N. 4 – 2005 – Memorie

 

 

Francesco Sini

Università di Sassari

 

Bellum, fas, nefas: aspetti religiosi e giuridici della guerra (e della pace) in roma antica

 

 

Sommario: 1. Varrone, De ling. Lat. 5,86 e linee dell’esposizione. – 2. Quod fidei publicae inter populos praeerant: su alcuni pregiudizi moderni intorno al “diritto internazionale” romano. – 3. Bellum e nefas: concezioni romane della guerra (e della pace). – 4. Nefas e fas. – 5. Emersione della categoria bellum iustum. – 6. Modelli di “guerra giusta”. – 7. Iustus et legitimus hostis: i diritti del “nemico”. – 8. Ut foedere fides pacis constitueretur: nozione romana di pace. – 9. Pax deorum: ispirazione religiosa dell’Imperium populi Romani.

 

1. – Varrone, De ling. Lat. 5,86 e linee dell’esposizione

 

Il punto di partenza della riflessioni che qui propongo è costituito dal noto testo di Varrone, De lingua Latina 5,86:

 

Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum, et inde[1] desitum, ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, ante quam conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus Ennius scribit dictum[2].

 

In questo passo, il grande antiquario illustra l’etimologia della parola fetiales[3] con un riferimento funzionale alla prerogativa davvero significativa di questi sacerdoti: quod fidei publicae inter populos praeerant. Collegando strettamente l’etimologia alla funzioni dei sacerdoti feziali, Varrone[4] e gli altri grammatici antichi[5] stabilivano, dunque, un rapporto molto stretto tra fides, foedus e fetialis.

Dalla funzione «di presiedere alla fides publica»[6], Varrone fa derivare la competenza esclusiva dei feziali nella dichiarazione della guerra (ut iustum conciperetur bellum) e nella conclusione dei trattati di pace (ut foedere fides pacis constitueretur).

Per la verità nel passo appena citato, c’è un riferimento anche alla rerum repetitio: sottolineando cioè il ruolo, anch’esso esclusivo, dei feziali nella solenne procedura della richiesta di restituzione (qui res repeterent); questa procedura, da esperire obbligatoriamente prima della formale dichiarazione di guerra (ante quam conciperetur), anteponendo il tentativo di comporre una controversia inter populos all’immediato ricorso alla guerra, lascia intravedere, una volta di più, la profonda connotazione religiosa ed il carattere essenzialmente pacifico del “diritto internazionale” romano[7].

            La mia esposizione sarà articolata come segue: affronterò in primo luogo alcuni pregiudizi moderni intorno al “diritto internazionale” romano; saranno poi discusse le concezioni romane della guerra e della pace, dedicando particolare attenzione ai concetti di fas e nefas, ai modelli di “guerra giusta”, ai “diritti del nemico” ed infine alla nozione di pace.

 

2. – Quod fidei publicae inter populos praeerant: su alcuni pregiudizi moderni intorno al “diritto internazionale” romano

 

Come si è detto, legando l’etimologia di fetiales alla fides publica, Varrone interpreta la più autentica concezione romana (religiosa e giuridica) dei “rapporti internazionali”, che ha sempre collocato il rispetto della fides publica alla base delle relazioni inter populos[8]; concezione dominante tanto nella “teologia” sacerdotale, quanto nella riflessione dei giuristi romani.

In questa sede, al riguardo, sarà sufficiente citare un passo della famosa «disceptatio Sex. Caecilii iureconsulti et Favorini philosophi de legibus duodecim tabularum»[9], discussione quasi “stenografata” da Aulo Gellio nel ventesimo libro delle «Notti Attiche»:

 

            Noct. Att. 20,1,39-40: Omnibus quidem virtutum generibus exercendis colendisque populus Romanus e parva origine ad tantae amplitudinis instar emicuit, sed omnium maxime atque praecipue fidem coluit sanctamque habuit tam privatim quam publice. Sic consules, clarissimos viros, hostibus confirmandae fidei publicae causa dedidit.

 

Nel suo discorso in difesa dell’attualità della tradizione giuridica più antica – tale era appunto il caso delle XII Tavole –, il giurista Sesto Cecilio sembra instaurare uno stretto rapporto di causalità tra la «miracolosa ascesa» del Popolo romano nella sua storia secolare (e parva origine ad tantae amplitudinis instar emicuit) e la religiosa osservanza della fides (maxime atque praecipue fidem coluit sanctamque habuit tam privatim quam publice)[10]; che i Romani avevano sempre applicato con rigorosa determinazione, soprattutto nei “rapporti internazionali”, fino al punto estremo di consegnare ai nemici gli stessi consoli «confirmandae fidei publicae causa»[11].

Questa prospettiva, autenticamente romana, offre solidi argomenti per criticare convinzioni inveterate della dottrina romanistica contemporanea[12]: intendo riferirmi alle posizioni di quanti hanno teorizzato l’ostilità permanente fra i popoli e l’assenza di diritti per gli stranieri quali condizioni primordiali dei rapporti fra gli uomini[13]; da cui consegue la convinzione che, normalmente, gli antichi considerassero la guerra (e non la pace) come stato naturale delle relazioni “internazionali”, ogni qualvolta non esistesse comunità di etnia, ovvero non fosse intervenuta la stipulazione di un trattato[14].

            Non è certo possibile procedere, qui di seguito, ad un esame dettagliato della dottrina favorevole a tali tesi, che per lungo tempo sono state accolte quasi unanimemente nel campo degli studi romanistici, soprattutto in ragione della determinante influenza di Theodor Mommsen[15]. Sarebbe troppo lungo perfino il semplice elenco degli studiosi che hanno aderito a questa impostazione storiografica[16]; anche se non tutti consentirono con le estremizzazioni di Eugen Täubler, il quale non si limitò a propugnare la tesi dell’ostilità naturale nei rapporti “internazionali” dell’antichità[17], ma si spinse fino a teorizzare che la stessa origine dei trattati internazionali fosse da ricercare nel superamento della primitiva usanza di uccidere i nemici sconfitti[18]. Basterà ricordare come ancora oggi, pur tra precisazioni e cautele, una parte autorevole della dottrina romanistica continui a ritenere elementi caratteristici della più antica esperienza giuridica del Popolo romano proprio l’ostilità naturale e la carenza di protezione giuridica per lo straniero[19].

Le tesi del Mommsen e dei suoi numerosi seguaci, contestate sporadicamente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento[20], furono sottoposte a serrate critiche da parte di Alfred Heuss[21]. La critica alla tesi dell’ostilità naturale fu riproposta in Italia da Francesco De Martino nel 1954, con la pubblicazione della prima edizione del secondo volume della sua Storia della costituzione romana[22]. L’insigne studioso ha contestato in maniera radicale «l’opinione comunemente accettata sul carattere originario delle relazioni internazionali di Roma»[23]; posizioni ribadite ancora nel 1988, con coerenza e mirabile rigore argomentativo, nella relazione dedicata a L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero[24]. Infine, le conclusive ricerche sul sistema sovrannazionale romano di Pierangelo Catalano[25] (lo studioso che – per esplicito riconoscimento del De Martino – «ha dato i maggiori e più originali contributi al tema dei rapporti con gli stranieri»[26]) hanno dimostrato la virtuale universalità del sistema giuridico-religioso romano[27] e quanto questa «concezione universalistica del diritto» contrasti «con le teorie moderne e contemporanee secondo cui lo stato naturale (o ‘primitivo’) delle relazioni tra i popoli sarebbe la guerra»[28].

Come ha ben documentato Karl-Heinz Ziegler nella rassegna sul Völkerrecht der römischen Republik[29], le posizioni contrarie all’esclusivismo giuridico e all’ostilità naturale hanno guadagnato sempre nuovi consensi tra gli studiosi che si sono occupati di “diritto internazionale” dell’antichità. Per alcuni si è assistito perfino alla revisione di opinioni espresse in precedenza: è il caso di Paolo Frezza, il quale, introducendo forti limitazioni alle tesi mommseniane[30], ha ammesso l’esistenza di rapporti intertribali, seppure in un processo dialettico che vede il «momento “volontaristico” profondamente compenetrato col momento “naturalistico”»[31].

Nel filone delle tesi propugnate dal Heuss, si colloca la monografia che Werner Dahlheim ha dedicato allo studio della struttura e dell’evoluzione del diritto internazionale romano, in cui appare ben fermo il rifiuto della tesi dell’ostilità naturale[32]; anche se, invero, lo studioso tedesco non sembra cogliere a pieno il valore dello ius fetiale[33]. Nello stesso senso si è orientato anche Virgilio Ilari, analizzando la condizione giuridica dei socii nominisve Latini e degli Italici; lo studioso ritiene, inoltre, che superata «l’idea dell’inesistenza di rapporti internazionali in mancanza di una comunanza giuridica costituita da legami storici o da trattati perpetui», si siano poste le premesse «per una concezione c.d. “volontarista” dei rapporti tra Roma e l’Italia e della natura giuridica dell’alleanza italica»[34]. Infine, pur non trattando espressamente la questione nel suo lavoro dedicato all’analisi giuridica della tavola bronzea di Alcántara, anche Dieter Nörr mostra di seguire lo stesso orientamento laddove, a proposito del diritto internazionale di Roma, postula «die Existenz einer gemeinschaftlichen Normenordnung»[35].

 

3. – Bellum e nefas: concezioni romane della guerra (e della pace)

 

Analizzando le opere degli scrittori antichi, l’enorme distanza che separa le concezioni romane della guerra e della pace dalle moderne tesi dell’ostilità naturale emerge con grande chiarezza. Al riguardo, sarà sufficiente riproporre la testimonianza di Virgilio[36].

Dai versi del sommo poeta romano traspare la convinzione che la guerra, lungi dall’essere la condizione naturale delle relazioni umane, costituisca una violazione della religione e del diritto. Nell’epica virgiliana risulta evidente – ed insistentemente conclamata – la connotazione negativa della guerra[37].

Sul piano religioso la guerra per Virgilio appartiene alla sfera del nefas:

 

Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis;

me, bello e tanto digressum et caede recenti,

attrectare nefas, donec me flumine vivo

abluero[38];

 

il che giustifica in riferimento a bellum l’uso degli aggettivi nefandum e infandum[39] e spiega la ripugnanza del poeta ad utilizzare in riferimento a bellum aggettivi tipici del lessico religioso e giuridico, quali iustum, pium, felix; che, infatti, non compaiono mai negli impieghi virgiliani di bellum. Infine, quando Virgilio ci presenta la personificazione della guerra, abbiamo allora il Bellum mortiferum di Aen. 6,279, annoverato significativamente tra i più terribili mali che affliggono il genere umano[40].

La guerra è, dunque, una triste necessità cui si deve talora ricorrere, ma solo dopo aver fatto constatare agli Dèi, mediante rituali che si ripetevano immutati nel tempo, l’esistenza dell’ingiustizia e il rifiuto degli uomini a riparare.

In merito alle concezioni virgiliane della pace e della guerra, bisogna evidenziare la perfetta coincidenza di esse con l’elaborazione teologica e giuridica dei sacerdoti romani[41], come risulta dalle occorrenze dei termini relativi ad arcaici istituti della guerra e della pace, quali amicitia, hospitium, foedus.

Proprio nell’uso del termine foedus, «allorché, narrando la stipulazione di alleanze fra gruppi etnici differenti, non esita ad evocare per tutte il tipico rituale dei feziali e a indicare in Giove colui che foedera fulmine sancit»[42], Virgilio manifesta, una volta di più, la sua piena adesione alla terminologia ufficiale, ai concetti teologici ed alla giurisprudenza dei sacerdoti romani. Ed è proprio nei documenti sacerdotali – come ha mostrato autorevolmente Francesco De Martino – che si è conservato nella sostanziale integrità originaria «il pensiero antichissimo, la vocazione politico-religiosa di un popolo, il cui fine supremo è la pace e l’amicizia con lo straniero»[43].

