N. 4 – 2005 – Memorie

 

Luisa Bussi

Università di Sassari

 

Mediazione e arbitrati

fra medioevo ed età moderna

 

 

Sommario: 1. Cenni introduttivi. – Parte I: Problematiche del diritto internazionale classico. 2. Mediazione e intervento. – 3. Mediazione e buoni uffici. – 4. Mediazione e arbitrato. – Parte II: Le radici storiche. 5. Mediazione, arbitrato, intervento e struttura della Comunità “internazionale”. – 6. La mediazione dell’Imperatore. – 7. La conciliazione dei conflitti e l’Impero. – 8. Mediazione e faida. – 9. Arbiter, arbitrator, amicalis compositor. – 10. Riflessioni conclusive.

 

 

1. – Cenni introduttivi

 

Nel quadro complesso dei mezzi volti a conseguire, direttamente o indirettamente, la soluzione di una controversia internazionale, può avere rilievo l’attività posta in essere, fra le parti, da un terzo soggetto ad essa estraneo. Ciò si può verificare vuoi perché tale soggetto avvicina le posizioni contrapposte e facilita l’accordo dei litiganti, vuoi perché, dietro incarico di questi, formula una decisione munita di valore vincolante, vuoi perché, con la minaccia o con l’uso della forza, provoca autoritativamente una soluzione imponendosi alla loro volontà. In ciascuno di questi casi, sebbene con intensità diversa, l’attività del terzo soggetto acquista rilevanza giuridica, configurandosi nell’ultimo caso come intervento, nel caso intermedio come arbitrato, rivestendo infine nel primo una di quelle figure che si trovano talvolta separatamente indicate nella prassi internazionale come <mediazione> o <buoni uffici>, senza che peraltro si ravvisi sempre, fra di esse, una reale differenza qualitativa[1].

Nel diritto internazionale generale, le parti di una controversia internazionale possono, infatti, pervenire alla soluzione della stessa anzitutto mediante un accordo di accertamento del diritto obiettivo preesistente, o, se del caso, mediante un accordo costitutivo di una nuova situazione giuridica, atta a comporre il conflitto di interessi da cui la controversia è scaturita. Se, però, tale via è inaccessibile o improduttiva, quelle parti possono valersi dell’opera di un terzo. Questa, a sua volta, può concretarsi in una attività arbitrale, nell’ipotesi in cui esse attribuiscano al terzo il potere di risolvere la controversia mediante una sua manifestazione di volontà (e questa può avere ad oggetto così l’accertamento del diritto preesistente come, se del caso, la creazione di diritto nuovo); oppure la stessa può restare al di qua dell’esercizio della funzione giurisdizionale e concretarsi in una attività volta a facilitare il raggiungimento di un accordo. Questo, in ipotesi, potrebbe essere tanto un accordo risolutivo della controversia, quanto un accordo diretto a porre in essere un procedimento risolutivo della medesima. D’altro canto, è possibile che le condizioni alle quali una determinata controversia può trovare soluzione, ovvero il mero fatto della sua sussistenza, interessi un terzo soggetto, il quale può autonomamente farsi avanti cercando di portare le parti ad un avvicinamento, vuoi proponendo, vuoi addirittura imponendo una soluzione determinata, configurandosi la sua attività, in quest’ultimo caso, come un intervento.

 

PARTE I: Problematiche del diritto internazionale classico

2. - Mediazione e intervento

 

A distinguere dunque la mediazione dall’arbitrato, accomunati, come si è accennato, dalla presenza di un soggetto terzo rispetto alla controversia, sta la natura della funzione corrispettiva[2] dell’arbitro e del mediatore. Il primo è infatti chiamato a rendere una decisione obbligatoria, mentre il secondo si incarica soltanto di portare le parti ad un accordo[3], e anche quando, in vista di tale scopo, renda un parere sul merito della controversia, o proponga un piano di soluzione, si intende che esso non è vincolante per le parti.

Caratteristica precipua della mediazione, infatti, è la sua facoltatività, sia perché i soggetti della Comunità internazionale non sono obbligati a ricorrervi – dato, questo, che in assenza di accordi specifici accomuna peraltro la mediazione agli altri mezzi di soluzione delle controversie internazionali – sia perché gli stessi soggetti non sono obbligati a conformarvisi. D’altro canto, i limiti che tale facoltatività incontra in via di fatto segnano il confine rispettivo fra la mediazione e l’intervento, cioè fra l’attività conciliativa rivolta alle parti in controversia per facilitarne l’accordo, e l’ingerenza autoritativa consistente nell’intimazione ad accettare la soluzione indicata, dietro implicita o esplicita minaccia dell’uso della forza[4].

Ma la discriminante fra mediazione e intervento è, a volte, di non immediata evidenza, e non è difficile osservare come spesso l’intervento si attui sotto le spoglie di una mediazione. La riluttanza, soprattutto da parte degli Stati meno potenti, a ricorrervi, è derivata spesso proprio dal fatto che tale istituto, con lo scopo apparente di fornire soccorso diplomatico in situazioni controverse o di aperto conflitto, può prestarsi in realtà ad abusi da parte delle potenze maggiori, come dimostra l’esperienza del XIX secolo, quando il suo ruolo non è stato certo insignificante. Pur prescindendo dal ruolo della Chiesa di Roma, cui si riconosceva un notevole prestigio come potenza pacificatrice[5], diversi trattati internazionali prevedevano il ricorso alla mediazione, che si trattasse dell’impegno ad offrirla[6], o a non ricorrere alle armi se non dopo avervi fatto ricorso. Il diritto di mediazione poteva derivare da un trattato di garanzia[7] oppure dal modo stesso in cui la Comunità internazionale si era organizzata[8]. In particolare due accordi internazionali, nei quali l’istituto era espressamente previsto, sembrano avere avuto influenza sui suoi sviluppi successivi: il Trattato di Parigi del 30 marzo 1856[9] e l’Atto generale di Berlino del 26 febbraio 1885[10]. Poiché l’offerta della mediazione poteva incontrare la resistenza delle parti, tali trattati ne rendevano obbligatoria l’accettazione. L’art. 8 del Trattato di Parigi stabiliva che:

 

«S’il survenait, entre la Sublime Porte et l’une ou plusieurs des autres Puissances signataires un dissentiment qui menaçait le maintien de leurs relations, la Sublime Porte et chacune de ces Puissances, avant de recourir à l’emploi de la force, mettront les autres parties contractantes en mesure de prévenir cette extrémité par leur action médiatrice»[11].

 

Quale che fosse l’intenzione dei promotori, una previsione di questo tipo servì in realtà ad affermare il diritto degli Stati europei di ingerirsi negli affari riguardanti la Turchia. In forza di quel trattato, la mediazione era imposta obbligatoriamente per tutti i conflitti delle potenze firmatarie con la Sublime Porta, nel senso che le altre Potenze, estranee al conflitto, ma parti dell’accordo, avevano un eguale diritto di intervento nelle trattative. A sua volta, l’Atto di Berlino, che poneva un vero e proprio obbligo di mediazione, mostrava quanto questa fosse funzionale al protettorato[12], cioè al rapporto in forza del quale uno Stato si obbligava a proteggere stabilmente un altro Stato e questo gli consentiva – a sua volta – di esercitare una ingerenza maggiore o minore nella condotta delle sue relazioni internazionali con gli altri Stati[13]. La dottrina contemporanea giunse ad affermare che uno Stato forte doveva imporre la sua mediazione per proteggere uno Stato debole dagli abusi di cui fosse vittima[14], e vi era chi sosteneva il diritto del mediatore di imporre quanto a lui sembrava giusto, se il suo concorso era stato formalmente richiesto, o in caso di stipulazione espressa, con cui si fosse fatto ricorso ad una mediazione[15].

Dalla mediazione delle Grandi Potenze fra Francia e Prussia a proposito del Lussemburgo (1867); a quella della Francia fra Stati Uniti e Gran Bretagna (1861)[16], e fra Austria e Italia (1866), o ancora a quella degli USA fra Giappone e Russia nel 1905[17], il ricorso alla mediazione anche nella prassi fu molto frequente. Ciò finì, tuttavia, per mostrarne le ambiguità: spesso essa non era che uno schermo il quale serviva in realtà per imporre agli Stati in conflitto una politica voluta da terzi[18]. Le forme della mediazione nascondevano talora l’intimazione ad accettare la soluzione indicata dal mediatore e la minaccia di ricorrere alla forza per farla eventualmente prevalere[19]. Proprio la reazione a tale prassi doveva portare alla precisazione del principio di non intervento[20]. Tale principio, però (che viene fatto derivare in definitiva dalla protezione accordata dal diritto internazionale all’indipendenza interna ed esterna degli Stati), si presenta anch’esso come un Giano bifronte perché, in quanto rinvia ad un generale interesse della comunità internazionale alla salvaguardia e al mantenimento di un dato assetto di pace, oltrechè porsi per i singoli soggetti del diritto internazionale, non per la Comunità nel suo complesso[21], si connette ancora una volta con la mediazione, la quale ha anch’essa lo stesso fondamento, vale a dire l’interesse dei terzi alla tranquilla prosecuzione delle relazioni sociali[22].

E’ in questo contesto che il von Liszt faceva notare come si dovesse ritenere contraria al diritto internazionale l’ingerenza di uno o più Stati negli affari interni o esterni di un altro Stato, quando dietro di essa vi fosse la minaccia o il vero e proprio impiego della forza armata, volta allo scopo di indurre quello Stato a compiere un atto determinato o astenersene. Proprio nell’assenza di tale minaccia, per tale studioso era da ravvisare la differenza fra intervento e mediazione, benché egli stesso avvertisse quanto, nei fatti, fosse spesso difficile stabilire una linea di confine[23]. La storia del XIX secolo rivela quanto, pur restando al di qua dell’intervento, anche quando, cioè, caratterizzata da un’apparente debolezza, nelle mani di una potenza abile la mediazione abbia potuto diventare un prezioso strumento politico: fu per aver rivestito i panni di potenze mediatrici ai preliminari di Shimonoseki (17 aprile 1895) che la Germania e la Russia si fecero accordare dalla Cina le prime concessioni che segnarono il disfacimento del grande impero giallo; fu per esser stati mediatori fra Gran Bretagna e Venezuela nel discusso affare della frontiera con la Guiana, che gli Stati Uniti aumentarono enormemente la propria influenza e iniziarono il loro protettorato morale sull’America del Sud[24].

 

3. – Mediazione e buoni uffici

 

Nella reazione all’uso strumentale della mediazione, e nel tentativo di salvare uno strumento prezioso per la Comunità internazionale, la dottrina fu portata a distinguerne più nettamente la figura dei buoni uffici.

In genere, per la dottrina più risalente (Vattel[25], De Rayneval[26], De Martens), le due espressioni sembravano indicare uno stesso istituto. E’ proprio la dottrina ottocentesca che – da Klüber[27] a Fiore[28], Rivier[29], Pradier Fodéré[30] – accentua la diversificazione. Se il protocollo del 5 dicembre 1852 della conferenza di Vienna impiega i termini di buoni uffici e mediazione come sinonimi di ingerenza amichevole, per il Phillimore:

 

«Between the two positions there is a marked difference, inasmuch as the former implies the consent of both Belligerents; the latter may be without the consent of either or with the consent of only one. The good offices of a Neutral State may be accepted and its mediation refused»[31].

 

A sostegno della propria tesi il Phillimore faceva l’esempio della guerra fra Svezia e Russia, quando quest’ultima aveva accettato i buoni uffici, ma rifiutato la mediazione della Francia. E mentre per alcuni la linea di demarcazione fra buoni uffici e mediazione veniva connessa al fatto che:

 

«… whereas good offices consists in various kind of action tending to call negotiations between the conflicting States into existence, mediation consists in direct conduct of negotiations between the parties at issue on the basis of proposals made by the mediator»[32],

 

per altri, come il Fourchault, agli inizi del 1900:

 

«Les bons offices ne sont pas, comme la médiation, l’apanage exclusif des états. On concevrait fort bien qu’un ministre public interposait ses bons offices, non pas au nom de son gouvernement, mais de sa propre initiative et au son nom personnel»[33].

 

Tale modo di vedere era molto utile perché, anche quando si negava alla Chiesa la personalità di diritto internazionale alla pari degli altri Stati, si poteva non disconoscere al Papa il diritto di offrire i suoi buoni uffici per impedire una guerra o favorire la pace[34]; ma soprattutto perché permetteva di uscire dalla logica della politica delle grandi potenze, consentendo l’entrata in scena di personalità eminenti o delle nascenti organizzazioni internazionali.

In realtà, la distinzione mantenne una portata teorica, e la diplomazia non vi ha insistito. Non sorprende quindi la formulazione del Wörterbuch des Völkerrecht und der Diplomatie, pubblicato a Berlino nel 1925, ove le due attività vengono accomunate, e alla voce Vermittlung, si legge:

 

«Die Bemühungen eines oder mehrere Staaten in einer gespannten Situation in der sich andere befinden, das friedliche Verhältniss zwischen diesen aufrecht zu erhalten und dadurch einem Kriege vorzubeuchen, nennt man Gute Dienste (bons Offices). Bestehen diese Bemühungen darin, auf Ersuchen der Streitteile oder doch mit deren Zustimmung Vorschlage zur Beilegung des Konfliktes zu machen, so spricht man von Mediation oder Vermittlung».

 

Seguì infatti una relativa tendenza alla svalutazione delle peculiarità dei diversi procedimenti[35], sino ad apparire:

 

«... indicative of the primitive nature of international arrangements for dispute settlement that so high a value should be placed even into modern times upon the good offices of third states»[36].

 

4. – Mediazione e arbitrato

 

Già dal diritto romano, a caratterizzare l’arbitrato – astrazion fatta per le norme materiali e formali su cui se ne fonda la procedura – è la sua natura obbligatoria[37]. Ciononpertanto, se la distinzione fra mediazione e intervento si colloca, per il diritto internazionale generale, nella zona spesso indefinibile dei rapporti di forza e dell’opportunità politica, quella fra la mediazione e l’arbitrato, che si pone nell’ottica degli effetti giuridici della decisione resa dall’arbitro, rispetto al piano proposto dal mediatore, non manca per questo di zone d’ombra. Non per nulla Grozio guardava con qualche scetticismo all’arbitrato, che, a suo avviso,

 

            inter reges et populos locum habere non potest. Nulla enim hic est potestas superior quae promissi vinculum aut impediat aut solvat[38].

