SGUARDO STORICO ALLA CRIMINALITÀ,

ATTRAVERSO I LAVORI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA *

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GIAN PAOLO DEMURO

Università di Sassari

Dipartimento di Giurisprudenza

 

 

 

 

SOMMARIO: 1. L’interesse per il fenomeno della criminalità e i limiti di competenza istituzionale del Consiglio Regionale. – 2. La politica legislativa in tema di criminalità del Consiglio Regionale e il contributo decisivo delle Commissioni di indagine. – 3. Tra vecchia e nuova criminalità. – 4. I reati tipici. – 5. Gli indirizzi multifattoriali. – 6. Dalle cause ai possibili interventi, passando per alcuni momenti topici. – 7. Conclusione con uno sguardo all’attualità. – Abstract.

 

 

1. – L’interesse per il fenomeno della criminalità e i limiti di competenza istituzionale del Consiglio Regionale

 

Il fenomeno della criminalità percorre la storia dei lavori del Consiglio Regionale della Sardegna: una peculiarità che trova pochi riscontri in altre Regioni italiane e che deriva dai tratti originali della delinquenza sarda, sia quanto agli autori sia riguardo alle fattispecie penali. Questo interesse, anche operativo, si è realizzato in un contesto normativo che separa nettamente i poteri statali rispetto a quelli regionali, pur in presenza della specialità statutaria sarda[1].

Dal punto di vista tecnico-giuridico la materia penale non rientra infatti nella competenza legislativa regionale, stabilendo l’art. 117 comma 2 Cost. alla lett. l che «lo Stato ha legislazione esclusiva» in materia di «ordinamento penale»: dunque la Regione Sardegna (come tutte) non può creare nuovi reati o modificare quelli esistenti, sia nel precetto che nella sanzione, né introdurre o ampliare cause di estinzione della punibilità[2]. La Corte costituzionale è sempre stata assai rigida sul rispetto di tale competenza esclusiva statale, investendo essa la funzione politica, garantistica ed egualitaria, della riserva di legge ex art. 25 comma 2 Cost. e ritenendo tale funzione in una materia tanto delicata come quella penale meglio assicurata dal Parlamento nazionale, il quale riflette la volontà dell’intero popolo e non dei soli cittadini di una Regione come invece il Consiglio regionale; sono poi sempre nella Costituzione gli articoli 3, che sancisce il principio di eguaglianza, e 5, che pone il principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica, a confermare il fondamento di tale potere esclusivo statale[3]. Inoltre – a quanto ci consta – il Governo non si è mai avvalso della facoltà, prevista nell’art. 49 dello Statuto speciale per la Sardegna, di delegare alla Regione le funzioni di tutela dell’ordine pubblico (pure competenza esclusiva statale ex art. 117 comma 2 lett. h Cost.), con il possibile impiego, su richiesta del Presidente della Regione, delle forze armate: e ciò nonostante qualche sollecito nell’ambito dello stesso Consiglio Regionale nei periodi più tragici della storia della criminalità sarda (in particolare nel 1966-1967).

 

 

2. – La politica legislativa in tema di criminalità del Consiglio Regionale e il contributo decisivo delle Commissioni di indagine

 

Ferme le competenze statali in campo penale e a tutela dell’ordine pubblico, il Consiglio Regionale ha esercitato storicamente su questi temi un potere di analisi e proposta, esprimendo talora giudizi netti di politica criminale, mentre si è concentrato dal punto di vista operativo sui profili sociali, economici e culturali sottesi al fenomeno delinquenziale, più strettamente legati a quelle che sono le sue competenze istituzionali e alle conseguenti possibilità di incidere concretamente almeno sulle cause e sugli effetti. L’analisi dunque della criminalità sarda, la ricerca delle cause e i possibili rimedi sono tutti profili affrontati dal Consiglio Regionale – come in fondo ancora oggi – attraverso la sua attività politica e legislativa. Mozioni e ordini del giorno sulla criminalità in generale o su particolari episodi di violenza hanno contrassegnato in vari momenti lo svolgimento dei lavori del Consiglio, ma il tema ha trovato la sua più importante espressione nei poteri di indagine affidati a speciali commissioni di nomina consiliare.

Una prima Commissione operò la sua indagine negli anni 1966 e 1967 e il Consiglio pose come suo riferimento la situazione economica e sociale delle zone interne a prevalente economia pastorale e i fenomeni di criminalità rurale a essa in qualche modo connessi, aggiungendo alle sue competenze una funzione altresì propositiva, attraverso il compito di individuare il complesso delle misure necessarie per una radicale modifica di tale situazione nel quadro degli obiettivi del piano di rinascita e della relativa legge 11 giugno 1962, n. 588 (Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, in attuazione dell'articolo 13 dello Statuto speciale): il contatto avvenuto in questa occasione con le popolazioni interessate e con i problemi reali che le affliggevano portò il Consiglio unanime a proporre come obiettivo di fondo del Piano di Rinascita la graduale eliminazione degli squilibri esistenti, ai vari livelli economico-sociale-culturale, in Sardegna; la Giunta infine assunse l’impegno di elaborare il IV programma esecutivo sollevando criticamente il problema dell’assetto territoriale e della strutturazione di tutto l’apparato produttivo dell’Isola.

I lavori della Commissione regionale – presentati il 3 luglio 1967 e approvati nella seduta consiliare del 18 luglio - furono però ben presto “oscurati” dalla imponente indagine della “Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni della criminalità in Sardegna” (c.d. Commissione Medici, dal nome del suo Presidente)[4], sostanzialmente convergente per motivazioni e finalità con quella consiliare, istituita con legge (statale) 27 ottobre 1969, n. 755, la quale presentò alle Camere le proprie relazioni e i relativi documenti il 29 marzo 1972 [5], e che ha segnato il dibattito sulla criminalità in Sardegna per tanti anni, ha indirizzato l’atteggiamento dello Stato sul tema e ha dettato un percorso legislativo anche al Consiglio Regionale[6]. Dai resoconti consiliari (a partire dalle dichiarazioni del Presidente della Giunta Del Rio nella seduta del 12 ottobre 1967) si ricava che gli atti della Commissione furono considerati – da gran parte delle forze politiche – quali fonte sovraordinata alla quale attingere per fondare e rafforzare le proprie tesi, in un senso o in un altro, sulla delinquenza in Sardegna[7]. Degna di attenzione è però la seduta del Consiglio Regionale del 27 maggio 1971, sull’onda del sequestro pochi giorni prima dell’avvocato sassarese Alberto Mario Saba, in cui si sollecitano interventi urgenti, di tipo sociale[8] e di ordine pubblico, emergono accenti critici sui lavori della Commissione Medici e si approva un ordine del giorno in cui si chiede che il Consiglio Regionale possa avere voce sulle conclusioni che la Commissione parlamentare si accinge in quei mesi a scrivere[9].

La più significativa espressione di indagine, di studio e di proposta del Consiglio Regionale è stata la “Commissione speciale d’indagine sulla condizione economica e sociale delle zone della Sardegna interessate da particolari fenomeni di criminalità e di violenza”, istituita con la legge regionale 27 luglio 1987, n. 33. L’iter di tale legge istitutiva dimostra la particolare pervicacia del Consiglio Regionale nel perseguire il suo obiettivo. La legge, infatti, approvata una prima volta, fu rinviata dal Governo perché riguardante materia esulante, a giudizio statale, dalle competenze regionali; fu riapprovata senza modifiche nella ferma convinzione del Consiglio (presieduto da Emanuele Sanna) che il potere di indagine non incontrasse alcun limite di materia ma fosse anzi connaturato nelle funzioni consiliari. La legge riapprovata fu impugnata dal Governo davanti alla Corte costituzionale: per evitare però una stasi, il Consiglio approvò il 27 luglio 1987 un nuovo testo legislativo che, pur non differendo nella sostanza dalla disposizione impugnata, integrava formalmente il riferimento al potere di indagine chiarendo che la Commissione aveva esclusivamente lo scopo di svolgere un’indagine sì ma di tipo conoscitivo sulla cause di ordine sociale ed economico del malessere da cui gli episodi di criminalità avevano origine. Il carattere conoscitivo dell’attività della Commissione e i limiti alla competenza regionale non hanno consentito l’uso dei ben più penetranti poteri (propri dell’autorità giudiziaria) che competono invece alle commissioni parlamentari di inchiesta.