 

4. – Nefas e fas

 

Per quanto riguarda il significato di nefas, è opinione prevalente fra gli studiosi che con tale termine gli antichi sacerdoti romani indicassero tutto quello «che non fosse possibile fare senza incorrere nella reazione della natura stessa e nell'ira degli dèi»[44]; da ciò consegue che il concetto di nefas rimanda a valori che l'odierna dommatica giuridica definisce imperativi – il nefas è inteso sempre in senso obbligatorio – connessi con le sfere del "vietato" e del "dovere"[45].

In merito alla derivazione della parola, i linguisti concordano nel ritenere nefas «sorti de l'expression ne fas est où il faut entendre ne- comme une négation de phrase et non comme préfixe»[46]. Oltre che nella lingua dei sacerdoti, l'uso di nefas nell'arcaica forma ne fas (est) si ritrova ancora negli antiquari di età tardo-repubblicana e imperiale, soprattutto in testi che fanno riferimento a realtà religiose e giuridiche antichissime[47].

Differenti opinioni coesistono nella dottrina romanistica riguardo al valore normativo del fas: vi è chi ne sostiene la connotazione puramente permissiva («sphère des activités permises aux hommes par les dieux»)[48]; chi invece individua nel fas un valenza, per così dire, obbligatoria[49]; altri, infine, ritengono che l'espressione fas est stia ad indicare «la liceità di determinati atti o comportamenti» connessi soprattutto con la sfera religiosa. Questa tesi è sostenuta con particolare convinzione dall'Orestano[50] (ma anche dal Noailles[51] e dal Latte[52]), secondo il quale, alla nozione di "liceità" non sarebbe estranea la nozione di "necessità", poiché determinati atti o comportamenti appaiono considerati non soltanto leciti (= conformi alla volontà degli dèi), ma addirittura necessari (= espressamente voluti dagli dèi): da ciò il valore incerto di fas, che oscilla – a suo avviso – tra «il permesso e il dovere».

Le diverse accezioni di fas evidenziano, comunque, l'insufficienza di concetti deontici quali "obbligatorio", "permesso", "vietato"[53] per la piena comprensione dello ius divinum: i concetti della moderna logica giuridica si presentano inadeguati e parziali a fronte dei molteplici contenuti che facevano capo al fas nel sistema giuridico-religioso romano[54]. Questa preoccupazione, peraltro, era stata già avvertita da P. Catalano nello studio del fas in rapporto ad atti e procedure dello ius augurium[55].

 

5. – Emersione della categoria bellum iustum

 

Nel latino del I secolo a.C., con la parola bellum si può intendere sia un conflitto armato tra hostes (definito da precise regole religiose e giuridiche)[56], sia il periodo di tempo necessario alla conclusione delle ostilità, in antitesi quindi al tempo di pace[57]. Mentre riguardo all’etimologia della parola[58], grammatici e antiquari agitavano opinioni contraddittorie e (dal nostro punto di vista) poco convincenti Questa osservazione può valere tanto per l’interpretazione bellum a beluis di Festo (e Verrio Flacco), attestata da Paolo Diacono[59]; quanto per il procedimento kata ¢nt…frasin, bellum a nulla re bella, del grammatico Servio[60].

Sul piano religioso, le formule solenni del più conservativo linguaggio sacerdotale[61] avevano continuato ad utilizzare l’originaria forma duellum[62], anche quando ormai da tempo era avvenuto il passaggio del du- iniziale a b-[63]; così, ad esempio, negli acta relativi ai Ludi saeculares di Augusto e a quelli celebrati da Settimio Severo[64] i termini guerra e pace risultano ancora espressi dai sacerdoti alla maniera arcaica con duellum e domus[65]. Peraltro, della forma linguistica duellum restava memoria anche in opere di eruditi e antiquari, ricercatori curiosi delle superstiti forme arcaiche della lingua latina[66].

La guerra fu sempre concepita dai Romani come rottura traumatica delle naturali relazioni pacifiche tra i popoli: «essa quindi – ha scritto Francesco De Martino – abbisognava di una giustificazione, doveva essere bellum iustum piumque, avere cioè una giusta causa»[67]. La consapevolezza che l’esercizio della guerra poneva il miles a contatto con qualcosa di “sacrilego” e che, in ogni caso, l’uso immoderato della violenza rischiava di provocare l’ira degli Dèi[68], spinse il Popolo romano, il quale significativamente considerava sé stesso il più religioso del genere umano (religione, id est cultu deorum, multo superiores)[69], a preoccuparsi fin da epoca risalente di attrarre anche la guerra nella sfera della fides e del fas[70].

Avvalendosi degli strumenti concettuali offerti dalla riflessione teologica e giuridica dei suoi sacerdotes, Roma aveva elaborato, certo già nella fase più antica della storia cittadina, una sorta di “codice diplomatico”, cioè un sistema di regole rese inviolabili dalla religione, da utilizzare nelle “relazioni internazionali” per preservare o ristabilire la fides publica inter populos; regole e procedure indispensabili ut iustum conciperetur bellum[71].

Formule e riti dello ius fetiale e dello ius pontificium furono perciò elaborati con la funzione precipua di liberare i cittadini-soldati dalla paura del sangue versato, di aiutarli con la religione a vincere l’antico terrore davanti al furor, segno di un possesso che priva l’uomo della sua libertà, di esimerli infine dal timore di impegnarsi in azioni sgradite agli Dèi[72].

Anche la scansione del tempo fu impostata seguendo quello che J. Bayet ha chiamato «le rythme sacral de la guerre»[73]. Sono da intendere in tal senso, infatti, le feste e le cerimonie religiose dei mesi di marzo e ottobre del calendario romano arcaico, legate all’inizio e alla fine delle attività guerriere, veri e propri «rites saisonniers de sacralisation et désacralisation militaires»[74]. Si spiegano, in tal modo, le ragioni dell’estrema cautela, religiosa e giuridica, che circondava l’esercizio della guerra da parte dei singoli cittadini, ai quali – ammoniva Catone – era consentito combattere solo in quanto milites[75].

L’esercizio della guerra in ragione dei suoi effetti devastanti di morte e contaminazione si collocava nella sfera del nefas. Per quanto nessun biasimo potesse addebitarsi al soldato che ha ucciso in battaglia (al contrario, il fatto era considerato dai Romani non solo utile alla comunità, ma addirittura onorevole); tuttavia, per la religione il miles veniva a trovarsi nella condizione di impiatus[76], con la conseguente necessità di purificazione.

Sulla base di queste motivazioni religiose, i soldati, reduci dalla battaglia, dovevano entrare in città portando rami d’alloro[77]; uguali motivazioni religiose stavano alla base della cerimonia dell’armilustrium[78], che si celebrava il 19 ottobre, come generale purificazione dell’esercito alla fine della stagione della guerra[79].

Le considerazioni fin qui esposte giustificano la casistica rigorosa con cui i sacerdotes Fetiales[80], e i teorici del diritto e della politica, determinavano quali generi di guerre si potessero intraprendere legittimamente: quali, cioè, avessero le caratteristiche del bellum iustum[81].

 

6. – Modelli di “guerra giusta”

 

Le testimonianze antiche, per quanto riguarda la definizione di bellum iustum, non sembrano uniformate a principi di astratta morale, attengono piuttosto, come nel testo già citato di Varrone[82], a valutazioni di conformità con la sfera religiosa e rituale dello ius fetiale. Ancora alla rerum repetitio si richiamava la definizione proposta da Isidoro di Siviglia[83], mentre il concetto di bellum iustum enunciato da Tito Livio[84], per quanto in riferimento ad ambiente non romano, appare significativamente fondato sulla necessitas, fonte di ius per i giuristi romani[85].

Del resto, una parte consistente della cultura greca e romana nel II e I secolo a.C. aveva contestato proprio il concetto di bellum iustum, teorizzando l’inconciliabilità di bellum e iustitia. Questa problematica si presentava connessa profondamente con la riflessione storico-giuridica sulla legittimità dell’egemonia “mondiale” dei Romani[86]; ma si inquadrava, al tempo stesso, nel dibattito sulle idee giusnaturalistiche della tradizione filosofica greca e romana[87]. Cicerone, nel famoso discorso di Furio Filo[88], improntato per sua stessa ammissione all’insegnamento di Carneade[89], ricorre all’esempio della guerra per dimostrare quantum ab iustitia recedat utilitas:

 

De re publ. 3,20: Cur enim per omnes populos diversa et varia iura sunt condita, nisi quod una quaeque gens id sibi sanxit, quod putavit rebus suis utile? Quantum autem ab iustitia recedat utilitas, populus ipse Romanus docet, qui per fetiales bella indicendo et legitime iniurias faciendo semperque aliena cupiendo atque rapiendo possessionem sibi totius orbis comparavit[90].

 

            Tra gli autori antichi, quello che ha manifestato maggiore interesse per la definizione della “guerra giusta” è stato senza dubbio Cicerone. Nell’impossibilità di procedere ad un puntuale esame dei riferimenti testuali[91], sarà sufficiente discutere due importanti passi, tratti dal De re publica, che descrivono alcune tipologie di bellum iustum, per quanto modellate in negativo, mediante la qualificazione della guerra ingiusta ed empia:

 

De re publ. 2,31: [Tullo Ostilio] cuius excellens in re militari gloria magnae que extiterunt res bellicae, fecitque idem et saepsit de manubis comitium et curiam, constituitque ius quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur[92].

 

De re publ. 3,35: Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta. Nam extra <quam> ulciscendi aut propulsandorum hostium causa bellum geri iustum nullum potest[93].

 

            Secondo Cicerone il bellum per poter essere considerato iustum abbisognava, dunque, di requisiti formali e sostanziali. I primi derivavano dalla esatta osservanza dei riti e delle procedure dello ius fetiale; il precetto attribuito al re Tullo Ostilio può volgersi in positivo: ut omne bellum denuntiatum indictum esset. I requisiti sostanziali dovevano consistere in motivazioni validamente determinabili: riconoscibili, quindi, come tali in maniera oggettiva sia di fronte agli Dèi, sia di fronte agli uomini. In ultima analisi, il principio illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta, mentre frena l’arbitrio e la cupidigia del Popolo romano, ne assicura al tempo stesso la legittimazione religiosa dell’imperium universale[94].

 

7. – Iustus et legitimus hostis: i diritti del “nemico”

 

Dal bellum iustum discendeva la condizione giuridica di iusti et legitimi hostes,

 

De off. 3,108: Regulus vero non debuit condiciones pactionesque bellicas et hostiles perturbare periurio; cum iusto enim et legitimo hoste res gerebatur, adversus quem et totum ius fetiale et multa sunt iura communia. Quod ni ita esset, numquam claros viros senatus vinctos hostibus dedidisset[95];

 

nei confronti dei quali – utilizzo la terminologia di Cicerone – i Romani consideravano vigente totum ius fetiale, nella consapevolezza che anche con i nemici multa sunt iura communia.

Da questa comunanza di diritto, consegue per Cicerone il dovere di «osservare la fides» nei confronti degli hostes, attenendosi cioè sempre ed in ogni circostanza al rispetto della parola data al nemico, come aveva mostrato l’irreprensibile comportamento del console Attilio Regolo, il quale durante la prima guerra punica, prigioniero dei Cartaginesi, ad supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere[96].