 

Nella prima metà del XIX secolo, l’arbitrato può essere affidato tanto a un sovrano quanto a una commissione mista[39]. Nell’uno e nell’altro caso, benché concettualmente esso si differenzi chiaramente dalla mediazione, il fatto che entrambi si propongano di porre termine ad una controversia ha finito spesso col connettere, più che separare, i due istituti[40], tanto che, agli inizi del ‘900, la critica all’incapacità degli arbitri di produrre diritto certo adagiandosi nel ruolo di mediatori e pacificatori, diventa un topos della scienza giuridica[41]. In tale tendenza, per la verità, riaffiorava – come vedremo – una prassi antica di interrelazione profonda fra i due procedimenti, prassi dovuta non solo al fatto che la frequenza dell’uno influenza l’altro, ma anche alla circostanza che è stato ed è frequente che l’attività di mediazione o di conciliazione si presenti come una procedura preliminare rispetto all’arbitrato, vuoi che, rispetto a questo, sia semplicemente strumentale, e cioè sia volta a portare le parti al compromesso; vuoi che si configuri come un obbligo o una facoltà dell’arbitro di tentare anzitutto una conciliazione e, solo ove questa fallisca, pronunciare una sentenza obbligatoria sulla base dello stretto diritto.

Una volta stabilita la sua competenza, infatti, il tribunale arbitrale deve decidere sulla base del compromesso. A questo riguardo, si possono verificare più ipotesi: o il compromesso stringe l’arbitro a decidere in via di diritto; o gli permette di statuire in via di equità[42]; o fa di lui un amiable compositeur[43]. Le due ultime ipotesi non vanno evidentemente confuse, giacché non hanno né lo stesso ambito d’azione né lo stesso contenuto. La clausola ex aequo et bono, presuppone una situazione che sta a cavallo fra le carenze e le lacune del diritto: una situazione che coincide con l’impossibilità, per l’arbitro, di rendere una decisione fondata sullo stretto diritto[44], in quanto manca una norma convenzionale o consuetudinaria applicabile alla fattispecie nell’insieme delle norme giuridiche in vigore. Ma spesso tale impossibilità è prefigurata dalle parti, le quali desiderano che a regolare la controversia sia un diritto nuovo, e di conseguenza domandano all’arbitro, in sede di decisione arbitrale, non solo il superamento della normativa esistente, ma la sua modificazione, intesa come aggiunta alle antiche di norme nuove, o come sostituzione di quelle con queste cioè, in ogni caso, nella produzione di diritto nuovo. L’introduzione della clausola ex equo et bono permette così di estendere il regolamento giudiziario alle controversie ritenute non giuridiche[45]. L’attività di amiable compositeur si realizza, invece, al di qua del regolamento giudiziario col cercare il punto d’accordo fra le parti[46]. D’altra parte, una attività di tal genere può infiltrarsi nell’arbitrato anche al di là del compromesso: nell’affare dell’isola della Baia di Fundy, ad esempio, i membri della commissione mista scelsero le vie della transazione, per la quale non erano competenti[47]; così, nell’affare della frontiera Nord-Est degli stati Uniti, Guglielmo I dei Paesi Bassi scarta deliberatamente, nel 1831, il trattato che come arbitro avrebbe dovuto applicare per sostituire all’interpretazione di tale trattato la sua concezione razionale della frontiera[48]. E’ in ogni caso significativo che ancora agli inizi del ‘900 si ritenesse opportuno precisare che il fatto che gli arbitri fossero autorizzati ad agire anche come mediatori, lungi dal contrastare il carattere giurisdizionale dell’arbitrato, indicava proprio che il potere transattivo non spetta ordinariamente all’arbitro[49]. Così come è significativo che in qualche caso i tribunali arbitrali, pur rendendo una decisione sulla base del diritto internazionale, abbiano poi raccomandato – sulla base dell’equità – che una delle parti compisse determinati atti come un gesto di grazia. In tale eventualità – che si configura in modo ben diverso da quella in cui l’arbitro è stato espressamente autorizzato alla transazione – una mediazione viene evidentemente combinata con l’arbitrato. Le raccomandazioni così rese non sono dotate di effetti vincolanti, dal punto di vista del compromesso, ma ovviamente possiedono considerevole forza morale[50].

 

PARTE II : Le radici storiche

5. – Mediazione, arbitrato, intervento e struttura della Comunità “internazionale”

 

Lungi dall’essere un’evoluzione della nostra storia recente, la connessione dell’arbitrato con la mediazione recuperava una prassi molto risalente. Una prassi che, tuttavia, ha generalmente ricevuto poca attenzione da parte della scienza storica[51], sebbene le fonti – stampate o no – offrano centinaia di casi di arbitrato o mediazione. Anzi, soprattutto nell’età medievale, ne facciano mostra con una frequenza e con una chiarezza quasi mai più raggiunta nella documentazione successiva[52]. Solo di recente sono comparsi una serie di studi cui si è debitori di interessanti risultati e che sono stimolo per ulteriori indagini[53].

Naturalmente, alla sporadicità delle ricerche sull’argomento non era estranea la complessità del problema storiografico della Comunità internazionale e del suo diritto[54], che per l’età medievale rifletteva – e riflette – una doppia impasse. Quella del divenire storico del diritto proprio di una comunità diversa da quella interindividuale che è alla base dello Stato (diritto che non poteva essere concepito negli stessi termini in cui veniva pensato e proposto l’ordinamento giuridico dello Stato); e quella del divenire storico dei soggetti di quella comunità. Dal momento che quei soggetti si riteneva fossero gli Stati, ciò voleva dire essere rinviati al problema dello Stato del Medioevo: problema tuttora oggetto di un non sopito dibattito[55]. Notevole, di conseguenza (come abbiamo accennato in altra sede)[56], ci pare debba essere considerato, rispetto alla chiarificazione del problema, il contributo derivante dalla precisazione del concetto di “soggetto di diritto internazionale” che è venuta maturando nella dottrina internazionalistica, in quanto tale precisazione è servita a chiarire che quel concetto non coincide affatto con quello di Stato in senso moderno[57], bensì con quella organizzazione governativa la quale sia capace effettivamente ed efficacemente di costituire un centro autonomo di volontà e di azione di un intero gruppo umano, ponendosi sul piano internazionale come un nucleo autonomo di potere ovverosia come una “potenza”.

Concepita come storia delle relazioni fra enti di tal genere, la storia del diritto internazionale acquista una diversa ampiezza e profondità. Essa si rivela, cioè, storia di lungo periodo, nella quale istituti consuetudinari propri dell’attuale prassi delle relazioni internazionali, si lasciano comprendere solo nella loro sedimentazione secolare. In particolare, i mezzi tesi alla soluzione pacifica delle controversie, fanno più di altri trasparire quanto profonde siano le radici degli istituti di diritto internazionale. Specialmente la mediazione, proprio nei suoi legami con l’arbitrato da un lato, e con l’intervento dall’altro, ci appare funzione diretta della struttura della comunità internazionale[58], come suggeriscono le indagini di quegli studiosi che hanno rivolto la loro attenzione alla prassi “internazionalistica” dell’età classica.

Sia il De Taube, sia il Tod[59] ritenevano si potesse stabilire una connessione fra accettazione della intromissione di un terzo soggetto – o il deferimento volontario, allo stesso, della soluzione della controversia – ed esistenza, assieme a comuni interessi, di un comune patrimonio etico, dal momento che i casi più risalenti di cui si ha notizia si riferiscono in effetti ad intromissioni realizzate fra parenti[60], ovvero a soluzioni suggerite da una divinità venerata da ambedue i contendenti[61]. Certo, si tratta di condizioni che non difettano alla comunità dei potentati che vanno formandosi in Europa a partire dalla cosiddetta “età di transizione”: una comunità relativamente ristretta, composta da soggetti appartenenti alla medesima area di civilizzazione, ove è molto frequente la consuetudine di ammettere che un terzo neutrale possa interporsi con proprie proposte per assistere altri potentati nel raggiungimento di una soluzione pacifica di eventuali controversie. Tali proposte possono mantenere la forma di un’offerta di buoni uffici, nel senso che il terzo neutrale funge semplicemente quale mezzo teso a favorire lo scambio di condizioni fra i soggetti in disaccordo, ovvero possono configurarsi come una offerta di mediazione, la quale, se accettata da ambo le parti, abilita la potenza neutrale a partecipare ai negoziati tesi al raggiungimento della soluzione pacifica della controversia.

Ci proponiamo di approfondire in altra sede quanto importante sia anche a questo riguardo l’eredità romano-ellenistica[62]; e come questa venga raccolta e trasmessa anzitutto dalla Chiesa, il cui ruolo, anche in questo campo, cresce già a partire dal tardo Impero. Poiché Cristo era stato mediatore fra Dio e gli uomini[63], il Suo Vicario, il Capo della Cristianità, riteneva fosse sua funzione specifica anche quella di operare come mediatore nelle controversie temporali[64]. E’ in questo senso, peraltro, che Ennodio parla di papa Leone come di un consiliorum principis et moderator et arbiter[65], e Gregorio VII afferma:

 

«Si officii nostri est omnibus sua jura defendere ac inter eos componere pacem, ac stabilire concordiam multo magis ratio exigit atque usus utilitatis exponit, ut sancimus charitatem inter maiores, quorum pax aut odium redundat in plurimos»[66].

 

Insieme alle mediazioni papali e a quelle comunque assunte da personalità religiose[67], si lascia rilevare una parallela prassi che si venne a stabilire fra i potentati laici.

Se, in materia, straordinarie evidenze ci vengono offerte dalle fonti del basso impero e dell’alto Medio Evo (pensiamo anzitutto alla politica teodoriciana, ma anche alle molte testimonianze longobarde e franche)[68], ancor più numerose sono le evidenze più tarde, cioè quelle successive al 1000. Fra X e XII secolo le vie della mediazione erano usate più che sovente, assai prima che venisse definita una terminologia specifica per indicarne il procedimento. Il fondamento del fenomeno può essere visto in quella che Bellini ha additato quale logica del sistema: inammissibilità del ricorso alla violenza bellica come bellum offensivum, conseguente esigenza di un principio di regolamentazione pacifica nelle contese fra i principi cristiani[69]. Tale regolamentazione – che si incardinava evidentemente in una comunità di tipo gerarchico – poteva richiamare l’intervento del superior[70]. Ma poteva anche attivare procedure tese alla pacificazione dei dissenzienti, come mediazione e arbitrato.

Lo stesso Grozio riferisce delle funzioni arbitrali espletate dal re di Svezia Magnus (1285) fra i due Enrichi, l’uno re di Danimarca, l’altro re di Norvegia e, di nuovo, fra il re di Norvegia e alcune città anseatiche[71]. La procedura usata in tale occasione ha giustamente attirato l’attenzione del De Taube[72], in quanto esemplare della tendenza a legare mediazione e arbitrato: il compromesso iniziale fra Enrico di Norvegia e le città anseatiche di Lubecca, Rostok, Wismar, Stralsund, Greifswald, Wisby e Riga sottopone la controversia a una commissione arbitrale di quattro membri, con la mediazione del re di Svezia. Poiché la commissione non perviene ad alcuna soluzione, le parti fanno ricorso al re di Svezia in qualità di superarbitro (summus iudex), impegnandosi a tal fine con una clausola penale di 20.000 marchi d’argento. Magnus assume l’incarico di superarbitro impegnandosi secundum Deum et conscientiam con espresso riferimento alla necessità di evitare il rischio che la controversia degeneri in un conflitto armato[73].

 

6. – La mediazione dell’Imperatore

 

Può sorprendere quanto spesso si dava che fosse l’Imperatore ad incaricarsi di pacificare due principi in discordia. Ma l’eventualità doveva essere così frequente e naturale che la mediazione veniva talvolta usata come copertura di manovre politiche cui non si voleva dare immediata pubblicità[74].

Naturalmente, chiamare in causa l’Imperatore voleva dire chiederne il giudizio e/o l’intervento. Poteva accadere che in quest’ultimo caso la crisi politica sfociasse in un rapporto feudale. Enrico III esercitò più di una volta funzioni di mediatore nelle aggrovigliate vicende orientali[75]. Pietro, re d’Ungheria, detronizzato dal rivale Ovone (Samuele Aba), si recò da Enrico III, invocandone il giudizio. Enrico, dopo una guerra contro l’usurpatore, rese l’Ungheria a Pietro, il quale avrebbe dovuto da allora in poi essere cliente e tributario dell’Impero. Il suo giuramento feudale fu rinnovato da Andrea nel 1050. Il successore, Salomone, nuovamente chiese l’intervento arbitrale dell’Imperatore in turbe intestine.

L’utilizzazione dello strumento della mediazione richiedeva conoscenza dei fatti e capacità diplomatiche. Enrico, come attesta Wipone[76] su impulso della madre, Gisella, in lege studebat e Wipone stesso esalta il fatto che il re sapesse vincere i nemici non solo con le armi, ma anche consiliis. Lo studio delle lettere e delle leges viene da Wipone considerato costitutivo dell’arte di governo: la sapienza viene intesa come un’arte quae per vim verbi flectit moderamina regni[77]. L’azione del mediatore consiste appunto in discorsi, argomentazioni. Le fonti ce ne danno la misura quando ci parlano della mediazione di Ottone I nel conflitto che oppone Luigi IV e Ugo il Grosso:

 

«Otto vero Hugonem in regis gratiam reducere satagebat. Quem multis verborum stimulis familiariter ac levi furore redarguens, eo quod regi suo contrairet, dominumque insectari non formidaret, ad regem redire effecit. Et tempore oportuno, prudentium legationibus praemissis, regi ducem reducit, sibique conciliat»[78].

 

Proprio questo caso mostra, però, come la capacità di persuasione delle parole si possa avvalere di forme di pressione: contro le riserve di Ugo il Grosso, alle mosse di Ottone I si aggiungono quelle del Papa[79].

 

7. – La conciliazione dei conflitti e l’Impero

 

La mediazione entra anzi – come mediazione politica – anche nella prassi interna dell’Impero. Quando Federico I, riappacificatosi con il duca di Baviera, gli restituisce l’omonimo ducato, ne stacca tuttavia l’Austria, rendendola ducato autonomo e attribuendola ad Enrico Babenberg, che sappiamo incaricato dal Barbarossa di una missione presso il Basileus d’Oriente, volta a riconciliare i due Imperatori e ottenere una tregua in favore degli Ungheresi[80]. Orbene, nella Constitutio Ducatus Austriae (17 sett. 1156) si precisa che il provvedimento, evidentemente destinato ad avere notevoli ripercussioni sull’equilibrio politico dell’Impero, viene preso non già dal solo Imperatore, bensì «de consilio et iudicio principum, Wladizlao illustri duci Boemiae sentenciam promulgante»[81]. E’ un passaggio che lascia trasparire come lo Hoftag, la Dieta dell’Impero, fosse il primo luogo ove la potenziale mediazione si prospettava, il forum ove tutte le forze dell’Impero interessate al ristabilimento dell’ordine nella comunità imperiale potevano premere in tal senso[82]. Esemplare, da questo punto di vista, è la dieta tenutasi nel 1017 di cui riferisce Thietmar von Merseburg[83], ove l’accordo fra l’imperatore Enrico II e Boleslao di Polonia viene raggiunto assidua principum suimet interventu.