La Commissione – presieduta da Antonio Catte e con componenti di tutte le forze politiche[10] – condensò il suo operato in una ricca relazione approvata dal Consiglio Regionale con un ordine del giorno del 28 aprile 1989: il Consiglio impegnò inoltre la Giunta (presieduta da Mario Melis a cui succederà a settembre Mario Floris) a un incontro urgente con il Governo e a dare attuazione per la parte di competenza della Regione alle proposte di intervento immediato e strategico avanzate dalla Commissione.

La relazione della Commissione costituirà il centro di questa analisi sulla criminalità sarda nei lavori del Consiglio Regionale: il suo carattere organico, la rappresentazione storica delle problematiche e l’attualità (purtroppo) ancora di molte di esse, la rendono ideale punto di snodo della nostra indagine.

 

 

3. – Tra vecchia e nuova criminalità

 

La Commissione speciale di indagine del 1987 rappresenta l’esito del processo di maturazione della consapevolezza che accanto a una criminalità tipica nel territorio sardo avanzano nuovi tipi di delinquenza meno caratterizzati localmente, una sorta di omogeneizzazione alla criminalità comune sul territorio nazionale. I lavori della Commissione – improntati anche alla analisi storica – dimostrano però la persistenza di fenomeni delinquenziali prettamente locali e toccano pertanto, su ampia scala, i poteri del Consiglio, stimolandone lo spirito riformatore e la conseguente iniziativa legislativa.

Le ragioni istitutive della Commissione sono individuate nell’art. 1 della legge 33/87 “nell’allarme suscitato dall’intensificarsi dei fenomeni di criminalità” e in modo particolare “di forme di violenza ed intimidazioni nei confronti di amministratori locali”. Nella premessa alla Relazione della Commissione speciale di indagine[11], si evidenzia come dal confronto svoltosi nelle sedute del Consiglio Regionale emerga la riflessione che accanto alle figure di reato tipiche di alcune zone della Sardegna ed evidenziate nel 1972 dalla Commissione parlamentare Medici (abigeato, danneggiamenti al bestiame o alle colture, incendio doloso, estorsione, rapina, sequestro di persona a scopo di estorsione, omicidio spesso motivato da vendetta), sussistono nuove forme delinquenziali, quali gli atti di intimidazione e violenza contro amministratori locali, la delinquenza minorile e la microcriminalità, tipi di crimine, soprattutto questi ultimi, che sfuggono a una precisa connotazione territoriale. Si manifesta dunque nel preliminare dibattito consiliare l’insufficienza o piuttosto il superamento di schemi di attribuzione della responsabilità basati su criteri socio-economici territoriali. In primo luogo mostrano il segno dei tempi la ricerca della genesi nella sola struttura della società agro-pastorale, così come il criterio che fondava le ragioni della criminalità (esclusivamente) nella arretratezza economica, sociale e civile originata dalla marginalità e separatezza, rispetto a poli economici progrediti, di zone determinate, come in genere il Nuorese: si evita addirittura il riferimento nella legge istitutiva anche al concetto di “zone interne”. Nemmeno il criterio del maggior tasso di disoccupazione o di carenza di strutture poteva essere adottato come indice di delimitazione delle aree con maggiore incidenza di criminalità perché non più confermato dai dati statistici.

La conclusione unanime (anche nella relazione di minoranza) è dunque il superamento della concezione che stabiliva “un accentuato e meccanico nesso causale tra povertà, arretratezza economico-sociale e criminalità”, a favore di nuove ipotesi multifattoriali di spiegazione della criminalità, come i peculiari caratteri culturali, di costume e di organizzazione sociale. L’indagine dunque ha riguardato l’individuazione, catalogazione e valutazione delle concause ambientali dei fenomeni criminali, in modo da fornire elementi utili al Consiglio Regionale per le sue possibili forme di intervento, che la stessa Commissione suggerisce non doversi limitare ai soli – pur necessari – provvedimenti economico-finanziari.

 

 

4. – I reati tipici

 

Il riscontro statistico e la conseguente descrizione delle fattispecie delittuose più comuni nel territorio della Sardegna è la base per lo studio delle cause e degli effetti e del profilo soggettivo degli autori. Una base certamente viziata in partenza dalla c.d. cifra oscura, cioè dal rapporto tra i reati denunciati, e dei quali si viene dunque a conoscenza, e quelli effettivamente commessi: un fenomeno criminologicamente fisiologico, ma che per le peculiarità della criminalità sarda è sicuramente rilevante. La Commissione segnala però la necessità di una maggiore conoscenza dei fenomeni criminali attraverso la creazione (attraverso un accordo tra Stato e Regione) di un osservatorio permanente sui fenomeni della criminalità in Sardegna, che effettui una rilevazione continua dei dati relativi ai fatti delinquenziali[12].

Quasi a caratterizzare il contesto criminale si pone storicamente il reato di abigeato, fenomeno frequente nelle regioni a prevalente economia agricola, che tecnicamente rappresenta un furto aggravato[13]. Si tratta di un reato che per il meccanismo applicativo delle circostanze, con il giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti, può vedere di molto circoscritta la gravità, ma che è spesso il punto di partenza per una progressione criminale: dal punto di vista soggettivo, rappresentando per l’autore una sorta di apprendistato delinquenziale, sul piano poi oggettivo, perché presupposto di altri reati, come la ricettazione, o elemento fondante di vendette o addirittura faide. Nell’autunno del 1966 in Consiglio Regionale il Presidente della Giunta (Paolo Dettori) prese la parola in aula ponendo con forza il problema dell’ordine pubblico, citando il tragico bilancio degli omicidi, delle estorsioni e dei sequestri e ponendo come essenziale la ricerca delle cause: tra queste sottolineava il collegamento di molti di questi fatti delittuosi (ormai estesi all’intera Sardegna e non più alla sola Barbagia) proprio all’abigeato, cioè in ultima analisi a una patologia dell’organizzazione dell’attività pastorale[14], alle condizioni stesse nelle quali avveniva l’utilizzazione delle risorse naturali. Il dibattito si risolse innanzitutto con un appello – condiviso con un ordine del giorno unitario approvato dal Consiglio – al Governo, perché intervenisse con più efficaci strumenti di repressione e prevenzione, ma anche con l’affidamento alla Commissione consiliare per la Rinascita del compito di condurre un’indagine approfondita del fenomeno[15]. Dopo vent’anni le possibili spiegazioni – per la Commissione – di questa attività criminale sono ancora le stesse: quella economicista (per un incremento patrimoniale), la spiegazione sociologica (per riequilibrio della disuguaglianza sociale), quella criminologica (abigeato come furto puro e semplice) e infine la teoria culturale (prova di “balentìa”). Soprattutto però la Commissione dà conto al Consiglio del superamento dei vecchi schemi descrivendo in meri termini patrimoniali (commerciali) oggi l’essenza del fenomeno, con la traduzione del crimine in denaro attraverso la macellazione immediata e la vendita della carne: un meccanismo che presuppone dunque un minimo sodalizio criminale, con il ricettatore pronto che attende e un autore non necessariamente di origine pastorale.

La fattispecie penale che ha finito col caratterizzare la criminalità sarda («il reato caratteristico e peculiare della fenomenologia criminale isolana»[16]), e investire di conseguenza la sensibilità, l’interesse e la competenza del Consiglio Regionale, è il sequestro di persona a scopo di estorsione, delitto odioso, con una impressionante espansione in Sardegna a partire dagli anni ’60, con il tragico triennio 1966-1968 nel quale si verificarono ben 33 sequestri. La sua particolare gravità è data anche dalla elevata pericolosità degli autori e dal frequente ricorso a drammatiche pressioni sulla famiglia per ottenere il riscatto, con l’adozione di tecniche esecutive disumane e crudeli; senza peraltro che lo stesso pagamento del riscatto sia servito talora per la liberazione o la sopravvivenza dell’ostaggio. Le tragiche vicende sarde hanno portato inizialmente a riferire il fenomeno a contesti locali di tipo isolano, caratterizzati da sub-culture delinquenziali, ma la diffusione poi sul territorio nazionale ne ha fatto un crimine caratteristico anche della criminalità organizzata. Lo Stato, dato l’allarme sociale e anche sollecitato dai frequenti appelli, in senso preventivo e in senso repressivo, dello stesso Consiglio Regionale della Sardegna, ha operato – a partire dal 1974 con la legge n. 497 – sulla fattispecie del codice penale, l’art. 630, con una strategia differenziata, rendendo per un verso rigorosissimo il trattamento sanzionatorio, e per altro verso favorendo, attraverso misure proprie del diritto penale premiale, forme di ravvedimento finalizzate innanzitutto alla liberazione dell’ostaggio e poi comunque all’elisione delle ulteriori conseguenze del reato ovvero tese, infine, alla collaborazione con gli inquirenti. Infine, contestato, talora doloroso, si è rivelato lo strumento più duro e reciso, il c.d. blocco totale e automatico dei beni della famiglia del sequestrato, introdotto con legge n. 82 del 1991.