            Nel latino della tarda età repubblicana la parola hostis aveva acquisito ormai «le sens d’ennemi en général, de même que inimicus s’emploie pour hostilis»[97]; tuttavia, la cultura giuridica e la scienza antiquaria conservavano memoria del significato più antico. Il testo delle XII Tavole, anche nella forma linguistica in cui si leggeva nel I secolo a.C., con il termine hostis indicava genericamente lo “straniero”, come attesta un noto passo del De officiis ciceroniano[98]. Al più antico significato di hostis rimandano sia la formula del giuramento dei milites[99], sia la formula con cui il littore allontanava da alcune cerimonie religiose determinate categorie di persone (hostis, vinctus, mulier, virgo)[100]. Anche il grande Varrone, nel De lingua Latina, per esporre il caso delle molte parole che aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, citava come esempio proprio il termine hostis[101].

Nella sua accezione originaria, presente ancora nelle commedie di Plauto[102] e quindi desunta senza dubbio dall’uso linguistico corrente, hostis stava ad indicare lo straniero; più precisamente quello straniero qui suis legibus uteretur ed al quale si riconosceva parità di ius col Popolo romano[103].

Il significato di hostis si è modificato definitivamente nell’ultimo secolo della Repubblica[104], in relazione con l’estendersi della valenza semantica di peregrinus, che nei primi secoli dell’Impero finì per designare una particolare condizione giuridica[105]. Di grande interesse, nella prospettiva qui perseguita, appaiono alcuni versi in cui Virgilio utilizza il termine hostis nel suo significato più squisitamente giuridico: per indicare, cioè, un “nemico” col quale esiste un legittimo stato di guerra. Rimanda a tale significato Aen. 1,378-380:

 

Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penatis

classe veho mecum, fama super aethera notus.

Italiam quaero patriam et genus ab Iove magno[106].

 

Enea riconosce implicitamente la legittimità del “nemico”, quando presenta sé stesso come salvatore ex hoste dei Penati di Troia. Con la salvezza degli Dèi Penati[107], l’eroe troiano ha scongiurato l’estinzione religiosa e giuridica del suo popolo, minacciata proprio dalla condizione di iusti et legitimi hostes degli avversari.

Per il diritto pubblico romano, in caso di vittoria militare, solo la condizione di iustus hostis dava al vincitore la facoltà di sottomettere con pieno diritto una città, o un popolo, e di porre fine (eventualmente) all’esistenza giuridica e religiosa di quella comunità. In questo senso, mi pare che abbia valore pregnante l’antica formula solenne della deditio urbis, ricalcata sugli stessi documenti dei sacerdoti Fetiales[108]. L’annalista Tito Livio ha conservato l’esempio paradigmatico della resa ai Romani dell’antichissima Collazia: una città priva di qualsiasi importanza già nella prima età repubblicana, che poi scomparve senza neppure lasciare traccia[109].

 

Tito Livio 1,38,2: Deditosque Collatinos ita accipio eamque deditionis formulam esse; rex interrogavit: “Estisne vos legati oratoresque missi a populo Collatino ut vos populumque Collantinum dederetis?” – “Sumus.” – “Estne populus Collatinus in sua potestate?” – “Est.” – “Deditisne vos populumque Collatinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina humanaque omnia, in meam populique Romani dicionem?” – “Dedimus.” – “At ego recipio”[110].

 

Riguardo agli hostes, non resta che riferirsi al pensiero giuridico romano:

 

D. 50,16,118 (Pomponius libro secundo ad Quintum Mucium): ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri latrones aut praedones sunt[111];

 

D. 50,16,234 pr. (Gaius libro secundo ad legem duodecim tabularum): Quos nos hostes appellamus, eos veteres ‘perduelles’ appellabant, per eam adiectionem indicantes, cum quibus bellum esset[112].

 

I giuristi insegnavano, dunque, che la condizione giuridica di hostes non poteva prescindere dalla persistente attualità di un bellum iustum, cioè di un bellum publice decretum; in assenza di questa condizione, la rigorosa disciplina dello ius belli esigeva che gli avversari di Roma fossero considerati dei semplici latrones[113] o praedones. Le conseguenze della distinzione non erano di poco conto dal punto di vista del diritto, come attesta il giurista Ulpiano presentando il caso dell’uomo qui a latronibus captus est:

 

D. 49,15,24 (Ulpianus libro primo institutionum): Hostes sunt, quibus bellum publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones appellantur. Et ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est, nec postliminium illi necessarium est: ab hostibus autem captus, ut puta a Germanis et Parthis, et servus est hostium et postliminio statum pristinum recuperat[114].

 

Proprio sulla base della condizione di latrones, il giurista argomenta che la servitù legittima (cioè prevista dallo ius gentium) non si deve applicare nei confronti del prigioniero (servus latronum non est), né in caso di liberazione sarà necessario ricorrere all’istituto del postliminium[115].

 

8. – Ut foedere fides pacis constitueretur: nozione romana di pace

 

Per la tradizione giuridica e religiosa romana, la guerra rappresentava una rottura della pacifica naturalità delle relazioni inter populos; sempre finalizzata, quindi, alla restaurazione della pace.

Questo legame tra guerra e pace, o per meglio dire la subordinazione della prima alla seconda, si trova ben configurato, anche dal punto di vista della dottrina dei sacerdoti romani, nella stessa etimologia che gli scrittori antichi davano della parola fetiales[116]. Collegandone l’etimo a fides e a foedus, si sottolineava nelle competenze di questi sacerdoti la funzione di ristabilire la fides pacis con il foedus, piuttosto che la funzione di concipere un bellum iustum. Da notare, inoltre, che anche nel II libro del De legibus di Cicerone, l’ordine delle funzioni dei sacerdoti feziali vede la pace anteposta alla guerra:

 

De leg. 2,21: Feoderum pacis, belli, indotiarum ratorum fetiales iudices, nontii sunto, bella disceptanto.

 

Infine, la “teologia” ufficiale dei sacerdoti romani manifestava in tutta la sua evidenza la subordinazione della guerra alla pace anche nell’antichissima gerarchia dei sacerdozi: nell’ordo sacerdotum, infatti, il flamine di Iuppiter, cioè della divinità che tra le altre cose tutelava i foedera pacis e la fides, si presenta sovraordinato al flamine di Marte[117].

Tuttavia, per questa breve e conclusiva riflessione sulla pace, vorrei muovere da alcuni versi virgiliani (Aen. 6,851-853), che a mio avviso illuminano, forse meglio di ogni altro testo antico, la nozione “romana” della pace, intesa nei suoi aspetti essenziali giuridici e religiosi.

 

Tu regere imperio populos, Romane, memento

(hae tibi erunt artes) pacique imponere morem,

parcere subiectis et debellare superbos[118].

 

è innegabile, che la poetica virgiliana sottenda una concezione della storia rappresentata religiosamente come prodotto «eines Wirkens der Gotter», da cui consegue il governo mondiale dei Romani, da intendere come missione religiosa, fondata ‑ ha scritto Antonie Wlosok ‑ sulla convinzione che esista «eine theologische Deutung der römischen Geschichte und Herrschaft»[119]. Tuttavia dai versi appena citati emerge, in primo luogo, il carattere bilaterale e imperativo della pax. Rimandano al carattere imperativo sia il termine mos, connesso con lex nel commento del grammatico Servio: Pacis morem leges pacis[120]; sia il verbo imponere[121]. L’osservanza della pax sembra essere condizione necessaria per distinguere subiecti e superbi, assicurando la legittimità del parcere nei confronti dei primi[122] e dello «sterminio con la guerra» nei confronti degli altri[123]. Nella pace, e nella sua conservazione, risiedevano dunque le motivazioni religiose e giuridiche della dimensione universale dell’imperium populi Romani[124].

Il carattere bilaterale della pace risulta evidente anche nelle definizioni che ne davano giuristi e antiquari, i quali sottolineavano la connessione etimologica del termine pax con le parole pactio e pactum. Tale è il caso della definizione attribuita da Verrio Flacco all’antiquario augusteo Sinnio Capitone[125]:

 

Festo, De verb. sign., p. 260 L.: Pacem a pactione condicionum putat dictam Sinnius Capito, quae utrique inter se populo sit observanda[126];

 

o di quella che i compilatori giustinianei trassero dal quarto libro ad edictum di Ulpiano:

 

D. 2,14,1,1-2: Pactum autem a pactione dicitur (inde etiam pacis nomen appellatum est) et est pactio duorum pluriumve in idem placitum et consensus[127].

 

            Questa etimologia, ammessa anche da molti linguisti moderni[128], ricollega pax alla radice indoeuropea pak-, alternante con pag-, da cui anche l’arcaico pacere delle XII Tavole[129], pacisci, pacio, pactio. Pax, nome d’azione femminile, designa l’atto di stipulare una convenzione, quindi gli atti relativi alla situazione di pace[130]; in ciò sta anche la differenza tra pax e il termine greco e„r»nh: mentre questo designa «il contenuto e i frutti del tempo di pace, la pax latina indica più semplicemente il presupposto e la premessa di un contenuto, piuttosto che il contenuto stesso»[131].

Dato il significato concreto della radice pak- «rendere saldo, fermo», si può perfino supporre che in origine pax abbia indicato qualcosa di materialmente determinato: in questo senso appare stimolante la tesi proposta da Marta Sordi[132], per la quale l’arcaica pax sarebbe connessa, mediante la pax deorum, alla vetusta cerimonia clavum pangere: il conficcamento rituale del chiodo dextro lateri aedis Iovis optimi maxii attestato da Tito Livio[133].

 

9. – Ispirazione religiosa dell’Imperium populi Romani: pax deorum

 

La sapientia (teologica e giuridica) dei sacerdoti romani, mediante la definizione del ne-fas – che è bene ricordare riguardava tempo e spazio, (sia tempora sia loca) – rivolgeva le sue prime e maggiori cautele ai rapporti tra uomini e Dèi; con lo scopo precipuo di preservare la pax deorum, che riposava sulla perfetta conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla; cioè, degli atti che mai dovevano essere compiuti e delle parole che mai dovevano essere pronunciate[134].

Nell'antitesi fas/nefas[135], fondata in particolar modo sulla concezione teologica che spazio e tempo appartenessero agli Dèi, si manifestava compiutamente la peculiarità dei rapporti tra uomini e divinità nel sistema giuridico-religioso romano.

Come si è già accennato, la teologia e lo ius divinum dei sacerdoti romani rappresentavano la vita e la storia del Popolo romano in rapporto di imprescindibile causalità con la religio: la volontà degli Dèi aveva concorso a determinare il luogo (e il tempo) della fondazione dell’Urbs Roma[136]; ne aveva sostenuto la prodigiosa “crescita” del numero dei cittadini (civitas augescens)[137]; infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la sua estensione sine fine[138].

I sacerdoti romani avevano postulato, dunque, fin dalle prime attestazioni della loro memoria storica e documentaria, il legame indissolubile della Urbs Roma con il culto degli Dèi e della vita del Popolo romano con la sua religioreligione, id est cultu deorum»)[139]; al fine di conseguire e conservare, mediante i riti e i culti della religione politeista, la pax deorum[140] («pace degli Dèi», ma da intendere nel senso di «pace con gli Dèi»)[141].

Per la vita del Popolo romano si riteneva indispensabile il permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e Dèi[142], considerati anch’essi una delle parti del sistema giuridico-religioso; certo la più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che si riconosceva alle divinità[143].

Dal punto di vista umano (cioè dello ius sacrum e dello ius publicum), il «legalismo religioso» (l’espressione è di Pasquale Voci)[144] dei sacerdoti romani configurava la pax deorum come un insieme di atti e comportamenti, ai quali collettività e individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore degli Dèi. In questa prospettiva, può ben comprendersi la ragione per cui la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale romano[145] e fosse considerato, al tempo stesso, l'elemento basilare del sistema giuridico-religioso. Oggetto, quindi, dello ius del Popolo romano (ius publicum), non a caso tripartito in sacra, sacerdotes, magistratus[146].

