno.

 

 

3. – I concilii visigoti

 

È con i concilii svoltisi in Spagna che si realizza l’intima unione tra sacerdotium e imperium attraverso un elemento nuovo, che s’insinua nella dinamica dei rapporti e che è rappresentato dalla consacrazione del re; in una prima teorizzazione della legittimità del potere di derivazione divina per il tramite dell’autorità episcopale, attraverso il concilio si realizza la massima convergenza di ideali ed obiettivi tra potere secolare e potere religioso, associati nel governo del popolo di Dio sotto un’unica corona: le disposizioni sono assunte in nome della sovranità della legge di Dio, tradotte quindi in norme civili mediante la lex in confirmatione concilii. Si rinsalda l’obbligo del sovrano di agire per il bene dei sudditi, come evidenzia lo stesso rito di unzione[37].

La normativa concordata vede ampliare i campi d’intervento a questioni che vanno oltre la disciplina ecclesiastica riguardando, ad esempio, aspetti pedagogici, con riguardo alla formazione culturale degli infanti destinati, per volontà dei genitori, alla vita ecclesiastica[38] o al compito affidato dal potere secolare alla Chiesa di educare i figli dei giudei che, “strappati alla follia dei genitori”, vengono affidati ai monasteri o a uomini o a donne cristiani e timorosi di Dio perché, attraverso il rapporto con questi e istruiti nella maniera più opportuna, “progrediscano tanto nei buoni costumi quanto nella fede”[39]; o ancora profili familiari, per i quali forte è l’intervento moralizzatore delle numerose disposizioni in materia di repressione dell’infanticidio e di condanna della fornicazione. Si tratta di un settore delicato affidato alla corresponsabilità delle potestà: insieme, il vescovo e il giudice secolare (sacerdos cum judice territorii), uniti nel debellare l’idolatria, hanno anche l’onere di punire con le pene più severe, esclusa la pena capitale e dopo accurate indagini, quei genitori che hanno ucciso i figli[40]. Le novità si registrano pure in materia di schiavitù dove si profilano importanti cambiamenti del diritto vigente consentendo l’automatica emancipazione dei servi cristiani posseduti dagli ebrei[41]. Le premesse teocratiche alla base dell’attuazione della giustizia secolare impongono che, alla doverosità del re di provvedere alla nomina di funzionari pubblici retti, segua la necessità di un controllo degli stessi da parte della Chiesa; da qui la giustificazione di un’ingerenza episcopale nella politica giudiziale e fiscale del regno per la cui realizzazione l’assise conciliare rappresenta lo strumento e il mezzo più adeguato. Significativo, a tal proposito, il can. 18 del III concilio di Toledo, di cui si è accennato, nel quale si stabilisce che ogni anno, il I novembre, conformemente agli ordini del re, i vescovi e gli alti funzionari statali (giudici ed esattori del patrimonio reale) devono incontrarsi (in unum conveniat) per stabilire di concerto l’ammontare dei carichi tributari, con particolare riferimento alle angariae e alle operae, cioè la ripartizione delle spese o prestazioni relative alla manutenzione di opere pubbliche; il vescovo e i seniores devono stabilire quanto ciascuna provincia, sino suo detrimento, deve corrispondere. Il concilio diviene occasione per la Chiesa di verifica dell’operato degli amministratori e di denuncia di eventuali carenze al sovrano. Il diritto regio del potere impositivo si arricchisce quindi dell’apporto religioso, anche quanto al condono delle imposte[42], giungendo persino ad abdicare nel campo della repressione materiale delle condotte: sono i vescovi ad ammonire o a punire con la scomunica, nella sua valenza profana nel senso sopra precisato, gli esattori laici corrotti o inadempienti[43]. Il significato profondo della rappresentatività e collegialità di questo concilio annuale, “assemblea provinciale mista”, ecclesiastica e laica insieme, deputata all’esame di questioni economico-finanziarie[44] nella stretta connessione tra circoscrizioni ecclesiastiche e articolazioni territoriali civili[45], va colto nella prospettiva di quell’orientamento volto a sostenere la natura c.d. “parlamentare” del concilio a “patrocinio reale”[46].

La spiegazione dell’ingerenza della Chiesa nella vita politica si rinviene nella lunga disposizione finale del IV concilio di Toledo, il can. 75, che canonizza il principio della concordia dei due poteri nella scelta del sovrano e pone le premesse di una derivazione divina del potere temporale. Il principio ereditario della monarchia viene temperato dalla scelta del successore per la quale anche la Chiesa partecipa attivamente, in maniera paritetica con il potere civile per il bene generale: primates totius gentis cum sacerdotibus successorem regni consilio communi constituant, ut dum unitatis concordia a nobis retinetur, nullum patriae gentisque discidium per vim atque ambitum oriatur. Il concilio ratifica in questo modo una diversa modalità di elezione e si arroga il potere di delegittimare il re indegno (Suintila si era autodeposto per i suoi crimini) e la sua discendenza. I vescovi esortano il nuovo re (Sisenando) e i suoi successori a governare con dolcezza e giustizia i popoli che Dio ha loro affidato di modo che i re si compiacciono dei loro popoli, i popoli dei loro re e Dio degli uni e degli altri: … Ut dum omnia haec, auctore Deo, pio a vobis moderamine conservantur, et reges in populis, et populi in regibus, et Deus in utrisque laetetur ...[47].