L’indagine della Commissione conferma la peculiarità del sequestro di persona a scopo di estorsione praticato in Sardegna, che nonostante alcuni elementi di modernizzazione continua a trovare espressione nel polo interno agro-pastorale, specie in Barbagia, Alto Oristanese e Goceano, con la collaborazione di latitanti e con coperture varie, anche – ciò che è peggio – culturali. Non si tratta in Sardegna – per la Commissione – di fenomeno di criminalità organizzata, ma di aggregazioni temporanee di 15-20 individui, con divisione dei ruoli, formantisi di volta in volta sulla base di vincoli vari (amicizia, parentela, vicinanza di pascoli, ecc.) e che poi investe il riscatto in beni produttivi (greggi, terreni, piccole aziende) o nell’acquisto di case. Non si escludono poi collegamenti con elementi esterni al sodalizio per l’opera di “ripulitura” del denaro (riciclaggio).

L’attenzione della Commissione si concentra poi sul reato di omicidio, del quale vengono evidenziate al Consiglio soprattutto le possibili causali (il movente), da far risalire spesso a vendette che si inquadrano in lunghe faide aventi origine in uno scenario agro-pastorale e in episodi comunque avvenuti nelle campagne, o magari legati a tradimenti o delazioni relative a fatti criminosi. Sempre in relazione all’omicidio nella sua forma però tentata, la Commissione segnala la possibile esistenza di un’elevata c.d. cifra nera (od oscura), il rapporto cioè tra tentati omicidi denunciati e quelli effettivamente verificatisi, il che evidenzia la sfiducia nell’amministrazione della giustizia e nell’opera delle forze dell’ordine, oltre a dimostrare l’esistenza nel contesto sociale di riferimento di un potere diffuso di intimidazione tale da scoraggiare il ricorso ai mezzi ordinari di difesa nella convivenza civile.

La Commissione non si sofferma direttamente invece su una questione criminale di particolare significatività e problematicità in Sardegna come il reato di incendio (boschivo), la cui eco è invece arrivata spesso in Consiglio Regionale, con l’istituzione (legge regionale n. 13 del 30 giugno 2011) anche di una “Giornata regionale della memoria delle vittime degli incendi in Sardegna”[17]. L’incendio è sempre stato un male endemico in Sardegna con due fondamentali cause: la prima, legata a condotte colpose, sono (state) pratiche colturali diffuse nel mondo contadino e pastorale, come il fuoco appiccato per ripulire i pascoli o per fertilizzare e migliorare il cotico erboso o l’abbruciamento delle stoppie; il secondo fattore causale – che ha dato origine a condotte dolose – è legato a varie forme di malessere sociale, come a partire dal XIX secolo con la legge delle chiudende o con i mutamenti dell’assetto proprietario. Il danno all’ambiente, al patrimonio boschivo, è stato dunque sanzionato con pene severissime a partire dalla Carta De Logu per poi proseguire in tutte le epoche storiche. Come accaduto per il sequestro di persona a scopo di estorsione, sono state anche vicende sarde, e in particolare tragici roghi verificatisi nella nostra Isola a provocare incisivi interventi normativi sullo stesso codice penale con l’introduzione nel 2000 (legge n. 353) del reato di incendio boschivo (art. 423-bis c.p.), quando il legislatore delineò una fattispecie autonoma a tutela del patrimonio boschivo nazionale (espressione comprensiva anche della tipica macchia mediterranea) prevedendo un trattamento sanzionatorio più severo rispetto alle fattispecie di pericolo previste nell’art. 423 c.p. Il Consiglio Regionale si è curato dapprima dei comportamenti imprudenti: nella discussione della legge 21 luglio 1954 n. 28, che istituì il servizio di vigilanza antincendio nelle campagne, emerge la richiesta da parte di tutte le forze politiche di una legge organica contro il pericolo (la «piaga» viene definita dall’on. Asquer) degli incendi in Sardegna, insieme alla richiesta di una assicurazione obbligatoria contro gli incendi e a una prevenzione specifica contro il rischio di incendi derivanti dalla trebbiatura in particolare nelle aie. Ancora il Consiglio Regionale ha deliberato con la legge 18 maggio 1982 n. 11 di avvalersi dei Comuni nell’organizzazione del servizio antincendi nelle campagne. Quanto alla legge organica questa non è poi arrivata e ha provveduto lo Stato già con la legge 47 del 1985 delegando alle Regioni – tra l’altro – la programmazione degli interventi di prevenzione, di lotta e di ricostituzione dei boschi bruciati e introducendo una previsione con intento dissuasivo degli incendi dolosi, attraverso limitazioni fortissime e prolungate nel tempo all’utilizzo e allo sfruttamento economico dei terreni bruciati (individuati nel catasto comunale); poi ancora la “Legge quadro in materia di incendi boschivi” n. 353 del 21 novembre del 2000 ha stabilito che le Regioni si debbano dotare del “Piano regionale di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi”, da redigere anche in conformità agli artt. 23-25 della sopravvenuta legge regionale n. 8 del 27 aprile 2016 (c.d. legge forestale).

I lavori della Commissione speciale di indagine del 1987 costituiscono un punto di svolta nella considerazione della criminalità sarda: guardano al passato anche per spiegare il presente e prevederne l’evoluzione cercando di rimediare e prevenire i fenomeni delinquenziali con gli ordinari poteri legislativi del Consiglio, nei limiti delle competenze regionali. Si spiega così l’attenzione per gli atti di devianza caratteristici dei modelli urbani, con un particolare rilievo per le rapine e i reati presupposti per dotarsi di armi (magari attraverso altre rapine, come quando le sottrazioni avvengono ai danni dei cacciatori). La devianza giovanile rappresenta lo snodo in cui vecchio e nuovo si intrecciano nel modo più pericoloso, data la particolare sensibilità dei giovani al cambiamento e la recettività a nuovi modelli negativi. Un fenomeno delinquenziale in preoccupante aumento (e tutt’altro che debellato ancora oggi) è dato dagli atti di violenza e di intimidazione nei confronti di amministratori locali, che portano spesso al ritiro dagli incarichi e ad amministrazioni commissariate, e si configurano come una vera e propria questione di democrazia rappresentativa, scoraggiando la partecipazione dei cittadini onesti e disinteressati al governo della cosa pubblica; quando poi questi atti sono rivolti nei confronti di rappresentanti delle istituzioni statali essi sembrano evidenziare la volontà di colpire il volto stesso dello Stato, rivelando una pericolosa carica eversiva.

 

 

5. – Gli indirizzi multifattoriali

 

Il problema delle cause della criminalità – e in fondo delle radici del male – viene affrontato diversamente a seconda della titolarità del potere speculativo e di indagine: è condizionato dalle competenze, dai fini e dai possibili sbocchi operativi. Si comprende così il tentativo – da parte della Commissione nella sua relazione al Consiglio regionale, ma anche storicamente nei lavori del consesso dalla sua istituzione – di spiegazione del fenomeno della criminalità in una visione metagiuridica, con accenti individualistici e psicosociali, influenzati e motivati dai rapporti interpersonali del contesto sociale, ma soprattutto con indirizzi prettamente sociologici, polarizzati cioè su fattori esogeni, sul postulato che il reato non è un fatto individuale isolato ma la risultante di una realtà socio-ambientale[18], sulla quale è possibile da parte del Consiglio Regionale provare a intervenire con i mezzi legislativi e amministrativi a disposizione secondo Statuto. Dunque i fattori macrosociali influenzanti la condotta individuale vengono individuati nei seguenti.

 

a)         Il fattore fisico e geografico

 

L’isolamento geofisico – con la mancanza di una rete di collegamenti efficiente – viene individuato come un elemento che favorisce l’esecuzione di reati tipici delle zone interne, come l’abigeato e il sequestro di persona. La popolazione di queste zone si chiude in sé stessa, dal punto di vista sociale, economico e culturale, e non subisce incrementi demografici da circa un secolo.