 

 

 



 

[1] Legge invece «et ubi desitum» L. Spengel: M. Terenti Varronis De Lingua Latina libri, emendavit apparatu critico instruxit praefatus est Leonardus Spengel. Edidit et recognovit Andreas Spengel, Berolini, 1885, 35; sulla questione vedi J. Collart, Varron, De lingua Latina, Livre V, Texte établi, traduit et annoté par J.C., Paris, 1954, 56.

 

[2] Varrone, De ling. Lat. 5,86. A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, Milano, 1983, 33, fr. 44. J. Collart, Varron, De lingua Latina, Livre V, cit., 199. Più in generale, vedi F. Cavazza, Saggio su Varrone etimologo e grammatico. La lingua latina come modello di struttura linguistica, Firenze, 1981; si occupa marginalmente del passo, ma per ribadire il rapporto foedus / fides (49, n. 61).

 

[3] Sui sacerdoti feziali e sullo ius fetiale, fra la letteratura più recente: P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma, 1959, 472 ss.; P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in Revue Historique de Droit Français et étranger 38, 1960, 94 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino, 1965; Chr. Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application du “ius fetiale” à Rome, in Revue Historique de Droit Français et étranger 58, 1980, 171 ss.; T. Wiedemann, The Fetiales: a reconsideration, in Classical Quarterly 36, 1986, 479 ss.; Cl. Auliard, Les Fétiaux, un collège religieux au service du droit sacré international ou de la politique romaine?, in Mélanges Pierre Lévêque, VI, Paris, 1992, 1 ss.; J.-L. Ferrary, Ius fetiale et diplomatie, in Ed. Frézouls et A. Jacquemin eds., Les relations internationales. Actes du Colloque de Strasbourg 15-17 juin 1993, Paris, 1995, 411 ss.; L. Cappelletti, Il ruolo dei fetiales e il concetto di civitas in Liv. IX 45, 5-9, in Tyche 12, 1997, 7 ss.; M.R. Cimma, I feziali e il diritto internazionale antico, in Ius Antiquum-Drevnee Pravo 6, 2000, 24 ss.; E. Bianchi, Fest. s.v. ‘Nuntius’ p. 178, 3 L. e i documenti del collegio dei Feziali, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 66, 2000, 335 ss.; infine – ma non ho potuto leggere – N.G. Majorova, The College of Fetials (in russo), in L.L. Kofanov (a cura di), Collegia sacerdotum Romae primordialis. Ad problemam de incremento iuris sacri et publici, Mosca, 2001, 142 ss.

Sull’etimologia della parola, da ultimo, R. Sgarbi, A proposito del lessema latino «FētiālÂ, in Aevum 66, 1992, 71 ss.

 

[4] Per la bibliografia più recente, rinvio a Y. Lehmann, Varron théologien et philosophe romain, [Collection Latomus, 237] Bruxelles, 1997.

 

[5] Fonti sulle prerogative politiche e rituali di tali sacerdoti: Cicerone, De off. 1,36; De leg. 2,21; Tito Livio 1,32,5-11; 8,39,14; 9,5,3-4; 9,10,2; 9,10,8; 21,45,8; 30,43,9; 31,8,3; 36,3,7; Dionigi di Alicarnasso 2,73; Valerio Massimo, Facta et dicta 6,6,3; Plinio, Nat. hist. 22,5; Arnobio 2,67.

 

[6] A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, cit., 105.

Della sterminata bibliografia dedicata alla fides, cito solo alcuni titoli: L. Lombardi, Dalla «fides» alla «bona fides», Milano, 1961; M.-L. Deißmann-Merten, Fides Romana bei Livius, Diss. 1964, Frankfurt a. M., 1965; S. Calderone, P…stij-fides. Ricerche di storia e diritto internazionale nell’antichità, [Helikon. Biblioteca. Testi e studi, 1] Messina Università degli Studi, 1965; C. Becker, v. Fides, in Reallexikon für Antike und Christentum, VII, Stuttgart, 1969, 801 ss.; P. Boyancé, études sur la religion romaine, Rome, 1972, 105 ss. [Fides romana et la vie internationale], 135 ss. [Les Romains, peuple de la Fides]; A. Carcaterra, Dea Fides e ‘fides’. Storia di una laicizzazione, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 50, 1984, 199 ss.; G. Freyburger, Fides. étude sémantique et religieuse depuis les origines jusqu’à l’époque augustéenne, Paris, 1986; R. Meyer, Bona fides und lex mercatoria in der europäischen Rechtstradition, [Quellen und Forschungen zum Recht und seiner Geschichte, 5] Göttingen, 1994; M.A. Levi, Clientela e fides, in Rendiconti dell’Accademia Lombarda, 9ª serie, vol. 7, 1996, 677 ss.; K.-J. Hölkeskamp, Fides - deditio in fidem - dextra data et accepta: Recht, Religion und Ritual in Rom, in The Roman middle republic. Politics, religion, and historiography c. 400 - 133 B.C., edited by C. Bruun, [Acta Instituti Romani Finlandiae, 23] Rome, 2000, 223 ss.

 

[7] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 7] Sassari, 1991. Recensioni di V. Giuffrè, in Iura 42, 1991 [ma 1994], 213 ss.; N. Scivoletto, in Giornale Italiano di Filologia 49.1, 1997, 138 s.

 

[8] Della fides «als Grundlage des römischen Völkerrechts» scrive, da ultimo, K.-J. Hölkeskamp, Fides - deditio in fidem - dextra data et accepta: Recht, Religion und Ritual in Rom, in The Roman middle republic. Politics, religion, and historiography c. 400 - 133 B.C., cit., 235; vedi anche P. Boyancé, Les Romains, peuple de la fides (1964), ora in Id., études sur la religion romaine, cit., 144 s.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republic, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York, 1972, 68 ss., in part. 90 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, 2a ed., Napoli, 1973, 35 ss., 42 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, München, 1989, 102 ss.

 

[9] F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel II secolo d.C.: il senso del passato, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York, 1976, 131 ss.; Id., Giuristi adrianei, Napoli, 1980, 1 ss.

 

[10] In parte diversa l’intepretazione proposta da F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel II secolo d.C.: il senso del passato, cit., 143; Id., Giuristi adrianei, cit., 21-22.

 

[11] G. Pugliese, Appunti sulla ‘deditio’ dell’accusato di illeciti internazionali, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 18, 3ª serie, 1974, 8 s. [= Id., Scritti giuridici scelti, I. Diritto romano, Napoli, 1985, 567 s.]; J.-H. Michel, L’extradition du général en droit romain, in Latomus 39, 1980, 675 ss.; G. Crifò, Sul caso di Ostilio Mancino, in Studi A. A. Schiller, Leiden, 1976, 19 ss. [=Id., L’esclusione dalla città. Altri studi sull’exilium romano, Perugia, 1985, 121 ss.]; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, cit., 76 s.; A. Maffi, Ricerche sul postliminium, Milano, 1992, 61 ss.; M.F. Cursi, La struttura del “postliminium” nella repubblica e nel principato, Napoli, 1996, 57 ss.; A. Calore, Per Iovem Lapidem”. Alle origini del giuramento. Sulla presenza del ‘sacro’ nell’esperienza giuridica romana, Milano, 2000, 79.

 

[12] Cfr. F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 60, 1994 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, I, Roma, 1996], 49 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 13] Torino, 2001, 24 ss.

 

[13] A.G. Heffter, De antiquo iure gentium prolusio, Bonnae, 1823, 7; E. Osenbrüggen, De iure belli et pacis Romanorum, Lipsiae, 1836, 8, 16, 36; M. Voigt, Die Lehre von ius naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer, II, Leipzig, 1858 [rist. an. Aalen, 1966], 102 ss.; Id., Die XII Tafeln, I, Leipzig 1883 [rist. an. Aalen, 1966], 269 ss.; R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I (1852), Leipzig, 1878, 225 ss. [= Id., L’esprit du droit romain, trad. franc., I, Paris, 1886 (rist. an. Bologna, 1969), 226 ss.]; J. Madvig, Die Verfassung und Verwaltung des römischen Staates, I, Leipzig, 1881, 58 ss.; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig, 1881, 279 ss.; G. Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale. Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di Roma, cit., 455 ss.; G. Padelletti-P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2ª ed., Firenze, 1886, 67; P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, trad. it. di C. Longo, Roma-Milano-Napoli, 1909, 112 ss., 116; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines, Paris, 1909 [rist. fot. 1931], 343; E. Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romains, 2ª ed., Paris, 1928, 92; P. Huvelin, Études d’histoire du droit commercial romain, opera postuma a cura di H. Lévy-Bruhl, Paris, 1929, 7 s.; H. Horn, Foederati. Untersuchungen zur Geschichte ihrer Rechtsstellung im Zeitalter der römischen Republik und des frühen Prinzipates, Diss. Frankfurt a. M., 1930, 6 s.; H. Lévy-Bruhl, Esquisse d’un théorie sociologique de l’esclavage, in Id., Quelques problèmes du trés ancien droit romain. Essai de solutions sociologiques, Paris, 1934, 15 ss.; P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 4, 1938, 363 ss. [= Id., Scritti, I, Roma, 2000, 367 ss.]; P. de Francisci, Storia del diritto romano, I, Milano, 1943, 335; P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, rist. 4ª ed. 1934, a cura di G. Bonfante e G. Crifò, Milano, 1958, 229; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, nuova ed. a cura di S. Accame, Firenze, 1979, 87; M. Meslin, L’uomo romano, trad. it., Milano, 1981, 117.

 

[14] Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Id., Römische Forschungen, I, Berlin, 1864, 326 ss.; E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I. Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Leipzig, 1913 [rist. an. Roma, 1964], 14 ss., 29 ss., 44 ss.

 

[15] Th. Mommsen, Römische Geschichte, I (1854), qui citata in trad. it.: Storia di Roma antica, nuova ed. con introduzione di G. Pugliese Carratelli, I, Firenze, 1984, 192; Id., Das römische Gastrecht und die römische Clientel, cit., 319 ss.; Id., Römisches Staatsrecht, III.1, 3ª ed., Leipzig, 1887, 590 ss. [= Droit public romain, trad. franc. di P.F. Girard, VI.2, Paris, 1889, 206 ss.]; ma è nell’Abriss che la posizione del grande giusromanista tedesco, forse proprio per esigenze di semplificazione, si presenta più netta: Disegno del diritto pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante, rist. an. dell’ed. 1943, Milano, 1973, 91.

 

[16] Da ricondurre per larga parte «alla componente soggettiva della storiografia dell’Ottocento e del primo Novecento»: così p. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 8 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., IX ss., 10 ss. Per l’aspetto più propriamente filosofico di tale impostazione storiografica, cfr. P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in Revue Historique de Droit Français et Étranger 38, ser. IV, 1960, 105 ss.

 

[17] E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I, cit., 1.

 

[18] E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I, cit., 402 ss., in part. 406 s.

 

[19] Di «situation permanente d’interhostilité qui règne entre les peuples ou les cités» scrive, ad esempio, é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 1. Économie, parenté, société, Paris, 1969, 355 ss., in part. 361; nello stesso senso, anche A. Piganiol, Le conquiste dei Romani, trad. it. di F. Coarelli, Milano, 1971, 147 s.; A. Guarino, Storia del diritto romano, 7ª ed., Napoli, 1987, 82. Altri sottolineano, piuttosto, la mancanza di diritti per lo straniero: P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3ª ed., Roma, 1974, 210; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari, 1987, 129; M. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, 2ª ed., Milano, 1988, 175; M. Talamanca, in Lineamenti di storia del diritto romano, sotto la direzione di M. T., 2ª ed., Milano, 1989, 154; Id., Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 103.