Non si tratta di casi eccezionali. Dopo che, il 1 ottobre 1273, venne eletto imperatore, Rodolfo d’Asburgo tese con decisione a fronteggiare la potenza di Ottocaro di Boemia che si era impadronito dei feudi orientali dell’Impero, grazie al matrimonio con Margherita Babenberg. L’Imperatore ottiene che la dieta, convocata a Norimberga il 19 novembre dell’anno successivo, decida che tutti quei feudi che facevano parte dell’Impero al tempo della deposizione di Federico II (1245), debbono tornare all’Impero quando il loro dominus non se ne sia fatta rinnovare l’investitura dal nuovo Imperatore entro un anno e un giorno[84]. E’ in grazia di questa disposizione che contro Ottocaro può, nel ’76, essere dichiarato il bando dell’Impero. Orbene, anche in una controversia di tale rilievo, si vede affacciarsi una mediazione. In un primo tempo, infatti, è attraverso la mediazione del vescovo Bruno di Olmutz che si addivenne alla pace di Vienna, per la quale si stabilì che Ottocaro avrebbe restituito all’Impero Austria, Stiria, Carinzia, Carniola, Gorizia e Pordenone, rinnovandogli l’Impero i feudi boemi. Quando più tardi Enrico di Carinzia, divenuto re di Boemia per aver sposato Anna di Boemia, ultima discendente della stirpe regale dei Premyslidi, si trovò in conflitto con la volubile nobiltà del regno, tale conflitto venne portato dinanzi all’Imperatore[85]. Ove, coerentemente con la struttura dello Stato patrimoniale-feudale[86], la questione viene discussa in termini privatistici: il regnum boemo viene trattato alla stregua di un dominium cui era tanto più legittimo aspirare quanto più sostenibili – in termini successori – erano i titoli dei pretendenti. Ma è ricorrendo ancora una volta all’istituto della mediazione che la crisi politica può trovare soluzione. In un primo tempo con la mediazione di Amedeo di Savoia[87], quindi accordandosi per deferire la controversia a dei boni viri incaricati di cercare una composizione amichevole[88]. L’Imperatore nominò a tale fine il duca di Brabante e ancora una volta il conte di Savoia. Le cui trattative portarono a effettiva soluzione la controversia ottenendo, grazie a un doppio accordo matrimoniale, la rinuncia alla Boemia da parte Enrico [89].

E ancora: il Goldast ricorda che nel 1318 Lodovico, allora re dei Romani, avrebbe invitato presso di sé il re di Boemia Giovanni e la regina Elisabetta di Boemia, assieme ai magnati boemi in discordia e, nel giorno di Pasqua, avrebbe ordinato alle parti di trovare un accordo. I baroni del regno, che avevano fatto causa comune contro il loro re, “riformati dalla grazia regale”, si vincolavano con nuovo giuramento di fedeltà, mentre il re, dal canto suo, prometteva con giuramento che tutti i renani e gli hospites pugnantes che gli avevano prestato aiuto sarebbero stati licenziati e mandati fuori dal regno; che non sarebbe stato concesso alcun beneficio a stranieri, e che tutti gli affari del regno sarebbero stati trattati utilizzando solo consiglieri Boemi[90].

 

8. – Mediazione e faida

 

Qui la mediazione si confonde evidentemente, da un lato, con l’azione politica e con quel consilium che costituiva parte integrante della obbligazione feudale, dall’altro con la funzione stessa del rex di assicurare la pace e con la valenza religiosa che essa aveva. Non è un caso che il concetto di pace sia centrale in tutte le fonti medievali e che lo stesso ordinamento territoriale prenda il nome di Constitutio de pace tenenda, Landfried. Pace e giustizia, pax et iustitia sono una formula biverbale ricorrente già nella tradizione carolingia e tendente a legarsi all’altra formula: pax et treuga Dei. E’ stato anzi colto qui il profilarsi di una distinzione fra Landfrieden e Gottesfrieden. Le Landfrieden sarebbero anzitutto tese a stabilire il divieto – variamente definito – del ricorso all’uso della forza, benché una limitazione assoluta non fosse evidentemente possibile[91]. Non si tratterebbe, quindi, come suggeriva la storiografia più risalente, di una manifestazione del potere dello Stato di imporre la propria giurisdizione, ma al contrario dell’espressione della stessa necessità che presiederà via via alla formazione delle signorie territoriali, alla costituzione dei comuni, al rafforzamento del potere regio[92]. Il Reuter ha raccolto una casistica rilevante di faide e inimicitiae riferite dagli annalisti e coinvolgenti l’alta nobiltà imperiale. Esse dimostrano la sussistenza di un tipo di ordine giuridico nel quale i mezzi istituzionali di cui dispone lo stesso sovrano sono limitati. Ecco pertanto che il campo della mediazione è molto ampio, sicché è frequente vedere imperatori che tentano di imporre la pace ai loro magnati, impegnandoli con giuramento a rispettarla[93]. A tale necessità si ascrivono anzitutto i “giuramenti di pace” (Friedenseid) come quello dettagliatissimo che il De Manteyer attribuisce a Umberto Biancamano[94] o quello reso dal vescovo Guarino di Beauvais nella sua qualità di signore feudale alla dieta di Compiègne, che nel maggio 1023 vide riuniti il re Roberto II e molti grandi del regno[95]. Se grandi signori feudali, come il Biancamano, e vescovi influenti, come Guarino di Beauvais, si vincolano con giuramento a non compiere azioni che possiamo generalmente indicare come faidose, ciò vuol dire che tali azioni erano sin qui normali, e che il giuramento tendeva proprio a questo: a rendere illegale ciò che era sin qui legale. Non solo: non essendosi affermata ancora una giurisdizione accentrata, capace di accertare il diritto e portare ad esecuzione la sentenza, a un tale ordine di cose era più adatta una mediazione, dietro la quale restava sullo sfondo la possibilità di un intervento. Un esempio significativo è la faida fra il Conte Balderico e Wichmann in cui si interpone il vescovo Aldaboldo di Utrecht il quale avverte che:

 

«si vero pertinatia desistere nollent, imperatoris potestate et suis copiis vi coacturos ut ab incepto tumultu absistant, demonstrat»[96].

 

Precedentemente, il sovrano aveva invitato le parti in causa presso di sé:

 

«Set cum diu inimicitiae inter eos exercerentur, et homicidia fierent, et insidiae ab utrisque ponerentur, et invicem alter ab altero fugaretur, tandem utrique a rege in castra sunt vocati. Et cum diu causae eorum discuterentur, et rex sine offensione multorum neutrum familiariorem in reconciliando habere posset, inter se regia potestate pacem habere iussit»[97].

 

Il pur autorevole invito regio, però, non era stato da sé solo sufficiente alla estinzione della controversia, al cui fine fu molto più efficace la mediazione vescovile e l’aperta minaccia di uso della forza.

Più complesso si presentava il caso di un conflitto fra nobiltà laica e autorità religiose. Nella lunga serie di conflitti che oppone la nobiltà sassone e i vescovi della Sassonia, alla fine della seconda decade del XI secolo, l’Imperatore sta sempre dalla parte del potere vescovile. Così nella lite di Arnolfo di Alberstadt con il marchese Gero, dopo le minacce fatte dal seguito di quest’ultimo al vescovo [98]. Il caso è significativo. Poiché il vescovo aveva protetto un chierico entro il territorio di Gero, il capo dei milites del marchese protesta chiedendogli cur seniorem suum sic inhonorare voluisset. Il vescovo replica: ubi culpabilis a communis amicis digna emendatione restituo. All’inacerbirsi della controversia, l’imperatore, molto irritato, nonostante il marchese Gero avesse tentato di portarlo dalla sua parte tramite degli intermediari, lo condannò a pagare una grossa somma e a purgarsi con un giuramento, mentre i suoi milites venivano assoggettati alle sanzioni canoniche. Nonostante l’intervento dell’imperatore, però, la controversia ebbe termine solo mediante un accordo fra il vescovo e Gero[99]. Il potere di imperio, dunque, assumeva le vesti di un potere di intervento. La stessa decisione se immischiarsi o no in una controversia che coinvolgesse due o più grandi del regno implicava una scelta strategica da parte del sovrano, una scelta alla quale poteva o no far seguito l’uso della forza. Proprio per questa ragione, probabilmente, l’intervento sovrano veniva evitato grazie all’attività concorrente degli stessi magnati.

Talvolta l’interposizione di un grande signore si attuava in condizioni di reciprocità. Significativi sono da questo punto di vista i rapporti fra Alberto d’Austria e la famiglia tirolese. Incorsi in scomunica per via di un matrimonio sovrappostosi ad un divorzio della sposa pronunziato dal futuro suocero, l’imperatore Lodovico il Bavaro; coinvolti nella guerra guerreggiata che a quest’ultimo opponeva buona parte della nobiltà dell’Impero, sostenuta dal Papa, Margherita del Tirolo e Lodovico del Brandenburgo vengono molto aiutati dalla mediazione di Alberto d’Austria, tesa anzitutto a ottenere il riavvicinamento della coppia alla Chiesa. Ma se, contro tutti, Alberto d’Austria riconobbe sempre il Bavaro come legittimo Imperatore, se prestò all'occorrenza il proprio aiuto finanziario, se, grazie a lui, il Papa annullò il primo matrimonio di Margherita e ritirò il bando da cui era stata colpita la coppia[100], Lodovico del Brandenburgo, interpose a sua volta i suoi buoni uffici e il suo intervento armato a favore dell’Austria e contro gli Svizzeri. L’amicizia fu suggellata con il fidanzamento della figlia di Alberto d’Austria, Margherita, col giovane Mainardo del Tirolo.

In molti casi sono le regine a farsi carico della funzione mediatrice, con ciò lasciando affiorare probabilmente una delle motivazioni più importanti della prassi di combinare i matrimoni dinastici. La regina Gisella compare ad esempio molte volte quale mediatrice di pace fra il proprio figlio Ernesto e Corrado II. Wipone ricorda molto chiaramente che la resistenza del primo viene a cessare grazie alla mediazione della madre, del fratello minore e di altri principi:

 

«Sed dux Ernestus humiliter iter eius prosecutus usque Augustam Vindelicam interventu matris suae reginae et fratris sui Henrici adhuc parvuli aliorumque principum multum renuente rege vix in gratiam eius receptus est»[101].

 

Nello stesso tempo si ammette che possa trovarsi lo stesso imperatore in condizione tale da chiedere o accettare l’intervento di un mediatore. Così il duca Eberardo di Nellenburg fu con successo mediatore di una controversia fra Enrico IV e il duca Otto di Northeim[102]. Quando nel 1075, il re Enrico IV rinnovò la guerra contro i Sassoni ribelli, questi gli inviarono una delegazione con il compito di intavolare delle trattative. A sua volta, il re nominò gli arcivescovi di Magonza e Salisburgo, i vescovi di Augusta e Würzburg, insieme al duca Gottfried von Niederlothringen. Lamberto di Hersfeld, cui si deve la notizia, ci dice che questi fecero capire ai Sassoni essere stata, la loro, una grave ribellione dalla quale non potevano uscire se non con una completa deditio al re[103]. Si potrebbe pensare che così facendo essi si comportassero semplicemente da messaggeri del sovrano. Ma una tale conclusione sarebbe fuorviante perché in realtà la loro è una vera mediazione, vale a dire l’attività di un terzo che opera per il ristabilimento della pace e della concordia. Non solo infatti essi si fanno carico delle repliche dei Sassoni, ma poiché questi non si contentano della parola del re, il duca Gottfried offre loro garanzia giurata che

«... non salutis, non libertatis, non prediorum, non beneficiorum, non caeterae suppellectilis suae ullam eos iacturam sensuros, sed postquam faciem regis et regni maiestatem momentanea satisfactione magnificassent, statim deditione absolvendos et patriae libertatique, in nullis imminuto sibi condicionis suae statu, restituendos esse»[104].

 

Si tratta, come giustamente nota il Kamp[105], cui dobbiamo l’aver attirato l’attenzione sull’episodio, di un giuramento fatto in prima persona, non come mandatari del sovrano. Ciò pone il mediatore in rapporto diretto con l’accordo raggiunto, e fa si che egli ne sorvegli e curi il rispetto da ambo le parti, come nel caso di Federico di Magonza, il quale avendo trattato l’accordo fra Ottone I e suo figlio Liudolf, cercò di fare rispettare l’accordo anche dopo che Ottone lo aveva chiaramente infranto[106]. Questi soggetti, cui si ascrive il raggiungimento dell’accordo, anche per i contemporanei andavano considerati mediatori in senso proprio. Tanto più in quanto se, normalmente, non avevano competenza per chiudere l’accordo, ma si limitavano a suggerirne il tenore, in qualche caso aprivano la strada ad un arbitrato, o al contrario veniva loro conferita competenza arbitrale.

Così nel caso citato, della controversia fra i Sassoni e l’Imperatore, questi proprio ai suindicati personaggi:

 

«... permisit, ut pro suo arbitratu tantos motus componerent, promittens se indubitata fide omnibus annuere, quae ipsi conficiendis tantis rebus competere iudicassent»[107].

 

Se la cronaca di Lamberto di Hersfeld resta indeterminata in merito alla forma del compromesso, altre fonti invece ne forniscono preziose indicazioni.

Esemplare, da questo punto di vista, è il trattato di Montebello del 15 aprile 1175, concluso tra l’Imperatore Federico I e la Lega. In forza di tale trattato le parti rimettevano la controversia che le opponeva ad una commissione di sei membri (tre per ogni parte) presieduta dal magistrato della città di Cremona affinché:

 

«… bona fide et sine fraude … concordiam facient inter Imperatorem et eius partem et Lombardos et eorum partes, neque amore neque timore neque odio vel ullo alio modo permittent, quin ex utriusque litteris extrahentur ea, quae eis videantur superflua et incongrua; adjugent ea, quae eis videantur necessaria et magis utilia et congrua ad pacem et concordiam inter Dominum Imperatorem et Lombardos et Civitates et omnem suam Societatem confirmandam et tenendam».

 

L’accordo conteneva l’obbligazione, espressa dai contraenti, di sottomettersi alla decisione della commissione o, qualora questa non avesse raggiunto l’accordo, all'arbitrato del magistrato di Cremona. A tal fine, le parti fornivano adeguata garanzia circa l’esecuzione della sentenza[108].