 

b)         Il fattore economico

 

Gli indicatori economici del periodo (di svolgimento dei lavori) mostrano il persistere e anzi l’aggravarsi delle condizioni di arretratezza che da sempre hanno caratterizzato il tessuto economico e sociale della Sardegna e in particolare di quella centrale. La pastorizia sarda al tempo ha mantenuto la fondamentale caratteristica del pascolo brado accompagnata dalla parcellizzazione della proprietà rurale: proprio negli arcaici sistemi di produzione in agricoltura la Commissione parlamentare Medici aveva indicato la causa prima della criminalità tipica della Sardegna centrale. La Commissione regionale segnala poi la straordinaria estensione delle terre pubbliche, un enorme patrimonio che potrebbe costituire un volano di riequilibrio e di rinnovamento, ma il cui utilizzo, a esclusivo vantaggio dei pastori, costituisce storicamente motivo di forte conflittualità sociale, con l’impossibilità inoltre di qualsiasi destinazione alternativa. È importante che a proposito del rapporto tra precarietà economica e criminalità la Commissione riconosca l’inesistenza di qualsiasi nesso meccanicistico, come dimostra l’analisi di altre zone della Sardegna dove il malessere sociale trova altre forme di espressione socialmente negative senza essere delinquenziali. Ciò in linea con la concezione criminologica secondo la quale la correlazione tra fattori economici e delitto non implica necessariamente che le carenze economiche siano la «causa» e il delitto «l’effetto»: altro discorso è se povertà e criminalità siano effetti paralleli di fattori causali comuni. Da qui dunque la convinzione di chi oggi ricerca le cause della criminalità che l’economia seguita sì a giuocare un ruolo importante, ma i suoi meccanismi sono più mediati e complessi.

 

c)          Il fattore socio-culturale

 

La Commissione rileva come in tutte le audizioni sia stata posta in rilievo la necessità di intervento sui fattori della formazione culturale, unanimemente ritenuti determinanti nel prodursi dei fenomeni criminali tipici di alcune zone della Sardegna (frutto cioè di sottoculture anche violente): quando però si passa all’approfondimento si rileva una complessità tale da escludere ogni interpretazione univoca, evidenziata anche nella relazione di minoranza dove si respinge il tentativo di dissoluzione della civiltà su cui il malessere si ritiene cresca[19]. Un primo profilo critico (riferibile in termini sociologici ai vari profili di anomia) è comunque il cambiamento in atto nel contesto socio-culturale, che provoca una non facile interazione tra i valori tradizionali e quelli che vengono definiti gli “elementi di turbamento della società contemporanea”, con le suggestioni indotte dai mass media, che possono indurre ad atti di violenza per accedere ai mezzi necessari per l’acquisizione di quei beni al cui possesso è legata sia l’affermazione sociale che il benessere individuale. Già nel momento in cui l’indagine si svolge si riconosce il mutamento nei precedenti vent’anni del ruolo della famiglia, elementare fattore educativo, meno stabile che nel passato e con la tendenza ad assumere una struttura di tipo nucleare, con valori tradizionali – come quelli di solidarietà – ormai affievoliti e con un significativo decadimento etico. Anche l’altro grande fattore educativo, la scuola, risente non di una crisi del proprio ruolo ma di carenze di strutture: ma il vero elemento di crisi è la dispersione scolastica, con cifre da primato nazionale, sia quanto all’abbandono stesso (problema tutt’ora esistente) sia quanto al numero di soggetti che delinquono dopo la mancata continuazione degli studi. Dunque mancano sia istruzione che – a causa anche dell’isolamento - scambio culturale e apertura a nuove esperienze e a nuovi valori. Anche qui possiamo dire risultare confermato che i fattori culturali, in particolare lo sviluppo dell’istruzione, sono in grado di contribuire alla prevenzione del delitto e di influenzare qualitativamente e quantitativamente la criminalità.

 

 

d)          La condizione giovanile

 

L’analisi della condizione giovanile – nella relazione della Commissione – si intreccia strettamente con il fattore culturale e sociale. Si parte dalla constatazione del forte stato di disagio, che si risolve spesso in una vera e propria crisi di identità, con una accentuata difficoltà nell’aggregazione e col venir meno di figure di riferimento, di un modello che dia ragione di ciò che accade e dia senso alle azioni del singolo nella comunità. Si differenzia la situazione delle aree interne da quella degli ambienti cittadini, riconoscendo ai giovani delle prime una specificità delle cause della devianza, molte delle quali legate ai fattori finora elencati. Si sottolinea opportunamente come il messaggio di Antonio Pigliaru con il suo famoso libro sulla vendetta barbaricina come ordinamento giuridico sia stato talora frainteso – avviene ancora oggi – come sistema di risoluzione dei conflitti[20], il che non significa peraltro negare la specificità dei problemi delle zone interne, spesso interpretate in chiave difensiva e giustificazionista.

 

 

e)         Il fattore istituzionale

 

Una preoccupante constatazione è l’esistenza di un forte e diffuso atteggiamento di sfiducia sia verso lo Stato che nei confronti della Regione, avvertite come istituzioni lontane dalla gente e dai suoi problemi. Ciò che si rileva alla fine degli anni 80 è quanto valeva vent’anni prima ai tempi della Commissione parlamentare Medici, quando si propose di sperimentare in Sardegna un “modello di pubblica amministrazione”, accompagnato da un organico intervento di promozione civile e sociale. Nulla di quanto auspicato è stato fatto e le pubbliche amministrazioni, in particolare i Comuni, in prima fila per le dirette aspettative dei residenti, versano in crisi di organico e professionalità necessarie, con pericoloso fenomeno di identificazione tra le persone dei preposti e le loro funzioni, che li rende oggetto di proteste e intimidazioni anche violente. Proprio nel rapporto tra pubblico e privato, nella lontananza comunemente avvertita, sta uno dei motivi di crisi dei valori di aggregazione e solidarietà e dello stesso senso di appartenenza sociale.

 

La conclusione che possiamo trarre, valida ancora oggi e avvalorata dai dati statistici (nessun fattore regge da solo alla prova di essi), è che l’approccio al fenomeno criminoso non può essere monosettoriale, dovendosi piuttosto considerare tutti i fattori (culturali, psicologici, biologici, giuridico-politici) che insieme a quelli economici influiscono sulla nascita della criminalità: anzi proprio l’analisi congiunta e reciproca è in grado di meglio attribuire significato a ogni singolo profilo causale. Tutto vive in un sistema complesso.

 

 

 

6. – Dalle cause ai possibili interventi, passando per alcuni momenti topici

 

Il sequestro nel 1953 dell’ingegnere cagliaritano Davide Capra, che dirigeva i lavori di rifacimento di una strada nel Nuorese, aprì una lunghissima tragica stagione criminale: i carabinieri localizzarono sul Supramonte il rifugio (una tenda) dove veniva nascosto e durante il tentativo di liberazione ingaggiarono un conflitto a fuoco – la cui dinamica non fu mai chiarita – nel quale perse la vita l’ostaggio e uno dei banditi. Nell’immediato dibattito in Consiglio Regionale (seduta del 14 dicembre 1953, con le tre mozioni Caput, Asquer e Lay) si stagliano con nettezza i termini di un confronto, interno al Consiglio e con lo Stato, che caratterizzeranno il giudizio sulle cause e sui mezzi di lotta alla criminalità, nei limiti della competenza del Consiglio stesso. Una prima impostazione ravvisa in generale nel banditismo, espressione immediata della criminalità sarda, una mera organizzazione criminale con movente di lucro, da combattere con i mezzi, ordinari e straordinari, ma comunque rispettosi dell’ordine costituzionale, volti al ripristino dell’ordine pubblico: una prospettiva repressiva, con una funzione in particolare deterrente (general- e specialpreventiva), aperta anche a interventi di tipo economico, ma con l’avvertimento però che una interpretazione in termini di rivolta contro un ordinamento economico-sociale arretrato comporterebbe il rischio di giustificare, senza volerlo, la ribellione all’ordine costituito. L’impostazione che sarà tuttavia dominante è quella evocata già nell’ordine del giorno del primo Consiglio Regionale nel 1949, nel quale si auspicavano interventi adeguati sul piano economico, culturale e sociale, come fattori primari dell’eliminazione del banditismo e della rinascita isolana. Il fenomeno del banditismo – si afferma ancora nella seduta del dicembre 1953 – affonda le sue radici in un terreno socialmente ed economicamente malato: l’autonomia regionale conquistata deve essere fatta valere non solo come mezzo di autogoverno, ma anche per dare maggior forza alla rivendicazione nei confronti dello Stato di un impegno a sanare la secolare piaga del banditismo non con repressioni poliziesche ma principalmente con il piano di Rinascita invocato da tutti i Sardi[21].