 

[20] Cfr. G. Baviera, Il diritto internazionale dei Romani (estr. dall’Archivio Giuridico “Filippo Serafini”, nuova serie, voll. I e II), Modena, 1898, 25 ss.; E. Seckel, über Krieg und Recht in Rom, Kaisergeburtstagrede, Berlin, 1915, 9 s., 25 ss.; critico soprattutto nei confronti del Täubler si mostra anche B. Kübler, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig-Erlangen, 1925, 109 ss.

 

[21] A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen der römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit, Leipzig, 1933, 4 ss., 12 ss., 18 ss.; il quale, sulla base di un attento riesame delle fonti, pervenne alla conclusione che i Romani considerassero esistenti con gli altri popoli un certo numero di rapporti giuridici, indipendentemente dalla stipulazione di trattati; dimostrando in particolare: che non esistevano trattati di amicizia per porre fine all’ostilità naturale; che il bellum iustum era considerato necessario anche in caso di guerra contro popoli con i quali non preesisteva alcun trattato; infine, che nella formula e nel rituale dell’indictio belli non si trovava alcun riferimento ad una precedente violazione di trattati.

 

[22] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II [1ª ed., Napoli, 1954], 2ª ed. Napoli, 1973, 13 ss., in part. 39 ss., 46 ss., con ampia rassegna di bibliografia.

 

[23] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 14-15.

 

[24] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, in VIII Seminario Internazionale di Studi Storici «Da Roma alla Terza Roma», 21 aprile 1988, poi pubblicata in Roma Comune, a. XII, n. 45, aprile-maggio 1988, 86 ss.

Sull’opera storiografica e giuridica dell’illustre studioso, del quale merita di essere segnalata anche la raccolta degli scritti “minori” curata da A. Dell’Agli, T. Spagnuolo Vigorita e F. d’Ippolito (Scritti di diritto romano: I. Diritto e società in Roma antica, Roma, 1979; II. Diritto privato e società romana, Roma 1982; III. Nuovi studi di economia e diritto romano, Roma, 1988), vedi F. Casavola, L’opera storica di Francesco De Martino, in Labeo 24, 1978, 7 ss.; Id., Francesco De Martino storico, in Index 18, 1990, XV ss.; T. Spagnuolo Vigorita, Francesco De Martino. Il fascino della storia, in Au-delà des frontières. Mélanges de droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz, Varsovie, 2000, 967 ss. (ora anche in Diritto @ Storia. Quaderni di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 2, marzo 2003 < http://www.dirittoestoria.it/demartino/Spagnuolo-Vigorita-De-Martino.htm >.

 

[25] p. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 8 ss., 51 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., IX s., 10 ss.

 

[26] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, cit., 86; anche in altre parti di questo scritto è espressa convinta adesione alle tesi del Catalano: 88; 91.

 

[27] Per una rapida visione delle tesi sostenute dallo studioso, si legga la «riflessione conclusiva» di Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 288.

 

[28] p. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., IX.

 

[29] K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York, 1972, 68 ss.

 

[30] P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, cit., 373 ss., 397 ss. [= Id., Scritti, I, cit., 377 ss., 401 ss.]; una prima revisione, con l’abbandono della tesi dell’ostilità naturale, si riscontrava già nel saggio L’età classica della costituzione repubblicana, in Labeo 1, 1955, 320 ss. [= Id., Scritti, II, Roma, 2000, 133 ss.], dove peraltro è ancora sostenuta la mancanza di diritti per lo straniero, riaffermando anche, in polemica col De Martino, l’appartenenza originaria ed esclusiva delle forme giuridiche dei rapporti internazionali alle relazioni fra popoli della lega latina (327 ss. = 140 ss.).

 

[31] P. Frezza, Il momento “volontaristico” e il momento “naturalistico” nello sviluppo storico dei rapporti “internazionali” nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 32, 1966, 299 ss., in part. 301 [= Id., Scritti, II, cit., 551 ss., 553]. Nello stesso senso, cfr. Id., In tema di relazioni internazionali nel mondo greco-romano, Ibidem 33, 1967, 337 ss., in part. 348 s. [= Id., Scritti, II, cit., 577 ss., 588 s.].

 

[32] W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert v. Chr., München, 1968, 136 s.

 

[33] W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert v. Chr., cit., 171 ss.; critici anche K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., 78 s.:; e P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., XI nt.

 

[34] V. Ilari, Gli Italici nelle strutture militari romane, Milano, 1974, 10-11; cfr. Id., L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano, 1981, V.

 

[35] D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, cit., 13.

 

[36] Cfr. F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit. supra in nt. 1; Id., Interpretazioni giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia (A proposito di Liv. 3, 55, 6-12), in Ius Antiquum - Drevnee Pravo 1, 1996, 92 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 313 ss.; ma anche O. Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune fonti letterarie, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, IV, Milano, 1983, 297 ss.; G. Luraschi, Foedus nell’ideologia virgiliana, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano. Promosso dall’Istituto Milanese di Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi. 22-25 Ottobre 1985, Milano, 1988, 279 ss.

 

[37] Nulla salus bello esclama un personaggio in Aen. 11,362, (espressione che va ben oltre il contingente discorso di Drance), altrove si parla di crimina belli (Aen. 7,339: dissice compositam pacem, sere crimina belli) mentre è severamente condannata dal poeta la scelerata insania belli (Aen. 7,461: saevit amor ferri et scelerata insania belli; cfr. Servio, in Verg. Aen. 7,461: nihil enim tam insanum, quam desiderare id per quod possis perire); se poi osserviamo la qualificazione della guerra, il bellum può essere horridum (Aen. 6,86-87: Bella, horrida bella / et Thybrim multo spumantem sanguine cerno; cfr. 7,41; 11,96), asperum (Aen. 1,14), crudele (Aen. 8,146; 11,535), cruentum (Aen. 11,474: bello dat signum rauca cruentum / bucina), dirum (Aen. 11,217), triste (Ecl. 6,7; Aen. 7,325; 7,545; 8,29).

 

[38] Aen. 2,217-220; cfr. Aen. 10,900-902. Sulle implicazioni religiose e giuridiche di questi versi si vedano, fra gli altri, F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 10 (n. s.), 1935, 228; R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica, cit., 225 e nt. 70; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, 54 nt. 37 [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova, 1985, 230 nt. 37]. In diversa prospettiva, vedi anche G. Dumézil, Mythe et épopée, I. L’ideologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris, 1968, 401.

 

[39] Aen. 12,572; 7,583; 12,804.

 

[40] Aen. 6,273-281: Vestibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci / Luctus et ultrices posuere cubilia Curae; / pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus / et Metus et malesuada Fames ac turpis Egestas, / terribiles visu formae, Letunique Labosque; / tum consanguineus Leti Sopor et mala mentis / Gaudia mortiferumque adverso in limine Bellum / ferreique Eumenidum thalami et Discordia demens, / vipereum crinem vittis innexa cruentis. Cfr. H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, Lipsiae, 1912 [rist. an. Hildesheim-New York, 1969], 88 ss.

 

[41] Mentre la storiografia contemporanea è pervenuta con difficoltà e ritardo alla consapevolezza che «L’énéide est avant tout un poème religieux» (G. Boissier, La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, 3ª ed., Paris, 1884, 231); la cultura romana tardoantica aveva individuato nella divini et humani iuris scientia di Virgilio (Macrobio, Sat. 3,9,16: Videturne vobis probatum sine divini et humani iuris scientia non posse profunditatem Maronis intellegi?) la chiave interpretativa della poesia virgiliana e considerava il poeta – per usare le parole del Servio Danielino – gnarus totius sacrorum ritus (Servio Dan., in Verg. Georg. 1,269), colui il quale in ogni occasione disciplinam caerimoniarum secutus est (Servio Dan., in Verg. Aen. 12,172). Per maggiori approfondimenti, vedi il lavoro di H. Lehr, Religion und Kultus in Vergils Aeneis, Diss. Giessen, 1934, 9 ss.; brevemente F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., 17 ss. Di grande interesse anche le osservazione dell’archeologo Fausto Zevi, Note sulla leggenda di Enea in Italia, in AA.VV., Gli Etruschi e Roma (Incontro di studio in onore di M. Pallottino, Roma 11-13 dicembre 1979), Roma, 1981, 147 s., sui riferimenti virgiliani all’Atena Tritonia di Lavinio.

 

[42] G. Luraschi, v. Foedus, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., 546 ss.; Id., Foedus nell’ideologia virgiliana, cit., 281 ss.

 

[43] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, cit., 91 s.

 

[44] A. Guarino, L'ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, 135.

 

[45] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, Torino 1960, 326 e n. 10; seguito da F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari 1981, 272.

 

[46] Le parole sono di É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2, Paris 1969, 136; cfr. anche A. Walde-J. B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, dritte Aufl., Heidelberg 1938, 217; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4ª ed., Paris 1967, 217.

 

[47] Festo, De verb. sign., v. Sacer mons, p. 424 L.: At homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed, qui occidit, parricidi non damnatur. Aulo Gellio, Noct. Att. 10,15,14: Pedes lecti, in quo cubat, luto tenui circumlitos esse oportet et de eo lecto trinoctium continuum non decubat neque in eo lecto cubare alium fas est.

 

[48] J. Paoli, Le monde juridique du paganisme romain, cit., 5; Id., Les définitions varroniennes de jours fastes et néfastes, in Revue Historique de Droit Français et Étranger 29, 1952, 308, 314 n. 1; A. Guarino, L'ordinamento giuridico romano, cit., 93.

 

[49] É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2, cit., 139; R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, Roma 1979, 45.

 

[50] R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939, 238, 259; Id., Elemento divino ed elemento umano nel diritto di Roma, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto 21, 1941, 15 estr.; Id., I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967, 106 s.

 

[51] P. Noailles, Du droit sacré au droit civil, cit., 19.

 

[52] K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 38.

 

[53] Su tali concetti vedi, per tutti, N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Torino 1958, 154 ss.; G. Kalinowski, Introduzione alla logica giuridica, trad. it. a cura di M. Corsale, Milano 1971, 157 ss.; G. Di Bernardo, Introduzione alla logica dei sistemi normativi, Bologna 1972, 69 ss.

 

[54] Cfr. F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., 102 ss. Sugli aspetti più generali del problema vedi, invece, R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, cit., 406 ss. («“Dommatica odierna” e studio di un diritto del passato»).

 

[55] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 23 ss., 294, 325, 401.

 

[56] Isidoro, Diff. 1,563: Bellum est contra hostes exortum, tumultus vero domestica appellatione concitatus. Hic et seditio nuncupatur.

 

[57] Servio, in Verg. Aen. 8,547: Qui sese in bella sequantur in expeditionem et bellicam praeparationem: nam, ut supra diximus, ‘bellum’ est tempus omne quo vel praeparatur aliquid pugnae necessarium, vel quo pugna geritur, ‘proelium’ autem dicitur conflictus ipse bellorum: unde modo bene dixit ‘qui sese in bella sequantur’, non ‘in proelium’; nam ad auxilia petenda vadit, non ad pugnam (cfr. anche Servio Dan., in Verg. Aen. 1,456; 2,397; Nonio, p. 703 L.). Dal passo si ricava, inoltre, la distinzione tra bellum, pugna e proelium; la sottile distinzione di Servio non pare, tuttavia, rigorosamente osservata, se è vero che il termine bellum si trova usato di frequente dagli autori antichi, tra cui lo stesso Virgilio, per indicare anche l’“atto di guerra”, il “lottare in guerra”, insomma il combattimento: cfr. G. Lotito, v. Bellum, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., 437.

 

[58] Sulle «veterum de origine verbi sententiae», cfr. B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Lingua Latinae, II, 1906, col. 1822.

 

[59] Paolo, Fest. ep., p. 30 L.: Bellum a beluis dicitur, quia beluarum sit pernitiosa dissensio.