 

9. – Arbiter, arbitrator, amicabilis compositor

 

La formula adottata nel compromesso, teso alla soluzione di una controversia per mezzo della interposizione conciliativa di un terzo soggetto, tende a cristallizzarsi presto in una espressione caratteristica: il soggetto viene designato quale arbiter arbitrator seu amicabilis compositor. Questa è divenuta ad un certo punto una formula di stile, affermandosi come tale per lungo tempo. In un compromesso del 23 febbraio 1251, su cui si soffermò lo Sclopis, i signori di Lucerna e altri si rimettono alla decisione di Tommaso II di Savoia tamquam in arbitratorem et amicabilem compositorem[109]. Nella sua versione completa la formula compare nel 1257 in un compromesso stipulato fra il conte di Ginevra Rodolfo e suo fratello Enrico, i quali con tale compromesso affidavano la soluzione di tutte le vertenze sussistenti fra di loro a sei cavalieri giurando di

 

«observare et tenere dictum et laudum dictorum arbitrorum aut arbitratorum aut amicabilium compositorum et non contra venire super hiis, que pronunciaverint vel pronunciari fecerint, prout eis iure vel amicabili compositione aut voluntate, de plano et sine iuris solemnitate videbitur expedire»[110].

 

Le ricerche del Bader hanno dimostrato quanto frequentemente la formula fosse usata nella prassi[111], ove come arbitri, arbitratores seu amicabiles compositores venivano nominati sovrani, personaggi di rilievo e sempre più spesso giuristi esperti sia di diritto canonico sia di diritto civile. «Nous … arbitres et amiables appasierres de haut et de bas esleuz des parties sur les descordes et guerre» qualifica se stesso Jehan di Chalon-Arlay chiamato a pronunciarsi su una controversia territoriale che vedeva da una parte il vescovo di Losanna Guglielmo, Umberto di Toire-Villars e Hans di Cossonay, e dall’altra Luigi di Savoia, riguardo a vari territori fra cui Morges, Mont-le vieux, Marchissy, Vufflens-la-Ville e Préverenges[112].

Per via arbitrale fu risolta nel 1335 una grande controversia internazionale fra la Polonia e l’Ordine Teutonico, che fu affidata all’arbitrato del re di Boemia Giovanni e del re d’Ungheria Carlo Roberto. I due arbitri, alla presenza del re Casimiro di Polonia e dei plenipotenziari del gran maestro dell’Ordine, prescrissero in qualità di arbitri arbitratores et amicabiles compositores l’oblio dei torti reciproci e dei danni, e il recupero dello status quo ante[113]. I giudici dichiarano di agire favente domino, aciem mentium nostrarum aequo libramine dirigentes[114].

 

10. – Riflessioni conclusive

 

L’uso di questi strumenti di soluzione delle controversie rimane costante nella prassi dell’Impero ove, anche quando vi furono istituiti Reichskammergericht e Reichshofrat, alla regola che gli immediati fossero soggetti in prima istanza ai grandi tribunali dell’Impero, facevano eccezione i casi di quei soggetti cui competeva das Recht der Austräge, cioè il diritto che venisse sottoposta ad arbitri, prima che ai tribunali, la controversia che li riguardava: una consuetudine che venne mantenuta da Massimiliano I, pur nel riordino della materia giudiziaria[115]. Si trattava di un diritto connesso con una competenza di guerra ancora non monopolizzata dallo Stato, propria di un ordine giuridico su cui forse siamo nuovamente chiamati a riflettere.

Il fatto è che il solo mezzo giuridico di regolamento delle controversie, dal punto di vista del diritto internazionale, finisce con l’essere, direttamente o indirettamente, lo stesso accordo con il quale i soggetti di diritto internazionale compongono i loro conflitti, vuoi direttamente, ponendo norme di diritto materiale, vuoi indirettamente, creando strumenti e strutture atte a comporre una determinata controversia, ovvero, in ipotesi, ogni possibile controversia[116], per cui la relazione fra i diversi strumenti utilizzabili dipende dalla struttura – storicamente mutevole – della Comunità internazionale ed è in rapporto a questa che la loro configurazione è variata di tempo in tempo[117].

Gli aspetti particolarmente impegnativi mostrati dalla mediazione ottocentesca ispirarono il capitolo consacrato ai buoni uffici e alla mediazione nella Convenzione per il regolamento pacifico dei conflitti internazionali, elaborata nel 1899 alla prima conferenza di pace dell’Aja, e rivista nel 1907 dalla seconda conferenza di pace[118]. E’ in questa occasione che si manifestano chiaramente le prevenzioni per cui la mediazione, pur annoverata fra i mezzi tendenti a facilitare la soluzione pacifica dei conflitti fra Stati, avrebbe sofferto di fatto dei timori di cui si è detto[119]. Gli sforzi tesi ad affermare il ricorso obbligatorio a buoni uffici e mediazione – non fosse altro per certi conflitti – si dimostrarono vani, e le due conferenze si accontentarono di prevedere tali procedure conciliative, e di facilitarne l’impiego.

Il torto della mediazione parve quello di essere troppo legata alla politica dello Stato mediatore. Il progresso fu cercato per due vie: da un lato, organizzare la mediazione in modo da farne uno strumento in grado di entrare immediatamente in funzione; dall’altro, sostituire all’intervento dei governi il concorso di uomini spogliati d’ogni potere politico, ma il cui titolo ad occuparsi della controversia derivasse dal loro prestigio personale, dalle loro conoscenze giuridiche, dalla loro personale esperienza di internazionalisti. Nella convenzione dell’Aja del 1899 sei articoli (9-14) provvedevano a regolare l’ipotesi che, in caso di controversia, venisse nominata una commissione d’inchiesta. Nel 1907, alla luce della prassi, la creazione fu riveduta e ampliata (artt. 18-36). Si trattava della previsione di una commissione internazionale il cui unico compito consisteva originariamente nell’accertamento dei fatti. Essa non doveva formulare giudizi relativamente ai fatti accertati, e nemmeno interessarsi delle possibili conseguenze derivanti da un tale accertamento, o applicarvi principi giuridici, perché non era intesa come una corte (art. 35)[120]. Ma tali limiti erano destinati a essere presto superati, anche perché l’oggetto dell’investigazione poteva avere la natura più varia: poteva, cioè, trattarsi di questioni di fatto come di questioni di diritto. Già prima che scoppiasse la prima guerra mondiale, tale procedura si affaccia in campi e con compiti che si vanno via via ampliando dall’inchiesta tesa a stabilire i fatti, al rapporto contenente degli apprezzamenti circa i fatti dall’inchiesta indagati, fino all’indicazione delle responsabilità e al suggerimento di proposte di soluzione[121]. Una procedura, questa, che trova nell’incidente del Dogger Bank una delle sue applicazioni di maggior successo[122]. La commissione ebbe così talvolta l’autorizzazione a offrire spontaneamente i propri servigi[123], ovvero a fissare la condotta degli Stati interessati durante il periodo di studio, fissando delle norme provvisionali[124]. Ne sarebbe germogliata la procedura denominata come conciliazione. Il Patto della Società delle Nazioni, agli artt. 12-15, non solo rendeva obbligatorio l’esperimento dell’arbitrato per le controversie eventualmente sorgenti fra le potenze firmatarie, ma stabiliva anche che, ove l’arbitrato non fosse stato accettato, allora diveniva obbligatoria la mediazione, intesa come mediazione del Consiglio, e riguardata come il mezzo elettivo per la soluzione delle controversie politiche. Va notato che, mentre la prima Convenzione dell’Aja stabiliva che si dovesse ricorrere alla mediazione «en tant que le circonstance le permettront», i termini dell’art. 12 del Patto della Società delle Nazioni erano assai più vincolanti: «les membres de la societè conviennent» ovvero «ils se soumettront»[125]. Inoltre, gli Stati membri erano impegnati a sottoporre al Consiglio ogni controversia suscettibile di degenerare in conflitto, che non fosse stata sottoposta ad arbitrato o procedimento giudiziario e ad accogliere le raccomandazioni che avessero trovato concordi tutti gli Stati membri (a prescinder da quelli coinvolti nella controversia). Dopo la prima guerra mondiale, nella generale ascesa del regolamento giudiziario, le convenzioni che lo prevedono (Protocollo di Ginevra, accordi di Locarno del 1925[126], Atto generale di arbitrato) si orientano verso quello che fu chiamato il neo-arbitrato, vale a dire verso un arbitrato in cui l’arbitro possedesse anche poteri di amiable compositeur, riconoscendo l’efficacia di una soluzione mediatrice congiunta con l’autorità di una decisione giudiziaria. Quello della soluzione pacifica delle controversie divenne un tema di moda. Per citarne solo alcuni – ma se ne troverà menzione nel corredo di note di questo stesso saggio – a quegli anni risalgono sia pregevoli studi di natura giuridica, come la monografia dello Schücking – che è del 1923[127] – sia diversi Corsi tenuti all’Académie de L’Aja come quelli di De la Barra[128] o Efremoff[129]; sia anche ricerche squisitamente storiche come quelle che portarono alla pubblicazione – nel 1946 – degli Acta pontificia juris gentium, a cura di Balladore Pallieri e Vismara – pubblicazione che documenta la frequenza tanto della mediazione quanto dell’arbitrato nella attività diplomatica dei Pontefici.

Successivamente, è parso che così la mediazione tradizionale, come i buoni uffici, dovessero venire assorbiti nel quadro del sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta dell'ONU. E’ ben vero che questa, dichiarando che scopo dell’Organizzazione è quello di mantenere la pace e la sicurezza internazionale[130], obbliga gli Stati firmatari ad esperire anzitutto mezzi di soluzione pacifica per i loro conflitti, e addita la mediazione fra essi, soprattutto per le controversie non giuridiche; ma l’ONU stessa, come organizzazione, è abilitata a svolgere il ruolo di mediatore, tramite i suoi organi principali, Consiglio di Sicurezza e Assemblea generale[131]. Per questi, promuovere la soluzione di quelle controversie «la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale»[132] rappresenta un compito istituzionale[133]. Si è parlato addirittura di un “dovere” dell’ONU di svolgere opera mediatrice. Anzi, l’art. 2, par. 4 della Carta non si rivolgerebbe, a questo fine, solo agli Stati membri, ma anche ai non-membri. A tale “dovere” corrisponderebbe un correlativo diritto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale: la Carta conferirebbe ad ogni Stato-membro, così come al Segretario Generale, il diritto di invocare la mediazione collettiva delle Nazioni Unite, portando all’attenzione del Segretario Generale o dell’Assemblea ogni controversia o ogni situazione suscettibile di creare una frizione o dar luogo ad una controversia (art. 34 e 35).

Non si può dire che questa previsione normativa sia stata accompagnata da una reale efficacia[134] e, come apparve subito evidente dal ruolo dell’India nei negoziati fra gli Stati Uniti e le autorità comuniste nella Corea del Nord, nel 1952-53, o – meno lontana nel tempo – la cosiddetta shuttle diplomacy di Henry Kissinger fra Israele ed Egitto, le procedure tradizionali della mediazione hanno continuato di tempo in tempo a offrire un ricorso alternativo, insieme a commissioni d’inchiesta, e commissioni di conciliazione, soprattutto per quegli Stati che, di nuova indipendenza, son parsi rifuggire dalle forme giudiziarie e preferire piuttosto il supporto di strumenti meno rigidi[135]. D’altro canto, se la flessibilità e la mancanza di formalità costituiscono indubbi atout dell’istituto, è sempre più chiaro che il suo utilizzo ha speranza di successo solo se le parti sono – al di là dei punti morti che ne impediscono l’accordo – effettivamente intenzionate a raggiungerlo, e il mediatore ha alle spalle un considerevole potere politico o morale, come è stato il caso della mediazione del Papa nel conflitto fra Cile e Argentina circa il Canale Beagle (1979)[136], o, più di recente, della mediazione dell’Unione Europea nel conflitto fra Slovacchia e Croazia, da una parte, e Serbia e Unione Iugoslava dall’altra (1991).

La fioritura che i mezzi di soluzione pacifica delle controversie internazionali mostrano durante il XIX secolo, fino alla I guerra mondiale, ha avuto quindi un seguito diseguale. Mentre l’arbitrato internazionale è sfociato nell’organizzazione di una – sia pur volontaria – giurisdizione internazionale[137], mediazione e buoni uffici sono parsi sbiadire di fronte all’attività delle organizzazioni internazionali. Gli studiosi di diritto internazionale, preoccupati di stringere la disciplina alla più pura scienza giuridica, hanno generalmente provato poca simpatia per un istituto difficilmente inseribile nelle categorie che si venivano costruendo per inquadrare i dati della vita internazionale[138]. Di conseguenza, nei trattati di diritto internazionale ci si è generalmente limitati ad enunciarne gli aspetti e gli effetti politici, ogni indagine ulteriore parendo impedita dalla natura stessa dell’istituto, quando posta in relazione con gli altri dati dell’ordinamento internazionale[139].

Tuttavia, nella crisi che caratterizza i nostri tempi (crisi che coinvolge sia il piano internazionale sia quello interno, a fronte della crescente complessità e disomogeneità della società)[140], e nel conseguente rapido trasformarsi della struttura stessa della sovranità, gli strumenti che possono mostrarsi effettivamente funzionali a fronte del coesistere dialettico di modelli sociali irriducibili, ancora alla ricerca di un nuovo equilibrio[141], sono diversi da quelli validi per una comunità il cui indice di trasformazione sia meno alto. Non è un caso che intorno alla mediazione, intesa come strumento di soluzione pacifica delle controversie intersoggettive, e all’interno di diverse discipline, sembra si sia coagulato un rinnovato interesse scientifico, di cui sono il segnale emergente gli studi apparsi negli ultimi anni[142]. La mediazione, nelle sue diverse possibili applicazioni, appare insomma suscettibile di fornire risposte utili nei momenti in cui più tumultuosa è la trasformazione della società e quindi dell’esperienza giuridica che essa esprime.

 



 

[1] Cfr., sul punto, V. ARANGIO-RUIZ, voce Controversie internazionali, in Enciclopedia del diritto, X, 1962, 384; G. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale7, Padova 1967, 376; da ultimo cfr. B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli 1987, 396 e 407.

 

[2] Una netta chiarificazione di tale differenza fu offerta da G. MORELLI, La sentenza internazionale, Padova 1931, 14 ss.

 

[3] Cfr. E. BOREL, L’acte général de Genève, in Recueil des Cours de l’Académie de droit international, 1929, II, 504 ss.; F. SCHUMAN, International Politics, NewYork 1958, 149; U. VILLANI, La conciliazione nelle controversie internazionali, Napoli 1979, 15 ss.

 

[4] E’ stato notato (L. DELBEZ, Les principes généraux du droit international public, droit de la paix, droit préventif de la guerre, droit de guerre, Paris 1964, 485, 16) come proprio buoni uffici e mediazione lascino affiorare con particolare evidenza quanto la pretesa eguaglianza degli Stati – sancita dall’art. 2 della carta dell’ONU – sia contraddetta dall’ineguaglianza dei mezzi e delle risorse.