Altro momento storicamente significativo sul piano dell’impegno del Consiglio Regionale nella lotta alla criminalità furono gli anni 1966-1967, conseguentemente a una nuova tragica recrudescenza della criminalità, in particolare con l’indagine – derivante da un ordine del giorno del 23 settembre 1966 – condotta dalla commissione consiliare (prima citata) sulla situazione economico-sociale delle aree a prevalente economia pastorale e soprattutto sui fenomeni di criminalità a essa in qualche modo connessi. La commissione si trovava a operare in una opinione pubblica, anche a livello nazionale, nella quale era stata creata, specie negli anni ’50 e ’60, pure da grandi giornalisti, una sorta di “prigione dei luoghi comuni”, che portava alla semplificazione e alla distorsione della realtà sarda, a un fatale indebolimento dei confini tra legalità e illegalità, tra valori morali e derive ingiustificabili di violenza e di crudeltà[22]. Rimane invece fermo – nella commissione e nel Consiglio – un assunto, già espresso nei dibattiti alla Camera e al Senato nei primi anni ’50 con la presenza anche di Emilio Lussu, e poi pur variamente declinato: abbandonata ogni correlazione tra miseria e banditismo, la criminalità endemica e le periodiche esplosioni di aggravamento dei fenomeni delinquenziali possono dirsi rappresentare la degenerazione patologica di una comunità e di una struttura sociale particolari, senza però un necessario nesso tra causa ed effetto e senza d’altro canto disconoscere la verità di una arretratezza da combattere, di un mondo economico e sociale chiuso, da aprire al processo di ammodernamento e sviluppo. Anzi, proprio la pressione di nuovi modelli su un sistema sociale, economico e culturale diverso per formazione spiega in parte il disagio e il conseguente fenomeno criminale. È stato osservato come la classe politica di quegli anni fosse preoccupata anche dalla prospettiva di compromettere il cammino verso il progresso: ora la Sardegna, seppure con fatica e difficoltà, marciava verso nuovi modelli di sviluppo socio-economico[23].

Ecco dunque già dagli anni ’60 le proposte di intervento sulle strutture e sulle infrastrutture civili, di industrializzazione sapiente delle zone interne, insieme all’intervento più atteso, quello che dia modo, in varie forme e con nuovi strumenti, di trasformare la pastorizia di quel periodo storico in allevamento, con l’attuazione urgente dei provvedimenti indicati nella relazione, e ancora il sostegno al coltivatore diretto e la richiesta di una legge nazionale per la regolamentazione dei contratti di pascolo, essendoci alla base del disagio, pur non meccanicamente e in modo comunque non accettabile, un rifiuto dell’assetto fondiario e agrario risalente al secolo precedente e risultante ancora in quel periodo, contrario e anzi ostativo – si legge nella Relazione unificata di maggioranza – allo sviluppo del settore agro-pastorale. Nel dibattito consiliare del 18 luglio 1967 emerge quale elemento di sintesi – oltre ai punti appena accennati – un programma di scuole, biblioteche, centri culturali ricreativi e sportivi, per avvicinare la Regione alle popolazioni, per cercare di colmare il dislivello culturale e per creare una maggiore integrazione sociale. Stabilire un clima di fiducia viene ritenuto poi essenziale nel rapporto con l’ordine costituito, con la proposta di riforma delle compagnie barracellari (poi attuata con la legge regionale 23 gennaio 1969, n. 4) e chiedendo anche uno sforzo di comprensione e di maggiore conoscenza delle peculiarità isolane alle stesse forze dell’ordine.

Arriviamo poi alla fine degli anni ’80 e la Commissione consiliare che opera in quel periodo individua due grandi settori di intervento: a) la riqualificazione dell’apparato istituzionale; b) l’elaborazione di nuove strategie per lo sviluppo economico, sociale e culturale delle zone interne.

Il primo settore, la riqualificazione dell’apparato istituzionale, era già stato analizzato dalla Commissione parlamentare Medici con la proposta – come visto – di una pubblica amministrazione modello come condizione essenziale per il superamento di ostacoli e diffidenze tra cittadini e istituzioni, soprattutto nelle aree dove più marcate sono le difficoltà di accettazione delle regole di un moderno ordinamento giuridico. Sarà essenziale – secondo le indicazioni della Commissione – il ruolo della Regione, a cui spetta di perseguire nuovi obiettivi rispetto a quelli tradizionali dell’incremento del reddito e dell’occupazione: alla Regione guardano i sardi non solo per la rappresentanza dei loro interessi ma anche delle loro aspirazioni a migliori condizioni di vita, alla qualità stessa della vita, alla sicurezza, all’ambiente, alla sanità, a un autogoverno che, pure in una struttura statuale più ampia, non cancelli le peculiarità e specificità delle comunità locali. L’appello che la Commissione rivolge al Consiglio è dunque di accrescere al massimo la funzionalità delle istituzioni, sia a livello locale che regionale, anche per contemporaneamente incrementare la fiducia in esse e la capacità di governare gli effetti degli interventi indotti dalle moderne trasformazioni. Alla sfiducia nelle Istituzioni, anche regionali, derivante anche da retaggi storici, si reagisce cioè – questo è il messaggio che ci sembra di poter trarre – con una maggiore presenza e una più alta efficienza.

Particolarmente significativa è la parte della relazione dedicata alle istituzioni deputate alla prevenzione e repressione dei reati, perché è in questa sede che la Commissione (pro)pone all’attenzione del Consiglio Regionale le strategie più immediate nella lotta alla criminalità. Accanto a istanze meramente operative, come l’aumento di uomini (magistratura e forze dell’ordine), mezzi e insediamenti nel territorio (le tanto auspicate casermette nelle campagne[24]), si esprimono giudizi su veri e propri punti nodali, oggetto in quegli anni di un serrato dibattito politico non solo in Sardegna.

Un primo profilo di lotta alla criminalità espresso “in termini di cauta problematicità” è l’introduzione di una normativa che superi la discrezionalità del magistrato e impedisca proprio il pagamento del riscatto nel sequestro di persona a scopo di estorsione. Ci si rende ben conto del conseguente rischio per la vita dell’ostaggio e dell’angoscia dei familiari, ma si fa notare che dal 1967 fino a quel momento (dunque in circa vent’anni) sono state uccise 23 persone sequestrate pur con il pagamento del riscatto (tra i casi più famosi quelli del giornalista Leone Concato, dell’avvocato Pietrino Riccio, dell’ingegner Giancarlo Bussi e di Puccio Carta), il che potrebbe dimostrare che l’omicidio come esito del sequestro dipende dalla personale ferocia degli autori e dalle modalità del reato, non dal pagamento del riscatto, che non è assolutamente garanzia di salvezza della vita dell’ostaggio. La Commissione raccomanda su questa misura una attenta riflessione, ben comprendendo i pro e i contra di essa. Una tale strategia di lotta dura al fenomeno dei sequestri è stata poi effettivamente adottata dallo Stato con la legge 15 marzo 1991, n. 82, che ha introdotto il c.d. blocco totale e automatico dei beni della famiglia del sequestrato[25].

Oggetto di discussione in Commissione e in Consiglio Regionale, con visioni diverse e talora opposte tra i consiglieri, è il tema degli accertamenti patrimoniali e dell’estensione, pur riveduta e corretta, di alcune misure preventive previste dalla legislazione speciale antimafia alle indagini sui sequestri. Si tratta di un dibattito non nuovo e ancora attuale anche tra i giuristi penalisti (in particolare su confisca e sequestro di prevenzione), perché le misure di prevenzione non presuppongono in quanto tali la commissione di un fatto di reato, ma sono appunto, misure ante (o praeter delictum), basate sul sospetto di commissione di gravi delitti e sulla pericolosità sociale di determinati soggetti; oscillano dunque (anche dal punto di vista della legittimità costituzionale) tra esigenze di sicurezza collettiva e istanze di garanzia, evidenziate anche nella relazione della Commissione, quando si pone in discussione – come spesso avvenuto in passato anche nel Consiglio Regionale – pure una misura di sorveglianza speciale e risalente e molto usata in Sardegna come il confino[26], di competenza inizialmente diretta della autorità di polizia e poi sottoposta invece (a partire dalla legge c.d. Tambroni del 1956) al controllo giurisdizionale.