 

[60] Servio, in Verg. Aen. 1,22: Et dictae sunt parcae kata ¢nt…frasin, quod nulli parcant, sicut lucus a non lucendo, bellum a nulla re bella.

 

[61] E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze, 1978, 173.

 

[62] B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II, cit, col. 1822; V. Rosenberger, Bella et expeditiones: die antike Terminologie der Kriege Roms, Stuttgart, 1992, 128 ss.

 

[63] Su tale «fatto fonetico» vedi G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna, 1940 (rist. an. 1969), 107; M. Leumann, Lateinische Laut- und Formenlehre = Leumann-Hoffman-Szantir, Lateinische Grammatik, 1 [Handbuch der Altertumswissenschaft, II.2.1], nuova ed., München, 1977, 131 s.

 

[64] Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L. VI,32323,94 (G.B. Pighi, De ludis saecularibus populi Romani Quiritium, Milano 1941, 114); Act. lud. saec. Sept. Sev. 4,11 = C.I.L. VI,32329,11 (G.B. Pighi, Op. cit., 157): imperi>um maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique semper Latinu>s obtemperassit.

 

[65] Cfr. anche Plauto, Asin. 558-559: Edepol qui virtutes tuas non possis conlaudare, / sicut ego possim, quae domi duellique male fecisti; Capt. 67-68: Abeo. Valete iudices iustissimi / domi, duellique duellatores optumi.

 

[66] In questo caso la nostra fonte più autorevole è costituita da M. Terenzio Varrone, De ling. Lat. 7,49: Perduelles dicuntur hostes; ut perfecit, sic perduellis, <a per> et duellum; id postea bellum. Ab eadem causa facta Duell[i]ona Bellona; cfr. Cicerone, Orat. 153; Quintiliano, Inst. orat. 1,4,15. Sull’antica forma del nome della dea vedi anche C.I.L. X,104,2; più in generale E. Aust, v. Bellona, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, III.1, Stuttgart, 1897, coll. 254 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., München, 1912 [rist. 1971], 151 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris, 1974, 394 ss. [= Id., La religione romana arcaica, trad. it. di F. Jesi, Milano, 1977, 341 s.]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano, 1988, 192 ss.

 

[67] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 53.

 

[68] Cfr. nello stesso senso J.-P. Brisson, Introduction, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, Paris-La Haye, 1969, 17.

 

[69] Cicerone, De nat. deor. 2,8: C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores. Acute osservazioni in C. Bailey, Phases in the Religion of Ancient Rome, Berkeley, 1932 [rist. Westport, Conn., 1972], 274 s.; più di recente, vedi R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden-New York-København-Köln, 1988, 5 s.; ma anche M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse, 1993, 196 s. Più in generale, riguardo alle concezioni religiose di Cicerone rimane tuttora insostituibile M. van den Bruwaene, La théologie de Cicéron, Louvain, 1937; cfr. inoltre, fra gli altri: P. Deforny, Les fondaments de la religion d’après Cicéron, in Les études Classiques 22, 1954, 241 ss., 366 ss.; R.D. Sweeney, Sacra in the Philosophic Works of Cicero, in Orpheus 12, 1965, 99 ss.; J. Guillén, Dios y los dioses en Cicerón, in Helmantica 25, 1974, 511 ss.; J. Kroymann, Cicero und die römische Religion, in Ciceroniana. Hommages à Kazimierz Kumaniecki, Leiden, 1975, 116 ss.; L. Troiani, Cicerone e la religione, in Rivista Storica Italiana 96, 1984, 920 ss.; C. Bergemann, Politik und Religion im spätrepublikanischer Rom, Stuttgart, 1992.

 

[70] Da condividere il pensiero di M. Meslin, L’uomo romano, cit., 39.

 

[71] Cfr. in tal senso, J. Hergon, La guerre romaine aux 4e-3e siècles et la fides romana, in J.-P. Brisson (direct.), Problèmes de la guerre à Rome, cit., 28.

 

[72] Tale è il caso, ad esempio, delle formule e procedure elaborate dai Fetiales per l’indictio belli (Tito Livio 1,32,6-14).

 

[73] J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psychologique, (1957), 2a ed., Paris, 1969 [rist. 1976], 86 s. [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino, 1959 (rist. 1992), 93 s.].

 

[74] H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, cit., 101. Sulle feste di carattere militare di questi due mesi, vedi per tutti W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic, rist. London, 1925, 33 ss., 236 ss.; ed il più recente lavoro di D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., 87 ss., 317 ss.

 

[75] Cicerone, De off. 1,36-37: [Popilius imperator tenebat provinciam in cuius exercitu Catonis filius tiro militabat cum autem Popilio videretur unam dimittere legionem Catonis quoque filium qui in eadem legione militabat dimisit. Sed cum amore pugnandi in exercitu remansisset Cato ad Popilium scripsit ut si eum patitur in exercitu remanere secundo eum obliget militiae sacramento quia priore amisso iure cum hostibus pugnare non poterat. Adeo summa erat observatio in bello movendo]. Marci quidem Catonis senis est epistula ad Marcum filium in qua scribit se audisse eum missum factum esse a consule cum in Macedonia bello Persico miles esset. Monet igitur ut caveat ne proelium ineat; negat enim ius esse, qui miles non sit, cum hoste pugnare.

 

[76] Cfr. F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, cit., 227 s.; per l’analisi linguistica del verbo impiare, e per le sue valenze religiose, vedi H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Paris, 1963, 334 ss.

 

[77] Paolo, Fest. ep., p. 104 L.: Laureati milites sequebantur currum triumphantis, ut quasi purgati a caede humana intrarent Urbem.

 

[78] Per la definizione vedi Varrone, De ling. Lat. 6,22: Armilustrium ab eo quod in Armilustrio armati sacra faciunt, nisi locus potius dictus ab his; sed quod de his prius, id ab lu<d>endo aut lustro, id est quod circumibant ludentes ancilibus armati. Cfr. Paolo, Fest. ep., p. 17 L.: Armilustrium festum erat apud Romanos, quo res divinas armati faciebant, ac, dum sacrificarent, tubis canebant.

 

[79] Cfr. per tutti G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 19, 144, 557; W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic, cit., 250 s.; N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna, 1939, 100; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München, 1960, 120; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 216 [= Id., La religione romana arcaica, cit., 190]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., 331 s.

 

[80] L’attività teologica e giuridica della sodalità si esplicitava, oltre che nelle formule solenni, soprattutto in decreta e responsa, che i feziali davano su richiesta del senato o dei magistrati. Importanti testimonianze, con riferimenti testuali, in Tito Livio (31,8,3: Consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum, quod indiceretur regi Philippo, utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an satis esset, in finibus regni quod proximum praesidium esset, eo nuntiari. Fetiales decreverunt, utrum eorum fecisset, recte facturum. 36,3,9: Fetiales responderunt iam ante sese, cum de Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre, ipsi coram an ad praesidium nuntiaretur).

 

[81] Rassegna delle fonti in cui ricorre questa espressione in B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II, cit., 1847 s. Sul tema, ampiamente studiato dalla dottrina romanistica, basterà ricordare alcuni: M. Kaser, Das altrömische ius, Göttingen, 1949, 22 ss.; H. Drexler, Iustum bellum, in Rheinisches Museum für Philologie 102, 1959, 97 ss.; H. Hausmaninger, ‘Bellum iustum’ und ‘Iusta causa belli’ in älteren römischen Recht, in österreichsche Zeitschrift für öffentliches Recht, N. F. 11, 1961, 335 ss.; E. Pólay, Differenzierung der Gesellschaftsnormen in antiken Rom, Budapest, 1964, 115 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit.,  14 ss.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., 102 ss.; W.V. Harris, War and imperialism in Republican Rome, 327-70 BC., Oxford, 1979, 161 ss. (del tutto inaccettabile la posizione fortemente negativa); S. Albert, Bellum iustum. Die Theorie des «gerechten Krieges» und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit, Kallmünz, 1980, 12 ss.; S. Clavadtscher-Thürlemann, ‘Polemos dikaios’ und ‘bellum iustum’, Zürich, 1985, 139 ss.; F. d’Ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, cit., 22 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, cit., 118 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, Stuttgart, 1990, 117 ss.; A. Watson, International law in archaic Rome: war and religion, cit., 48 ss.

 

[82] Varrone, De ling. Lat. 5,86.

 

[83] Isidoro, Orig. 18,1,2: Iustum bellum est, quod ex edicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa.

 

[84] Tito Livio 9,1,10: Iustum est bellum, Samnites, quibus necessarium, et pia arma quibus nulla nisi in armis reliquitur spes.

 

[85] D. 1,3,40 (Modestinus libro primo regularum): Ergo autem omne ius aut consensus fecit aut necessitas constituit aut firmavit consuetudo. Cfr. Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, IV, coll. 74 ss.

 

[86] Sul tema, ancora fondamentale il lavoro di W. Capelle, Griechische Etik und römischer Imperialismus, in Klio 25, 1932, 86 ss. [ristampato in AA.VV., Ideologie und Herrschaft in der Antike, hrsg. von H. Kroft, Darmstadt, 1979, 238 ss.]; da ultimo, J.-L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, Rome, 1988.

 

[87] M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistiger Bewegung, Göttingen, 1959, qui citato nella trad. it., La stoa. Storia di un movimento spirituale, I, Firenze, 1967, 535 ss.; J.-L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’età repubblicana, in AA.VV., Storia delle idee politiche, economiche e sociali (dir. da L. Firpo), I. L’antichità classica, Torino, 1982, 731 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et la tradition romaine à la fin de la Rèpublique, Paris, 1984, 231 ss.

 

[88] Su L. Furio Filo, uomo politico e giurista amico di Scipione Emiliano, console nel 136 a.C. (cfr. T.R.S. Broughton, The magistrates of the Roman Republic, I, New York, 1951 [rist. an. 1986], 486), di cui ancora Macrobio citava ‑ seppure di seconda mano ‑ un vestustissimus liber (così F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae, 1896 [rist. an. Roma, 1964], 29 s.; vedi Fr. Münzer, v. Furius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VII.1, Stuttgart, 1910, col. 360; O. Behrends, Tiberius Gracchus und die juristen seiner Zeit ‑ die römische Jurisprudenz gegenüber der Staatskrise des Jahres 133 v.Cr., in Das Profil des Iuristen in der europäischen Tradition. Symposion aus Anlass des 70. Geburtstages von Franz Wieacker, Ebelbach, 1980, 113 ss.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, München, 1983, 282 ss.

 

[89] De re publ. 3,8; J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, in Revue des études Latines 55, 1977, 128. Fra gli studi dedicati a Carneade e alla Nuova Accademia vedi, in particolare: J. Croissant, La morale de Carnéade, in Revue internationale de philosopie 3, 1939, 545 ss.; O. Gigon, Zur Geschichte der sogenannten Neuen Akademie (1944), ora in Id., Studien zur antiken Philosophie, Berlin, 1972, 412 ss.; A. Weische, Cicero und die neue Akademie, Münster West., 1961, in special modo 77 ss.; H.J. Kraemer, Platonismus und hellenistische Philosophie, Berlin, 1971, 5 ss.

 

[90] Il passo tratto da Lattanzio (Inst. div. 6,9,3-4) è stato considerato non ciceroniano nelle edizioni curate da K. Büchner (M. T. Cicero, Von Gemeinwesen, 3ª ed., Zürich, 1973) e da P. Krarup (M. T. Ciceronis De re publica librorum sex quae supersunt, Firenze, 1967); anche E. Heck, Die Bezeugung von Ciceros Schrift De re publica, Hildesheim, 1966, 90 s., ritiene il passo non riconducibile al discorso di Furio Filo. Per una analisi più ampia di questa parte del De re publica, vedi ora J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, cit., 128 ss. (dello stesso autore cfr. anche: Le discours de Laelius dans le troisième livre du De re publica de Cicéron, in Mélanges de école Française de Rome 86, 1974, 745 ss.); A. Michel, A propos du De republica III: la politique et le désir, in Mélanges de littérature et épigraphie latines, d’histoire ancienne et archéologie. Hommage à la mémoire de Pierre Wuilleumier, Paris, 1980, 229 ss.