 

[5] J. MULLER, Oeuvre de toutes les confessions chrétiennes (églises) pour la paix internationale, in Recueil des Cours de l’Académie de droit international, 1930, vol.31, 334. Dopo che, nel 1863, Pio IX si pronuncia per una diminuzione degli armamenti, e nel 1870 tenta una mediazione fra Guglielmo I e Napoleone III, Bismark propone al papa Leone XIII di mettere fine al conflitto fra Germania e Spagna in qualità di arbitro e Von Bülow propone egualmente un arbitrato del Papa nell’affare di Cuba fra Spagna e Stati Uniti.

 

[6] Così gli Stati Uniti nei confronti della Cina nel trattato del 1858. Vedi infra, nota 18.

 

[7] Vedi il Protocollo 19 della Conferenza di Londra del 19 febbraio 1831 relativo alla neutralità del Belgio, in J. DE CLERCQ, Recueil des Traités de la France, IV (1831-1842), Paris 1880, 16.

 

[8] Come, ad esempio, il sistema della Santa Alleanza (su cui vedi H. NICHOLSON, The Congress of Vienna, London 1966, 244 ss.) o la Confederazione Germanica (in tema vedi J.L. KLÜBER, Öffentliches Recht der Teutschen Bundes und der Bundesstaaten, Frankfurt a. M. 1840, 211).

 

[9] Il trattato – che pose termine alla guerra di Crimea, affrontando la questione orientale – vincolava Francia, Austria, Gran Bretagna, Prussia, Russia, Sardegna e Turchia. Vedilo in DE CLERCQ, Recueil, VII (1856-1859), 63.

 

[10] L’Atto generale di Berlino prevedeva il ricorso ad una – mai costituita – commissione internazionale del Congo per le difficoltà relative alla navigazione e al commercio. L’art. 12 (Annexe n.4, chapitre III) obbligava le potenze firmatarie – o che avessero successivamente aderito all’accordo – a ricorrere alla mediazione d’una o più potenze amiche, prima di aprire le ostilità in caso di conflitto relativo ai loro possedimenti nel bacino del Congo: «Dans le cas où un dissentiment sérieux, ayant pris naissance au sujet ou dans le limites des territoires mentionnés à l’art.1 ... viendrait à s’élever entre des puissances signataires du présent Acte, ces Puissances s’engagent, avant d’en appeler aux armes, à recourir à la médiation d’une ou de plusieurs Puissances amies». Vedilo in G.F. DE MARTENS - J. HOPF, Nouveau Recueil général des Traités, continuations du grand Recueil de G.F. De Martens, Gottingue 1885, (II) X, 407. Cfr. sul punto F. DESPAGNET Cours de droit international public, Paris 1910, 761; N. POLITIS, L’avenir de la médiation, in Revue générale de droit international public, 1910, 146.

 

[11] In estensione di tale articolo, Lord Clarendon – rappresentante inglese al Congresso di Parigi del 1856 – su proposta della Peace Society di Londra, avrebbe fatto successivamente accettare un protocollo – sottoscritto il 16 aprile 1856 – che impegnava gli Stati firmatari – prima di ricorrere alle armi – a far ricorso ai buoni uffici di una potenza amica. A questa clausola avrebbero aderito di quaranta Stati. Vedi F. SCHÜCKING, Das völkerrechtliche Institut der Vermittlung (publication de l’Institut Nobel norvegien), Kristiania-La Haye 1923, 25. Di fatto, il protocollo fu invocato per arrestare alla Conferenza di Londra del 1867 il conflitto fra Francia e Prussia relativo al Lussemburgo, e alla Conferenza di Parigi del 9 gennaio 1869, il conflitto fra Grecia e Turchia (vedi F. von HOLTZENDORFF, Élements de droit international public, Paris 1891, 158-159). Ma i buoni uffici proposti da Napoleone III, in conformità del medesimo protocollo, per la guerra di secessione americana non andarono a buon fine (1862), e la Prussia, in occasione della guerra con l’Austria, rifiutò quelli offerti dalle altre potenze (1866). Su ciò DESPAGNET, Cours, cit., 760-61.

 

[12] G. DE LAPRADELLE, La Conférence de la paix, in Rev. gén. de droit int. publ., 1899, 759.

 

[13] D. ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale4, I, Padova 1955, 204.

 

[14] In particolare T. TWISS, The Law of Nations, Oxford 1861, 187. Sul punto DESPAGNET (Cours, cit., 762) avvertiva essere, questa, manifestazione del diritto e del dovere morale di solidarietà fra gli Stati: manifestazione suscettibile di dar luogo ad una guerra legittima, ma non di configurarsi come mediazione.

 

[15] C. CALVO, Le droit international théorique et pratique, précédé d’un exposé historique des progrès de la science du droit des gens, Paris 1896, III, 41.

 

[16] Nell’incidente della Trent (1861), che rischiava di rompere i buoni rapporti esistenti fra Stati Uniti e Gran Bretagna, l’allora ministro degli esteri del governo francese, De Thouvenel, incaricò il rappresentante della Francia a Washington di comunicare al governo americano una nota nella quale lo metteva a parte delle sue osservazioni e dei suoi consigli. Vedi G. CARNAZZA AMARI, Traité de droit international public, Paris 1882, 556.

 

[17] Nel giugno 1905, il presidente Roosvelt offrì i suoi buoni uffici fra Russia e Giappone, allora in guerra. L’offerta fu accettata da ambo le parti. Gli Stati Uniti organizzarono una conferenza di pace a Portsmouth (N.H.) e formularono proposte che furono strumentali per la successiva pace di Portsmouth del 5 settembre 1905. Vedi L. OPPENHEIM, International Law, London 1952, II, 11; SCHUMAN, op. cit., 149.

 

[18] Questo fu in particolare il caso delle clausole di mediazione inserite nei trattati che si riferiscono al periodo di espansione delle potenze occidentali in estremo Oriente, come il Trattato degli Stati Uniti con la Cina del 18 giugno 1858 (all’art. 1 tale trattato stabiliva che «Dans le cas ou toute autre nation commettrait quelque acte d’injustice ou d’oppression, les États Unies prêteront leurs bons offices après avoir été informés du fait, en vue d’amener un arrangement amiable de la question, faisant preuve ainsi de leurs sentiments d’amitié». Vedi N. POLITIS, L’avenir, cit., 143); quello degli stessi Stati Uniti con il Giappone del 28 luglio dello stesso anno (art. 2: «A la demande du gouvernement du Japon, le Président des États-Unis agira comme médiateur ami, dans les différends qui viendraient à s’élever entre le gouvernement du Japon et une puissance européenne»; vedi A. RIVIER, Principes du droit des gens, Paris 1896, II, 164); quello della Gran Bretagna con la Persia del 4 marzo 1857 («En cas de différends entre le gouvernement persan et les pays de Hérat et d’Afganistan, le gouvernement persan s’engage à faire appel aux bons offices du gouvernement britannique et à ne pas recourir aux armes avant l’échec de ces bons offices». Vedi J.B. MOORE, History and Digest of the International Arbitration to which the U.S. has been a party, Washington 1898, V, 5042); quello della Germania con la stessa Persia dell’11 giugno 1873. In termini simili anche il trattato degli Stati Uniti con la Corea del 22 maggio 1882 (all’art. 1 tale trattato prevedeva che «Si d’autres puissances agissent injustement ou de manière oppressive, vis-à-vis de l’une des parties contractantes, l’autre prêtera ses bons offices à l’effet d’amener un arrangement amiable, faisant preuve ainsi de ses sentiments d’amitié»; vedi MOORE, History and Digest, VII, 7-8); nonché il trattato di amicizia e di commercio, sottoscritto a Seul dall’Italia con la stessa Corea il 26 giugno 1884 (art. 2): «In caso di dissidi che possano sorgere tra una delle parti contraenti e una terza potenza, l’altra parte contraente, se ne sarà richiesta, eserciterà i suoi buoni uffici per ottenere una amichevole composizione della vertenza»; vedi G.F. DE MARTENS - F. STOERK, Nouveau Recueil, cit., Gottingue 1888, (II) XIII, 620; e quello della Francia con lo stesso Paese (Trattato di Seul del 4 giugno 1886, art. 1, § 2). Apparentemente, sotto il velo di una impossibile reciprocità, questi trattati creavano – a profitto di una sola delle parti – un titolo di intervento negli affari dell’altro e un mezzo di controllo politico sulla concorrenza dei terzi. Per ulteriori approfondimenti vedi POLITIS, L’avenir, cit., 143.

 

[19] Così nella mediazione delle grandi potenze, tesa a condurre Grecia e Turchia alla pace alle condizioni volute: l’accordo di Berlino del 13 luglio 1878, seguito da una identica nota dell’11 giugno 1880, voleva che nel caso le due potenze non si accordassero sulla rettificazione della frontiera precisata nel XIII protocollo del congresso di Berlino: «… l’Allemagne, l’Autriche-Hongrie, la France, la Grande Bretagne, l’Italie et la Russie se réservent d’offrir leur médiation aux deux parties pour faciliter les négociations» (art. XXIV). Vedi DE MARTENS (C. SAMWER-J. HOPF), Nouveau recueil, cit., (II) III, Gottingue 1878 (= Nedel-New York 1967), 449. La commissione, il primo luglio 1880, si pronuncia nel senso che: «Les puissances médiatrices ont décidé, en conséquence, que leur Représentants prés la Majesté l’Empereur d’Allemagne se réuniront en conférence à Berlin le 16 de ce mois pour déterminer, à la majorité des voix, et avec l’assistance d’officiers possédant des connaissances spéciales, la ligne de frontière qu’il convient d’adopter». La decisione fu accettata dalla Grecia il 16 luglio, rifiutata dalla Turchia il 26 luglio. Seguì, fra Austria-Ungheria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Russia da una parte e Turchia dall’altra, un accordo, sottoscritto a Costantinopoli il 24 maggio 1881, che aveva ad oggetto la nuova linea di frontiera fra Grecia e Turchia. Vedi DE MARTENS, (C. SAMWER-J. HOPF), Nouveau recueil, cit., (II), VI, 753. Caratteristiche simili ebbe la mediazione di Germania Francia e Russia per forzare il Giappone a restituire alla Cina la penisola del Liaodong persa – quest’ultima – col trattato di pace di Shimonoseki dell’anno precedente (6 maggio 1895: vedilo in DE MARTENS (F. STOERK), Nouveau recueil, cit., (II) XXI, Gottingue 1896 (= Nedel-New York 1967), 642. Cfr. DESPAGNET, Cours, cit., 764.

 

[20] Vedi P. FISCHER- H.F. KÖCK, Allgemeines Völkerrecht5, Wien 2000, 32-33; per gli antecedenti storici vedi G. CARNAZZA AMARI, Nuova esposizione del principio del non intervento: discorso inaugurale per l’apertura degli studi della Regia Università di Catania, Catania 1873.

 

[21] Che, nel caso ritenga quell’assetto minacciato, può esercitare con un intervento quella forma di garanzia primaria tipica del diritto internazionale (R. QUADRI, Diritto internazionale pubblico, Napoli 1968, 278) che è stata riconnessa a sua volta con la teoria del bellum justum (in tal senso H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., Milano 1959, 338).

 

[22] «... Une guerre cause aux neutre eux même du dommage» J. MULLER, Oeuvre des toutes les confessions chrétiennes, cit., 324; «If war, then, has the effect of imposing duties upon the neutrals ... it must likewise be the neutral’s interest to bring about a cessation of hostilities irksome to neutral activity». J.B. SCOTT, The Hague peace conferences of 1899 and 1907, New York 1921, vol. I, 258.

 

[23] Vedi F. von LISZT (G.C. GIDEL - J.BROWN SCOTT), Le droit international: exposé systématique, Paris 1927, 69-70.

 

[24] Cfr. DE LAPRADELLE, La Conférence de la paix, cit., 758-767.

 

[25] E. VATTEL (Le droit des gens ou principes de la loi naturelle appliqués à la conduite et aux affaires des nations et des souverains, Paris 1856, II, 304), parla di «médiation dans la quelle un ami commun interpose ses bons offices».

 

[26] G. DE RAYNEVAL, Institutions du droit de la nature et des gens, Paris 1803, III, XXIII, 1, 286: «souvent un médiateur offre lui-même ses bons offices».

 

[27] J.L. KLüber, Droit des gens moderne de l’Europe, Stuttgart 1819, 230.

 

[29] RIVIER, op. cit., 161.

 

[30] P. PRADIER FODÉRÉ, Traité de droit international public européen et américain suivant les progrès de la science et de la pratique contemporaines, Paris 1906, IV, 213.

 

[31] R. PHILLIMORE, Commentaries upon International Law3, London 1879-1888, III, 643. Col trattato di pace di Tilsit del 7 luglio 1807 fra Russia e Francia, Napoleone accettava (art. 13) «... la médiation de S.M. l’Empereur de toutes les Russies, à l’effet de négocier et conclure un traité de paix définitive entre la France et l’Angleterre, dans la supposition que cette médiation sera aussi acceptée par l’Angleterre un mois après l’échange des ratifications du présent traité». Vedi DE CLERCQ, Recueil, t. II (1803-1815), 211.

 

[32] OPPENHEIM, op. cit., 10.

 

[33] Vedi C. FOURCHAULT, De la médiation, Paris 1900, 55.

 

[34] Ciò che continua ad accadere di frequente per tutto il XIX secolo: ad esempio fra Inghilterra e Portogallo per l’Africa orientale (1890) o fra Equador e Perù per i rispettivi confini (1893). Da taluno se ne deduceva «... la souveraineté du Pape, car seul un souverain peut être médiateur entre des souverains». Vedi J. MULLER, op. cit., 335.

 

[35] Così G.M. UBERTAZZI, Contributo alla teoria della conciliazione delle controversie internazionali davanti al CdS, Milano 1958, 4. Tale osservazione, e la deduzione che mediazione e buoni uffici siano equipollenti, non è condivisa dal R. QUADRI, op. cit., 241.

 

[36] J. Stone, Legal control of international conflicts, London 1959, 69.

 

[37] Stari autem debet sententiae arbitri quam dixerit sive aequa sit sive iniqua. D.IV, 8, 27, 2.

 

[38] H. GROTIUS, De jure belli ac pacis libri tres, III, XX, § XLVI (ed. a cura di B.J.A. De Kanter – van Hettinga Tromp, con note di Feenstra e C.E. Persenaire), Aalen 1993 = Lugduni Batavorum 1939, 843.