Nel momento in cui la Commissione valuta (fine anni ’80), la misura che si sta formando in Parlamento è la possibilità di disporre – in via preventiva – il sequestro e la confisca sulla base del requisito della sproporzione dei beni rispetto al reddito o all’attività economica anche in ipotesi di c.d. pericolosità generica, rispetto cioè a soggetti indiziati di vivere abitualmente, almeno in parte, con il provento di una serie di gravi delitti tra i quali – ecco la specifica incidenza per la Sardegna – il sequestro di persona a scopo di estorsione, ipotesi che sarà poi effettivamente accolta dalla legge 19 marzo 1990, n. 55 (e che avrà poi una vita travagliata tra modifiche e giudizi di costituzionalità). La misura viene da taluno ritenuta scarsamente efficace (il sardo non investe in modo esibizionista) e da altri potenzialmente lesiva dei fondamentali diritti di libertà. La critica di fondo che emerge nella Commissione è il forzato adattamento di misure pensate per la criminalità organizzata, in particolare mafiosa, alla criminalità sarda, non organizzata stabilmente – a differenza per esempio della mafia siciliana – ma solo occasionalmente ed eventualmente, per singoli (seppur gravissimi) episodi criminosi. Fin dalla istituzione del Consiglio Regionale della Sardegna è valso questo ammonimento al Governo centrale: nella seduta del Consiglio del 25 ottobre 1949 fu discussa (e condivisa dal Presidente della Giunta Crespellani) la mozione Asquer sulle condizioni della pubblica sicurezza in Sardegna in riferimento a quella della Sicilia, dove appunto si richiedeva al governo regionale un impegno a far comprendere agli organi centrali dello Stato l’inesistenza di alcuna analogia tra la condizione della pubblica sicurezza in Sardegna con quella della Sicilia e dunque l’inopportunità di provvedimenti comuni o di estensione disinvolta di misure proprie della (lotta alla) criminalità mafiosa a quella non organizzata e occasionale sarda.

Come ha fatto spesso anche il Consiglio Regionale, la Commissione prende poi posizione sul fenomeno del c.d. pentitismo, contestandone l’esasperato utilizzo del metodo, che ha determinato – ad avviso della Commissione – l’ingiustificato sacrificio della libertà personale per persone poi giudicate innocenti, pur non sottovalutandone i risultati positivi conseguiti soprattutto nei primi anni di vigenza di quella serie di misure premiali che infarciscono la fattispecie del sequestro di persona a scopo di estorsione nel codice penale (art. 630): tale esasperazione si paga con l’arroccarsi delle popolazioni – prosegue la Commissione – in una sorta di “giustizia interna”, frutto della sfiducia nell’amministrazione della giustizia da parte dello Stato. Sempre su un piano di politica criminale si critica la (frequente) concessione di permessi premio ritenuti troppo anticipati per autori di gravissimi delitti, che crea sfiducia e può causare immediate vendette.

Infine viene esaminata e posta all’attenzione del Consiglio Regionale la situazione delle circoscrizioni giudiziarie in Sardegna (risalente al 1865), suggerendo un riordino territoriale delle Preture, per garantire funzionalità ed efficienza, mentre ci si oppone con decisione alla paventata soppressione o depotenziamento di strutture come i Tribunali di Tempio e di Lanusei, che assicurano una presenza delle istituzioni in territori caratterizzati storicamente da forte isolamento e rispondono alle esigenze di sicurezza manifestate dalle popolazioni stesse.

Il messaggio infine, di quegli anni e di sempre nella storia sarda della criminalità, è la consapevolezza e l’avviso che la prevenzione della criminalità passa anche per il più generale profilo del superamento della marginalità economica (con riflessi sociali) dell’intera Isola e non solo delle zone interne. L’esigenza avvertita dalla Commissione e trasmessa al Consiglio Regionale – in cui pure si era già manifestata – è quella di mirare, con determinazione e coraggio, alla costituzione di una società più complessa e articolata, fondata su una molteplicità e pluralità di valenze economiche e produttive: non più richieste disarticolate e frammentarie, ma l’obiettivo deve essere piuttosto e finalmente quello di puntare con respiro strategico e con visione di insieme su alcune grandi priorità strutturali. Le strategie per lo sviluppo – sempre attuali e non sempre attuate – vengono dunque individuate così: a) il completamento della riforma agro-pastorale, con una organica regolamentazione, per quanto consentito dalle competenze regionali, dell’uso delle terre pubbliche; b) la ripresa del processo di industrializzazione; c) il credito alle tendenze innovative, al nuovo ruolo “economico” dei giovani, anche nelle tradizionali famiglie pastorali; d) l’incoraggiamento di società miste fra soggetti locali e imprenditori con esperienza consolidata in altre zone del paese; e) l’espansione dell’industria turistica e l’integrazione tra costa e zone interne svantaggiate, studiando per queste misure specifiche di intervento; f) la creazione di una serie di opere infrastrutturali, anche e in particolare viarie; g) la considerazione della cultura come risorsa; h) la tutela e valorizzazione dell’ambiente e dei beni culturali, archeologici, architettonici, paesistici, attraverso una politica fondata sul consenso.

 

 

7. – Conclusione con uno sguardo all’attualità

 

«Il danno che deriva alla nostra società, così umiliata e travagliata per altro verso, è immenso e non ha bisogno di particolare illustrazione». In queste parole del consigliere Mario Melis nella seduta del 27 maggio 1971 sta ancora oggi la rappresentazione di cosa ha significato la criminalità sarda nella storia del Consiglio Regionale. Oggi, finita o ridimensionata la lunga tragica stagione di una criminalità che partendo dall’abigeato e arrivando al sequestro di persona a scopo di estorsione ha mostrato caratteri peculiari rispetto alla generalità delinquenziale, rimane un quadro più omogeneo con il territorio nazionale, con la comparsa della droga e dei reati a essa connessi come protagonista assoluta del contesto criminale. Perdura la particolarità di un numero di omicidi volontari superiore alla media nazionale in alcuni territori (e in rapporto alla popolazione), proprio quelli nei quali si erano sviluppati in passato gli episodi tipici della criminalità sarda, segno questo di un isolamento, di una sottocultura violenta, che probabilmente ancora persiste, come persistono molte delle problematiche sociali, economiche e istituzionali, prima segnalate; continuano a preoccupare le intimidazioni agli amministratori pubblici, con le quali si immedesima la carica con la persona e con la conseguenza, insieme ai coraggiosi atti di resistenza, dell’allontanamento talora dalle cariche o dalla stessa aspirazione a esse. La piaga degli incendi non è stata debellata, nonostante gli sforzi organizzativi e gli adeguamenti normativi: al Consiglio Regionale della Sardegna spetta ora confrontarsi con nuove sfide, non solo dunque la lotta attiva contro gli incendi, dolosi e colposi, ma approcci innovativi che integrino gli obiettivi a breve termine con quelli a medio e lungo termine per rispondere ai cambiamenti climatici[27].

Il senso di molte delle cause della criminalità continua dunque a persistere, ma nonostante alcune peculiarità non esiste una vera e propria questione criminale sarda, o piuttosto non esiste con caratteri di rilievo tale da divenire un caso nazionale diverso da quello che affligge altre Regioni, ciascuna con le sue problematiche specifiche. Questa omogeneizzazione ha comportato per il Consiglio Regionale della Sardegna che i fattori agevolanti la genesi del fenomeno criminale rimangono nella loro problematicità senza però comportare fenomeni criminali tipici. Il che non è un sollievo ma un aggravio di responsabilità, visto che l’attualità di questi fattori rimane per lo più inalterata e le proposte di intervento per allievare la situazione di malessere economico e sociale della nostra Isola continuano a richiedere un impegno costante alle nostre Istituzioni regionali e statali, con l’obiettivo ultimo di «uno sviluppo, non soltanto materiale, della società sarda, nella libertà e nella dignità»[28]. Il percorso poi dal miglioramento sociale ed economico alla diminuzione della criminalità sarà lungo e complesso, tutt’altro che scontato e con l’intervento di altre varianti, anche individuali, ma sarà comunque un primo passo significativo da parte di chi rappresenta la stessa collettività regionale.