 

[91] Cicerone, Div. in Caec. 62; De prov. cons. 4; Ad Att. 7,14,3; 9,19,1; Pro rege Deiot. 13; De off. 1,36; Phil. 11,37; 13,35. S. Albert, Bellum iustum, cit., 20 ss.; W.C. Korfmacher, Cicero and the bellum iustum, in The Classical Bulletin 48, 1972, 49 ss. Riesame dei testi ciceroniani, con molte critiche alla quasi totalità degli studi contemporanei, nel recentissimo lavoro di L. Loreto, Il bellum iustum e i suoi equivoci. Cicerone ed una componente della rappresentazione romana del Völkerrecht antico, Napoli, 2001.

 

[92]. Per maggiori ragguagli sul passo cfr. K. Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, cit., 200. Nel complesso dello ius fetiale, con l’esempio anche del testo ciceroniano, D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, cit., 59, vede una delle manifestazioni della «römische Gerechtigkeitsideologie».

 

[93] Isidoro, Orig. 18,1,2-3: Quattuor autem sunt genera bellorum: id est iustum, iniustum, civile et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex praedicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa. Iniustum bellum est quod de furore, non de legitima ratione initur. De quo in Republica Cicero dicit: illasuscepta; commento in K. Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, cit., 325. Sulle cause del bellum iustum esemplificate nel testo di Cicerone vedi, fra gli altri, M. Gelzer, Römische Politik bei Fabius Pictor, in Hermes 68, 1933, 165 s.; H. Haffter, Geistige Grundlagen der römischen Kriegsführung und Aussenpolitik (1942), ora in Id., Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg, 1967, 24; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, cit., 483; W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrecht im 3. und 2. Jahrhundert v.Chr., cit., 179; E. Badian, Roman imperialism in the late Republic, cit., 11 [= Id., Römischer Imperialismus in der späten Republik, cit., 28]; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., 121.

 

[94] Cfr. anche De re publ. 3,34 (= Agostino, De civ. dei 22,6): Nullum bellum suscipi a civitate optima nisi aut pro fide aut pro salute; su cui vedi la riflessione di A. Michel, Les lois de la guerre et les problèmes de l’impérialisme romain dans la philosophie de Ciceron, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, cit., 174.

Quanto poi al rapporto esistente per i Romani tra imperium e religione, vedi H. Haffter, Geistige Grundlagen der römischen Kriegsführung und Aussenpolitik, cit., 11 ss.; A. Zwaenepoel, L’inspiration religieuse de l’impérialisme romain, in L’Antiquité Classique 18, 1949, 5 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 22 ss.; approfondiscono il tema specificatamente in rapporto a Cicerone: J. Vogt, Ciceros Glaube an Rom, rist. an. dell’edizione 1935, Darmstatd, 1963; K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift De legibus, Wiesbaden, 1983, 156 ss.; F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 19 ss.

 

[95] Su questo importante testo ciceroniano, vedi P. Catalano, Cic. De off. 3, 108 e il così detto diritto internazionale antico, in Synteleia Arangio-Ruiz, I, Napoli, 1964, 373 ss.; Id., Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 4 ss.; più di recente, L. Loreto, Il bellum iustum e i suoi equivoci, cit., 69 ss.

 

[96] Cicerone, De off. 1,39: Atque etiam si quid singuli temporibus adducti hosti promiserunt, est in eo ipso fides conservanda, ut primo Punico bello Regulus captus a Poenis, cum de captivis commutandis, primum, ut venit, captivos reddendos in senatu non censuit, deinde, cum retineretur a propinquis et ab amicis, ad supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere. Cfr., inoltre, De fin. 2,65; Cato maior 75; De leg. 2,34; De off. 3,107: Est autem ius etiam bellicum fidesque iuris iurandi saepe cum hoste servanda.

 

[97] Così A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 301. Cfr. H. Ehlers, v. Hostis, in Thesaurus Linguae Latinae, VI.2, 1934, coll. 3061 ss.; A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, cit., 662 s.; E Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, l. économie, parenté, société, cit., 95.

 

[98] Cicerone, De off. 1,37: Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus. Indicant duodecim tabulae: aut status dies cum hoste itemque adversus hostem aeterna auctoritas.

 

[99] Trascritta da Aulo Gellio, Noct. Att. 16,4,3-4: Militibus autem scriptis dies praefinibatur, quo die adessent et citanti consuli responderent; deinde ita concipiebatur iusiurandum, ut adessent, his additis exceptionibus: “nisi harunce quae causa erit: funus familiare feriaeve denicales, quae non eius rei causa in eum diem conlatae sunt, quo is eo die minus ibi esset, morbus sonticus auspiciumve, quod sine piaculo praeterire non liceat, sacrificiumve anniversarium, quod recte fieri non possit, nisi ipsus eo die ibi sit, vis hostesve, status condictusve dies cum hoste; si cui eorum harunce quae causa erit, tum se postridie, quam per eas causas licebit, eo die venturum aditurumque eum, qui eum pagum, vicum, oppidumve delegerit”.

S. Tondo, Il “sacramentum militiae” nell’ambiente culturale romano-italico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 29, 1963, 1 ss.; Id., Sacramentum militiae”, Ibidem 34, 1968, 376 ss.; H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, a cura di J.-P. Brisson, Paris, 1969, 105 s.; C. Nicolet, Il mestiere di cittadino nell’antica Roma, trad. it., Roma, 1980, 131 ss.; V. Giuffrè, Il “diritto militare” dei Romani, Bologna, 1980, 33 s.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., 76 ss.

 

[100] Paolo, Fest. ep., p. 72 L.: Exesto, extra esto. Sic enim lictor in quibusdam sacris clamitabat: hostis, vinctus, mulier, virgo exesto; scilicet interesse prohibebatur. Riguardo a questo procedimento menzionato da Festo, risulta assai difficoltoso per la dottrina romanistica determinare quali sacra ne fossero interessati: K. Latte, v. Immolatio, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IX.1, Stuttgart, 1914, col. 1121; allo stesso tempo appaiono poco convicenti i tentativi di spiegazione finora proposti: vedi, con sostanziali differenze, G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 397 nt. 5; W.W. Fowler, The religious experience of the Roman people, London, 1911, 37; cfr. infine, E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, cit., 263.

 

[101] Varrone, De ling. Lat. 5,3: Quae ideo sunt obscuriora, quod neque omnis impositio verborum extat, quod vetustas quasdam delevit, nec quae extat sine mendo omnis imposita, nec quae recte est imposita, cuncta manet (multa enim verba li<t>teris commutatis sunt interpolata), neque omnis origo est nostrae linguae e vernaculis verbis, et multa verba aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, ut hostis: nam tum eo verbo dicebant peregrinum qui suis legibus uteretur, nunc dicunt eum quem tum dicebant perduellem. Nello stesso senso anche Servio Dan., in Verg. Aen. 4,424: Inde nostri ‘hostes’ pro hospitibus dixerunt: nam inimici perduelles dicebantur; e Paolo, Fest. ep., p. 91 L.: Hostis apud antiquos peregrinus dicebatur, et qui nunc hostis, perduellio.

 

[102] Plauto, Curc. 1,1,4-6: si media nox est sive est prima vespera, / si status condictus cum hoste intercedit dies, / tamen est eundum quo imperant ingratiis.

 

[103] Festo, De verb. sign., v. Status dies <cum hoste>, 414-416 L.: Status dies <cum hoste> vocatur qui iudici causa est constitutus cum peregrino; eius enim generis ab antiquis hostes appellabantur, quod erant pari iure cum populo Romano, atque hostire ponebatur pro aequare. P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 71-72; Id., Populus Romanus Quirites, Torino, 1974, 140.

 

[104] Sulla probabile epoca in cui si produsse il mutamento di significato del termine hostis si legga F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 20: «Più tardi, dopo l’età delle XII tavole e probabilmente nell’età delle guerre d’espansione in Italia, si dovette determinare il mutamento di valore del termine; come ciò accadde e per quali cause non siamo in grado di stabilire, ma è chiaro che la nuova concezione espansionistica delle classi dirigenti romane nel corso del IV-III secolo indusse a considerare l’hostis nemico e non più il peregrinus, qui suis legibus utitur»; cfr. anche F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, cit., 344.

 

[105] E. Cuq, v. Hostis, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III.1, Paris, 1900, 303. Cfr. Gaio, Inst. 1,128; ma anche Gai epit. 1,6,1; Tituli ex corp. Ulp. 10,3.

 

[106] G. Boissier, La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, cit., 242; P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris, 1963, 70 s. Sulla pietas di Enea e sull’origine della sua leggenda, vedi G.K. Galinsky, Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, 1969, 3 ss.; J.-P. Brisson, Le pieux énée!, in Latomus 31, 1972, 379 ss.

 

[107] Servio Dan., in Verg. Aen. 1,378: nam alii, ut Nigidius et Labeo, deos penates Aeneae Neptunum et Apollinem tradunt, quorum mentio fit taurum Neptuno, taurum tibi, pulcher Apollo. Cfr., fra gli autori più recenti: G. Dury-Moyaers, énée et Lavinium. A propos des découvertes archéologiques récentes (avec une préface de F. Castagnoli), Bruxelles, 1981, 181 ss.; G. Radke, v. Penati, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma, 1987, 12 ss.; A. Dubourdieu, Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome, Roma, 1989, 140 ss. (su Nigidio Figulo), 161 ss. (Enea e i Penati).

 

[108] Cfr., in tal senso, G.B. Pighi, La poesia religiosa romana, cit., 46 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 55; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 170.

 

[109] Cfr. Cicerone, De leg. agr. 2,96. Collazia compare, infatti, nel lungo elenco dei populi del Lazio arcaico di cui scrive Plinio, Nat. hist. 3,96: Ita ex antiquo Latio LIII populi interiere sine vestigiis. Per maggiori informazioni, rinvio a Chr. Hülsen, v. Collatia, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IV.1, Stuttgart, 1900, col. 364; ma soprattutto a L. Quilici, Collatia, [Forma Italiae I, 10] Roma, 1974, 27 ss.; brevemente vedi anche M.P. Muzzioli, v. Collatinae arces, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., 840 s.

 

[110] G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 428 [= Id., La religione romana arcaica, cit., 371 s.], ritiene il testo liviano di buona qualità e abbastanza risalente; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrecht. Die Bronzetafel von Alcántara, cit., 16 ss. Sull’istituto della deditio (la letteratura giuridica è peraltro vastissima) vedi: W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrecht, cit., 5 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 54 ss.; K.-H. Ziegler, Kriegsverträge im antiken römischen Recht, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 102 (Rom. Abt.), 1985, 51 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., 209 s.; A. Watson, International law in archaic Rome: war and religion, Baltimore and London, 1993, 48 ss.

 

[111] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae, 1889, col. 59 fr. 222. Secondo la ricostruzione proposta dallo studioso tedesco, il passo di Pomponio sarebbe da attribuire, nella divisione per materia dei libri ad Quintum Mucium, alla rubrica dedicata all’incapacità di testare del cittadino captus ab hostibus. Che il testo verosimilmente sia da ricollegare alla trattazione del postliminium sostiene invece F. Bona, “Postliminium in pace”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 21, 1955, 262 nt. 58; seguito da R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano, 1966, 200 s. Da ultima, vedi F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato, Napoli, 1996, 136 s.

 

[112] Per O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae, 1889, col. 243 fr. 428, si tratterebbe del commento a XII tab. II.2 (status dies cum hoste); cfr. anche F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 25, 1959, 342; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, cit., 245.