Il re che viene meno a questo compito andrà incontro alla punizione divina e sarà allontanato dal suo popolo così come allo stesso trattamento sarà sottoposto chi violerà il giuramento di fedeltà al re. Il concilio termina con delle preghiere al Signore perché conceda salute e felicità al re secondo una pratica consuetudinaria seguita anche dai sinodi futuri.

Altre volte i concilii saranno chiamati a svolgere funzioni legislative superiori di controllo e anche compiti arbitrali; così il XII concilio di Toledo nel 681 viene convocato dal re Ervigio per ricevere dalla Chiesa la legittimazione al suo potere e, perché il concilio consacri la salita al trono, si leggono i documenti originali a conferma del fatto che il suo predecessore, Wamba, avendo ricevuto la sacra tonsura, lo aveva spontaneamente designato come suo successore. Il re eletto chiede la benedizione della Chiesa perché ha accettato l’alto incarico con “l’aiuto di Dio per la salvezza del regno e il sollievo della gente” (fautore Deo ad salvationem terrae, et sublevationem plebium). Contemporaneamente, il concilio è incaricato dal re, come si legge nell’esteso tomus, di valutare due leggi civili, una recente contro gli ebrei e l’altra del re Wamba in materia di diserzione, per poi invitare i rectores provinciarum presenti così come i duces Hispaniae ad introdurre nello loro province i miglioramenti introdotti dall’assemblea[48].

In modo significativo, l’ultimo canone afferma che le disposizioni del concilio devono essere osservate in perpetuo in quanto ispirate dal Signore e confermate dal re[49].

 

 

4. – Conclusioni

 

Al termine di queste riflessioni, riteniamo che, al di là di qualsiasi valutazione politica sulla autenticità della consonanza fra i due poteri quale emerge nei concilii particolari e generali, lo studio delle disposizioni sinodali nelle singole aree della cristianità offra una tale varietà di situazioni da consentire una valutazione attenta dell’evolversi dei rapporti fra sacerdotium e imperium. La sua ricostruzione consente di cogliere le tappe più significative degli assetti conseguiti nello sviluppo storico, religioso e giuridico dell’Occidente. Mi piace concludere ricordando il recente intervento di Bartolomeo I, arcivescovo di Costantinopoli-Nuova Roma e patriarca ecumenico, pronunciato a Istanbul lo scorso 3 ottobre in occasione della presentazione dell’edizione del terzo volume dei Conciliorum oecumenicorum decreta: in detto intervento si sottolinea quanto il lavoro sugli atti degli antichi concilii, con particolare riguardo alle questioni che essi pongono alla teologia e alla storia, rappresenti un contributo d’incalcolabile valore alla comprensione non solo della Chiesa del passato ma anche della Chiesa nei nostri giorni, “un servizio senza pari reso al mondo intero”[50].

 

 



 

[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei promotori e del Comitato scientifico del Colloquio internazionale, d’intesa con la direzione di Diritto @ Storia].

 

[1] Testo della comunicazione presentata nel Colloquio Internazionale “La laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità religiosa” (Bari, 4-5 novembre 2010), organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, dal Centre d’études internationales sur la romanité dell’Université de La Rochelle e dall’Unità di ricerca ‘Giorgio La Pira’ del Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Sapienza-Università di Roma.

 

[2] Cfr. C. Dolcini, I due poteri universali. Il sorgere della riflessione politica in Occidente tra alto Medioevo e Medioevo centrale, in Il pensiero politico. Idee teorie dottrine, I, Età antica e Medioevo, a cura di C. Dolcini, Utet, Torino, 1999, 99 ss.

 

[3] Cfr. A. Rota, La definizione isidoriana di «concilium» e le sue radici romanistiche, in Atti del congresso internazionale di diritto romano e di storia del diritto, Verona 27-28-29 novembre 1948, a cura di G. Moschetti, IV, Giuffrè, Milano, 1948, 213 ss. Fondamentale il ruolo di Isidoro nel IV concilio di Toledo, svoltosi nel 633.

 

[4] Nov. Iust. 6.

 

[5] Mansi, IX, coll. 977 ss.

 

[6] Si pensi che ancora nel 743, il concilio liptinense, convocato da Carlo Magno, fa seguire ai canoni deliberati una formula di abiura e una raccolta, detta Indiculus superstitionum et paganiarum, contenente trenta sommari relativi alle tipologie di superstizioni radicate nella popolazione; v. Mansi, XII, coll. 375 s.

 

[7] Si tratterebbe di 55 concilii secondo l’edizione edita da C. de Clercq, Concilia Galliae, aa. 511-695, in Corpus Christianorum, Series Latina, 148 A. In argomento cfr. B. Basdevant-Gaudemet, Les éveques, les papes et les princes dans la vie conciliaire en France du IV au XII siècle, in Revue d’histoire du droit, 69, 1, 1991, 1 ss.

 

[8] Concilia Galliae, cit., 4.

 

[9] Sui concilii quali fonti del diritto romano cfr. F.G. Lardone, Il diritto romano e i concilii, in Acta congressus iuridici internationalis, Romae 12-17 novembris 1934, II, Libr. Pont. Inst. Utriusque iuris, Romae, 1935, 103 ss.

 

[10] can. 1, in Concilia Galliae, cit., 4 s.

 

[11] can. 5, in Concilia Galliae, cit., 6; il can. 16 ribadisce il dovere di solidarietà del vescovo nei confronti dei poveri e degli infermi (ivi, 9).

 

[12] can. 4, ivi, 6.

 

[13] can. 27, ivi, 11 s.

 

[14] ivi, 22.

 

[15] can. 11, ivi, 26 s.

 

[16] can. 7, ivi, 26.

 

[17] cann. 17, 18, ivi, 28 s.

 

[18] Sulla collera del re e sulla sua resistenza ad accettare il giudizio dei vescovi v.  can. 1, ivi, 39.

 

[19] ivi, 31 s.

 

[20] ivi, 99.

 

[21] ivi, 102.

 

[22] can. 5, ivi, 106.

 

[23] can. 2, ivi, 105 s.

 

[24] can. 34, ivi, p. 126; come stabilirà il IV concilio aurelianense del 541, il giudice sarà sottoposto all’ammonizione se, inosservante della “pace della Chiesa”, gravi i chierici di pesi e incarichi secolari (can. 13, ivi, 135).

 

[25] can. 35, ivi, 126.

 

[26] Concilium aurelianense IV, a. 541, can. 20, ivi, 137.

 

[27] ivi, 139.

 

[28] ivi, 218.

 

[29] ivi, 220.

 

[30] ivi, 219.

 

[31] ivi, p. 224 s.

 

[32] ivi, 247.

 

[33] ivi, 239.

 

[34] ivi, 240 s.

 

[35] ivi, 240.

 

[36] Childeberti II. Regis Decretio, in Monumenta germaniae historica, I, Legum, 10.

 

[37] In argomento cfr. I. Ruiz Rodriguez, Apuntes de historia del derecho y de las instituciones espanolas, Dykinson, Madrid, 2005,  68 ss.

 

[38] II concilio di Toledo (a. 531), can. 1, in Mansi, VIII, col. 785; come stabilito dal X concilio toletano (a. 656), i genitori possono consegnare i propri figli alla Chiesa solo se hanno un’età inferiore a dieci anni (can. 6, in Mansi, XI, coll. 36 s.).

 

[39] Concilio toletano IV (a. 633), can. 60, in Mansi, X, col. 634.

 

[40] III concilio di Toledo, cann. 16, 17, in Mansi, IX, coll. 996 s.

 

[41] IV concilio di Toledo, can. 66, in Mansi, X, col. 635.

 

[42] La Chiesa ha esercitato una grande influenza anche sul condono delle imposte come è dimostrato dal fatto che tale atto di clemenza è concesso in occasione del concilio. È quanto accade nel XIII concilio di Toledo nel 683, come dimostra il tomus regio che rimette i tributi fino al primo anno del governo di Ervige (Mansi, XI, coll. 1060 ss.).

 

[43] MANSI, IX, coll. 997 s. Nella stessa ottica, il IV concilio di Toledo, convocato per ordine del re Sisenando sotto la presidenza di Isidoro di Siviglia nel 633, affiderà al potere della Chiesa la protezione dei poveri dall’oppressione dei potenti e dei giudici (can. 32, in Mansi, X, col. 628).

 

[44] Sulla continuità, in queste assemblee, dei conventus provinciae romani cfr. G. Santini, Gli spazi giuridici regionali. Le strutture comuni dell’Europa moderna (Francia, Spagna, Portogallo), Giuffrè, Milano, 1990, 96 s.

 

[45] In alcuni casi, la stessa lista di sottoscrizione dei partecipanti al concilio esercita una funzione d’individuazione dei confini territoriali.

 

[46] Cfr. G. Santini, op. cit., 25 ss.

 

[47] Mansi, X, col. 640.

 

[48] Mansi, XI, coll. 1025 s.

 

[49] can. 13, ivi, col. 1038.

 

[50] Corriere della sera, 3 ottobre 2010.