 

 

Abstract

 

Il fenomeno della criminalità percorre la storia dei lavori del Consiglio Regionale della Sardegna, una peculiarità che deriva dai tratti originali della delinquenza sarda, sia quanto agli autori sia riguardo alle fattispecie penali. Il saggio indaga quali cause sono state ravvisate in particolare dalle commissioni di indagine nominate dal Consiglio e quali rimedi sono stati suggeriti sul piano sociale, economico e istituzionale. Oggi, con un tipo di criminalità più omogeneo con il contesto nazionale, rimane l’impegno del Consiglio Regionale a costituire, con determinazione e coraggio, una società più complessa e articolata, fondata su una molteplicità e pluralità di valenze economiche e produttive, promuovendo uno sviluppo, non soltanto materiale, della società sarda, nella libertà e nella dignità.

 

 

Resumen
 

El fenómeno del crimen atraviesa la historia de los trabajos del Consejo Regional de Cerdeña, una peculiaridad que se deriva de los rasgos originales del crimen sardo, tanto en lo que respecta a los autores como en lo que respecta a los delitos. El ensayo investiga qué causas han sido identificadas en particular por las comisiones investigadoras nombradas por el Consejo y qué remedios se han sugerido a nivel social, económico e institucional. Hoy, con un tipo de delincuencia más homogéneo con el contexto nacional, se mantiene el compromiso del Consejo Regional de establecer, con determinación y valentía, una sociedad más compleja y articulada, basada en una multiplicidad y pluralidad de valores económicos y productivos, promoviendo una desarrollo, no sólo material, de la sociedad sarda, en libertad y dignidad.

 

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind. Continuano ad essere valutati i fuori ruolo delle Università italiane; mentre per gli studiosi stranieri valutazione solo se richiesta.]

 

* Il presente studio è destinato al volume sulla Storia del Consiglio Regionale della Sardegna curato dal Prof. Antonello Mattone e dal Prof. Salvatore Mura per la casa editrice Ilisso.

 

[1] Sulle motivazioni di ordine economico e sociale della specialità e sulla situazione di disagio generalizzato della popolazione sarda scolpito nella disposizione statutaria sul c.d. Piano di Rinascita, P. PINNA, Il diritto costituzionale della Sardegna, Torino, Giappichelli, 2007, 19 ss.; le conclusioni di G. DEMURO, La specialità è ciò che gli altri vedono, in G. Coinu, G. Demuro, F. Mola (a cura di), La specialità sarda alla prova della crisi economica globale, Napoli, ESI, 2017, 323 ss.; e recentemente A. RIVIEZZO, “La persistente specialità sarda”, in Federalismi.it, 4 marzo 2020.

[2] Per tutti, nella dottrina penalistica, G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di Diritto Penale. Parte generale, XI ed., Milano, Giuffrè, 2022, 55.

[3] Tra le tante: Corte cost. 12 maggio 1977, n. 79; Corte cost. 30 ottobre 1989, n. 487; Corte cost 22 giugno 1995, n. 273. Proprio in un caso che riguardava la Regione Sardegna sono stati precisati i confini della (in)competenza regionale: è stata dichiarata infondata la censura di violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia penale (artt. 25 e 117 Cost.) per avere la norma regionale denunciata reso lecita in Sardegna una condotta (l’edificazione in contrasto con gli strumenti urbanistici) che in base a una disposizione statale dovrebbe invece rimanere soggetta a pena; qui la Corte costituzionale (sentenza 10 marzo 2014 n. 46, con riferimento anche alle precedenti n. 63 del 2012 e ancora n. 487 del 1989) ha precisato che - fermi i limiti indicati nel testo - la legislazione regionale può, tuttavia, «concorrere a precisare, secundum legem, i presupposti di applicazione di norme penali statali», al pari delle fonti secondarie statali, particolarmente quando la legge statale «subordini effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali», secondo il meccanismo delle c.d. norme penali in bianco.

[4] I profili economico-sociali e quello criminale si sono sempre storicamente intrecciati nelle inchieste parlamentari sulla Sardegna, a partire dalla prima, la “Commissione d’inchiesta parlamentare sopra le condizioni morali, economiche e finanziarie della Sardegna”, istituita alla Camera il 22 giugno 1868 e presieduta da Agostino Depretis, e la cui attività coincideva, temporalmente e non solo, con l’instabilità sociale e con le agitazioni in cui erano ricadute Nuoro e buona parte dell’interno dell’Isola con l’avvio della nuova politica agraria. Su tale Commissione, N. Gabriele, L’inchiesta Depretis, in Le inchieste parlamentari sulla Sardegna, a cura di A. Mattone e S. Mura, Milano, FrancoAngeli, 2021, 97 ss. Altrettanto avvenne con la terza inchiesta sulle condizioni della Sardegna a fine ‘800, di tipo governativo e affidata dal presidente del Consiglio Crispi al deputato Francesco Pais Serra, condotta dopo il clamore della bardana di Tortolì (1894). Su questa inchiesta, sulla crisi economica che colpì la Sardegna tra il 1887 e il 1895 e sulla recrudescenza della criminalità in quegli anni, A. MATTONE, L’inchiesta di Francesco Pais Serra sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna (1894-96), ivi, 185 ss.

[5] G. MELIS, L’inchiesta Medici sui fenomeni di criminalità in Sardegna (1969-1972), in Le inchieste parlamentari sulla Sardegna, a cura di A. Mattone e S. Mura, cit., 370 ss.

[6] In realtà la collaborazione con il Consiglio Regionale della Sardegna avrebbe dovuto essere ancora più stretta: la proposta di legge (Pirastu) prevedeva la partecipazione ai lavori di consiglieri regionali in rappresentanza dei rispettivi gruppi consiliari; il testo definitivo della legge genericamente stabilì che la Commissione avrebbe potuto avvalersi della collaborazione «di tutti gli organi ed uffici dell’amministrazione dello Stato, di enti parastatali della Regione sarda e dei suoi organi».

[7] S. MURA, La Regione, la politica e le riforme (1974-1976), in G. MEDAS – S. MURA – G. SCROCCU, La transizione difficile. Politica e istituzioni in Sardegna (1969-1979), Milano, FrancoAngeli, 2017, 123.

[8] Differenti sono a questo proposito per esempio le valutazioni sull’efficacia della tanto discussa legge 27 gennaio 1971 n. 3, c.d. De Marzi-Cipolla, che rimodulava le norme in materia di patti agrari e di affitto di fondi rustici.

[9] Tra i tanti interventi, tutti significativi e di ampio respiro, quello di Armando Corona (PRI), il quale dopo essersi espresso criticamente sui lavori della Commissione parlamentare («si ha l'impressione che la Commissione abbia, almeno per quanto ci è dato sapere, preferito arricchire la letteratura sul banditismo e sulle sue lontane cause») auspica interventi urgenti e una strategia a lungo termine da realizzarsi attraverso l’attuazione del piano di rinascita. Giovanni Frau (PDIUM), dopo aver segnalato che dalla istituzione del Consiglio (22 anni prima) le questioni di criminalità siano ancora irrisolte conferma una posizione sempre comune alla Destra (vedi i numerosi interventi in Consiglio Regionale di Alfredo Pazzaglia del MSI), cioè la necessità di far precedere alle iniziative di lungo periodo (essenziale, tra le altre, una rete di trasporti adeguata) il ristabilimento immediato dell’ordine pubblico. Mario Melis (PSD’AZ) dopo aver definito un “male endemico” la criminalità sarda, pone in evidenza le conseguenze negative sul piano dell’immagine del turismo e degli investimenti, e poi così si esprime «Certo, non dico nulla di nuovo quando affermo che i fenomeni criminali altro non sono che una malattia sociale che va curata non già fronteggiandone i sintomi, o solo questi, ma soprattutto le cause. Questo è un compito dello Stato e lo Stato vi si è sempre sottratto». La seduta si concluse con l’approvazione di un ordine del giorno espressivo del dibattito, accettato dallo stesso Presidente della Giunta, Nino Giagu De Martini (DC), nel quale si chiede allo Stato, oltre a pronti e consistenti interventi, nel campo della garanzia e difesa dell'ordine pubblico, nell'amministrazione della giustizia, nell'educazione scolastica, nella promozione delle strutture produttive, che la Commissione parlamentare sottoponga le conclusioni a cui si accinge a pervenire alle valutazioni e ai voti del Consiglio Regionale della Sardegna (richiesta rimasta inascoltata).

