Tradizione-Romana

 

 

Tarwacka-2016-foto-D@S-2016 - CopiaANNA TARWACKA

Wydział Prawa i Administracji UKSW

Warszawa

 

Come vendicarsi dei censori? Scontri politici e responsabilità penale dei guardiani della morale

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SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il caso dei censori P. Furio Filo e M. Attilio Regolo. – 3. Il caso dei censori M. Livio Salinatore e C. Claudio Nerone. – 4. Il caso dei censori Ti. Sempronio Gracco e C. Claudio Pulcro. – 5. Il caso del censore Scipione l’Africano. – 6. Il caso del censore Q. Metello Macedonico. – 7. Conclusione. – Abstract.

 

 

1. – Introduzione

 

La magistratura censoria[1], ancorché formalmente estranea al cursus honorum, era la conclusione più illustre di una carriera politica[2]. Nell’opinione comune, i censori erano modelli di ogni virtù posti a guardia dei costumi dei padri. Dunque – esseri perfetti? Non lo erano, senza deludere nessuno. Gli si chiedeva invece di farsi guidare sempre dalla giustizia[3] e mai da odio o gratitudine[4].

La censura godeva di auctoritas[5], le si chiedeva di essere maestra severa[6] e guardiana di pace[7]. I magistrati erano rispettati e temuti[8].

Tra le loro prerogative spiccava il regimen morum, ovvero la tutela della morale dei cittadini[9]. Sanzionavano comportamenti difformi dai costumi degli avi con note censorie[10] foriere di ignominia[11], radiazione dal senato, privazione del cavallo pubblico e retrocessione nel novero degli aerarii gravati dal tributum, da cui gli abitanti dell’Italia erano ormai stati esentati.

Al cittadino non spettava alcun ricorso. Prese di comune accordo, le decisioni dei censori erano irrevocabili. Occorreva attendere il lustro successivo per cercare di annullarne le conseguenze.

 

Varr. apud Non. 190.34 = Varr., Sat. Menipp. 196 (ed. Astbury): hoc est magnum, censorem esse ac non studere multos aerarios facere.

 

In un brano delle Satire menippee Varrone si lascia andare al sarcasmo: non è cosa da poco – essere censori e non provare a infoltire le schiere degli aerarii... Sembrerebbe che, commesso da un censore, l’abuso di potere non facesse molta meraviglia: deplorevole, ma nell’ordine delle cose. Ovviamente gli atti di un collega potevano essere bloccati dall’altro[12], spesso tuttavia il più brillante e carismatico prendeva il sopravvento. Neanche il giuramento di equità[13] bastava.

C’è quindi da chiedersi se e in qual misura i censori fossero responsabili per i propri atti legati al regimen morum. Potevano mettersi in stato d’accusa durante o scaduto il loro mandato?

 

Dion. Hal. 19.16.5:

... ο τν νυπεύθυνον χοντες ρχήν ος μες τιμητς καλομεν ...

 

Dalle parole che Dionigio di Alicarnasso fa dire a Fabrizio nel discorso del 280 a.C. a Pirro[14] risulta che il potere censorio era immune da responsabilità: una dizione ad ogni modo troppo vaga per autorizzare altre deduzioni non confortate da un’analisi diretta delle fonti che si riferiscano direttamente alle accuse contro i censori per le decisioni prese nell’adempimento del regimen morum.

 

 

2. – Il caso dei censori P. Furio Filo e M. Attilio Regolo

 

La prima accusa investe i censori P. Furio Filo e M. Attilio Regolo[15] che nel corso di recognitio equitum furono molto severi per i cavalieri che, istigati dal questore M. Metello, dopo la disfatta di Canne avevano congiurato per lasciare l’Italia. Metello e i suoi compari furono radiati dalla centuria dei cavalieri e collocati tra gli aerarii[16] perché rei di vigliaccheria – turpis metus. Per Valerio Massimo con tal atto la censura, chiamata a essere guardiana della pace, aveva traslocato dal foro al campo militare[17].

 

Liv. 24.43.2-3: Romae cum tribuni plebis novi magistratum inissent, extemplo censoribus P. Furio et M. Atilio a <M.> Metello tribuno plebis dies dicta ad populum est — quaestorem eum proximo anno adempto equo tribu moverant atque aerarium fecerant propter coniurationem deserendae Italiae ad Cannas factam — sed novem tribunorum auxilio vetiti causam in magistratu dicere dimissique [fuerant].

 

Dal brano liviano si evince che Metello, appena diventato tribuno della plebe, aveva fissato la data del processo dei censori davanti all’assemblea popolare, ma fu contrastato da tutti i nove colleghi che protessero i censori con l’auxilium, vietarono di metterli in stato di accusa durante il loro mandato e li rimisero in libertà.

Dal brano si apprende che i censori potevano senz’altro essere messi in stato di accusa per atti d’ufficio già nell’esercizio delle proprie funzioni[18]. Ma cosa obiettava loro il tribuno? Non pare possibile che senza giri di parole gli rimproverasse una nota ingiusta. Per Orazio Licandro Metello si proponeva di sottrarre le questioni militari dal novero degli atti passabili di nota[19]. Valerio Massimo riteneva però che i censori in parola avessero per primi osato avventurarsi dal foro nel campo militare. Con ogni probabilità Metello li aveva accusati di abuso di potere, asserendo che il regimen morum dovesse esaurirsi in questioni di carattere civile. Non è escluso che li accusò di alto tradimento – perduellium. I suoi colleghi tribuni furono di tutt’altro avviso, anzi, si schierarono risolutamente dalla parte dei censori, consentendogli d’allora in poi a biasimare vigliaccheria e alto tradimento e allargandone di fatto le competenze.

 

 

3. –Il caso dei censori M. Livio Salinatore e C. Claudio Nerone

 

Un altro caso richiama M. Livio Salinatore e C. Claudio Nerone, due censori fortemente discordi, chiamati a esercitare l’ufficio nel 204/203 a.C.[20].

 

Liv. 29.37.17: in invidia censores cum essent, crescendi ex iis ratus esse occasionem Cn. Baebius tribunus plebis diem ad populum utrique dixit. Ea res consensu patrum discussa est ne postea obnoxia populari aurae censura esset.

 

Livio informa che, venuti in odio i censori , il tribuno della plebe Gn. Bebio[21] pensò di approfittarne per mettersi in mostra e fissò la data del processo di costoro davanti all’assemblea. Le sue mire furono sventate da una decisione unanime dei senatori che preferirono non esporre la censura ai capricci del popolo.

 

Val. Max. 7.2.6: eosdem senatus, cum ob nimis aspere actam censuram a Cn. Baebio tribuno pl. pro rostris agerentur rei, causae dictione decreto suo liberavit vacuum omnis iudicii metu eum honorem reddendo, qui exigere deberet rationem, non reddere.

 

Valerio Massimo arricchisce il caso di dettagli preziosi. Innanzi tutto precisa che il tribuno aveva accusato i censori di eccesso di severità nell’esercizio dell’ufficio. Non dovettero rispondervi in forza di un decreto senatoriale per cui la censura doveva chiedere conto, e non darne[22]: quindi era giusto renderla immune dal timore dei giudici.

Per capire meglio la situazione giova far luce sul mandato di M. Livio Salinatore e C. Claudio Nerone[23]. Quando entrano nel nostro racconto, sono ormai in rotta di collisione, ma nel 207 a. C., da consoli, erano stati buoni colleghi. Anche la lectio senatus e l’appalto dei contratti pubblici erano andati lisci. Tuttavia, giunti alla rassegna delle centurie equestri, avevano cercato l’un l’altro di togliersi i cavalli. Quindi Nerone aveva iscritto il collega nel registro degli aerarii: per tutta risposta Livio vi portò trentaquattro tribus. Atti giuridicamente inefficaci, l’uno e l’altro, per mancanza di concordia tra i censori: è fuor di dubbio che si bloccassero a vicenda con l’intercessio. Ma diedero scandalo lo stesso. E un tribuno della plebe cercò di approfittarne.

Pare che Bebio li accusasse di essere stati troppo severi. Ma quando lo fece: sullo scadere del loro mandato o a mandato scaduto? In Livio prima c’è la cerimonia del lustrum, e soltanto in seguito la recognitio equitum, dopo la quale i censori procedono a iusiurandum in leges e trasmettono ai questori l’elenco degli aerarii. Quindi Bebio presenta l’accusa. Se ne evincerebbe che chiede di processare degli ex censori[24].

Il Senato vieta il processo: stando al brano di Valerio Massimo, con un decretum, ovvero, dato il contesto, con una decisione ad personam. Il processo davanti all’assemblea non è autorizzato per evitare ai censori – i due in parola e tutti gli altri – di essere messi in stato di accusa per atti d’ufficio. Il decreto senatoriale sembra ovviare alla mancanza di un divieto positivo che proibisca di chieder conto ad ex censori per atti legati al regimen morum. Bebio ritiene pertanto di poter tentare l’accusa contro una coppia di uomini politici assai popolari e ritagliarsi una bella fetta di fama. Ma il Senato vuole scongiurare un precedente gravido di conseguenze e frenandone gli insani ardori si propone di invitare a più miti consigli i tribuni della plebe del futuro, e, specularmente, di dar maggior forza ai censori. La nota censoria era e rimaneva inappellabile. Ma era imprescindibile che i censori non dovessero risponderne: altrimenti la loro magistratura non sarebbe stata più indipendente.

Il senatus decretum non aveva forza di legge generale, non generava norme vincolanti. Ma con ogni probabilità ai Romani una tal manifestazione del sentimento del Senato bastava e avanzava per ritenere che i censori non erano penalmente sanzionabili per atti d’ufficio (concernenti il regimen morum nonché l’appalto di contratti pubblici).

Cosa poteva fare chi ritenesse di essere stato punito con una nota censoria palesemente ingiusta? Farsene una ragione e riprendersi con il tempo l’onore e il prestigio? Alcuni ci riuscirono, diventando perfino censori[25]. Ma ai più non restava che confidare nella benevolenza della coppia dei censori a venire.

 

 

4. – Il caso dei censori Ti. Sempronio Gracco e C. Claudio Pulcro

 

Qualche indizio viene dal dissidio tra i censori del 169 a.C. Ti. Sempronio Gracco e C. Claudio Pulcro[26] e il tribuno della plebe P. Rutilio[27].

Entrambi i censori si erano inimicati i cavalieri con un assai rigido lustro delle centurie equestri nonché con un editto che negava di brigare i contratti pubblici a quanti li avessero presi in appalto da censori precedenti[28].

 

Liv. 43.16.3: saepe id querendo veteres publicani cum impetrare nequissent ab senatu, ut modum potestati censoriae inponerent, tandem tribunum plebis P. Rutilium, ex rei privatae contentione iratum censoribus, patronum causae nancti sunt.

 

I pubblicani si assicurarono l’appoggio del tribuno Rutilio, dopo aver cercato – giova rimarcarlo – di convincere il Senato[29] a fissare i limiti del potere censorio. I cavalieri parevano dunque convinti che la potestas censoria fosse illimitata sia riguardo al regimen morum che alle locationes censoriae. Poiché tuttavia il Senato risulta capace di condizionarne soltanto i contratti pubblici[30], la richiesta dei pubblicani doveva riguardare l’annullamento delle locationes e la stipula di nuove a condizioni diverse.

Tra Rutilio e i censori v’era una vertenza privata[31], avendo costoro ordinato a un suo liberto di demolire un muro costruito su un lotto del demanio[32], confiscatine gli averi e multato, benché questi si fosse appellato[33] ai tribuni. Ecco perché Rutilio, dal fare dei censori profondamente turbato, oppose l’intercessio[34]. Per aiutare i cavalieri si risolse a proporre un plebiscito per annullare le locationes contratte dai censori e ripetere gli appalti aperti a tutti gli interessati[35]. La vertenza andò avanti alquanto astruse e oblique.

 

Liv. 43.16.8-13: Diem ad [eius] rogationem concilio tribunus plebis dixit. Qui postquam venit ut censores ad dissuadendum processerunt, Graccho dicente silentium fuit; [cum] Claudio obstreperetur, audientiam facere praeconem iussit. Eo facto avocatam a se contionem tribunus questus et in ordinem se coactum ex Capitolio, ubi erat concilium, abit. Postero die ingentis tumultus ciere. Ti. Gracchi primum bona consecravit, quod in multa pignoribusque eius, qui tribunum appellasset, intercessioni non parendo se in ordinem coegisset; C. Claudio diem dixit, quod contionem ab se avocasset; et utrique censori perduellionem se iudicare pronuntiavit diemque comitiis a C. Sulpicio praetore urbano petit. Non recusantibus censoribus, quominus primo quoque tempore iudicium de se populus faceret, in ante diem octavum et septimum kal. Octobres comitiis perduellionis dicta dies.

 

Durante la contio i censori si provarono a convincere la plebe di non votare la delibera proposta da Rutilio. Il discorso di Gracco fu ascoltato in silenzio, ma il collega dovette chiedere al banditore di tacitare gli astanti: il tribuno ne concluse che gli era stata tolta la contio e venisse trattato da persona privata.

L’indomani Rutilio attuò come se la sua sacrosanctitas[36] fosse stata violata. In prima battuta contestò che, riguardo alla decisione censoria di confisca dei beni e multa del liberto, la sua intercessio fosse stata ignorata: pertanto procedette alla consecratio bonorum[37] del censore Ti. Gracco. In seguito fissò la data del processo a Claudio relativamente alla sottrazione della contio. Quindi dichiarò di voler accusare entrambi di perduellio, chiedendo al pretore urbano C. Sulpicio[38] di fissare la data di convocazione dell’assemblea: poiché i censori non intendevano sottrarsi al processo, questi indicò il diciottesimo giorno prima delle calende di ottobre.

Il processo, celebratosi al cospetto dei comitia centuriata, fu altamente drammatico[39]. Dapprima l’assemblea dovette decidere la sorte di Claudio. Quando la votazione cominciò a mettersi male, Gracco – pur rassicurato di non correre alcun rischio – salvò il collega, giurando di seguirlo al confino qualora questi fosse stato condannato, senza aspettare l’esito del proprio processo[40]. La sentenza di condanna fu evitata per il voto di solo otto centurie. L’assoluzione di Claudio convinse Rutilio a ritirare[41] l’accusa contro Gracco.

In tutta questa faccenda si hanno alcuni punti degni di nota. Sulle prime Rutilio cercò di opporsi ai censori in quanto magistrati: donde il suo tentativo di indire un plebiscito. Con la rogatio sconfinò probabilmente nell’ambito di competenze del Senato. Il tribuno si diede facilmente per vinto, il che può anche far pensare che si accontentasse di provocare i censori. Verosimilmente gli serviva un pretesto per accusarli di lesa sacrosanctitas. In verità ne aveva già uno, essendo stata ignorata la sua intercessio, ma andava in cerca di qualcosa di spettacolare: la contio, che aveva causato tanta confusione in presenza di una moltitudine, gli andava a genio. Simile il motivo dell’accusa di perduellio. Rutilio non contestava l’azione censoria di Gracco e Claudio; gli bastava accusarli di aver attentato alla sua intoccabilità e di non aver rispettato la dignità del suo ufficio tribunizio.

Rutilio non intendeva inficiare le decisioni prese dai censori nell’esercizio del loro ufficio. Par lecito evincerne che la suddetta la delibera del Senato avesse regolamentato la materia con una norma vigente.

 

 

5. – Il caso del censore Scipione l’Africano

 

Giova rivedere come, in seguito, ci si ingegnasse a contrastare i censori. Il conflitto tra Scipione l’Africano[42], vincitore di Annibale, e il tribuno della plebe Ti. Claudio Asello[43] pare molto interessante in questo rispetto. Questi fu sanzionato da Scipione con una nota di espulsione dalla centuria dei cavalieri, rimasta tuttavia senza esito a causa dell’intercessio dell’altro censore Mummio[44].

 

Gell. 4.17: Lucilii ex XI. versus sunt:

Scipiadae magno improbus obiciebat Asellus

lustrum illo censore malum infelixque fuisse.

 

Scipione era accusato[45] di aver commesso irregolarità nel sacrificio di lustrazione, mettendo a repentaglio la fortuna dello Stato[46]. Asello non cercava di contestare la decisione del censore, perché non fu infatti radiato dalla centuria equestre in virtù del dissenso di Mummio. Serbò comunque tanto profondo rancore da pazientare che il mandato volgesse a termine per attaccare Scipione.

Riguardo alla possibilità di citare in giudizio i censori, il loro scontro è alquanto illuminante. Asello attese che Scipione, assolta la sua carica, fosse tornato a vita privata. Il conflitto girava attorno a un problema sacrale: la lustratio, che i Romani annoveravano tra le cerimonie più importanti. Non per nulla la magistratura censoria era riservata in origine ai soli patrizi per impedire ai plebei, che potevano ormai aspirare al consolato, di compiere questo sacrificio. Successivamente, quando anche uno dei censori poteva essere plebeo, la lustratio fu per lungo tempo[47] prerogativa dell’altro, necessariamente patrizio. Ecco perché Asello contava che i cittadini avrebbero voluto punire il censore manchevole in questo solenne impegno.

D’altronde non v’è certezza che fu proprio Scipione a compiere la lustratio. Le fonti sembrano discordi. Cicero racconta che Scipione replicò ad Asello, che lamentava un lustrum infelice, che non c’era da esserne sorpresi poiché a compiere il sacrificio era stato il censore che aveva annullato la decisione di collocare Asello tra gli aerarii[48]: ovvero – Mummio. Valerio Massimo invece informa che durante la lustratio Scipione aveva alterato la preghiera agli dei[49]. Parrebbe quindi che fu Mummio a fare il sacrificio, ma Scipione, senz’altro presente, s’immischiò nella cerimonia. Forse – ma è solo un’ipotesi – lo si accusò di aver osato modificare la precatio, il cui testo era intoccabile e inscritto nelle tabulae censoriae, privando lo Stato dei buoni auspici.

 

 

6. – Il caso del censore Q. Metello Macedonico

 

Interessantissimo il caso di Q. Metello, soprannominato Macedonico, censore nel 131 a.C.[50], famoso per il discorso di incitamento al matrimonio e la procreazione[51]. Lo racconta con buona dovizia di particolari questo brano di Plinio il Vecchio.

 

Plin. Mai. 7.143-144: [scil. Q. Metellus] in ipso tamen flore dignationis suae ab C. Atinio Labeone, cui cognomen fuit Macerioni, tribuno plebis, quem e senatu censor eiecerat, revertens e campo meridiano tempore vacuo foro et Capitolio ad Tarpeium raptus, ut praecipitaretur, convolante quidem tam numerosa illa cohorte, quae patrem eum appellabat, sed, ut necesse erat in subito, tarde et tamquam in exequias, cum resistendi sacroque sanctum repellendi ius non esset, virtutis suae opera et censurae periturus, aegre tribuno, qui intercederet, reperto a limine ipso mortis revocatus alieno beneficio postea vixit, bonis inde etiam consecratis a damnato suo, tamquam parum esset faucium reste intortarum, expressi per aureas sanguinis poenam exactam esse.

 

Nel corso di una rigorosissima lectio senatus, una nota di Metello colpì C. Atinio Labeone, chiamato Macerio. Questi, ricoprendo la carica di tribuno della plebe[52], aveva commesso un atto incredibile. A metà giornata, quando il foro e il Campidoglio erano deserti[53], aveva rapito un censore sulla Rupe Tarpea, per farlo cadere nel baratro. I quattro figli, prontamente accorsi, non avevano potuto far niente a causa della sacrosanctitas tribunizia che gli impediva di affrontare Atinio. L’intercessio di un altro tribuno aveva salvato Metello dalla morte, ma non dalla consecratio bonorum; peraltro, il tribuno gli aveva così fortemente stretto il cappio al collo da fargli fuoruscire il sangue dalle orecchie. Plinio non si capacitava che Atinio, reo di un crimine: scelus, non avesse dovuto subire alcuna vendetta[54].

Della relazione di Livio si è conservata una versione abbreviata dall’epitomatore.

 

Liv., Per. 59: C. Atinius Labeo trib. pleb. Q. Metellum censorem, a quo in senatu legendo praeteritus erat, de Saxo deici iussit; quod ne fieret, ceteri tribuni plebis auxilio tuerunt.

 

Il tribuno Atinio ordinò di buttar giù dalla Rupe Tarpea il censore Metello che ne aveva tralasciato il nome stilando l’elenco dei senatori, ma fu fermato dall’auxilium dei tribuni della plebe.

I brani sono ben diversi. Per Plinio Atinio fu radiato dal Senato; stando all’epitome liviana non se ne tenne conto[55] durante la lectio senatus. Concordano invece nell’attribuire la decisione a Metello, cui il collega Q. Pompeio non si oppose.

C’è un terzo brano, il ciceroniano De domo sua, anteriore, ma privo di dettagli, giacché il caso di Atinio è richiamato unicamente a mo’ di esempio. Comunque il discorso integra utilmente le altre fonti.

 

Cic., De dom. 123-124: Atqui C. Atinius patrum memoria bona Q. Metelli, qui eum ex senatu censor eiecerat, avi tui, Q. Metelle, et tui, P. Servili, et proavi tui, P. Scipio, consecravit foculo posito in rostris adhibitoque tibicine. Quid tum? num ille furor tribuni plebis ductus ex non nullis perveterum temporum exemplis fraudi Metello fuit, summo illi et clarissimo viro? Certe non fuit. Vidimus hoc idem Cn. Lentulo censori tribunum plebis facere: num qua igitur is bona Lentuli religione obligavit?

 

Colpito da una consecratio bonorum decretata da Clodio[56], Cicerone si dimena a provare che tal misura fosse stata applicata illegalmente. Osserva tra altro che sebbene Atinio avesse consacrati i beni di Metello, posto il braciere sui rostri e fatto venire il flautista[57], il censore non ne ebbe alcun nocumento. E nemmeno Gn. Lentulo[58], anch’egli censore e preso di mira da un tribuno della plebe, non ebbe i propri beni gravati da alcuna obbligazione per causa sacra. Cicerone ne inferiva che la consecratio bonorum non produceva effetti giuridici[59] se ascrivibile ai tribuni della plebe.

 

 

7. – Conclusione

 

Tiriamo le somme. Parrebbe che in un primo momento nessun divieto impedisse di porre i censori in stato di accusa sia durante sia concluso il loro incarico. Con il decreto del 203 a.C. il Senato esonerò la coppia di censori da un processo penale. Per l’occasione si dichiarò convinto che i censori non dovessero rispondere degli atti presi nell’esercizio del loro ufficio. I pareri del Senato godevano di tanto prestigio che d’allora in poi non si provò a imbastire processi inerenti a decisioni che riguardassero il regimen morum e le locationes censoriae.

Le decisioni dei censori, titolari di una magistratura peculiare, provocavano rammarico e forte dispetto, specie quando si traducevano in note censorie, inappellabili e pertanto sommamente frustranti. Persa l’onorabilità, la maggioranza dei sanzionati si adoperava a riaverla. C’erano però alcuni chi per rifarsi sui censori, per vendicarsi, brigavano il tribunato della plebe (se, come è chiaro, non appartenevano al patriziato). Magistratura precipuamente negativa, il tribunato consentiva di ricorrere a strumenti atipici quali la consecratio bonorum o l’accusa di perduellio, al limite il supplizio del Tarpeo. Bastava contestare ai censori la violazione della sacrosanctitas.