 

[39] Un sistema di commissioni miste fu istituito con il trattato di Jay, del 19 novembre 1794, per dirimere i molti problemi che restavano aperti nelle relazioni fra Gran Bretagna e Stati Uniti. In tali commissioni, alla rappresentanza degli Stati in controversia, veniva aggiunto un “superarbitro”. Cinque furono i membri del tribunale arbitrale di Ginevra che il 14 settembre 1872 rese la celebre sentenza fra Inghilterra e Stati Uniti nell’Affare Alabama. Vedi A. de LA PRADELLE - N. POLITIS, Recueil des arbitrages internationaux, I, 1798-1855, Paris 1957, 1 ss. Cfr. QUADRI, op. cit., 251.

 

[40] Vedi R.Y. HEDGES, The juridical bases of arbitration, in British Year Book of International Law (B.Y.B.I.L.), 1926, 111: «The distinction thus drawn has been challenged by the view that a conciliatory adjustment of conflicting interests is the true ratio decidendi of arbitral awards, compromise being the dominant and prevailing characteristic and the doubt is expressed that it is improbable that a politico-diplomatic process of this kind can form an effective instrument for developing international law, however useful it may be in determination of international controversies in particular cases».

 

[41] S. MANNONI, Potenza e ragione. La scienza del diritto internazionale nella crisi dell’equilibrio europeo, Milano 1999, 93.

 

[42] Come, ad esempio nel caso della controversia fra Gran Bretagna e Portogallo relativa alla Delagoa Bay (1875). Secondo il compromesso, l’arbitro aveva competenza – qualora non potesse decidere nè per l’una nè per l’altra parte – di rendere «such a decision as, in his view, would afford an equitable solution of the difficulty». Il caso fu deciso a favore del Portogallo, sicchè l’ipotesi non si realizzò. In tema vedi C.L. CAEN-L. RENAULT, Tribunal arbitral du Delagoa siégeant à Berne. Affaire du chemin de fer Lourenço-Marquès (Baie de Delagoa). Consultation délibérée à la requête des demandeurs, Paris 1895.

 

[43] Come ad esempio nella controversia fra Nicaragua e Costarica del 1898. Per il trattato di pace di quell’anno, alcune pretese sorgenti da vari incidenti durante le attività rivoluzionarie del Nicaragua erano sottoposte alla decisione di un tribunale arbitrale che si prevedeva dovesse agire «nello spirito non solo dell’arbitro, ma anche del pacificatore, favorendo quello spirito di carità che dovrebbe regnare ove vessatori incidenti sono sorti fra fratelli». Vedi British And Foreign State Papers, XC, 561.

 

[44] Cfr. C. DE VISSCHER, Justice et médiation, in Rev. de droit int. et de lég. comp., 1933, 414-420.

 

[45] M. HABICHT, Le pouvoir du juge international de statuer «ex aequo et bono», in Recueil des cours, 1934, III, (49), 360.

 

[46] L. Siorat, Le problème des lacunes en droit international: contribution à l’étude des sources du droit et de la fonction judiciaire, Paris 1958, 99 ss.; DELBEZ, Les principes, 485.

 

[47] LA PRADELLE–POLITIS, Recueil, cit., 306.

 

[48] LA PRADELLE–POLITIS, Recueil, cit., 371.

 

[49] HEDGES, op. cit., 111-113.

 

[50] A. MALINTOPPI, Le raccomandazioni internazionali, Milano 1958, 138; HEDGES, op. cit., 118.

 

[51] Poche le eccezioni, fra le quali, a parte lo studio del Bader citato qui appresso vedi K.H. ZIEGLER, Arbiter, arbitrator amicabilis compositor, in Zeitschrift der Savigny Stiftung, Rom. Abt., LXXXIV, 1967; L. Martone, Arbiter - Arbitrator, forme di giustizia privata nell’età del diritto comune, Napoli 1984, rivolto all’esame della dottrina.

 

[52] L’osservazione è di K. BADER, Arbiter, arbitrator seu amicabilis compositor, in Zeitschrift der Savigny Stiftung fuer Rechtsgeschichte, Kanonistische Abt., XLVI, 1960, 239 ss.

 

[53] W. DAviEs - P. FouRAcHE (Ed.), The Settlements of Disputes in Early Medieval Europe, Cambridge 1986; G. ALTHOFF, Compositio. Wiederherstellung verletzter Ehre in Rahmen gütlicher Konflikf- beendigung, in Verletzte Ehre. Ehrkonflikte in Gesellachaften des Mittelalters und der frühen Neuzeit, hrg. K. SCHREINER - G. SCHWERHOFF, Köln - Weimar - Wien 1995, 63-76, 68 s.; P. GEARY, Extra-Judicial Means of Conflict-Resolution, in La giustizia nell’alto medioevo (secoli V-VIII), vol. 1, Spoleto 1995 (Settimane di studio del centro italiano di studi sull’alto medioevo XLII), 569-601; B.M. NovAcovitch, Les compromis et les arbitrages internationaux de XIIe siècle, 1905.

 

[54] Nota W. PREISER, History of the Law of Nations, in Enciclopedia of Public international Law, 7, 1984, 126, che una riflessione storica sul divenire del diritto internazionale non comincia prima della fine del XVIII secolo, con l’opera di R. WARD, An Enquiry into the Foundations and History of the Law of Nation in Europe, composto nello spirito enciclopedico del tempo. Sarebbero seguite molte opere onnicomprensive, che però, come questa, sarebbero rimaste largamente acritiche, tratte da fonti secondarie e scarsamente distinguibili dalla storia delle relazioni internazionali, restando largamente inutilizzato il contemporaneo sforzo di raccolta di trattati e documenti interessanti quelle stesse relazioni, di cui l’opera di J. Dumont (Corps Universel Diplomatique du droit des gens, Amsterdam 1726) rappresenta un esempio mirabile. Non è dunque sorprendente che a questo primo inizio sarebbe seguita una stasi, e che lo studio della storia del diritto internazionale non sarebbe avanzata di nuovo finchè dalle discipline più prossime non sarebbe venuto lo stimolo per una nuova partenza. Per un riesame della storiografia del diritto internazionale, vedi W. PREISER, Anzeige und Besprechung einiger neu erschiener völkerrechtlicher Wercke in deutscher Sprache, in Neue politische Literatur, Berichte über das internationale schrifttum 6/1960, 499 ss.; M. PANEBIANCO, Ugo Grozio e la tradizione storica del diritto internazionale, Napoli 1974, 119 ss. Elementi di una storia della storiografia di diritto internazionale anche in A. NUSSBAUM, A Concise History of the Law of Nations, New York 1954, 2ª, 291-295. Ampi riferimenti anche in V. ILARI, L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano 1981, nonché in M.T. GUERRA MEDICI, Diritto internazionale nel diritto medioevale e moderno, in Digesto, IV ed., V vol.

 

[55] Vedi in particolare E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Cagliari 1970, rist. Milano 2002 (con prefazione di P.G. GRASSO, L’insegnamento di Emilio Bussi sull’«Evoluzione storica dei tipi di Stato e gli studi di diritto pubblico contemporaneo»); M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994; P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Bari 1995; C. GHISALBERTI, Recensione a Paolo Grossi, L’ordine giuridico medievale, in Clio, 1997, n. 1, 181 ss.; E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, Roma 1995; ID., Un personaggio in cerca d’autore, in Diritto @ Storia, n. 3 - Maggio 2004 = < http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Cortese-Compilazione-giustinianea-medioevo.htm >; A. LECA, La république européenne, 1: l’unité perdue (476-1806), Aix en Provence 2000.

 

[56] L. BUSSI, Fra unione personale e Stato sopranazionale, contributo alla storia della formazione dell’Impero d’Austria, Milano 2003, 19.

 

[57] A mettere in dubbio l’idea dominante relativa alla natura dei soggetti del diritto internazionale fu Pasquale Stanislao Mancini, il quale – verso la metà del XIX secolo – asserì che non gli Stati andavano considerati tali, ma le nazioni intese come comunanze storiche, etniche e culturali. Al momento tale dottrina suscitò molte perplessità e anche successivamente venne criticata dal punto di vista politico. Vedi T. PERASSI, Lezioni di diritto internazionale, Roma 1939, 76. Successivamente, lo studioso che a questo ordine di problemi si è ripetutamente dedicato è stato specialmente V. Arangio-Ruiz: vedine, in particolare Gli enti soggetti dell’ordinamento internazionale, Milano 1951; Sulla dinamica della base sociale nel diritto internazionale, in Annali della facoltà giuridica di Camerino, 1954, 1-76; Diritto internazionale e personalità giuridica, Torino 1971, estr. dal Novissimo Digesto Italiano, vol. XVIII, voce Stati e altri enti, 23, 46 ss.; cfr. G. KOJANEC, voce Stato (dir. Internaz.), in Enciclopedia del diritto, XLIII, 1990, 788. Sulla rilevanza di tale dottrina nell’ottica della storia del diritto internazionale vedi L. BUSSI, The Growth of International Law and the Mediation of the Republic of Venice in the Peace of Westphalia, in Parliaments, Estates and Representation, 1999.

 

[58] La vediamo – congiunta con l’arbitrato – in uso già nelle relazioni fra le poleis dell’antica Grecia, ove veniva presentata come un mezzo usato per la soluzione delle controversie fra Dei o fra Eroi Talvolta la potenza mediatrice garantiva il rispetto del trattato con una forza di pace. Vedi V. BÉRARD, De arbitris inter liberas Graecorum Civitates, Lutetiae Parisiorum 1894; C. PHILLIPSON, The international Law and Custom of Ancient Geece and Rome, London 1911; A. RAEDER, L’arbitrage international chez les Hellènes, Christiania 1912; M.N. TOD, International Arbitration among the Greeks, Oxford 1913; M. DE TAUBE, Les Origines de l’arbitrage international. Antiquité et Moyen Age, in Recueil des Cours, 1932, IV, 18; L. PICCIRILLI, Gli arbitrati interstatali greci, I, Dalle origini al 338 a.C., Pisa 1973; F. ADCOCK - D.J. MOSLEY, Diplomacy in Ancient Greece, London 1975, 186; V. ILARI, Guerra e diritto nel mondo antico, I, Guerra e diritto nel mondo greco-ellenistico fino al III secolo, Milano 1980, 39.

 

[59] L’ipotesi fu a suo tempo avanzata da M. DE TAUBE, Les Origines de l’arbitrage international. Antiquité et Moyen Age in Recueil des Cours de l’Académie de droit international, 1932, IV, (42), 18, sulla scorta del M.N. TOD, International Arbitration among the Greeks, Oxford 1913, 171.

 

[60] Come il conflitto fra Serse e Ariamene, figli di Dario, appianato, secondo la narrazione di ERODOTO, VII, 10-11, dallo zio Artaferne. Sul punto cfr. C. PHILLIPSON, The international Law and Custom of Ancient Geece and Rome, London 1911, vol. II, 168.

 

[61] Così, per esempio, nel caso riferito dalla Genesi, spesso citato in proposito. Giacobbe, in controversia con Labano, propone: Pone hoc coram fratribus meis et fratribus tuis et judicent inter nos (Genesi, XXXI, 37). Non è certo che Labano e Giacobbe seguissero la stessa religione, mentre sembrano intendersi su alcune norme minimali di convivenza; sul punto cfr. C. PHILLIPSON, op. cit., 128. Sul rapporto fra etica e istituzioni altotestamentarie vedi W. PREISER, Vergeltung und Sühne im altisraelitischen Strafrecht, in Festschrift für Eberhard Schmidt zum 70. Geburstag, Göttingen 1961.

 

[62] Si rinvia ad una monografia in stato di avanzata preparazione l’indagine di questi aspetti della tematica in oggetto. Interessanti esempi in M.R. CIMMA, Reges socii et amici populi romani, Milano 1976, 336. Vedi pure E. TAÜBLER, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des Römischen Reichs. I: Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Lipsia 1913; A. HEUSS, Die völkerrechtliche Grundlagen  der römischen  Aussenpolitik in Republikanischer Zeit, (Leipzig 1933), 2nd ed., Aalen 1968.

 

[63] A partire da S. Paolo (Ebrei, 9,15; I Timoteo II, 5) al concetto di mediazione soprannaturale si richiama sempre più spesso il pensiero cristiano. Così ad esempio l’Ambrosiaster, Commentaria in Epistolam ad Timotheum Primam, in MIGNE, P.L., vol. 17, col. 466: Unus enim Deus, et unus mediator Dei et hominum homo Christus Jesus. Dei et Christi unam significat esse voluntatem in salvandis hominibus, unde Deum Patrem, quia ab ipso est omnis auctoritas, unum esse fatetur, et unum mediatorem Dei et hominum Christum Jesum. Missus enim 293 a Patre factus arbiter reconciliavit Deum et homines, reformando eos ad agnitionem ejus; ID., Commentaria in Epistolam ad Romanos, in P. L., vol. 17, col. 89: Manifestum est per Christum nos aditum habere ad gratiam Dei; ipse enim est arbiter Dei et hominum, qui nos doctrina sua erigens, sperare fecit donum gratiae Dei, stantes in fide ejus. Sant’Agostino, dal canto suo, si chiede: chi è l’arbitro? Arbitro è il medius ad componendas causas; e forse che gli uomini non erano nemici di Dio e non avevano nei suoi confronti una cattiva causa? E chi era stato in grado di portare a termine questa causa se non quel medius arbiter del quale l’apostolo aveva detto unus enim Deus et mediator Dei et hominum, homo Christus Jesus? Si era trattato, ricorda Sant’Agostino, della risposta all’invocazione di Giobbe (Giobbe IX, 33): «... né c’è tra noi un arbitro che ponga la sua mano su noi due!». Vedi Augustinus Hipponiensis, Enarrationes in Psalmos, in P. L., vol. 37, col. 1383: Quid est arbiter? Medius ad componendam causam. Nonne inimici eramus Dei, et malam causam habebamus adversus Deum? Quis finiret causam istam malam, nisi ille medius arbiter, qui nisi veniret, misericordiae perierat iter? De quo Apostolus dicit, Unus enim Deus et mediator Dei et hominum, homo Christus Jesus.

 

[64] Questa funzione di supremo garante della pace viene sempre rivendicata dal Pontefice come intrinseca allo stesso mandato di Vicario di Cristo, grazie al quale pacificantur caelestia cum terrestribus et terrestria cum caelestibus. Cfr. c. 13, X, 2, 1: «Numquid non poterimus de juramenti religione cognoscere quod ad judicium ecclesiae non est dubium pertinere ut rupta pacis foedera reformentur?». L’idea viene avanzata al Concilio di Parigi del 825, vedi M.G.H., Concilia, II, 2, 549, e richiamata successivamente a più riprese. Vedi la dichiarazione di Callisto II al Concilio di Reims nel 1119 in MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 1776, XXI, 240.

 

[65] Ennodius ticinensis, Vita B. Epiphanii, in P. L., vol. 63, col. 220.

 

[66] Vedi S. GREGORII papae operae, I, reg., l.II, ep. LXX, in MIGNE, P.L., CXLVIII, col. 421.

 

[67] Per il Bellini, il recupero del mundus hic rispetto alle primitive posizioni rigoristiche (un recupero risalente al mondo neolatino e alle posizioni di Gelasio e Giona d’Orleans), presentando l’intera Cristianità come una organica compagine sociale, tenuta insieme dall’unità della fede non poteva che guardare con occhio di sfavore a tutti i fenomeni capaci di creare degli stati di tensione. Vedi P. BELLINI, Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica dell’Europa preumanistica, Firenze 1985, 123.

 

[68] Teodorico utilizza ripetutamente lo strumento della mediazione, come nella lettera al re visigoto al quale chiede di astenersi da azioni belliche sintanto che non venga inviata da Teodorico stesso una ambasceria al re franco ed espletato così un tentativo di stabilire la pace. Assai interessante, da questo punto di vista, è quanto possiamo desumere da Idazio. Il quale ci dice come: «Per augustum Avitum Fronto comes legatus mittitur ad suevos. Similiter et a rege Gothorum Theoderico, quia fidus Romano esset imperio, legati ad eosdem mittuntur ut tam secum quam cum Romano imperio, quia uno essent paris foedere copulati, iurati foederis promissa servarent» (IDATII LEMICENSIS, Continuatio ad Cronica sancti Hieronimi, Romae 1615, 170). Nella epistola Uniformis inviata ai re degli Eruli, dei Turingi e dei Guarni la proposta di una mediazione per la soluzione dei conflitti in atto prefigura, addirittura, l’ipotesi di un intervento collettivo contro il renitente: «Et ideo vos ... legatos vestros una cum  meis et fratris nostri Gundibadi regis ad Francorum regem Luduin destinate, ut aut se de Wisigotorum conflicto considerata aequitate suspendat et leges gentium quaerat aut omnium patiatur incursum qui tantorum arbitrium iudicat esse timendum» (Ep. Uniformis, in M.G.H., Cassiodori Variae, III, 3, 79). Nell’arbitrato del settimo secolo fra Clotario II re di Neustria e suo figlio Dagoberto sono i domestici, gli amici, i proceres, ad esercitare la funzione conciliativa. Nel 625, Dagoberto, che aveva già ricevuto dal padre il governo del regno di Austrasia, chiede anche le città e le provincie che ne erano state staccate, avendo Clotario trattenuto la foresta delle Ardenne, le montagne dei Vosgi, l’Auvergne, il Poitou e la Touraine. Nella grave controversia che sorse fra i due: «Electis ab his duobus Regibus duodecim Francorum proceribus, ut eorum disceptatione haec finiretur intentio: inter quos et dominus Arnulfus, Pontifex Mettensis, cum reliquis Episcopis eligitur, qui benignissime, ut sua erat sanctitas, inter Patrem et Filium pro pacis loquebatur concordia. Tandem a Pontificibus, vel sapientissimis viris proceribus, Pater pacificatur cum Filio, reddensque ei solidatum, quod adspexerat ad regnum Austrasiorum, hoc tantum exinde, quod circa Ligerem vel in Provinciae partibus situm erat, suae ditioni retinuit» (FREDEGARII, Chronicon, in M.G.H., SS. RR. Merovingicarum, II, cap. 53).

 

[69] P. BELLINI, Il gladio bellico. Il tema della guerra nella riflessione canonistica dell’età classica, Torino 1989, 53.

 

[70] P. BELLINI, Il gladio, cit., 57, 78, 95. Il Bellini utilizza schemi logici derivati dalla teoria generale dello Stato di stampo marcatamente Kelseniano, e parla di due pubblici apparati, disposti in forme gerarchiche piramidali, di un regime binario edificato su due distinte norme-base, le quali tuttavia avrebbero soggiaciuto ad un rapporto di comune dipendenza da una fonte soprastante, da un vertice comune, dato dalla presupposizione di un Essere Supremo all'apice formale del sistema. Donde la costruzione della respublica Christiana come realmente governata dalla legge di Dio verus, summus imperator, fons universalis auctoritatis, secondo un sistema nel quale i momenti giuridici sarebbero stati nettamente secondari, o strumentali, rispetto ai momenti etici, pur dando luogo questa connessione funzionale tra etica e diritto non solo ad una eticizzazione del diritto, ma anche ad una giuridicizzazione dell’etica. L’operatività delle componenti intersoggettive dell’ordinamento trascendente non restringeva il proprio valore vincolante nei confronti dei semplici subiecti legum, ma valeva nei confronti degli stessi detentori del potere politico. L’ordinamento giuridico divino, quindi, non solo si atteggiava ad ordinamento giuridico a sè stante, ma pretendeva una superiorità assoluta nei confronti di qualunque autorità terrena in una autoqualificazione dogmatica non contraddetta dagli ordinamenti giuridici terreni. Vedi P. BELLINI, Respublica sub Deo, cit., 18, 84.

 

[71] H. GROTIUS, De jure belli ac pacis, cit., III, XX, § XLVI, ed. cit., 843.

 

[72] M. DE TAUBE, op. cit., 80; l’a. pubblica in appendice la dichiarazione con la quale il re Magnus (3 luglio 1285) accetta l’incarico (ivi, 109).

 

[73] Liv-, est- und kurländisches Urkundenbuch, ed. F.G. von Bunge, Aalen (Scientia-Verlag) 1967, I, n° 499.

 

[74] «Simulat se a Salomone, viro sororis  suae, rege Ungariorum, in Ungariam evocatum, ut lites, quae inter ipsum erant et Ioiadam qui eum regno expulerat, abito utrisque familiari colloquio componeret». Lamperti Monachi Hersfeldensis, Annales Weissenburgenses, (ed. O. Holder-Egger) Hannoverae et Lipsiae 1956, in M.G.H., Scriptores, 3, 230. ed. Holder-Hegger, in SS. RR. GG. in usum scholarium ex M.G.H. recusi, 1878, 3.

 

[75] Si sa di una mediazione operata da Enrico III fra Vratislao di Boemia e Casimiro I di Polonia. Vedi R. MORGHEN, v. Enrico III imperatore detto il Nero, in Enciclopedia italiana, XIV (1932), 16.

 

[76] Wipo Sacellanus Tetralogus, ed. H. Bresslau, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum ex Monumentis Germaniae Historicis separatim editi [41], Hannover 1915, 70.

 

[77] Wipo Sacellanus Tetralogus, cit., 81; in tema cfr. H. DICKERHOF, Wandlungen im Rechtsdenken der Salierzeit am Beispiel der lex naturalis und des jus gentium, in Die Salier und das Reich. Gesellschaftlicher und ideengeschichtlicher Wandel im Reich der Salier, hrg. S. Weinfurter-H. Seibert., III, 447 ss.

 

[78] RICHERI, Historiarum libri quatuor, II, 29, ed. G.H. Pertz, in M.G.H., SS, III, 593; cfr. Flodoardi Annales, in M.G.H., SS., III, 390: Flodoardo chiama mediatores il duca Ottone di Lorena, e Adalberone vescovo di Metz, che insieme a Ugo V, duca dei Franchi si interpongono per riconciliare Luigi IV e i Robertini.

 

[79] RICHERI, Historiarum libri quatuor, cit., II, 97, 609: «Ubi cum in rege conaretur, intervenientibus episcopis Widone Autisidorense, et Ansegiso Trecasino, iureiurando utrimque accepto sub pace sequestra usque in pascha ratio eorum dilata est.  Quae omnia Iulio mense gesta sunt.Quo etiam tempore, sinodus Romae habita est in Basilica sancti petri apostoli, presidente domno Agapito papa. in qua etiam ipse domnum papa, concilium anteriore anno apud Angleheim habitum, coram episcopis italiae roboravit, et ab eis roborari constitutit. Hugonem quoque, galliarum ducem, in supradicta sinodo dampnatum, ipse etiam condempnat, donec regi suo satisfaciat, aut Romam veniat inde ratiocinaturus. Moxque anathema descriptum est et a sinodo roboratum, episcopis Galliarum destinatur. Episcopi itaque galliarum anathemate moti, apud ducem colliguntur, etinde gravissime conqueruntur. Ex decretis patrum, sacrisque canonibus duci demonstrantes, neminem stare pertinaciter adversus dominum suum debere, nec temere in eum quicquam moliri. Illud etiam promptissime monstrant, secundum apostolum regem honorificandum, et non solum regem verum omnem potestatem maiorem subiectis dominari debere asserunt. Preter haec quoque perniciosissimum esse, apostolicum anathema pertinaciter vilipendere, cum id sit gladius quipenetrat corpus usque ad animam, et sic mortificatos a regno beatorum spirituum repellat. Sibi etiam periculo esse memorant, id quos animabus periculum ingerit, neglegentes non innotescant. Talibus dux persuasus, regi humiliter reconciliari deposcit, eique satisfacturum sese pollicetur. Huius concordiae et pacis ordinatores fuere Chonradus dux, et Hugo cognomento Niger, Adalbero quoque atque Fulberto episcopi. Et die constituta rex et dux conveniunt. Ac secus fluvium Matronam conlocuti, principibus praedictis internuntiis, in summam concordiam benignissime redierunt. Et quanto vehementius ante in sese grassati fuere, tanto amplius exinde amicitia se coluere. Hugo itaque dux per manus et sacramentum regis efficitur, ac turrim Laudunicam suis evacuatam, regi reddit, multam abinde fidem se servaturum pollicens».

 

[80] Vedi F. CHALANDON, Jean II Comnène et Manuel Comnène, Paris 1912, 459; T. MAYER, K. HEILIG, C. ERDMANN, Kaisertum und Herzogsgewalt im Zeitalter Friedrichs I. Studien zur Politischen- und Verfassungsgeschichte des hohen Mittelalters, in M.G.H., Schriften, 9, Stuttgart 1944, 99.

 

[81] M. G. H., Constitutiones et Acta Publica, I, 220 ss.

 

[82] Così anche H. Kamp, op. cit., 692.

 

[83] Thietmari Chronicon, VII, 48, in M.G.H., SS., III, 857: «Inperator autem Kalendis Octobris Mersburg venit … Ibi tunc Bolizlavi nuncius Liudulfum iuvenem diu captivum remitti promisit, suosque milites apud nos firma detentos custodia pro eius liberatione relaxari peciit; et si aliquem imperatori nuncium de acquirenda eiusdem gratia mittere licuisset, diligenter inquirit. Assiduo principum suimet interventu cesar hiis omnibus assensum prebuit, et tunc primo conperit, Ruszorum regem, ut sibi per internuncium promisit suum, Bolizlavum peciisse, nilque ibi ad urbem possessam proficisse. Huius regnum prefatus dux postea cum exercitu invadens, generum suimet et fratrem eius diu expulsum inthronizavit et hilaris rediit».

 

[84] M.G.H., Const., III, n.72, 59; HUBER, Oesterreichische Reichsgeschichte, cit., 20 e ss. In proposito, i Libri feudorum ritennero – e la dottrina ribadì – che alcuni feudi (marchiae, ducatus vel comitatus: vel ulterius regalis dignitatis) non fossero ereditabili nisi iterum ab imperatore investiatur ... licet hoc hodie sit usurpatum; vedi LL. FF., II, LI, glossa succedit; cfr. HOSTIENSIS, Summa, III, De feudis, n. 8.

 

[85] FERRETO VICENTINO, Historia, cit., 1057: «Nam apud illum manens Hainricum Tirolis  Comes et Carinthiae dux cum nobilibus Bohemiae, eo quod ab illis e Regno suo se violenter expulsum querebatur, controversiam studiosus agebat, poscebatque ab Augusto, quatenus se debitam restauraret ad sedem. Ex adverso autem reponebatur, Hainricum Regis titulum posuisse cum Regno; nam licet idem Othocari Primogenitam legitime duxerit, defunctum quippe marito Regni decus abstulisse, idque deberi germanae superstiti jure professi sunt. Haec causa Peritorum facundia saepe et multum coram Augusto ventilata - nequaquam enim de regno paupere certabatur - dubiis legum pendebat iudiciis. Nam rite primogenitam fuisse reginam, et ab ea coniugem regem, vix dubium emergebat. Unde caesar rem tantam sobrie discutiendam protrahere ratus est, donec eadem limpide juris modo relapsa apud viros graves patebit, aut Procerum interventu bonorum lege pactionis terminabitur».

 

[86] Su cui vedi E. BUSSI, Evoluzione, cit., 145.

 

[87] Il quale propone di maritare la più giovane sorella di Venceslao con il figlio dell’Imperatore, Giovanni. Vedi BÖHMER, Acta Imperii, cit., n. 622, 434.

 

[88] FERRETO VICENTINO, Historia, cit., 1057: «At non ideo confestim Caesar fato prolapsus annuit; sed sobrie peragenda quaeque discutiens, Tirolis comitem accersiti jussit, utque ille rem arduam modeste ferat, hortatur velitque super ea bonorum arbitrio virorum amice decidi».

 

[89] FERRETO VICENTINO, Historia, cit., 1057. Nel 1321, infatti, Giovanni di Boemia dà al re romano Luigi di Baviera pieni poteri per trattare il matrimonio di sua sorella Maria con il duca Enrico di Carinzia e di suo figlio Venceslao con la figlia di Enrico, aggiungendo l’impegno a versare una sostanziosa somma di denaro. Presto, però, essendosi profilata per Maria la possibilità assai più ambiziosa di andare sposa al re di Francia, mutano i termini della trattativa. Nel 1324 vengono nominati il cavaliere Arnaldo di Pittingen e Bernardo von Chinburg quali ambasciatori e plenipotenziari per concludere un accordo matrimoniale fra il duca Enrico di Carinzia con Beatrice del Lussenburgo, e fra uno dei figli maschi di Giovanni e una figlia femmina di Enrico, quale lui voglia. Cenni della vicenda in L. BUSSI, La successione femminile nei feudi imperiali. Il caso di Margherita Maultasch, in Orientamenti civilistici e canonistici sulla condizione della donna, Napoli 1996, 83.

 

[90] Vedi M. GOLDAST, Commentarii de regni Bohemiae, incorporatumque provinciarum Juribus ac privilegiis, Francoforte 1719, 667-670.

 

[91] Quale reale efficacia giuridica vada riconosciuta alle Landfrieden è problema che ha interessato la storiografia recente che ne ha rilevato l’evidente connessione con il fenomeno della faida: il Kaufmann ritiene che esse volessero frenare la tendenza a ritenere responsabili - delle azioni criminose di un individuo - le famiglie o i loro signori. Vedi E. Kaufmann, Landfrieden I (Landfriedensgesetzgebung), in HRG, 2, 1451 ss. Cfr. W. SELLERT, Friedensprogramme und Friedenswahrung im Mittelalter, in Wege europäischer Rechtsgeschichte, ed. G. Köbler, Frankfurt 1987, 464.

 

[92] Sul processo attraverso il quale il re verrebbe costretto a giurare si rector iustus futurus esset, e a considerare di tutti l’offesa fatta a uno solo, talchè si passerebbe dal diritto di resistenza individuale al diritto di resistenza del ceto vedi T. Reuter, op. cit., 316.

 

[93] Si pensi alla costituzione di Federico I relativa alla pace dell’Impero, recepita nei Libri Feudorum e di qui nel Volumen: «Haec edictali lege in perpetuo valitura iubemus, ut omnes nostro subiecti imperio veram et perpetuam pacem inter se observent: et ut inviolatam inter omnes in perpetuo observent duces marchiones, comites, capitanei valvasores et omnium locorum rectores cum onmibus locorum primatibus et plebeis». LL.FF, II, 53, ed Lugduni 1558, 102.

 

[94] Il giuramento – pubblicato dal De Manteyer - contiene fra l’altro l’impegno a non punire mercanti e villani propter werram suis seniores nisi eorum culpa propria fuit, a non procedere a incendi e distruzioni di mansi e coltivazioni, né dare asilo a latrones publicos: «Et illum hominem qui istam pacem fregerit ad meum conductum venerit vel fuerit: per quantas vices istam pacem infregerit per tantas vices ei emendare faciam». Vedi G. De Manteyer, Les origines de la Maison de Savoie en Bourgogne (910-1060), Grenoble 1904, 91 e ss.

 

[95] L’osservazione è di H. Vollrath, op. cit., 610, cui si rinvia anche per la letteratura sul testo del giuramento, conservato in Bibl. Vat., Reg. lat., 566, fol. 38.

 

[96] Alpertus Mettensis, De diversitate temporum, II, 7 s, ed. D.G. Waitz, in M.G.H., SS., IV, 712. Alle azioni ostili di Balderico, Wicmann non risponde subito con le armi «Nam publice armis rem incidere metus imperatoris prohibebat; unde ab animi virtute consilium et rationem querendam esse statuit». Egli decide pertanto di avvalersi dell’interposizione del Vescovo: «Episcopus videns adcrescere dissensiones et in dies lites augeri, metuens ne demeritate eorum plebs laberetur et sperans controversias sua auctoritate minui posse, diem colloquio constituit eosque ad hanc venire fecit». In tale circostanza il Vescovo si serve della minaccia di intervento dell’Imperatore come di un argomento suscettibile di indurre all’accordo i dissenzienti.

 

[97] Alpertus Mettensis, De diversitate temporum, cit., II 4, 711.

 

[98] Reuter, op. cit., 309. Thietmari, Chronicon, VI, 56,58, in M.G.H., SS., III, 834.

 

[99] «Facta tunc inter eosdem mutua pace, post pascha ponuntur induciae. Huc nostri eorumdemque amici conveniunt et ego cum illis affui». Thietmari, Chronicon, loc. cit.

 

[100] Le trattative furono condotte, in nome del duca d’Austria, dal vescovo Paolo di Gurk e dal conte Federico di Cilli. Incaricati del Papa furono l’arcivescovo Ortolf di Salisburgo, vescovo Paolo di Gurk e l’abate Giovanni di St. Lambrecht. Cfr. G. HÖDEL, Habsburg und Österreich 1273-1493. Gestalten und Gestalt des österreichischen Spätmittelalters, Wien-Köln-Graz 1990, 92.

 

[101] Wipo Sacellanus, Gesta Chuonradi II imperatoris, ed. H. Bresslau, in M.G.H., Scriptores, cit., 10.

 

[102] Lamperti Monachi Hersfeldensis, Annales, cit., ad a. 1071, 119-120: «Plurimum eo tempore rex consiliis utebatur Eberhardi comitis, sapientis admodum viri. Is ... abiit ad ducem Ottonem eumque per Deum obtestari cepit, ne se suosque in tantum discrimen precipitaret; necdum ei omnem spem veniae, omnem respirandi facultatem ereptam esse. Si de monte, quem occupaverat, exercitum abduceret seque regi iustis conditionibus dederet, sub iuramento se ei promittere, quod et veniam culpae, cuius insimulatus fuerat, et omnium quae iure belli amiserat restitutionem ei a rege impetraret. Annuente eo rem ad regem detulit, et eum haud difficulter in sententiam abduxit».

 

[103] Lamperti Monachi Hersfeldensis, Annales, cit., 228-235.

 

[104] H. Kamp, Vermittler in den Konflikten des hohen Mittelalters, in La giustizia nell’Alto Medioevo (secoli IX-XI), Spoleto (Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo) 1997, 237.

 

[105] Kamp, op. cit., 678.

 

[106] WidukindUS CORBEIENSIS, Res gestae saxonicae, ed. C. Waitz, III, 13-15, M.G.H., SS. RR. GG., III, 453: «Nam confortatus amicorum gentisque peopriae praesentia, irritum fecit pactum, quod coactus inire confessus est; edictumque est filio generoque auctores sceleris puniendos tradere, aut certe se hostes publicos nosse. Pactis pristinis pontifex intercessit tamquam paci et concordiae consulturus; ob id regi fit suspectus, amicis regalibus consiliariisque omnimodis spernendus». In tema vedi G. Althoff, Colloquium familiare - Colloquium secretum - Colloquium publicum, Beratung in politischen Leben des früheren Mittelalters, in Frühmittelalterliche Studien, 25, 1991, 259-282, 160 e ss.

 

[107] Lamperti Monachi Hersfeldensis, Annales, cit., 228-235.

 

[108] L. A. Muratori, Antiquitates talicae Medii Aevi, Mediolani 1738-1742, IV, col. 275 ss. Quando l’Imperatore fu costretto a ritirarsi dall’assedio di Alessandria, si sperò in una soluzione pacifica della controversia e fu fatta la proposta di rimetterla a sei arbitri. Negoziarono, per l’Imperatore, l’arcivescovo di Magonza, l’elettore di Colonia, Corrado, fratello dell’imperatore ed Enrico il Guercio marchese di Savona; mentre rappresentavano i Lombardi Ezzelino il Balbo e Anselmo di Doara.

 

[109] F. Sclopis, Storia della legislazione del Piemonte, Torino, 1863-1864, 270. Le parti si impegnano ad osservare: «Quod vel quae predictus dominus comes eis et super praedictis quaestionibus fecerit, dixerit, statuerit et pronunziaverit per se vel per alium in scriptis vel sine scriptis, semel vel pluries, iure vel concordia». Il compromesso, conservato nell’Archivio del Comune di Rorata, è pubblicato anche da Rivalta, op. cit., 414.

 

[110] E. Usteri, Westschweiz Schiedsurkunden bis zum Jahre 1300, Zürich 1955, n. 70, 111.

 

[111] Bader, Arbiter, cit., 239.

 

[112] E. Usteri, op. cit., n. 256, 440.

 

[113] J. Dumont, Corps Universel Diplomatique du droit des gens, Amsterdam 1726, 1, 2, 151.

 

[114] Molti esempi di arbitrato offrono anche i rapporti fra l’Ordine Teutonico e la Prussia, Vedi DE TAUBE, Les origines, cit., 83.

 

[115] E. Bussi, Il diritto pubblico, II, 188. Pütter, Literatur, III, 445 ss., Id. Elemente, § 449, 501; Schmauss, Academische Reden, 413.

 

[116] Così V. ARANGIO-RUIZ, op. cit., 384.

 

[117] Su tale concetto la scienza internazionalistica è tornata ripetutamente. Vedi A. MIGLIAZZA, Il fenomeno della organizzazione e la Comunità internazionale, Milano 1958, 129. M. GIULIANO, La comunità internazionale e il diritto, Padova 1950, 221 ss.

 

[118] Vedine il testo in PARRY The consolidated treaty series, London 1980, vol. 205, 233 ss.

 

[119] DESPAGNET, Cours, 765. Fu significativo che nella Convenzione dell’Aja per il regolamento pacifico delle controversie del 18 ottobre 1907 si stabilisse (art. 3) che gli Stati estranei ad una controversia avevano il diritto di offrire i propri buoni uffici o la loro mediazione che tale diritto sussisteva anche nel corso delle ostilità e che l’esercizio di questo diritto non doveva essere riguardato come un atto ostile. La convenzione stabiliva anche che prima di far ricorso alle armi si dovesse attivare una mediazione (art. 2); che il ruolo del mediatore dovesse esser volto «... à concilier les prétensions opposèes et à appaiser les ressentements qui peuvent s'être produit entre les Etats en conflit»(art. 4); che buoni uffici e mediazione hanno esclusivamente il carattere di un consiglio, senza valore vincolante; che l’accettazione di una mediazione non comportava di per sè l’interruzione delle operazioni militari, quando la guerra fosse esplosa prima della accettazione della mediazione stessa, a meno di un apposito accordo in tal senso (art. 7); che la mediazione era raccomandata «en tant que le circonstance le permettront» (art. 8). Vedi G. H. HACKWORTH, Digest of Internazional Law, Washington 1940-1944, VI, 3. Alcune delle precisazioni, ritenute necessarie al momento, si legavano al non definito ruolo dei neutrali, il cui problema era emerso con ogni evidenza nel caso “Alabama”. Su tale problema, diffusamente, MANNONI, op. cit., 204.

 

[120] DELBEZ, L’evolution des idée en matière de règlement pacifique des conflits, in RGDIP, LV (1951), 6.

 

[121] K.VON SCHUSCHNIGG, International Law: an introduction to the Law of Peace, Milwakee 1959, 286.

 

[122] Il caso viene citato come un’occasione nella quale una probabile guerra fu evitata grazie alla mediazione della Francia, che convinse Gran Bretagna e Russia circa la nomina, in conformità agli articoli 9-14 della Convenzione dell’Aja del 1899, di una Commissione internazionale d’inchiesta, con il compito «… of elucidating by means of an impartial and conscientious investigation the question of fact connected with the incident which occurred during the night of 21st-22nd(8th-9th) October 1804 in the North Sea (on which occasion the firing of the guns of the Russian fleet caused the loss of a boat and the death of two persons belonging to a British fishing fleet … [art.1] The Commission shall inquire into a report on all circumstances relative to the North sea incident, and particularly on the question as to where the responsibility lies and the degree of blame attaching to the subjects of the two high contracting Parties … [art.2])». Vedi R. De La Penha, La commission internationale d’enquête sur l’incident anglo-russe de la mer du Nord, Paris 1906, in RGDIP, 12 (1905), 161 e 351.

 

[123] Art. 6 della Convenzione di conciliazione fra Cile e Svezia del 26 marzo 1920. Vedi League of Nations Treaty Series, n. 111.

 

[124] Vedi art. III del Trattato per lo stabilimento di una commissione di conciliazione fra Gran Bretagna e Cile del 28 marzo 1919, in British and Foreign State Papers, CXII, 717, 718.

 

[125] Vedi L. CAVARÉ, Le droit international public positif, II, Paris 1962, 188 ss.

 

[126] Vedi C. DE VISCHER, La paix de Locarno au point de vue du droit international, Bruxelles 1925.

 

[127] Vedi supra nota 11.

 

[128] DE LA BARRA, La médiation et la conciliation internationale, in Recueil des Cours, 1923.

 

[129] EFREMOFF, La conciliation internationale, in Recueil, 1927 (III) e 1937 (I). Efremoff fu anche autore di diversi studi in tema di mediazione fra cui: La mediation et la conciliation internationales, in Conciliation internazionale, 1925, n. 4, e L’organisation de la mediation, in Revue de droit international et de legislation comparée, 1925.

 

[130] L’art. 1 della Carta  delle Nazioni Unite stabilisce che «I fini delle Nazioni Unite sono mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Come è comprensibile, sull’argomento si sviluppò subito una nutrita letteratura. Per tutti: A. SALOMON, Le Conseil de Sécurité et le règlement pacifique des différends: (le chapitre VI de la charte des Nations Unies), Paris 1948; MEITANI, Le règlement pacifique des conflits internationaux selon la charte, in Revue française de droit des gens, 1947; C. Chaumont, La sécurité des états et la sécurité du monde, Paris 1948; R.M. Price, The United Nations and global security, New York 2004; F.O. Hampson, Can the UN still mediate?, in The United Nations and global security, 2004; J. Bercovitch, The United Nations and the mediation of international disputes, in Past imperfect, future Uncertain, 1998.

 

[131] A tale fine sono destinate le previsioni normative dei capp. VI e VII della Carta.

 

[132] Art. 33 della Carta.

 

[133] SIORAT, op. cit., 114, 115.

 

[134] Sul punto vedi OPPENHEIM, International Law, cit., 11; sulla tendenza ad attribuire alle organizzazioni internazionali non solo il compito di promuovere la stipulazione di convenzioni collettive, ma anche quella della sorveglianza della loro esecuzione vedi R. AGO, Considerazioni su alcuni sviluppi dell’organizzazione internazionale, in La Comunità internazionale, VII, 1952, 24 (dell’estr.).

 

[135] Alla conciliazione venne in effetti data la preferenza nella carta dell’OUA. Vedi J.P. DE YTURRIAGA, L’OUA et les Nations Unies, in RGDIP, 2 (1965), 376-377.

 

[136] H.F. KÖCK, Die Völkerrechtliche Stellung des Heiligen Stuhls, Berlin 1975, 459 ss.

 

[137] Vedi FISCHER- KÖCK, op. cit., 307.

 

[138] Si veda, in tal senso, W.E. HALL, A Treatise on International Law, Oxford 1924, 419, per il quale la mediazione sarebbe un istituto «ovviamente al di fuori del diritto». Cfr. anche P. HEILBORN, Das System des Völkerrecht entwickelt aus den völkerrechtlichen Begriffen, Berlin 1896, 404.

 

[139] Uno sguardo di insieme viene fornito da J.MEYNAUD - B.SCHROEDER, La médiation, tendances de la recherche et bibliographie (1945 - 1959), Amsterdam, 1961; SUCHARITKUL, Good Offices as a Peaceful Means of Settling Regional Differences in International Arbitration, in Liber Amicorum for Martin Domke, The Hague 1967.

 

[140] Così FERRAIOLI, La crisi della sovranità e il ruolo della filosofia politica, in Nuove frontiere del diritto, 153.

 

[141] G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino 1992, 11-12.

 

[142] Per citarne solo alcuni: G. PISAPIA – G. ANTONUCCI, La sfida della mediazione, Padova 1997; J.F. SIX, Le temps des médiateurs, Paris 1990; J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, Milano 2000; R.A. BARUCH BUSH - J.P. FOLGER, The promise of mediation, San Francisco 1994; G. COSI – M.A. FODDAI, Lo spazio della mediazione, in Diritto @ Storia, n. 2 - marzo 2003 = < http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/Foddai-Mediazione.htm >.