[10] Oltre ad Antonio Catte (PRI), presidente, ne facevano parte Antonello Soro (DC) in qualità di vice presidente, e quali componenti Gianfranco Anedda (MSI-DN), Massimo Dadea (PCI), Orazio Mereu (PSDI), Salvatorangelo Mereu (PSI), Orazio Porcu (PCI), Francesco Puligheddu (PSD’AZ) e Antonio Sechi (DC).

[11] Pubblicata, insieme agli atti relativi all’indagine, a Cagliari nel 1989 a cura dell’Ufficio Stampa del Consiglio Regionale e con il coordinamento della Segreteria della Commissione speciale, affidata alle dottoresse Ambra Boldetti e Anna Dessanay.

[12] Dal 2013 opera, sostanzialmente con tali obiettivi, una istituzione universitaria, l'Osservatorio Sociale sullo Sviluppo e sulla Criminalità̀ in Sardegna (OSCRIM), diretto dalla Prof.ssa Antonietta Mazzette, che documenta l’evoluzione delle forme che assume la criminalità nell’Isola attraverso l’analisi dei reati rappresentativi della violenza.

[13] L’art. 625 del Codice penale al n. 8 prevede la circostanza aggravante speciale del furto (con pena della reclusione da due a sei anni e multa da euro 927 a euro 1.500) “se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria”.

[14] Sulla percezione dell’idea di giustizia nella società pastorale barbaricina, G. PINNA, Il pastore sardo e la giustizia, Cagliari, Editrice Sarda F.lli Fossataro, 1967, ripubblicato con introduzione di G. MELIS, Nuoro, Ilisso, 2003.

[15] G. MELIS, L’inchiesta Medici, cit. 381-382.

[16] Così M. BRIGAGLIA, Sardegna perché banditi, Milano, Carte Segrete, 1971, 243.

[17] La ricorrenza è fissata nel 28 luglio, data del tragico incendio del 1983 a Curraggia (Tempio).

[18] Sul problema delle cause di criminalità, il riferimento penalistico assunto come base in questi sintetici cenni, è F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, X ed., Milano, Wolters Kluver – Cedam, 2017, 563 ss.

[19] La relazione di minoranza del componente Puligheddu (PSD’AZ) è pubblicata nel secondo volume (vedi nota 11), dedicato agli “Atti”, insieme ai contributi degli esperti sentiti dalla Commissione stessa.

[20] Proprio chi (G. MELIS BASSU, “Barbagia, evoluzione di un codice”, in Ichnusa, n. 16, febbraio-marzo 1989, ora in G. MELIS BASSU, Il pane della giustizia. Sardegna. Giudici, avvocati e criminalità negli anni «caldi» del banditismo, a cura di M. Brigaglia, Bologna, Il Mulino, 2018, 145-146), ebbe con Antonio Pigliaru un rapporto strettissimo e duraturo, sia sul piano personale che culturale, segnala – contro interpretazioni sommarie, nominalismi e convenzionalismi incrostati nelle analisi della società sarda – come lo stesso Pigliaru avesse pazientemente ripetuto, prima di scomparire, di avere semplicemente studiato, da filosofo del diritto, nella sua monografia (La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Milano, Giuffrè, 1959) come una comunità, per motivi geografici e storici isolata durante secoli, aveva potuto darsi, senza necessità di uno «Stato», un ordinamento giuridico basato sulla consuetudine e sul consenso dei più, nel quale il rigido sistema etico della vendetta equivaleva, appunto, e per suo conto, al codice penale. Con l’avvertenza finale dello stesso Pigliaru di avere descritto una situazione datata, da tempo in evoluzione.

[21] In generale, sulla elaborazione del Piano di rinascita, F. SODDU, La “cultura della Rinascita”. Politica e istituzioni in Sardegna (1950-1970), a cura e con introduzione di F. Soddu, Edes – Centro studi autonomistici “P. Dettori”, Sassari, Soter, 1992.

[22] Così P. MANNIRONI, Anime maledette. Storie di vita e malavita in Sardegna, Nuoro, Il Maestrale, 2020, 97.

[23] S. MURA, Pianificare la modernizzazione. Istituzioni e classe politica in Sardegna (1959-1969), Milano, FrancoAngeli, 2015, 231 ss. il quale poi descrive le diverse posizioni delle forze politiche presenti in Consiglio, secondo modelli di pensiero – per quanto ci è dato notare – che si ritrovano già negli anni ’50 e che caratterizzano anche le successive evoluzioni. Da parte della maggioranza del c.d. arco costituzionale prevale – pur con qualche diversa sfumatura – l’opinione che il banditismo era un fenomeno connaturato alla struttura economica e sociale delle zone interne. L’azione dello Stato era stata sul piano sociale insufficiente e dunque gran parte della classe politica sarda rappresentata in Consiglio si trovò unita contro l’ipotesi di affrontare la criminalità sarda e in particolare il banditismo prevalentemente attraverso soluzioni di polizia e non invece con interventi ad ampio spettro, che riguardassero sì l’ordine pubblico ma soprattutto i settori produttivi, dalla pastorizia sino all’industria. Proprio sulla pastorizia era peculiare la posizione del Partito Comunista, che riteneva legato il problema di questo settore alla questione della distribuzione della proprietà fondiaria. Per il Movimento Sociale invece le cause del banditismo andavano ricercate soprattutto nella politica di sicurezza dello Stato repubblicano e una repressione dura era giudicata l’arma più efficace non solo per garantire l’ordine ma anche la condizione per potere attuare misure valide – pure riconosciute necessarie – sul piano economico e sociale. Infine i liberali non ritenevano che la repressione sarebbe stata sufficiente a debellare il banditismo ma imputavano allo Stato la responsabilità di avere comunque smesso di investire nella sicurezza pubblica.

[24] Per una critica dell’abbandono dell’originario sistema di controllo e contenimento della delinquenza nelle campagne, rappresentato dalle stazioni dei carabinieri, sistema efficiente e aderente all’ambiente, G. MELIS BASSU, “Banditismo e apparato giudiziario”, in Ulisse, fasc. LXIV, aprile 1969, ora in G. MELIS BASSU, Il pane della giustizia, cit., 71.

[25] Difficile poter dire quale sia stato il grado di efficacia (indubbio) delle misure progressivamente introdotte dal Legislatore nella lotta al sequestro di persona a scopo di estorsione, soprattutto nella realtà sarda. Possono avere inciso anche la particolare complessità organizzativa di tale reato, con successione e divisione di ruoli (dalla fase preparatoria a quella esecutiva), l’alto grado di rischio dunque di scoperta degli autori, la diminuzione del numero di latitanti (complici storicamente necessari), la scarsa “reddittività” del reato a fronte di altre forme delittuose (es. le rapine ai portavalori).

[26] Nel tragico 1967, anno nel quale le forze dell’ordine persero sei loro uomini (per tutti il ricordo di quanto avvenne tra Nuoro e Bitti, dove il brigadiere Giovanni Mannu e la guardia Giovanni Bianchi furono uccisi a un posto di blocco della polizia da un ventenne incensurato), la stessa stampa, rappresentativa di una larga opinione pubblica, considerava il confino il principale strumento di lotta alla criminalità. Su “Epoca”, settimanale molto diffuso in quel periodo, scriveva il 21 ottobre un noto giornalista: «I sospetti siano mandati al confino, migliaia di sospetti. In Sardegna bisogna fare una vera e propria spedizione militare», fino addirittura a suggerire l’impiego dei gas per scovare gli assassini. Su tale periodo, anche dal punto di vista delle espressioni giornalistiche e della risonanza sociale e nazionale, G. MELIS, L’inchiesta Medici, cit., 376 ss.

[27] Vedi l’intervento della prof.ssa Donatella Spano, ex assessore all’ambiente della Regione Sardegna, a proposito dell’ultimo report IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Chang: https://ipccitalia.cmcc.it/incendi-boschivi-in-europa-dalla-scienza-alla-governance-la-chiave-e-ladattamento/ .

[28] Sono queste le parole con le quali si conclude la relazione della Commissione speciale di indagine del Consiglio Regionale nel 1989, ideale conclusione nella loro attualità anche di questo nostro contributo. Una conclusione che deriva nella Commissione da quanto colto nelle popolazioni interessate dall’indagine, nelle quali è generale l’aspirazione a una vita animata da spirito di tolleranza, di comprensione, di reciproca solidarietà, nella quale possa svilupparsi un benessere diffuso, basato sui valori della pace e dell’impegno individuale nei confronti di sé e degli altri.