 

[113] Un utile apporto all’individuazione della vicenda semantica del termine (da miles conductus in Plauto a homo perditus in Cicerone) si trova nei lavori di A. Milian, Ricerche sul “latrocinium” in Livio. I. “Latro” nelle fonti preaugustee, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti 138, 1979-1980, 171 ss.; Id., Ricerche sul “latrocinium” in Livio. II. Il “latrocinium” di Perseo, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, III, Napoli, 1984, 103 ss.; V. Giuffrè, “Latrones desertoresque”, in Labeo 27, 1981, 214 ss.; S. Morgese, Taglio di alberi e “latrocinium”: D. 47.7.2, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 49, 1983, 147 ss. Più in generale, vedi J. Burian, Latrones. Ein Begriff in römischen literarischen und juristischen Quellen, in Eirene 21, 1984, 17 ss.

 

[114] Cfr. Paolo, Libr. XVI ad Sabinum = D. 49,15,19,2: A piratis aut latronis capti liberi permanent. Il Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 927 fr. 1911, colloca il testo ulpianeo sotto la rubrica de iure gentium; nello stesso senso, R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, cit., 341; così anche E. Nardi, Istituzioni di diritto romano, A. Testi. 1, Milano, 1973, 175 s. I due testi di Ulpiano e Paolo sono stati riesaminati, più di recente, anche da K.-H. Ziegler, Pirata communis hostis omnium, cit., 98; da ultime vedi M.F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato, cit., 137, 143; M.V. Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, Cagliari, 2001, 42 nt. 53.

 

[115] Per la definizione vedi Gaio, Inst. 1,129: Quodsi ab hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius postliminii, quo hi qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt; itaque reversus habebit liberos in potestate. Si vero illic mortuus sit, erunt quidem liberi sui iuris; sed utrum ex hoc tempore quo mortuus est apud hostes parens, an ex illo quo ab hostibus captus est, dubitari potest. Ipse quoque filius neposve si ab hostibus captus fuerit, similiter dicimus propter ius postliminii potestatem quoque parentis in suspenso esse. Cfr. anche Pomponio, Libr. XXXVII ad Q. Mucium = D. 49,15,5; Trifonino, Libr. IV disput. = D. 49,15,12 pr.; Paolo, Libr. XVI ad Sabinum = D. 49,15,19 pr. A. Maffi, Ricerche sul ‘postliminium’, Milano, 1992; M.F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato, cit. in nt. 63; M.V. Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, cit. in nt. precedente.

 

[116] Varrone, De ling. Lat. 5,86; Servio, in Verg. Aen. 1,62: Foedere modo lege, alias pace, quae fit inter dimicantes. Foedus autem dictus vel a fetialibus, id est sacerdotibus per quos fiunt foedera, vel a porca foede, hoc est lapidibus occisa, ut ipse et caesa iungebant foedera porca; cfr. Servio Dan., in Verg. Aen. 4,242.

 

[117] Festo, De verb. sign., 198-200: Ordo sacerdotum aestimatur deorum <ordine ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex, dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex maximus. Itaque in soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra Martialem, et Quirinalem; Martialis supra proximum; omnes item supra pontificem. Rex, quia potentissimus: Dialis, qui universi mundi sacerdos, qui appallatur Dium; Martialis, quod Mars conditoris urbis parens; Quirinalis, socio imperii Romani Curibus ascito Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque arbiter habetur rerum divinarum humanarumque. Per la risalenza dell’ordo sacerdotum attestato da Festo, vedi soprattutto G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 155 [= Id., La religione romana arcaica, cit., 138 s.]; sul testo cfr. anche F. D’Ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica, cit., 91 s.; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari, 1987, 108.

 

[118] Commenti in E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Buch VI, 8. unveränd. Aufl. (rist. 4ª ed. 1957), Stuttgart, 1984, 334 ss.; R.G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber sextus, Oxford, 1977, 260 ss.; E. Paratore, Virgilio, Eneide, III (Libri V‑VI), Milano, 1979, 358 s.; cfr. anche K. Büchner, Virgilio, 2ª ed., Brescia, 1986, 482. Per un inquadramento più generale, vedi, fra gli altri: F. Christ, Die römische Weltherrschaft in der antiken Dichtung, Stuttgart, 1938, 145 ss.; E. Beckemann, Der Friede des Augustus, 2ª ed., Münster im Westf., 1954, 37 s.; W.P. Basson, Virgil, Roman history and the Romans’ destiny. Notes on Aen. VI 836-853, in Akroterion 20, 4, 1975, 83 ss.; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans énéide de Virgile, cit., 135 s.

 

[119] A. Wlosok, Römischer Religions- und Gottesbegriff in heidnischer und christlicher Zeit, in Antike und Abendland 16, 1970, 44. Nello stesso senso, M.A. Levi, Augusto e il suo tempo, Milano, 1986, 327.

 

[120] Servio, in Verg. Aen. 6,852.

 

[121] Cfr., in tal senso, F. Klingner, Virgil und die römische Idee des Friedens, in Id., Römische Geisteswelt, 4ª ed., München, 1961, 601. Più in generale, sull’uso del verbo imponere vedi J.B. H(offmann), v. Impono, in Thesaurus Linguae Latinae, VII.1, Lipsiae, 1934-1964 [ma 1938], coll. 650 ss.; sul verbo vedi anche A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 521.

 

[122] Sulle implicazioni del testo virgiliano, vedi F. Eggerding, Parcere subiectis. Ein Beitrag zur Vergilinterpretation, in Gymnasium 59, 1952, 31 s. Parcere i nemici sottomessi, motivo ricorrente nella riflessione politica e giuridica dell’età repubblicana (Cicerone, De off. 1,35; Tito Livio 30,42,16-17), diventa nell’ideologia augustea uno dei cardini dell’azione del princeps (Res Gestae 1,3,15-16).

 

[123] Penetranti considerazioni di I. Lana, La concezione della pace a Roma. Lezioni, Torino, 1987, 84. Da vedere anche H. Haffter, Politischen Denken im alten Rom, in Id., Römische Politik und römische Politiker, cit., 52 ss., in particolare 53; A. Traina, v. Superbia, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma, 1988, 1072 ss., in partic. 1074. Più in generale, sulla superbia come categoria della lotta politica, J. Helleguarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la Rèpublique, Paris, 1963, 339 ss.

 

[124] Cfr., da ultimo, F. Sini, Impero Romano e religioni straniere: riflessioni su universalismo e tolleranza nella religione politeista romana, in Sandalion 21-22, 1998-1999 [ma 2001], 57 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 1 ss.

 

[125] W.S. Teuffel, Geschichte der römischen Literatur, II, 7ª Auffl., Leipzig, 1920 [rist. an. Aalen, 1965], 137 s.; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, cit., 380; i frammenti sono stati raccolti da H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, Lipsiae, 1907 [rist. Roma, 1964], 457 ss.

 

[126] H. Funaioli, Grammaticae Romanae, cit., 461 fragm. 10; F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco, cit., 66 s. Cfr., sempre di Festo, De verb. sign., p. 296 L.: Pacionem antiqui dicebant, quam nunc pactionem dicimus; unde et pacisci adhuc, et paceo in usu remanet.

 

[127] Cfr. anche Isidoro, Orig. 5,24,18: Pactum dicitur inter partes ex pace conveniens scriptura, legibus ac moribus comprovata; et dictum pactum quasi ex pace factum, ab eo quod est paco, unde et pepegit. Sul frammento ulpianeo vedi L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino, 1892, 165; F. De Visscher, Pactes et religio, ora in Id., études de droit romain public et privé, trois. ser., Milano, 1966, 410; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi, mezzi, fini, Napoli, 1966, 199.

 

[128] Per tutti A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, II, Heidelberg, 1954, 231 s.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 473.

 

[129] Il verbo pacere compare in due frammenti del codice decemvirale. Il primo è Tab. I,6-7: Rem ubi pacunt, orato. Ni pacunt in comitio aut in foro ante meridiem caussam coiciunto (Fontes Iuris Romani Anteiustiniani, I, cit., 28); il secondo frammento è Tab. VIII,2: Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto (Fontes, cit., 53).

 

[130] Ernout-Meillet, Dictionnaire étimologique de la langue latine, cit., 473; nello stesso senso, vedi C. Milani, Note sulla terminologia della pace nel mondo antico, in La pace nel mondo antico, Contributi dell’Istituto di storia antica XI, a cura di M. Sordi, Milano, 1985, 25.

 

[131] I. Lana, La pace nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 33, 1967, 9; nello stesso senso, vedi ora Id., Studi sull’idea della pace nel mondo antico, cit., 21 (estratto).

 

[132] M. Sordi, ‘Pax deorum’ e libertà religiosa nella storia di Roma, in La pace nel mondo antico, cit., 146 ss., in part. 147.

 

[133] Tito Livio 7,3,3-6; cfr. 8,18,11-12. Sulla lex: J. Heurgon, L. Cincius et la loi du “clavus annalis”, in Athenaeum 42, 1964, 432 ss.; Id., Magistratures romaines et magistratures étrusques, in Les origines de la République romaine, Vandoeuvres-Genève, 1966, 105 ss.; A. Magdelain, Praetor maximus et comitiatus maximus, in Iura 20, 1969, 257 ss.; M.J. Pena, La “lex de clavo pangendo”, in Historia Antiqua 6, 1976, 239 ss.; G. Poma, Le secessioni della plebe e il rito dell’infissione del «clavus», in Rivista di Storia Antica 8, 1978, 39 ss.; brevemente anche D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., 313 s.

 

[134] R. Orestano, I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967, 114.

 

[135] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico", cit., 83 ss.

 

[136] Già il poeta Ennio aveva cantato, in questo modo, l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est (Svetonius, August. 7); cfr. anche Livius 1,4,1. A. Grandazzi, La fondation de Rome. Réflexion sur l’histoire, Paris 1991.

 

[137] D. 1,2,2,7 (Pomponius libro singulari enchiridii. P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, xiv s.; M.P. Baccari, Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996], 759 ss.; Ead., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 9] Torino 1996, 47 ss.

 

[138] Virgilio, Aen. 1,275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine dicet. / His ego nec metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi. P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, 54. G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974, 209; R. Turcan, Rome éternelle et les conceptions gréco-romains de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca [Da Roma alla Terza Roma, Studi I], Napoli 1983, 16; A. Mastino, Orbis, kosmos, oikoumene: aspetti spaziali dell’idea dell’impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi III], Napoli 1986, 71.

 

[139] Questo significato di religio è attestato da Cicerone, De nat. deor. 2,8. Altri testi ciceroniani: De nat. deor. 1,117; De leg. 1,60; 2,30; De har. resp. 18.

 

[140] H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, 186 ss.; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, 226 ss.]; J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psychologique, (1957), 2a ed., Paris 1969 [rist. 1976], 57 ss. [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959 (rist. 1992), 59 ss.]; M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, Milano 1985, 146 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico", cit., 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente); Id., Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari 2, N. s., 1995 (ma 1996), 77 ss.; Id., La negazione nel linguaggio precettivo dei sacerdoti romani, in Il Linguaggio dei Giuristi Romani. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Lecce, 5-6 dicembre 1994, a cura di O. Bianco e S. Tafaro, Galatina 2000, 176 ss.; infine, ma con qualche riserva, R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, 167 ss.

 

[141] M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, 195.

 

[142] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., 49 [= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., 224].

 

[143] J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in Aa.Vv., Des ordres à Rome, direction de C. Nicolet, Paris 1984, 269 s.

 

[144] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., 50 [= Id., Scritti di diritto romano, cit., 225].

 

[145] C. Bailey, Phases in the religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn. 1972], 76.

 

[146] D. 1,1,1,2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit.