Contributi-2017

 

 

Giovanni Azzena

Roberto Busonera - Copia

PERINI C. foto per Diritto e storia - Copia

TUTELARE LA SARDEGNA.

LIMITI E PROSPETTIVE DELL’APPLICAZIONE

DELLA DISCIPLINA UNESCO IN AMBITO ARCHEOLOGICO[1]

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GIOVANNI AZZENA

Università di Sassari

 

ROBERTO BUSONERA

Università di Sassari

 

CHIARA PERINI

Università dell’Insubria

 

 

 

SOMMARIO: 1. Il contesto. – 2. Il disallineamento tra meritevolezza di tutela e tutela nella cornice della convenzione UNESCO. – 3. La natura aspecifica della tutela penale (anche nelle linee di riforma in discussione). – 4. Spunti dalla convenzione UNESCO per una concezione del patrimonio culturale come bene giuridico. – Abstract. – Riferimenti bibliografici. – Fonti.

 

 

 

1. – Il contesto

 

Partiamo da un perché: quale sia la motivazione profonda sottesa alla scelta del complesso nuragico Su Nuraxi di Barumini per l'inserimento nella World Heritage List UNESCO come primo (e per ora unico) sito archeologico sardo. Il dispositivo UNESCO è in questo inequivocabile[2], e la nostra lettura è quella di una scelta anche simbolica, che inquadra la “fantasiosa marginalità” dell'intero e in qualche senso indivisibile patrimonio preistorico-nuragico della Sardegna come oggetto di ampia e globale tutela.

Ma al perché segue inevitabilmente il come. E l'attualità ci offre, come ben evidenziato nell'articolo di Costantino Cossu su “il manifesto”, una situazione normativa con conseguenze critiche, in particolare in riferimento alle specificità territoriali della Sardegna: «[...] è stato tagliato di netto, insomma, il rapporto tra valorizzazione e tutela e, conseguentemente, anche il legame che intrecciava la vita dei musei a quella del loro territorio»[3]. All’indomani della riforma per la riorganizzazione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, quindi, la netta separazione tra l'ambito museale, cui viene delegata la valorizzazione delle testimonianze, e le Soprintendenze, cui invece è affidata la tutela, raggiunge in Sardegna un livello allarmante: nell’isola non è infatti presente nessuno dei super-musei previsti dalla riforma, a scapito di un patrimonio archeologico importantissimo e diffuso in tutto il territorio. E naturalmente la cesura tra musei e territorio, conseguente alla cesura tra tutela e valorizzazione, ha le stesse implicazioni se si parla di un ancor più fragile patrimonio come è il complesso archeologico di Barumini, e come lo è l'intero tessuto archeologico isolano.

Ricordiamo che la funzione fondamentale dell’UNESCO non è tanto la tutela dei beni, quanto il riconoscimento di un valore. L'esempio sardo può essere utile per una valutazione degli effetti della disciplina UNESCO in un contesto fortemente identitario, eccezionalmente connesso e intrecciato, essenzialmente inscindibile in singoli elementi. L'analisi da un punto di vista giuridico vuole aprirsi alle potenzialità positive di meditate applicazioni disciplinari che, laddove possibile e laddove strutturalmente necessario, trascendano la sola tutela “dell'eccezionale”, che, in un territorio come la Sardegna, rischia di deviare – come già una lunga storia di possessi ha insegnato -  verso una frammentata collezione di tesori di fatto extra-territoriali.

Da sempre le vicende storiche dell’isola (troppo articolate e complesse per essere anche solo accennate in questa sede) si sono alternate con un susseguirsi di differenti equilibri, di continuità e di rotture nel rapporto tra uomo, territorio e paesaggio: il legame tra uomo e ambiente – già prima del “tempo industriale” - è stato condizionato da diversi conflitti, nel corso dei quali le ripetute colonizzazioni dell’isola hanno tentato di rendere il territorio più produttivo possibile, introducendo però modelli e metodi di gestione esterni (ed estranei). Chiari esempi, in ambito agro-pastorale, sono la chiusura degli usuali percorsi dei pastori e le nuove regolamentazioni nella gestione dei terreni agricoli. E poi c'è il caso dei muretti a secco, così “tradizionali” e riconoscibili quali elementi essenziali del paesaggio sardo, ma espressione dell’istituzione della proprietà “perfetta” instauratasi in Sardegna dopo le riforme sabaude[4], nel tentativo di limitare l’economia locale in favore di una nascente classe di piccoli proprietari terrieri.

Alcune affermazioni di Antonio Cederna, pubblicate nel 1967 sul Corriere della Sera, appaiono anche oggi difficilmente contestabili:

 

«Si dice comunemente che gli italiani non amano la natura, e gli episodi che ogni giorno la cronaca riferisce sembrano provarlo a sufficienza. È una questione che esigerebbe un lungo discorso: tuttavia, per evitare generalizzazioni, si potrebbe almeno osservare che non si può pretendere che la gente ami ciò che nessuno le ha mai insegnato a conoscere. Inoltre, troppe sono le forze interessate a sfruttare quella constatazione di comodo: ad esempio, quelle che continuamente vanno predicando le necessità della cosiddetta “valorizzazione turistica”, intendendo in realtà la lottizzazione indiscriminata di parchi, litorali, colline e pinete, col risultato di annientare il prestigio naturale dei luoghi, cioè la stessa materia prima del turismo moderno»[5].

 

Lo stesso Cederna, in una serie di articoli dedicati alla Sardegna e pubblicati tra gli anni ’70 e i primi anni ’80, ha più volte denunciato l’assedio verso le coste, nato con le prime consistenti pietre posate per la realizzazione degli alberghi, delle ville e dei villaggi turistici in Costa Smeralda e, in breve tempo, diffuso lungo tutto il perimetro costiero. Erano gli anni, in tutta Italia, delle battaglie per la tutela di aree naturali di assoluto pregio, in opposizione a una valorizzazione delle potenzialità dei luoghi che però, nei fatti, non metteva in moto alcun tipo di processo economico virtuoso. Dai tentativi di ricreare villaggi marinari, al falso mimetismo dei mega-hotel, passando per le lottizzazioni a tappeto (tecnicamente, un tappeto sopra la natura) destinate a cancellare ogni carattere distintivo dei luoghi. La valorizzazione turistica in Sardegna si è spesso tradotta nella costruzione di ghetti turistici, sistematicamente disinteressati alla realtà sociale, naturale e storica dell’isola. Il boom economico ha certamente mosso una enorme quantità di denaro, ma – sul territorio e per il territorio – non ha provocato che scarsissimi investimenti, e la Regione, in breve tempo e con forte ritardo, si è trovata costretta a difendere le coste, invece di promuoverle, e a tentare di tamponare un fenomeno non governato e ormai quasi incontrollabilmente diffuso su tutto il territorio regionale, che vedeva le aree depresse guardare con invidia agli esempi costieri.

Questo contesto critico è lo stesso nel quale si sono sviluppate le politiche di tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale in Sardegna, in un ambito politico di consolidamento dell’idea di economia della cultura (ricordiamo, a titolo simbolico, il «Fatevi un panino con la Divina Commedia!»[6] del 2010, dell'allora Ministro del Tesoro Giulio Tremonti), abbracciata da governi di ogni colore, in cui temi come pianificazione territoriale, tutela dell’ambiente e valorizzazione del patrimonio culturale sono terreni di tensione e ambiti di scontro tra schieramenti e orientamenti politici differenti[7]. E il patrimonio archeologico, in particolare, proprio in virtù del suo stato residuale e dell’impossibilità di porsi al centro di grandi progetti di valorizzazione territoriale, appare particolarmente a rischio.

A livello nazionale, il castello giuridico dei beni culturali sembra aderire a caratteri ed aspettative sempre più globali, alla ricerca di siti "simbolo" e immagine dell’universo italiano. L’idea di patrimonio come identità della nazione, al centro delle idee politiche del XX secolo, sembra ormai essere stata sostituita da una dimensione sovranazionale[8]. L’adesione alle regole dettate dall’UNESCO, l’Ente più autorevole in materia di tutela del patrimonio e promotore di una lista di  siti che esprimono, appunto, un valore universale eccezionale[9], sembra di fatto limitare la sovranità dei singoli paesi in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio.

In quest’ottica, discutere di tutela UNESCO con riferimento al caso della Sardegna è insieme significativamente esemplificativo e fuorviante. Se da un punto di vista strettamente giuridico, come si vedrà nei paragrafi seguenti, l’azione di tutela si struttura in due distinti ambiti, da un punto di vista archeologico è centrale analizzare e valutare il rapporto, mediato dai limiti imposti dalla normativa, tra le aree oggetto di tutela ed il loro contesto territoriale.

L'intero universo culturale italiano sembra, intanto, correre a due velocità: da una parte un valore riconosciuto unanimemente a livello internazionale, dall'altra l'endemica difficoltà nel riuscire ad assicurare anche solo la possibilità di accesso e minima fruizione, ostacolata dalla cronica mancanza di personale e di risorse.  A chi si occupa di tutela sembra rimasta solo la possibilità di denunciare una realtà incardinata e concentrata su isolate eccellenze, senza poter volgere lo sguardo all’insieme del patrimonio, con il complemento di un abbandono diffuso e incentivato, peraltro, dai continui processi di semplificazione promossi dalle pubbliche amministrazioni[10]. Recentemente l’UNESCO ha deciso di aggiungere nella sua lista del patrimonio dell’umanità ventuno siti, di cui due italiani: alcune faggete primordiali dell’Appenino e le opere di difesa della Repubblica veneziana, dalle mura di Bergamo alla forma di Palmanova[11]. L’Italia ha dunque riconquistato il primato mondiale per numero di siti iscritti nella World Heritage List (WHL), raggiungendo quota cinquantatré e superando la Cina che, ad oggi, ne conta cinquantadue. E a testimoniare emblematicamente le “due velocità” di cui sopra, nelle stesse ore di questo sorpasso crollava parte dell’intonaco della volta del Duomo di Acireale, provocando il ferimento di chi assisteva alla cerimonia religiosa in atto[12].

Tornando alla Sardegna, vi sono ufficialmente riconosciuti quattro patrimoni UNESCO: uno culturale (villaggio nuragico di Su Nuraxi – Barumini), uno culturale-naturale, inserito nella rete Geoparks UNESCO (il Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna - Iglesias) e due immateriali (la celebrazione dei Candelieri di Sassari ed il canto a tenore)[13]. L’interesse dell’UNESCO ha sicuramente portato alcuni benefici rilevanti, come l’aumento di visibilità globale e, non certo trascurabile, l’acquisizione di fondi nazionali ed internazionali finalizzati a tutela e valorizzazione, fondi comunque gestiti a livello nazionale, poiché nell'applicazione della disciplina UNESCO gli Stati mantengono un margine di autonomia nel rispetto delle diversità e dei caratteri locali[14]. Tale riconoscimento, però, non costituisce un automatico valore aggiunto in sé, ma dovrebbe essere utilizzato come elemento distintivo o dispositivo utile per strutturare, a livello locale, politiche e strategie adeguate a migliorare la capacità attrattiva e – in ultima analisi – la vivibilità del territorio. A questo proposito, per garantire una protezione ed una conservazione il più efficace ed attiva possibile, la World Heritage Convention (WHC) chiede il rispetto di alcune condizioni fondamentali tra cui quella contenuta nell’art. 5, comma A, in cui si prevede l’adozione di «una politica generale intesa ad assegnare una funzione al patrimonio culturale e naturale nella vita collettiva e a integrare la protezione di questo patrimonio nei programmi di pianificazione generale».

Ma è proprio in questa situazione che si manifestano le prime criticità, riproponendo tutti i limiti di un processo di salvaguardia tanto attento alla preservazione della dimensione materiale dei beni, quanto distratto nella protezione di valori più immateriali, di cui il bene si fa portatore. Tali debolezze appaiono particolarmente evidenti nel caso di Barumini, dove il riconoscimento dell’eccezionalità architettonica del complesso sembra aver distolto l’attenzione dai valori complessivi del territorio, contribuendo ad una rottura della continuità esistente tra sito e contesto. Eppure, come si diceva all'inizio, proprio nell'inscindibile rapporto con il suo contesto sta il fondamentale perché della scelta di un sito simbolo di un'intera rete archeologico-territoriale. Al fine di garantire le condizioni di integrità necessarie (§87) le Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention prevedono diverse soluzioni operative, applicabili in base ai criteri che hanno permesso l’inserimento del sito nella WHL. Nel caso di Barumini è possibile fare riferimento al §89 delle linee-guida, che per i siti nominati in base ai criteri (I) e (IV)[15] prevede che «il tessuto fisico della proprietà o le sue caratteristiche significative debbano essere in buone condizioni di conservazione»; lo stesso paragrafo prevede, inoltre, che le relazioni e le funzioni dinamiche che legano il sito con il contesto territoriale siano mantenute. In maniera del tutto contraddittoria però, al §100, richiede la definizione di una delimitazione utile ad includere tutti i caratteri che hanno reso possibile l’inserimento del sito nella WHL. Delimitazioni tutt'altro che marginali, tanto che risultano strutturali nella definizione di una protezione effettiva delle aree tutelate (§99). La loro eventuale assenza, infatti, deve essere opportunamente giustificata (§106).

È certamente plausibile che il sito di Barumini rappresenti l’espressione maggiore della cultura nuragica della Sardegna, sicuramente quella meglio esportabile. Simbolica, si diceva. Ma è bene evidenziare con forza come l’area di Su Nuraxi sia solo uno dei numerosi esempi censiti nell’isola, con una eccezionale densità che va da 3 ad 1 per kmq, a formare un fitto reticolo nel territorio, testimonianza dell’organizzazione dell’insediamento umano in cui i diversi elementi (o siti) appaiono interdipendenti l’uno dall’altro[16]. L’individuazione di singoli poli attrattivi, di fatto, distoglie l’attenzione dalla complessità del fenomeno. Ed è in questa complessità la reale eccezionalità del patrimonio, intessuto profondamente nel territorio. Diventa allora importante anche per capire l'evolversi passato e futuro della tutela archeologica analizzare, tra le numerose – e gravi – conseguenze del processo di urbanizzazione costiera, il fenomeno di ghettizzazione delle aree interne dell’isola, sapientemente rappresentato nel 1968 da un manifesto di Costantino Nivola[17]. A partire dal 1962, sulla scia dei primi massicci interventi in Gallura e con i successivi fenomeni edilizi nelle restanti aree costiere, le zone interne si sono progressivamente isolate, dimenticate dal boom economico che investiva l’isola e lasciate in una condizione di arretratezza percepibile ancora oggi nella quasi totale assenza di infrastrutture e nella grave carenza di servizi.

Quei territori, inizialmente abbandonati al loro destino, proprio grazie al loro aspetto ancora così apparentemente tradizionale, sono poi diventati meta di un nuovo turismo, votato alla riscoperta dell’archeologia della Sardegna. Ancora Antonio Cederna spiega:

 

«[...] c’è una parola che usiamo molto spesso quando andiamo in vacanza o percorriamo l’Italia, ed è l’avverbio ancora. Diciamo ad esempio: questo litorale è ancora intatto, qui il cemento non è ancora arrivato, come è ancora bello questo promontorio, quelle colline si salvano ancora, questo bosco non è ancora stato bruciato, ecc. E ci rallegriamo: ma così dicendo riconosciamo implicitamente che la buona salute di quelle parti del nostro territorio è precaria e a termine, e che quindi ci muoviamo in una topografia temporanea e provvisoria»[18].

 

In una così articolata storia di valorizzazioni turistiche che investono a ondate diverse parti del territorio, con le più varie (e temporanee) motivazioni, il sito nuragico di Barumini si pone, proprio per il suo riconoscimento ufficiale, quale simbolica chiave di volta di tutto il sistema; ma i dati sugli afflussi turistici, registrati a cavallo dell’inserimento nella WHL, testimoniano con chiarezza come la nomina UNESCO non abbia nei fatti giovato. A fronte di un aumento rilevante del numero dei visitatori, registrato nell’anno di inserimento nella lista, gli accessi all’area sono diminuiti in maniera importante negli anni successivi, stabilizzandosi su una media di 71.197 visitatori tra il 1997 ed il 2006, comunque inferiore ai numeri registrati prima della nomina UNESCO (75.783 visitatori per l’anno 1996)[19].

Sicuramente si tratta di numeri alti, se confrontati a quelli dei principali poli culturali statali dell’isola. L’andamento altalenante riscontrabile per l’area di Su Nuraxi però si riflette in maniera simile in tutta la Sardegna, manifestando una tendenza diffusa su tutto il territorio regionale, indipendente da qualsiasi tipo di riconoscimento. Mentre calano gli accessi all’area di Barumini sembra però esplodere l’interesse verso la produzione statuaria della necropoli di Mont’e Prama (Cabras, Oristano), recentemente restaurata e già proiettata verso un “grande successo mondiale”. Il recente accordo tra la Regione ed il Comune di Cabras per la valorizzazione a fini culturali e turistici sembra non lasciare scampo alle statue: per farle conoscere in tutto il mondo verranno promosse una lunga serie di iniziative ed una grande campagna di marketing. D’altra parte «i turisti vengono se hanno una motivazione ed i Giganti di Mont’e Prama sono una motivazione molto molto forte»[20].

In conclusione, sembra che per certi aspetti lo stesso fenomeno turistico possa mettere in crisi alcuni principi nella gestione di territori più o meno estesi e di aree particolarmente fragili come quelle archeologiche. In virtù da una parte dell’idea consolidata che l’economia della Sardegna possa sopravvivere solo grazie a consistenti flussi turistici, e dall'altra dei flussi di altra natura che la investono e attraversano, così come investono e attraversano in generale l'Italia, sono sempre più necessarie politiche territoriali con una visione globale e una gestione di lungo periodo, adatte - o adattabili - a differenti contesti. Soprattutto capaci di rinunciare all’idea di portare turisti ovunque e per tutto l’anno[21].

Recentemente è stato rilevato che, su oltre duecento siti riconosciuti come eredità naturale dell’umanità, circa il 60% risulta danneggiato a causa dell’intervento umano negli ultimi anni[22]. Più della metà sembra aver perso mediamente tra il 10% ed il 20% di superficie protetta, e le cause principali sarebbero riconducibili ad una pressione antropica eccessiva, individuata anche nell’aumento della popolazione e delle infrastrutture.

E mentre il Ministero insegue isolati patrimoni su cui monetizzare, a distanza di diversi anni sui tetti abruzzesi svettano ancora le gru della ricostruzione. Il caso de L’Aquila e, più in generale, del terremoto del 2009 non è solo una metafora dell’Italia; rischia di rappresentarne anche il futuro. Quello di un Paese che affianca all’inarrestabile occupazione e sfruttamento del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale[23].

Un chiaro segnale di allarme sembra arrivare proprio dall’UNESCO che recentemente, pur apprezzando i progressi e le azioni messe in campo nella protezione della città di Venezia, ha chiesto ulteriori interventi da rendere effettivi entro la fine del 2018[24]. La crisi veneziana non è recente e ha trovato un chiaro avvertimento già in un rapporto del 2016, redatto dall’organismo delle Nazioni Unite, che chiedendo un freno al passaggio delle grandi navi da crociera ha minacciato l’esclusione della città dalla WHL[25]. In quell’occasione si è registrata una grande reattività, ma preme sottolineare come molte proposte non abbiano contemplato una sostanziale riduzione del passaggio delle navi all’interno della laguna, quanto invece la pianificazione e lo scavo di nuovi canali. Progetti che destano grande preoccupazione e che, se realizzati, potrebbero stravolgere ulteriormente la natura stessa della laguna, con gravi conseguenze per la città.

Ma Venezia è solo uno dei casi critici riconoscibili sul territorio italiano. Mentre si celebra con orgoglio l’aumento del numero di visitatori nei musei e negli istituti di cultura[26], negli ultimi anni hanno rischiato di essere esclusi dalla WHL anche Villa Adriana a Tivoli, minacciata prima da una discarica, poi da un insediamento residenziale, e l’area archeologica di Pompei. L’UNESCO ha avviato una procedura di verifica anche per Vicenza e per il paesaggio palladiano: qui un gigantesco complesso edilizio è sorto a qualche centinaio di metri dalla Villa La Rotonda.

Per tutte queste ragioni, in Sardegna può perfino spaventare il recente inserimento nella rete Geoparks UNESCO dell’area del Parco Geominerario Storico e Ambientale di Iglesias. La rete include territori in cui è riconoscibile un notevole patrimonio geominerario e in cui possono trovare fertile applicazione politiche e strategie di sviluppo territoriale sostenibile. Anche in questo caso, come per quanto discusso in relazione alla WHL, si prevede che le aree iscritte siano gestite da enti o strutture capaci di applicare politiche di rafforzamento della protezione, della valorizzazione e della sostenibilità dei territori iscritti e viene richiesto che ciascuna area abbia un ruolo attivo nello sviluppo economico del territorio, tale da favorire il cosiddetto Geoturismo[27].

Chiaramente si tratta di una nomina molto recente, ed è difficile, al momento, riuscire a prevederne gli effetti. Ma al di là della possibilità di valutare l’attività turistica in senso positivo o negativo è opportuno sottolineare che il parco minerario di Iglesias è al centro di uno dei territori maggiormente isolati della Sardegna ed è plausibile che proprio tale isolamento abbia contribuito a conservarne intatti alcuni aspetti di naturalità, di percezione paesaggistica e di bellezza indiscutibile. Se da un lato la possibilità di attirare su questi territori una grande attenzione mediatica e turistica potrebbe avere risvolti positivi, è comunque opportuno domandarsi entro quali limiti si debba permettere che gli equilibri del complesso territoriale siano alterati. 

Le soluzioni adottate dalle Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention non sembrano essere adatte per affrontare in un'unica soluzione problematiche che riguardano siti sostanzialmente differenti tra loro, ma la cui protezione deve rispondere ad indicazioni standardizzate. All’interno del documento, a fronte di otto articoli che definiscono le differenti forme in cui il patrimonio mondiale può presentarsi[28], ne corrispondono circa venti che indicano strategie e soluzioni operative per la protezione dei beni[29]. In nessun caso però, vengono raccomandate soluzioni o azioni da applicare in maniera diversificata per beni parte del patrimonio culturale, naturale, misto, ecc.

Se la definizione di un perimetro di protezione può apparire giustificata dalla presenza delle strutture, è più complicato comprendere i criteri riconducibili alla definizione della buffer zone indicata nel §§ 103-107, i cui limiti dovrebbero preservare i caratteri territoriali e naturali del contesto.

Chi decide dove finisce l’eccezionale naturalità di un territorio? E soprattutto, attraverso quali criteri?

I limiti prescritti dall’UNESCO sono ovviamente intangibili, invisibili e assolutamente valicabili, ma trasmettono un messaggio in qualche senso opposto rispetto agli obiettivi che le soluzioni adottate dovrebbero perseguire: separazione invece di continuità, privazione invece di coinvolgimento. Vengono a crearsi nuovi isolamenti in cui agli spazi sottratti alla comunità viene riconosciuta una nuova dimensione, di grande valore certamente, ma comunque immobile, seppure costretta ad un continuo confronto con un territorio che invece è in costante movimento[30]. Vero è, naturalmente, che il concetto stesso di confine, e di vincolo, prevede una delicatissima questione di inclusione ed esclusione. C'è poi un ulteriore aspetto che può essere considerato discutibile, pur insito nei principi cardine dell’azione UNESCO. Gli artt. 1 e 2 della WHC prevedono l’inserimento nella WHL esclusivamente per beni culturali e beni naturali che esprimano un valore eccezionale universale. Nell’ottica di un’azione di tutela diffusa il più possibile sul territorio, tale carattere sembra ridurre notevolmente le possibilità di intervento, rendendo la salvaguardia inadeguata per la sopravvivenza del “patrimonio minore”[31]. Inoltre, le Operational Guidelines UNESCO non pongono limiti formali al numero di siti che possono far parte della WHL, che hanno superato quota mille e che appaiono in continuo aumento[32]. Chiaramente, più siti sono inseriti nella lista più aumenta il rischio che il valore eccezionale e universale dei nuovi sia minore rispetto ai precedenti, fino a diventare di fatto nullo e a rendere sempre più necessaria una diversa e aggiuntiva tutela delle singole realtà, più aperta e legata al territorio.

È impossibile contestare l’idea che luoghi o territori eccezionali esistano “davvero”. L’incomprensione più diffusa, tuttavia, sembra discendere dalle continue richieste di attenzione verso un patrimonio sempre più sopraffatto da interessi terzi. In Sardegna, al di là di ciò che potrebbe essere considerato universalmente eccezionale, risulterebbe forse più stimolante provare a ricalibrare l’attenzione comune verso quei luoghi e quei territori apparentemente perduti.

Il rapido quanto tumultuoso processo di industrializzazione che ha investito l’isola a partire dall’inizio degli anni ’60 rappresenta perfettamente questa esigenza. Con la convinzione che si trattasse di un passaggio necessario e fondamentale per lo sviluppo, numerosi settori dell'isola vennero selezionati per diventare nuclei produttivi e poli industriali di grandi dimensioni[33], ma gli effetti contraddittori della grande industria appaiono oggi assolutamente evidenti. Se da un lato ha favorito un (momentaneo) incremento regionale di occupazione, dall’altra ha causato una distorsione dello sviluppo produttivo dell’isola inducendo, anche per la totale assenza di una programmazione complessiva degli interventi, enormi problemi relativi agli assetti del territorio e accelerando, ciò che è più grave, la sconnessione del tessuto sociale[34].

A titolo di esempio, il territorio del Sulcis, con il suo complesso minerario e la sua rilevanza geologica, è oggi uno dei settori più poveri di un’isola tra le più economicamente arretrate della nazione. Immaginare di poterne risolvere i problemi solo attraverso il riconoscimento di valore di una porzione di territorio può essere un’operazione tanto utile ad attirare l’attenzione globale, quanto miope, se limitata alla realizzazione di eventi, feste e manifestazioni di durata eccezionalmente breve e se non accompagnata da efficienti politiche territoriali e sociali. Come è difficile pensare ad un effettivo sviluppo integrato della zona sulla sola spinta di progetti scientifici senza dubbio ambiziosi e importanti, come tra gli altri la recentissima ricerca legata alle onde gravitazionali nel sito di Lula, le cui gallerie «sono state considerate il luogo ideale per portare avanti questo tipo di ricerca»[35]. Soprattutto perché, mentre un nuovo paesaggio si compone di singoli luoghi meritevoli, lo spazio restante sembra perdere il carattere di filtro, diventando terra di nessuno[36], e il rischio, già sperimentato, che si accompagna a un momentaneo incentivo esogeno è appunto quello di una sconnessione dal complesso territoriale, a tutti i livelli inteso, che inevitabilmente tende a portare ad un (ennesimo) drammatico abbandono.

Compito fondamentale dell’UNESCO, come si diceva, non è tanto la tutela dei beni, quanto il riconoscimento di un valore. Come tutte le agenzie dell'ONU si tratta di un ente i cui organi decisionali sono costituiti dai rappresentanti dei governi nazionali, ed è dunque molto difficile che possa esprimersi contro la volontà dei governi.

A ciascuno Stato spetta dunque provvedere ad identificare, segnalare e delimitare i differenti beni sul proprio territorio, garantendo la protezione, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e naturale[37]. Secondo le stime dell’UNESCO, l’Italia possiede più della metà del patrimonio mondiale dei beni culturali. Ma pensare di poter inseguire la chimera di una tutela dell’eccezionale appare una sfida rischiosa, non solo a livello internazionale ed in relazione al futuro della Convenzione UNESCO, ma anche, forse soprattutto, per la sopravvivenza delle realtà locali, così caratterizzanti il Paese, così caratterizzanti e proprie della Sardegna. Si tratta dunque di interpretare la normativa UNESCO e provare ad integrarla, in sede di applicazione, con una tutela che vorremmo definire “di contesto”. Che non escluda, che non isoli, che riconosca l'eccezionalità di un complesso.

 

 

2. – Il disallineamento tra meritevolezza di tutela e tutela nella cornice della convenzione UNESCO

 

La Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale del 1972 ingenera forti aspettative circa la tutela dei beni, che siano stati selezionati per entrare a far parte della WHL ai sensi dell’art. 11 della Convenzione stessa. Ciò in quanto l’inclusione nella lista consegue, come noto, al riconoscimento del valore eccezionale del bene in questione «dal punto di vista storico, estetico, etnologico o antropologico», tanto per focalizzare subito l’attenzione sui «siti» di interesse archeologico[38]. In altre parole, la presenza di un insediamento nella WHL è di per sé indice di una particolare meritevolezza di tutela della stesso.

Simile conclusione è confortata dalla circostanza che è proprio il criterio della meritevolezza di tutela a definire l’ambito di applicazione della Convenzione UNESCO, dato che il «patrimonio culturale e naturale mondiale» oggetto di attenzione è soltanto quello dotato di «valore universale eccezionale» in base ai diversi «punt[i] di vista» considerati agli artt. 1 e 2 della Convenzione. Una speciale meritevolezza di tutela emerge anche dalla corrispondente legislazione italiana, che attribuisce espressamente un «valore simbolico» ai «siti italiani UNESCO», da valutare «per la loro unicità, [come] punte di eccellenza del patrimonio culturale, paesaggistico e naturale italiano e della sua rappresentazione a livello internazionale»[39].

Se ci si sposta tuttavia sul piano – teoricamente consequenziale – della tutela effettivamente prestata, le aspettative sfioriscono al cospetto non solo della legislazione nazionale, ma ancor prima dell’impianto della stessa Convenzione UNESCO. La strategia delineata in tale sede presenta cioè alcune caratteristiche, che non sembrano pienamente funzionali alla tutela rinforzata di cespiti del patrimonio culturale e naturale dotati di eccezionale valore.

In primo luogo, il meccanismo delineato dalla Convenzione ai fini della compilazione della WHL, basato com’è sulla candidatura dei siti per iniziativa dello Stato di appartenenza e sull’imprescindibilità del consenso di questo all’inserimento di un bene nell’elenco (art. 11 Conv. UNESCO 1972), sconta evidentemente la particolare visione delle istituzioni nazionali in merito al riconoscimento – in via provvisoria, ma propedeutica – della particolare meritevolezza di tutela dei beni in questione[40].

In secondo luogo, come lo strumento in sé della “lista” (rectius delle “liste”: WHL e WH Danger List)[41] chiaramente evidenzia, l’approccio della Convenzione UNESCO è fortemente selettivo rispetto all’oggetto che mira a presidiare. Come è stato ricordato[42], la Convenzione opera, in sostanza, nel senso di enucleare il bene selezionato dal contesto di riferimento, interpretando la cesura come misura di protezione. Gli Stati hanno infatti l’onere (più che l’obbligo) di «definire e delimitare i diversi beni, situati sul [proprio] territorio» (art. 3 Conv. UNESCO 1972) riconducibili alle tipologie enucleate dalla Convenzione medesima (artt. 1 e 2) e, in base alle Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention (2016), è richiesto che il sito UNESCO sia caratterizzato da «confini adeguatamente delineati» (§. 97) e protetto da un “cordone di territorio” contro eventuali sconfinamenti di persone o dagli effetti dell’antropizzazione o dello sfruttamento delle risorse (§. 98 e §. 101). La previsione di “zone-cuscinetto” (buffer zone) attorno al sito protetto è considerata normale, al punto che la mancanza di tale accorgimento necessita di puntuale motivazione in sede di candidatura (§. 106).

In terzo luogo, la Convenzione UNESCO configura in capo allo Stato territorialmente competente obblighi di salvaguardia del bene, che – anche grazie alla scelta dei termini – risultano generici e blandi, evidentemente tesi a preservare la discrezionalità del legislatore nazionale circa gli esatti contorni della disciplina di tutela da approntare, più che ad affermare la necessità di misure di protezione consone al «valore universale eccezionale» espressamente attribuito al bene[43]. Né pare svolgere un ruolo supplente la facoltà – riconosciuta allo Stato – di ricorrere alla cooperazione internazionale per fronteggiare gli obblighi di protezione di un bene incluso nella WHL: da un alto, tale supporto è subordinato appunto ad una specifica «domanda di assistenza internazionale» formulata dallo Stato stesso ai sensi dell’art. 13 Conv. e sconta dunque eventuali contingenze della politica nazionale e internazionale; dall’altro lato, la Convenzione richiama espressamente il dovere dello Stato di «utilizzar[e] al massimo le proprie risorse» a scopo di tutela, limitando le richieste di aiuto al verificarsi di un «caso di necessità» (art. 4 Conv.); dall’altro lato ancora, l’attivazione autonoma del canale internazionale di protezione risulta del tutto eccezionale, essendo limitata al verificarsi di «circostanze straordinarie» tali da indurre il Comitato del patrimonio mondiale ad inserire autonomamente un bene nella WH Danger List (art. 11 Conv.).

La normativa italiana rispecchia l’impostazione della Convenzione, posto che al formale riconoscimento del «valore simbolico dei siti italiani UNESCO» (art. 1 l. 77/2006) corrisponde soltanto la previsione di un canale di finanziamento ad hoc per gli interventi in tali aree e l’introduzione di uno strumento di governo del bene (il c.d. «piano di gestione»)[44] che, al di là della denominazione, non appare innovativo rispetto ad analoghi istituti già contemplati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42), ai quali la l. 77/2006 espressamente rinvia, pur potendo rappresentare un elemento per valutare il corretto adempimento da parte dello Stato degli obblighi di tutela scaturenti dalla Convenzione stessa[45]. Come è stato recentemente affermato dalla Corte costituzionale, «nel nostro ordinamento i siti UNESCO non godono di una tutela a sé stante, ma, anche a causa della loro notevole diversità tipologica, beneficiano delle forme di protezione differenziate apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche»[46].

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, dunque, non contempla alcuna particolare misura di salvaguardia in ragione della qualificazione di un bene come “sito UNESCO”. E tale aspetto non ha mancato di ingenerare perplessità nella giurisprudenza amministrativa, che in più occasioni ha sollevato questioni di legittimità costituzionale delle norme poste dal d.lgs. 42/2004 a presidio dei c.d. «beni paesaggistici» nella parte in cui non contengono una disciplina di tutela rafforzata e specifica per le realtà in questione[47].

Infatti, anche se formalmente l’art. 132 c. 1 d.lgs. 42/2004 richiama il dovere della Repubblica italiana di conformarsi «agli obblighi ed ai principi di cooperazione tra gli Stati fissati dalle convenzioni internazionali in materia di conservazione e valorizzazione del paesaggio» – richiamo simbolico, tenuto conto del vincolo per il legislatore sancito in tal senso a fortiori dall’art. 117 c. 1 Cost. –, i siti UNESCO risultano assimilati ad un qualsiasi altro bene ai fini della normativa paesaggistica.

Anzitutto, essi non rientrano in quanto tali – ossia in quanto inclusi nella WHL – nel novero delle «Aree tutelate per legge» elencate all’art. 142 d.lgs. 42/2004, fermo restando che a simile protezione potranno aspirare qualora siano riconducibili ad una delle categorie considerate dalla norma[48]. In secondo luogo, i siti UNESCO non costituiscono di per sé beni di «notevole interesse pubblico» ai sensi dell’art. 136 d.lgs. 42/2004, potendo essere ricondotti a tale alveo solo a fronte di uno specifico provvedimento amministrativo, la cui adozione sarà quindi influenzata dai fattori eventualmente incidenti sull’azione della Pubblica Amministrazione (ad es. con riferimento alla speditezza dell’intervento e alla discrezionalità delle valutazioni rimesse all’organo amministrativo)[49].

Vi è infine un terzo gruppo di beni, destinatari di tutela in quanto (semplicemente) ricompresi nell’attività di «pianificazione paesaggistica», che può attagliarsi alla multiforme fisionomia dei siti UNESCO: «gli ulteriori immobili ed aree specificamente individuati a termini dell’art. 136»[50], ossia rientranti nelle tipologie elencate in tale ultima disposizione. Il possibile legame con i beni inclusi nella WHL discende dalle lettere c) e d) della norma citata, che menzionano: «c) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici; [e] d) le bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze». Ed è proprio con riferimento alle finalità dei c.d. «piani paesaggistici» l’unico richiamo esplicito operato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio ai «siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO»: i predetti piani dovranno infatti prestare particolare attenzione alla salvaguardia di tali realtà nell’individuazione delle «linee di sviluppo urbanistico ed edilizio»[51].

Le censure di incostituzionalità mosse dalla giurisprudenza rispetto alla disciplina di tutela delineata dal d.lgs. 42/2004 poggiavano sul rilievo che la mancata inclusione dei siti UNESCO tra i beni soggetti a vincolo paesaggistico ex lege o per effetto di un provvedimento sottratto all’apprezzamento discrezionale della pubblica amministrazione finiva per frustrare i principi affermati all’art. 9 Cost. e all’art. 117 c. 1 Cost. (quest’ultimo in ragione dell’ipotizzata violazione degli artt. 4 e 5 Conv. UNESCO quali “obblighi internazionali – norme interposte” nel giudizio di legittimità costituzionale). La normativa in questione è stata viceversa salvata dalla Corte costituzionale, che ha ritenuto inammissibili le questioni sollevate dai giudici a quibus «in quanto rivolt[e] ad ottenere una pronuncia additiva e manipolativa non costituzionalmente obbligata in una materia rimessa alla discrezionalità del legislatore»[52].

Il riconoscimento della discrezionalità esistente in capo al legislatore nazionale nella definizione della disciplina di tutela dei siti UNESCO appare in linea, come s’è detto, con l’approccio della Convenzione. Nondimeno, il carattere frammentario e, in ultima analisi, spesso eventuale del regime di salvaguardia appena descritto risulta disarmonico rispetto al giudizio di meritevolezza di tutela formulato, per tali beni, a livello di fonti sia internazionali, sia nazionali[53].

Non sfugge peraltro che la mancata inclusione dei siti UNESCO in quanto tali tra gli oggetti presidiati dal d.lgs. 42/2004 si riflette sull’effettività della tutela. Per un verso, essa impatta sugli obblighi di condotta gravanti sui privati, i cui interventi sono assoggettati al previo provvedimento di autorizzazione solo rispetto alle realtà selezionate dall’art. 146 c. 1 del Codice dei beni culturali e del paesaggio; ma tra queste i siti UNESCO rientreranno solo eventualmente, come s’è visto[54]. Per altro verso, simile impostazione può rendere precario il supporto sanzionatorio garantito dalle disposizioni che prevedono illeciti amministrativi e fattispecie di reato a presidio dei beni paesaggistici e che opereranno anche rispetto ai siti UNESCO solo nei limiti in cui questi ultimi siano riconducibili ai primi[55].

 

 

3. – La natura aspecifica della tutela penale (anche nelle linee di riforma in discussione)

 

La particolare meritevolezza di tutela enunciata con riferimento ai beni inclusi nella WHL non traspare neppure dalle norme del Codice penale poste a tutela dei beni culturali. I siti UNESCO non risultano d’emblée presidiati da tale comparto di legislazione penale, peraltro disorganico, maldestramente mite e affetto da alcune incoerenze[56]: dovrà invece di volta in volta essere verificata la possibilità di sussumere un’offesa ad essi portata al dettato delle singole fattispecie incriminatrici. Così, per le ipotesi di danneggiamento aggravato, il presidio penale opererà solo rispetto a «cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o immobili ricompresi nel perimetro dei centri storici» (art. 635 c. 2 n. 1 c.p.)[57], mentre il blando reato di danneggiamento di bene culturale proprio troverà applicazione rispetto a «un monumento o un’altra cosa propria di (…) rilevante pregio» (art. 733 c.p.).

Curiosamente, proprio nell’eventualità che il bene offeso in concreto sia un sito UNESCO potrebbe riacquisire insperata vitalità la condizione oggettiva di punibilità, che nell’art. 733 c.p. richiede che «dal fatto deriv[i] un nocumento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale». Come noto, la presenza di simile condizione è stata aspramente criticata in dottrina in quanto affetta da “gigantismo” e tale da bloccare l’operatività della fattispecie, dato che solo in casi eccezionali una singola condotta di danneggiamento è in grado di causare il macroscopico nocumento richiesto[58]. Invece, se la condotta interessasse un bene incluso nella WHL, la condizione in questione potrebbe risultare integrata, tenuto conto del valore esplicitamente riconosciuto a siffatte realtà dal legislatore nazionale, permettendo così di applicare la sanzione penale prevista.

Sembrerebbe a prima vista candidato a tutelare anche i siti UNESCO il reato di Distruzione o deturpamento di bellezze naturali (art. 734 c.p.). Tuttavia, il presidio penale è qui espressamente limitato alle «bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell’Autorità», ossia alle «bellezze naturali che possono dirsi tali soltanto perché sottoposte al vincolo previsto dalle norme amministrative»[59]. Sicché la fattispecie finisce per incunearsi nella medesima direzione del d.lgs. 42/2004, già esaminato.

Si può infine notare che la particolare meritevolezza di tutela dei beni ricompresi nella WHL non emerge neppure dalla riforma c.d. “Franceschini-Orlando”, attualmente al vaglio del Parlamento. Il disegno di legge intitolato Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale, già approvato dalla Camera dei Deputati il 22 giugno 2017 e ora all’esame del Senato, prevede l’introduzione di un nuovo titolo nel Libro II del Codice penale, specificamente dedicato ai «delitti contro il patrimonio culturale»[60]. Nondimeno il catalogo delle fattispecie potenzialmente di nuovo conio assume come oggetto di tutela «i beni culturali o paesaggistici» tout court, senza ricollegare un particolare disvalore alla condotta che risulti offensiva di un sito UNESCO[61]. Nel nuovo scenario normativo che prenderebbe forma a partire dalla novella (con l’abrogazione, tra l’altro, delle fattispecie codicistiche di reato attualmente vigenti e testé esaminate), la sola disposizione che potrebbe farsi carico di una risposta in tal senso pare – con i relativi limiti – la circostanza aggravante prevista dal prospettato art. 518-quinquiesdecies c.p., che disporrebbe un aumento di pena «da un terzo alla metà», «quando un reato avente ad oggetto beni culturali o paesaggistici cagiona un danno di rilevante gravità».

Peraltro, la Convenzione del Consiglio d’Europa sui reati relativi ai beni culturali, adottata a Nicosia il 19 maggio 2017, pur richiamandosi espressamente nel preambolo alla Convenzione UNESCO 1972, riferisce la propria strategia di tutela penale al “patrimonio culturale mobile o immobile”[62] in quanto tale, tralasciando eventuali misure di salvaguardia rafforzata per siti inclusi nella WHL.

 

 

4. – Spunti dalla convenzione UNESCO per una concezione del patrimonio culturale come bene giuridico

 

Nonostante i limiti segnalati in termini di tutela, la Convenzione UNESCO rappresenta un punto di riferimento essenziale per la focalizzazione del bene da presidiare nell’ambito considerato.

Se si prende nuovamente in considerazione il meccanismo della “lista”, dalla circostanza che tale elenco sia soggetto ad aggiornamento periodico e che gli Stati possano ricevere assistenza internazionale anche per avviare le ricerche preliminari per l’identificazione di un bene potenzialmente dotato di «valore universale eccezionale» (art. 13 c. 2 Conv.), si può desumere la non esaustività e la provvisorietà del censimento di particolare meritevolezza di tutela, di volta in volta condotto dal “Comitato del patrimonio universale” ai sensi dell’art. 11 Conv.

Sottotraccia è dunque possibile cogliere l’assunto che la particolare meritevolezza di tutela di un bene culturale discende dal «valore universale eccezionale» ad esso attribuibile, inteso come qualità intrinseca, a prescindere cioè dall’attuale inclusione o meno del bene nella WHL stessa[63].

Tale elemento pare confermato dal tenore della Dichiarazione UNESCO riguardante la distruzione intenzionale del patrimonio culturale (2003) che, analogamente all’art. 6 c. 3 Conv. UNESCO 1972, riconosce la responsabilità internazionale dello «Stato che distrugge intenzionalmente il patrimonio culturale che riveste una grande importanza per l’umanità, o che si astiene intenzionalmente dal prendere misure appropriate per interdire, far cessare e sanzionare ogni distruzione intenzionale di tale patrimonio, che sia o meno iscritto nella lista gestita dall’UNESCO o da un’altra organizzazione internazionale» (§. VI Dich.). In coerenza con il descritto profilo di responsabilità in capo allo Stato, la Dichiarazione impegna le Parti sovrane ad accertare la responsabilità e a «fissare le sanzioni penali adeguate da applicare» alle persone fisiche «che commettono od ordinano di commettere atti di distruzione intenzionale del patrimonio culturale che riveste una grande importanza per l’umanità, che sia o no iscritto sulla lista gestita dall’UNESCO o da un’altra organizzazione internazionale» (§. VII Dich.).

Il particolare valore riconosciuto al patrimonio culturale in sé nel sistema UNESCO si comprende anche grazie al termine Heritage (eredità), che figura nella versione inglese della Convenzione UNESCO 1972 [64]. Si tratta di una vera e propria parola-chiave, che illumina il senso della tutela: i beni selezionati appaiono meritevoli di protezione, conservazione e valorizzazione in vista dell’avvicendamento tra generazioni, poiché essi rappresentano realtà in grado di tramandare forme uniche della cultura dell’uomo e della natura, nelle quali i discendenti potranno riconoscersi e coltivare il proprio senso di appartenenza al genere umano.

Simile prospettiva è stata confermata di recente dalla già citata Convenzione del Consiglio d’Europa sui reati relativi ai beni culturali (2017), che nel preambolo riconosce: «the diverse cultural property belonging to peoples constitutes a unique and important testimony of the culture and identity of such peoples, and forms their cultural heritage». Un approccio in linea con la tradizione culturale e giuridica italiana, così come filtrata nell’art. 9 Cost.: nel raccordo con gli altri principi costituzionali, la disposizione valorizza la funzione sociale del patrimonio culturale, nel quale ravvisa uno strumento fondamentale per lo sviluppo della persona, singolarmente e quale componente di una collettività[65].

Ed evidentemente l’accento sulla responsabilità intergenerazionale riecheggia la “grammatica” dei c.d. “beni comuni” (commons)[66], definiti in chiave giuridica come «cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona» e «devono essere tutelat[e] e salvaguardat[e] dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future»[67].

Per un verso, l’accostamento ai commons conferma la correttezza della declinazione del patrimonio culturale in termini penalistici come bene giuridico essenzialmente pubblicistico, a prescindere dal rapporto dominicale di volta in volta insistente sulla res che ne rappresenta un cespite[68]. Per altro verso, dalla teoria dei beni comuni si può trarre un argomento a favore di una concezione, appunto, unitaria di realtà assai diversificate (beni culturali mobili e immobili, beni paesaggistici, ecc.) e di una risposta conseguentemente organica alle corrispondenti istanze di tutela. A parte l’analisi di dettaglio ed ogni valutazione di efficacia, il già citato disegno di legge A.S. n. 2864 del 2017, che introduce nel Codice penale un titolo dedicato ai «delitti contro il patrimonio culturale», pare muoversi in questa direzione sistematizzando l’intervento penale rispetto alla tradizionale frammentazione dei beni protetti (dal patrimonio individuale nelle ipotesi di danneggiamento aggravato ex artt. 635 e 639 c.p. agli interessi pubblicistici considerati dalle contravvenzioni di cui agli artt. 733 e 734 c.p.) e coagulando la strategia di difesa attorno, appunto, al «patrimonio culturale» in quanto tale.

 

 

Abstract

PROTECTING SARDINIA.

LIMITS AND PERSPECTIVES ON THE APPLICATION OF THE UNESCO DISCIPLINE IN ARCHAEOLOGICAL FIELD

G. Azzena – R. Busonera – C. Perini

This paper aims to re-read some archaeological reality in Sardinia. It tries to develop a critical discussion on the local solutions adopted for the protection, enhancement, use of sites and the UNESCO discipline, which states a hierarchy about cultural assets - based on the worth - and provides a stronger protection for those included in the World Heritage List. For this reason, it is proposed to investigate if the inclusion in the UNESCO List is really reflected in the Italian protection system. Significant overlaps appear in relation to the skills and strategies to be adopted for the valorization of archaeological heritage. This work arises from a legal analysis, from a correlation between some archaeological sites and from the analogy between “material” cultural heritage and “identifying" cultural heritage. The results are useful to recognize possible corrections of the protection system and, moreover, towards an updated definition of the object that needs to be protected

 

 

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Fonti

 

(a) Normative internazionali

-        Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale (1972).

-        Dichiarazione UNESCO riguardante la distruzione intenzionale del patrimonio culturale (2003).

-        Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convetion (2016).

-        Council of Europe Convention on Offences relating to Cultural Property (2017).

 

(b) Normative nazionali

-        D.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).

-        L. 20 febbraio 2006 n. 77 (Misure speciali di tutela e fruizione dei siti italiani di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella «lista del patrimonio mondiale», posti sotto la tutela dell’UNESCO).

-        D.d.l. A.S. n. 2864 del 2017, Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale.

 

(c) Giurisprudenza

-        Corte cost. sent. 11 febbraio 2016 n. 22, in www.cortecostituzionale.it .

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Nel presente contributo il paragrafo 1. si deve a G. Azzena e R. Busonera; i paragrafi 2., 3., 4. si devono a C. Perini.

 

[2] « […] making an imaginative and innovative use of the materials and techniques available to a prehistoric island community», World Heritage Committee, CR n. 833, Napoli 1997.

 

[3] Cfr. C. COSSU, Mibact, se la riforma affonda nel caos “sardo”, in Il manifesto, 5 febbraio 2017, 5.

 

[4] Riscatto dei feudi (1830-39); editto delle “chiudende” (1820-39); abolizione degli ademprivi (1859-65). Cfr. G. LILLIU, Uomo e ambiente in Sardegna nel suo percorso storico, in G. LILLIU, La costante resistenziale sarda, a cura di A. Mattone, Nuoro 2002, 437.

 

[5] A. CEDERNA, L’ostilità circonda ancora il parco del Gran Paradiso, in Corriere della Sera, lunedì 13 marzo 1967, 3.

 

[6] L'episodio, del 19 ottobre 2010, viene riportato in C. TOSCO, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, Bologna 2014, 128.

 

[7] In relazione alla liaisons dangereuses tra economia e beni culturali si veda TOSCO 2014, 128-141. Di liaisons dangereuses discute anche M.P. GUERMANDI nel 2013, ma in relazione al rapporto tra beni culturali e turismo: http://www.eddyburg.it/2013/04/liaisons-dangereuses-beni-culturali-e.html consultato il 26/07/2017).

 

[8] Sul tema si veda C. TOSCO, cit., 104-110.

 

[9] Cfr. artt. 1-2 UNESCO – Convention concerning the protection of the world cultural and natural heritage (Parigi, 16/11/1972).

 

[10] Si veda il DM 44/2016 – Riorganizzazione del Ministero dei bene e delle attività culturali e del turismo. Per un accurato commento si v. anche M.P. GUERMANDI, Chi ha paura della tutela? Attualità e necessità di una pratica “incompresa”, in Rinnovare la tutela. Modelli matematici e grafici per una ridefinizione delle prospettive, a cura di E. Cicalò, M. Solci, Roma 2016, 252-255.

 

[11] Si vedano i documenti della 41 sessione del Comitato UNESCO svoltasi a Cracovia dal 2 al 12 luglio 2017: http://whc.unesco.org/en/sessions/41com/documents/ (consultato il 26/07/2017).

 

[12] Il crollo dell’intonaco della volta del Duomo di Acireale è avvenuto l’8 luglio 2017. In assoluta contemporaneità, dunque, con la riunione del Comitato per il patrimonio mondiale.

 

[13] Cfr. L. SOLIMA, La valutazione del ruolo del marchio Unesco nella valorizzazione turistica del territorio attraverso uno studio su tre siti italiani: aspetti metodologici, evidenze empiriche ed indicazioni operative, in Atti del Convegno Aidea, 19-21 settembre 2013. Le motivazioni e le finalità che possono determinare l’iscrizione di uno o più siti nella Lista UNESCO possono essere molto diverse: celebrativa, equivalente ad un riconoscimento; “SOS”, finalizzata alla salvaguardia di patrimoni considerati in pericolo; quella di marketing e qualità, utilizzata come leva per attirare maggiori flussi turistici; quella identitaria, legata alla volontà di generare nuove identità legate al territorio, utili alla nascita e sviluppo di nuove iniziative in grado di generare nuovi e positivi effetti socio-economici. Un tentativo di categorizzazione, strutturato sulla base di un recente studio, è in J.M. REBANKS, World Heritage Status: Is there opportunity for economic gain? Lake District World Heritage Project, 2009.

 

[14] Cfr. §98 - Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention (2016).

 

[15] «The Committee decided to inscribe this property on a basis of cultural criteria (i), (iii) e (iv), considering that the nuraghe of Sardinia, of which Su Nuraxi is the pre-eminent example, represent an exceptional responde to political and social conditions, making an imaginative and innovative use of the material and techniques avaible to a prehistoric island community». World Heritage Committee Twenty – first session, Committee report n. 833, Napoli 16 dicembre 1997.

 

[16] Cfr. G. LILLIU, cit., 428-429.

 

[17] Riportato nella copertina del volume in G. LILLIU, cit.

 

[18] Si v. A. CEDERNA, Per il futuro 497 milioni di metri cubi. La Sardegna affonderà sotto il peso del cemento, in La Nuova Sardegna, Sassari, 30 dicembre 1982.

 

[19] I dati sul numero di visitatori e gli introiti dei musei, dei monumenti e delle aree archeologiche statali, tra gli anni 1996-2006, sono pubblicamente consultabili all’indirizzo: http://www.statistica.beniculturali.it/Visitatori_e_introiti_musei_14.htm  (consultato il 26/07/2017).

 

[20] Si v. l’articolo pubblicato il 19.07.2017 da Ansa Sardegna:“Franceschini, fondazione su Mont’e Prama”: http://www.ansa.it/sardegna/notizie/2017/07/19/franceschini-fondazione-su-monte-prama_433ad199-e9b6-478d-95f2-1f59bfa93980.html (consultato il 27/07/2017).

 

[21] Cfr. A. CECCHINI, I’m not a tourisi, I live here. Turismo e territorio, Alghero 2016, 10-11. Un ulteriore riflessione dell’autore sul fenomeno del turismo di massa è contenuta in Eddyburg: http://archivio.eddyburg.it/article/articleview/7169/1/150  (consultato il 26/07/2017).

 

[22] Cfr. C. CAROVANI, L’impronta dell’uomo che minaccia i siti tutelati dall’UNESCO, in Altreconomia, 07.02.2017, (https://altreconomia.it/impronta-umana-unesco/).

 

[23] Cfr. T. MONTANARI, Tre anni dopo. L’Aquila non c’è più ed è il futuro dell’Italia, in Eddyburg, 16.03.2012 (http://archivio.eddyburg.it/article/articleview/18731/0/359/ ). Si veda anche V. EMILIANI, Terremoto. Dove è finito il Mibact?, in Eddyburg, 31.10.2016 (http://www.eddyburg.it/2016/10/terremoto-dove-finito-il-mibact.html ).

 

[24] Si veda V. CHIERCHIA, Ultimatum UNESCO per Venezia: interventi entro dicembre 2018 o si rischia la lista dei beni in pericolo, in Eddyburg, 07.07.2017 (http://www.eddyburg.it/2017/07/ultimatum-unesco-per-venezia-interventi.html ). Nello stesso contributo è pubblicato anche quanto l’UNESCO ha pubblicato sul proprio sito (www.wch.unesco.org ).

 

[25] L’unico caso di esclusione dalla WHL è quello di Dresda, il cui centro storico è stato iscritto alla Lista nel 2004, ma successivamente escluso (2009) a causa della realizzazione di un ponte voluto dall’amministrazione cittadina per l’alleggerimento del flusso di traffico nel centro della città.

 

[26] Di recente diverse testate giornalistiche hanno gioito per i dati sugli ingressi nei musei italiani registrati per i primi mesi del 2017. Si v. ad esempio quanto riferito in: http://www.repubblica.it/cultura/2017/07/16/news/musei_dati_primo_semestre_duemiladiciassette-170910645/

 

[27] Artt. 1-2-3 - European Geoparks charter (2000). Si v. http://www.europeangeoparks.org/?page_id=357 

 

[28] Artt. 45-53 Definition of World Heritage - Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention (2016).

 

[29] Artt. 96-119 Definition of World Heritage - Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention (2016).

 

[30] Si v. a tale proposito A. RICCI, Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, Roma 2006, 86-94.

 

[31] Cfr. C. TOSCO, cit., 109.

 

[32] Con la 41 sessione del comitato UNESCO di Cracovia, il numero dei siti iscritti alla WHL è salito a 1073. Le nuove iscrizioni sono 21: 18 culturali e 3 naturali.

 

[33] Cfr. S. RUJU, Società, economia, politica dal secondo dopoguerra a oggi (1944-1998), in AA.VV., La Sardegna [Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi], Torino 1988, in particolare 847-858.

 

[34] Cfr. S. RUJU, cit., 852.

 

[35] Si veda D. MADEDDU, La seconda vita delle miniere sarde, in Il Sole24Ore, 18 aprile 2017 (http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2017-04-17/la-seconda-vita-miniere-sarde-155045.shtml?uuid=AEpPyc6&refresh_ce=1 ).

 

[36] Cfr. S. SETTIS, Paesaggio, Costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino 2010, 7.

 

[37]Si vedano gli artt. 3-4 della WHC. Anche art. 6, comma 1.

 

[38] V. art. 1, terzo trattino, Conv. UNESCO 1972.

 

[39] In tal senso, rubrica e testo dell’art. 1 l. 20 febbraio 2006 n. 77 (Misure speciali di tutela e fruizione dei siti italiani di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella «lista del patrimonio mondiale», posti sotto la tutela dell’UNESCO).

 

[40] Si noti infatti che è del tutto marginale l’ipotesi di iscrizione automatica di un sito negli elenchi previsti dalla Convenzione UNESCO; il che si verifica per iniziativa del Comitato del patrimonio mondiale «in circostanze straordinarie» solo rispetto alla c.d. “Danger List”, ossia all’«Elenco del patrimonio culturale in pericolo» (art. 11 c. 4 ultimo periodo Conv.).

 

[41] Cfr. L. CASINI, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna 2016, 75 s.

 

[42] V. supra § 1.

 

[43] Cfr. artt. 4 e 5 Conv. UNESCO 1972 ed espressioni come: lo Stato «si sforza di agire a tale scopo [di protezione del bene]» (art. 4); «gli Stati parti della presente Convenzione si adopereranno nella misura del possibile» per adottare le misure di tutela elencate all’art. 5.

 

[44] Ex art. 3 l. 77/2006. Per le Dichiarazioni UNESCO che nel 2002 e nel 2004 hanno individuato nel piano di gestione un requisito per la presentazione della candidatura e per la stessa permanenza di un sito nella WHL, cfr. S. MARCHETTI – M. ORREI, La gestione dei Siti Unesco di Villa Adriana e di Villa D’Este a Tivoli, in Aedon. Rivista di arti e diritto, 1, 2011 (http://www.aedon.mulino.it/archivio/2011/1/marchetti.htm ).

 

[45] Cfr. G. GARZIA, Tutela e valorizzazione dei beni culturali nel sistema dei piani di gestione dei siti Unesco, in Aedon. Rivista di arti e diritto, 2, 2014 (http://www.aedon.mulino.it/archivio/2014/2/garzia.htm ), spec. §. 4.; nonché A. CASSATELLA, Tutela e conservazione dei beni culturali nei Piani di gestione Unesco: i casi di Vicenza e Verona, ivi, 1, 2011 (http://www.aedon.mulino.it/archivio/2011/1/cassatella.htm ), spec. §. 1.

 

[46] Corte cost. sent. 11 febbraio 2016 n. 22, §. 6.1., in www.cortecostituzionale.it . In merito alla natura giuridica e agli effetti del piano di gestione, cfr. G. GARZIA, Tutela e valorizzazione dei beni culturali, cit., §. 4., ove si sottolinea come tale istituto «non possa prevedere nuovi vincoli di natura conformativa» e sia uno «strumento di coordinamento del sistema di pianificazione – programmazione degli interventi volti alla tutela/valorizzazione del sito».

 

[47] Cfr. ordinanze TAR Campania richiamate in apertura Corte cost. sent. 22/2016.

 

[48] Cfr. in primis, per ciò che qui interessa, art. 142 c. 1 lett. m) d.lgs. 42/2004: «le zone di interesse archeologico».

 

[49] Certo che apparirebbe in linea di principio illogico e irragionevole un giudizio della Pubblica Amministrazione competente che negasse l’attribuzione della qualifica di “notevole interesse pubblico” a un bene inserito nella WHL.

 

[50] Così il testo dell’art. 134 c. 1 lett. c) d.lgs. 42/2004.

 

[51] Art. 135 c. 4 d.lgs. 42/2004. Sull’ulteriore «valvola di sicurezza» rappresentata, a fini di tutela, dall’art. 143 c. 1 lett. e) d.lgs. 42/2004, che permette al piano paesaggistico di individuare «eventuali, ulteriori contesti, diversi da quelli indicati all’articolo 134, da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione», cfr. L. UCCELLO BARRETTA, Quale tutela per i siti patrimonio dell’UNESCO?, in Osservatorio costituzionale, 30 gennaio 2016 (http://www.osservatorioaic.it/download/0ff2ikqhOJabxOz38ObJGcQq1083zOzNCtwTTe8-6T4/laura-uccello-barretta-osservatorio-gennaio-2016.pdf ), 9 s.

 

[52] Corte cost. sent. 22/2016, §. 5.

 

[53] Con riferimento cioè, per un verso, alla Convenzione UNESCO e, per altro verso, alla l. 77/2006 e, nelle parti segnalate, al d.lgs. 42/2004.

 

[54] In base ai rinvii operati dall’art. 146 c. 1 d.lgs. 42/2004, le aree interessate dall’obbligo di autorizzate sono quelle tutelate ex lege, dichiarate di notevole interesse pubblico o già individuate come particolarmente meritevoli di tutela in base alle normative precedenti al d.lgs. 42/2004 (come, ad es., le aree di interesse archeologico riconosciute in base al d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490).

 

[55] Cfr. art. 167 per le sanzioni amministrative e art. 181 d.lgs. 42/2004 per le previsioni di reato.

 

[56] In merito, cfr. C. PERINI, Programmi di tutela penale per l’archeologia urbana, in Rinnovare la tutela. Modelli matematici e grafici per una ridefinizione delle prospettive, a cura di E. Cicalò e M. Solci, Roma 2016, 294 s. Con riferimento alle prospettive di riforma, si veda da ultimo il Disegno di legge C. 4220 presentato il 12 gennaio 2017 alla Camera dei Deputati dal Ministro dei beni culturali e dal Ministro della Giustizia.

 

[57] Analogamente, l’art. 639 c. 2 II° periodo c.p. (Deturpamento e imbrattamento di cose altrui) trova applicazione rispetto a «cose di interesse storico o artistico».

 

[58] Cfr. F. MANTOVANI, Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1976, 77.

 

[59] F. MUCCIARELLI, Voce Bellezze naturali (distruzione o deturpamento di), in Digesto delle Discipline Penalistiche, vol. I, 435.

 

[60] In base al d.d.l. A.S. n. 2864 del 2017, si tratterebbe del nuovo «Titolo VIII-bis» del Libro II c.p., successivo – con scelta sistematica non del tutto convincente – rispetto al Titolo VIII relativo ai «delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio».

 

[61] Il riferimento è ai progettati artt. 518-novies e 518-decies c.p., che incriminerebbero i fatti di «danneggiamento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici», commessi sia con dolo sia con colpa.

 

[62] Cfr. in tal senso art. 10, par. 1, Council of Europe Convention on Offences relating to Cultural Property (Nicosia, 19th May 2017).

 

[63] Un elemento di ambiguità si ricava tuttavia dall’art. 12 Conv., in base al quale «il fatto che un bene del patrimonio culturale o naturale non è stato inserito in uno dei due elenchi [WHL e WH Danger List] (…) non significa in alcun modo che esso non ha un valore universale eccezionale per fini diversi da quelli che risultano dalla iscrizione in questi elenchi». Atteso che i predetti fini sono caratterizzati da una certa ampiezza riguardando la tutela, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale e naturale (cfr. art. 5 Conv.), la disposizione in parola sembra infatti riservare ai beni esclusi dalle liste un giudizio di “particolare meritevolezza” su piani assolutamente marginali.

 

[64] Cfr. il Preambolo della Convenzione UNESCO 1972, nonché il testo della Convenzione stessa a partire dal titolo, sempre nella versione inglese. Il termine Heritage non compare invece nella versione della Convenzione in lingua francese, né nella traduzione italiana.

 

[65] Cfr. S. SETTIS, Il paesaggio come bene comune, Napoli 2013, 9.

 

[66] Cfr. per limitare le citazioni ai primi animatori del dibattito sui beni comuni, G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, in «Science», vol. 162, 13 December 1968, 1243 ss.; E. OSTROM, Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge 1990.

 

[67] Così l’art. 1 c. 3 dell’articolato licenziato il 14 giugno 2007 dalla Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Stefano Rodotà. In merito a tale proposta, cfr. U. MATTEI, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari 2013, 82 ss. In senso critico, cfr. F. MARINELLI, Voce Beni comuni, in Enciclopedia del diritto. Annali, vol. VII, 165 s.

 

[68] Cfr. da ultimo U. MATTEI, Beni culturali, beni comuni, estrazione, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, a cura di E. Battelli, B. Cortese, A. Gemma e A. Massaro, Roma 2017, 152 s. In merito sia consentito anche il rinvio a C. PERINI, Programmi di tutela penale, cit., 283 ss.