Ma era opinione diffusa che agendo in tal modo i tribuni si dessero al gioco politico. I censori erano perlopiù assai rispettati. Pertanto le intemperie dei tribuni venivano di solito contrastati dai loro colleghi. I conflitti non mancarono e furono spesso pittoreschi. Ma furono manifestazioni di impotenza. Nell’ordinamento della Repubblica romana la censura era una magistratura formidabile, chiamata ad assolvere funzioni di controllo e a garantire la stabilità dello Stato. Ne scaturiva l’irresponsabilità dei censori: godevano di un’immunità che pur profondamente motivata, irritava tanto taluni s’ingegnavano ad aggirarla.

 

 

Abstract

 

The purpose of the article is to show various attempts to take revenge on the censors for their decisions made in course of the regimen morum and locationes censoriae. The censorial note was not subject to any appeal, and neither were the decisions of the censors concerning the terms of entering an auction for lease of public profits and expenses. The sources show several cases of the plebeian tribunes, who had been punished by the censors, trying to use their powers in order to put them to trial during or after their term of office. These attempts were blocked either by their fellow tribunes, or by the senate so that the censors were given full independence in their decisions.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Ho affrontato l’argomento nella monografia Prawne aspekty urzędu cenzora w starożytnym Rzymie [Aspetti giuridici della magistratura censoria nell’antica Roma], Warszawa 2012. Per le linee generali della responsabilità penale dei censori vedi 92-100. Cfr. anche A. TARWACKA, Jak się zemścić na cenzorach? Rozgrywki polityczne a zakres odpowiedzialności karnej strażników moralności, [in:] Prawo karne i polityka w państwie rzymskim, red. K. Amielańczyk, A. Dębiński, D. Słapek, Lublin 2015, 189-201.

 

[2] Cfr. Plut., Flam. 18.1; Val. Max. 5.9.1.

 

[3] Cfr. Varr., De l. Lat. 6.71: Quod tum et praetorium ius ad legem et censorium iudicium ad aequum existimabatur.

 

[4] Cfr. Zon. 7.19: Pivstei" d! ejnovrkou" ejf! eJkavstw/ pepoivonto, w|" ou\te pro;" cavrin, ou\te pro;" e[cqran ti poiou'sin, ajll! ejx ojrqh'" gnwvmh" ta; sumfevronta tw'/ koinw'/ kai; skopou'si kai; pravttousi.

 

[5] Cfr. Liv. 42.3.3.

 

[6] Cfr. Val. Max. 2.9.3; Iuv., Sat. 11.90-92; Gell. 4.20.

 

[7] Val. Max. 2.9 init.

 

[8] Plut., Tib. Gracch. 14.3.

 

[9] Cfr. anzitutto A.E. Astin, ‘Regimen morum’, «JRS» 78/1988, 14-34; E. Baltrusch, ‘Regimen morum’. Die Reglementierung des Privatlebens der Senatoren und Ritter in der römischen Republik und frühen Kaiserzeit, München 1989; M. Humm, Il ‘regimen morum’ dei censori e le identità dei cittadini, [in:] ‘Homo’, ‘caput’, ‘persona’. La costruzione giuridica dell’identità nell’esperienza romana, a cura di A. Corbino, M. Humbert, G. Negri, Pavia 2010, 283-314; A. Tarwacka, Prawne aspekty..., 239-263; N. El Beheiri, Das ‘regimen morum’ der Zensoren. Die Konstruktion des römischen Gemeinwesens, Berlin 2012.

 

[10] Ps.-Ascon., In. Cic. div. in Caec. 103 Orelli.

 

[11] Cfr. Cic., De rep. 4.6: itaque, ut omnis ea iudicatio versatur tantum modo in nomine, animadversio illa ignominia dicta est.

 

[12] Cfr. H. Siber, Zur Kollegialität der römischen Zensoren, [in:] Festschrift Fritz Schulz, I, Weimar 1951, 466-474; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, 2a ed., Napoli 1973, 266-267; R. Bunse, Die frühe Zensur und die Entstehung der Kollegialität, «Historia» 50.2/2001, 145-162.

 

[13] Cfr. Zonar. 7.19 citato nella nt. 4.

 

[14] Cfr. T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, I, Atlanta 1951 (reprint 1986), 192.

 

[15] Cfr. C. De Boor, ‘Fasti censorii’, Berolini 1873, 13; T.R.S. Broughton, op. cit., I, 259; J. Suolahti, The Roman Censors. A Study on Social Structure, Helsinki 1963, 309-315; E. Reigadas Lavandero, Censura y ‘res publica’: aportación constitucional y protagonismo político, Madrid 2000, 251-256.

 

[16] Liv. 24.18; Val. Max. 2.9.8. Gli stessi censori sanzionarono con una nota anche coloro che avevano tenuto fede al giuramento che sarebbero tornati nel campo di Annibale se Roma avesse rifiutato la proposta di scambio di prigionieri che dovevano portare al Senato. Cfr. Gell. 6.18.

 

[17] Val. Max. 2.9.8: iam haec censura ex foro in castra transcendit, quae neque timeri neque decipi voluit hostem.

 

[18] Ciò è indubbio in quanto il lustrum non fu svolto a causa della morte di Furio, dopo la quale Atilio depose il suo ufficio. Cfr. Liv. 24.43.4.

 

[19] O. LICANDRO, ‘In magistratu damnari’. Ricerche sulla responsabilità dei magistrati romani durante l’esercizio delle funzioni, Torino 1999, 201-205.

 

[20] Cfr. C. DE BOOR, op. cit., 15-16; T.R.S. BROUGHTON, op. cit., I, 306; J. SUOLAHTI, op. cit., 325-331; E. REIGADAS LAVANDERO, op. cit., 269-278.

 

[21] Cfr. T.R.S. BROUGHTON, op. cit., I, 307 e 312.

 

[22] Il termine ratio si riferisce all’inoltro della dichiarazione di censo.

 

[23] Cfr. Liv. 29.37; D.F. EPSTEIN, Personal Enmity in Roman Politics 218-43 B.C., London-New York 1987 (reprint 1989), 17; M.D. THOMAS, Censure of the Censors: Livy in a ‘comic’ mode, «Ancient History Bulletin» 8.1/1994, 18-27.

 

[24] Diversamente O. LICANDRO, op. cit., 208, per il quale il processo fu istruito riguardo a censori in carica.

 

[25] Cfr. Val. Max. 2.9.9.

 

[26] Cfr. C. DE BOOR, op. cit., 18; T.R.S. BROUGHTON, op. cit., I, 423-424; J. SUOLAHTI, op. cit., 371-376; E. REIGADAS LAVANDERO, op. cit., 331-342.

 

[27] Cfr. T.R.S. BROUGHTON, op. cit., I, p. 425.

 

[28] Liv. 43,16.2: multis equos ademerunt. in ea re cum equestrem ordinem offendissent, flammam invidiae adiecere edicto, quo edixerunt, ne quis eorum, qui Q. Fulvio A. Postumio censoribus publica vectigalia aut ultro tributa conduxissent, ad hastam suam accederet sociusve aut adfinis eius conductionis esset.

 

[29] Il conflitto tra i pubblicani e i cavalieri da una parte e i senatori è messo in risalto da F. SALERNO, Dalla ‘consecratio’ alla ‘publicatio bonorum’, Napoli 1990, 116-118.

 

[30] Cfr. Polyb. 6.17.5; Cic., Ad. Att. 1.17.9; A. TARWACKA, Prawne aspekty..., 270 ss.

 

[31] E. REIGADAS LAVANDERO, op. cit., 336 n. 39 sostiene che Rutilio non fu iscritto tra i senatori (praeteritus) e se ne ebbe a male. Un’ipotesi non fondata sulle fonti.

 

[32] Cfr. A. TARWACKA, The Roman Censors as Protectors of Public Places, «Diritto@Storia» 12/2014, < http://www.dirittoestoria.it/12/tradizione-romana/Tarwacka-Roman-Censors-Protectors-Public-Places.htm >.

 

[33] Il verbo appellare si riferisce qui al ius auxilii.

 

[34] Cfr. Liv. 43.16.4-5; Val. Max. 6.5.3.

 

[35] Liv. 43.16,6-7: Hinc contentione orta cum veteres publicani se ad tribunum contulissent, rogatio repente sub unius tribuni nomine promulgatur, quae publica vectigalia [aut] ultro tributa C. Claudius et Ti. Sempronius locassent, ea rata locatio ne esset: ab integro locarentur, et ut omnibus redimendi et conducendi promiscue ius esset. Cfr. G. ROTONDI, Leges publicae populi Romani’. Elenco cronologico con una introduzione sull’attività legislativa dei comizi romani, Milano 1912, 284-285; J. BLEICKEN, Das Volkstribunat der klassischen Republik, München 1955, 62.

 

[36] Il tribuno si avvaleva quindi della sua summa coërcendi potestas; cfr. B. SANTALUCIA, Processo penale, [in:] Studi di diritto penale romano, Roma 1994, 165-166.

 

[37] Consecratio bonorum in favore del tempio di Cerere. Cfr. Th. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, I, 3a ed., Graz 1952 (ristampa), 137; W. KUNKEL, R. WITTMANN, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik. Zweiter Abschnitt. Die Magistratur, München 1995, 173.

 

[38] Un tribuno non poteva convocare da solo i comitia centuriata. Cfr. Liv. 26.3.9; Gell. 6.9.9; B. SANTALUCIA, I tribuni e le centurie, [in:] Studi di diritto penale romano, cit., 56 ss.

 

[39] Liv. 43.16.14-16: Prior Claudius causam dixit; et cum ex duodecim centuriis equitum octo censorem condemnassent multaeque aliae primae classis, extemplo principes civitatis in conspectu populi anulis aureis positis vestem mutarunt, ut supplices plebem circumirent. Maxime tamen sententiam vertisse dicitur Ti. Gracchus, quod, cum clamor undique plebis esset periculum Graccho non esse, conceptis verbis iuravit, si collega damnatus esset, non expectato de se iudicio comitem exilii eius futurum. Adeo tamen ad extremum spei venit reus, ut octo centuriae ad damnationem defuerint. Absoluto Claudio tribunus plebis negavit se Gracchum morari.

 

[40] Cfr. Gell. 7.16.11: Cicero in libro sexto de republica ita scripsit: "Quod quidem eo fuit maius, quia, cum causa pari collegae essent, non modo invidia pari non erant, sed etiam Claudi invidiam Gracchi caritas deprecabatur".

 

[41] Th. MOMMSEN, op. cit., I, 146, era convinto che il tribuno presiedesse l’assemblea. Pare tuttavia più probabile che ad assolvere l’incarico fosse un alto magistrato, nella fattispecie un pretore urbano. Cfr. B. SANTALUCIA, I tribuni..., 56 ss.

 

[42] Cfr. C. DE BOOR, op. cit., 20; T.R.S. BROUGHTON, op. cit., I, 474-475; J. SUOLAHTI, op. cit., 393-394.

 

[43] Cfr. T.R.S. BROUGHTON, op. cit., I, 480.

 

[44] Cfr. Gell. 16.8. I censori erano in forte disaccordo; cfr. Val. Max. 6.4.2; De vir. ill. 58.9.

 

[45] Cfr. M.C. ALEXANDER, Trials in the Late Roman Republic, 149 BC to 50 BC, Toronto-Buffalo-London 1990, 5.

 

[46] Sul lustrum infelix cfr. Fest 366 L, s.v. referri diem prodictam; J. LINDERSKI, The Augural Law, “ANRW” II.16.3/1986, 2186-2189.

 

[47] Fino al 280 a.C. Cfr. Liv., Per. 13. Cfr. C. De Boor, op. cit., 10-11; T.R.S. Broughton, op. cit., I, 191; J. Suolahti, op. cit., 76-77; W. Kunkel, R. Wittmann, op. cit., 399, n. 32.

 

[48] Cic., De or. 2.268: ut Asello Africanus obicienti lustrum illud infelix, "noli" inquit "mirari; is enim, qui te ex aerariis exemit, lustrum condidit et taurum immolavit". Tacita suspicio est, ut religione civitatem obstrinxisse videatur Mummius, quod Asellum ignominia levarit.

 

[49] Val. Max. 4.1.10: qui censor, cum lustrum conderet inque solitaurilium sacrificio scriba ex publicis tabulis sollemne ei precationis carmen praeiret, quo di immortales ut populi Romani res meliores amplioresque facerent rogabantur, 'satis' inquit 'bonae et magnae sunt: itaque precor ut eas perpetuo incolumes servent', ac protinus in publicis tabulis ad hunc modum carmen emendari iussit. Qua votorum verecundia deinceps censores in condendis lustris usi sunt.

 

[50] Cfr. C. De Boor, op. cit., 21; T.R.S. Broughton, op. cit., I, 500; J. Suolahti, op. cit., 403-406; E. Reigadas Lavandero, op. cit., 377-386.

 

[51] Liv., Per. 59.

 

[52] Por. T.R.S. BROUGHTON, op. cit., I, 500-501.

 

[53] Plinio (7.145) racconta in seguito che il censore fu trascinato per il centro della città: ...per mediam urbem censore tracto...

 

[54] Plin. Mai. 7.146: quod superest, nescio morum gloriae an indignationis dolori accedat, inter tot Metellos tam sceleratam C. Atini audaciam semper fuisse inultam.

 

[55] Probabilmente era già in forza il plebiscitum Atinium. Se questo Atinio era rogator, poteva sentirsi offeso per una così aperta violazione delle previsioni. Cfr. G. ROTONDI, op. cit., 330; W. KUNKEL, R. WITTMANN, op. cit., 172 nt. 272.

 

[56] Cfr. K. KUMANIECKI, Cyceron i jego współcześni, Warszawa 1959, 270 ss.; D. STOCKTON, Cicero: a Political Biography, Oxford 1971, 196 ss.; M. FUHRMANN, Cicero und die römische Republik, Düsseldorf 2006, 128 ss.

 

[57] Cfr. F. SALERNO, op. cit., 14 ss.

 

[58] Cfr. C. DE BOOR, op. cit., 26; T.R.S. BROUGHTON, op. cit., II, 126; E. REIGADAS LAVANDERO, op. cit., 447-454.

 

[59] Cfr. Th. MOMMSEN, op. cit., I, 138.