N. 5 – 2006 – Contributi

 

Il costituzionalismo inclusivo*

 

Pietro Pinna

Università di Sassari

 

 

 

Secondo la concezione che risale al costituzionalismo della rivoluzione francese, cioè alle origini, il diritto costituzionale e lo stato sono un binomio inscindibile. Quello riguarda questo, naturalmente, tanto che non c’è neppure bisogno di dirlo: per diritto costituzionale si intende il diritto costituzionale dello stato. Del resto, nello Stato liberale, quindi durante tutto l’Ottocento, la politica era soltanto statale, non si poteva neppure immaginare un centro politico ed un processo di unificazione extrastatali. Funzioni statali erano, sì, attribuite ad istituzioni periferiche, i comuni, le province, i dipartimenti, ecc., ma erano funzioni e poteri amministrativi, in quanto tali non politici. Il decentramento dunque non toccava la sfera del diritto costituzionale, ma quella del diritto amministrativo. Il fenomeno peraltro non minava neppure l’unità amministrativa, la quale, in particolare in Italia, è stata lo strumento fondamentale dell’unificazione nazionale.

Il monopolio statale della politica è stato via via eroso, a partire dai primi anni del Novecento, da quando si sono insediati «nuovi, diversi soggetti della lotta politica, con o senza Stato, con o senza contenuto statale»[1]. La coincidenza tra la politica e lo stato, l’unità politica statale, è finita nel momento in cui la società civile si è politicizzata, quando i molteplici e diversi interessi sociali (specie quelli operai e popolari, esclusi dallo Stato liberale) si sono organizzati e hanno trovato rappresentazione politica nei sindacati e soprattutto nei partiti. Lo Stato liberale, ossia lo stato di diritto borghese, raffigurato come sovrano secondo la concezione classica dello stato risalente a Machiavelli, Hobbes e Bodin, non ha retto alla politicizzazione o ‘corporativizzazione’ della società[2].

La nuova realtà dello stato è stata rappresentata come costituzione in senso materiale da Mortati[3]. La teoria mortatiana corrisponde alla condizione nella quale gli interessi e la strutturazione sociali sono usciti dall’ambito apolitico della società civile e si sono organizzati politicamente nei partiti. La costituzione in questa situazione, secondo Mortati, è posta dal partito politico. Ha origine sociale e non statale. E’ tuttavia il risultato di un processo di statalizzazione degli interessi sociali: questi costituiscono lo stato già nell’istante in cui il partito che li organizza politicamente vince lo scontro con i partiti antagonisti e impone un suo orientamento politico. Una parte quindi stabilisce l’indirizzo politico dello stato, di tutti. L’unità politica è non più lo stato in sé, ma la linea politica del partito dominante. Non è più intrinsecamente statale, perché il progetto di società borghese presupposto dallo Stato liberale non è più un progetto di tutti e che si impone a tutti. Altri, in qualche caso opposti, progetti di società hanno trovato rappresentazione politica e pretendono potere. Quindi lo stato, in quanto borghese, non può essere l’unità come tale; può esserlo piuttosto se esprime l’indirizzo del partito dominante. Il progetto di società borghese è diventato una parte, un partito, non è più tutto. Ma questa parte è politica, ha la stessa natura dello stato, è portatrice di un progetto totalitario, che riguarda, cioè, l’assetto sociale complessivo. Il partito è parte totale, è l’unità politica in potenza, che diviene attuale, allorché prevale su quelli ad esso avversi. Lo stato non è più l’unità politica, ma soltanto un mezzo per realizzarla; è al servizio del partito dominante. Le finalità di questo partito dirigono politicamente tutte le attività statali. Lo stato ha dunque un indirizzo politico che lo unifica e che lo pone al servizio delle finalità della parte dominante della società. Questo indirizzo in conseguenza è esterno allo stato, proviene dalla società e si è affermato nella società. In definitiva, lo stato è indirizzato politicamente dalla strutturazione sociale.

La dottrina della costituzione in senso materiale esprime una concezione integrativa del partito politico. Da questo punto di vista, è parecchio diversa da quella decisionista di Schmitt. Infatti, la teoria schmittiana si propone di preservare la neutralità statale, cioè di porre lo stato al di fuori della partizione politica, che è potenzialmente dissolutoria dell’unità politica; quella mortatiana è diretta invece a costruire l’unità politica attraverso il partito. La diversa posizione riguardo alla partizione politica comprende anche e necessariamente un diverso atteggiamento rispetto all’integrazione nello stato degli interessi sociali. Mentre il discorso di Schmitt è chiuso in un ambito rigorosamente politico-statale, quello di Mortati è invece aperto alla società, agli interessi sociali nel momento in cui essi si organizzano in partito, quindi si politicizzano e si statalizzano. E’ questa la componente integrativa della teoria mortatiana, che la distingue in modo rilevante dal decisionismo schmittiano.

L’idea della costituzione come integrazione è stata elaborata da Smend[4]. Ad essa Mortati aggiunge il partito politico, il soggetto che organizza politicamente gli interessi sociali e li integra nello stato.

L’integrazione attraverso il partito politico accomuna situazioni costituzionali del Novecento di segno molto diverso: in particolare concerne tanto l’esperienza fascista quanto quella socialista-sovietica. Quindi l’integrazione partitica verosimilmente è una tendenza generale che in Europa ha attraversato i più importanti tentativi di soluzione delle questioni costituzionali sollevate dalla dissoluzione dello Stato liberale. Ha riguardato anche la fase iniziale della democrazia pluralista del secondo dopoguerra. L’integrazione è stata realizzata democraticamente, è stata autointegrazione democratica, e non eterointegrazione autoritaria, come le anzidette esperienze del primo dopoguerra; inoltre è stata determinata non dal partito unico, ma da più partiti. Il pluralismo di tale fase della seconda metà del Novecento è stato «”moderato”, perché imperniato e ordinato su un numero limitato di soggetti rilevanti»[5]. Ovviamente non è stato un cambiamento di poco conto. Ma pure in questa fase costituzionale, quella partitica è stata la forma di organizzazione politica che ha diretto lo stato. Il partito politico dunque ha continuato ad essere il luogo originario della politica, la sede nella quale gli interessi sociali sono stati rappresentati politicamente. Tuttavia, la politica si è svolta in ambito statale. Lo stato ha continuato ad essere un mezzo e non un soggetto della politica e, in più, è diventato il teatro della politica, lo spazio costituzionale dello scontro politico.

La novità dell’attuale fase del costituzionalismo è che lo stato non è più l’unico spazio costituzionale. Il pluralismo si è esteso, andando ben oltre la dimensione partitica e determinando la moltiplicazione non solo dei soggetti politici, ma anche degli ambiti e dei mezzi istituzionali della politica. Ciascuno spazio è organizzato in modo differente, ha la propria organizzazione costituzionale adeguata alle specifiche esigenze della comunità politica che esprime.

Le appartenenze sociali si sono moltiplicate e su di esse si sono radicate diverse pretese di riconoscimento di identità, che non possono essere più ricondotte all’idea universalistica propria dello Stato liberale. Secondo questa idea è l’individuo astratto il soggetto che va rappresentato politicamente e che è titolare dei diritti. La sua concreta caratterizzazione sociale è irrilevante e deve essere ignorata dal diritto. Ogni individuo spogliato della sua socialità è eguale all’altro e gli spettano i medesimi diritti. Le differenti appartenenze sociali non possono trovare rappresentazione politica. Lo Stato esprime, anzi è, l’unità politica, che non ammette alcuna divisione, quindi rappresentazione politica delle differenze sociali. Questa concezione universalistica «cieca alle differenze»[6] trascura in particolare la condizione di svantaggio delle classi popolari, le quali per emanciparsi da questa situazione si sono organizzate politicamente fuori dallo stato e hanno preteso i diritti sociali. La soddisfazione di queste pretese avanzate dal movimento operaio ha minato la sostanza borghese e la forma liberale dello Stato ottocentesco, innescando la crisi da cui ne è scaturito il costituzionalismo inclusivo giunto a maturazione nel Secondo dopoguerra. Le costituzioni di questa nuova fase del costituzionalismo comprendono le diverse appartenenze di classe espresse dai partiti politici. Sono le costituzioni dei partiti. La divisione sociale così è diventata pluralismo politico-partitico. Esse hanno sviluppato le politiche redistributive e hanno integrato i molteplici interessi sociali organizzati politicamente in partiti. In questo modo, si è ottenuta «la pacificazione dell’antagonismo di classe»[7].

Negli ultimi anni alle domande inerenti all’appartenenza di classe se ne sono aggiunte altre, collegate ad altre appartenenze: di razza, di genere, di religione ecc. Sono pretese di riconoscimento di identità culturali, che la globalizzazione e l’immigrazione hanno accentuato. Le domande sono non solo molteplici, ma anche difficilmente conciliabili. Si pensi, ad esempio, al caso dell’operaia di colore che può avanzare pretese diverse, di classe, di genere e di razza. L’operaia di colore infatti può richiedere una tutela differente da quella degli operai, in quanto donna; e diversa da quella delle donne, in quanto di colore; e può essere che tra le diverse pretese non vi siano punti di intersezione. In questo caso quindi non è dato trovare nessuna unità. La stessa persona è portatrice di pretese diverse e ciascuna di esse la rappresentano nella stessa misura, quindi nessuna di esse può essere sottomessa o sacrificata alle altre o sacrificata oltre misura. Va ricercata una conciliazione che comprenda le differenze. Il suo diritto fondamentale all’eguale dignità non può essere un’astrazione universalizzante che prescinde dalle concrete particolarità dell’esistenza sociale, quindi può essere scomposto in molti profili rilevanti, la cui conciliazione non può essere una unità, una sintesi, che escluda qualcuna delle appartenenze, dato che tutte e in eguale misura esprimono la stessa persona.

Restando fedele al principio integrativo che lo fonda, il costituzionalismo contemporaneo è chiamato a conciliare le nuove contrapposizioni pluralistiche o le vecchie contrapposizioni che oggi assumono forma pluralistica: sono l’uguaglianza e la differenza, l’universalismo e il particolarismo, l’unità e la molteplicità. Tali contraddizioni vanno risolte pluralisticamente comprendendo gli elementi particolari che le compongono, trovando quindi soluzioni equilibrate che non escludano, né sacrifichino eccessivamente alcuna parte, che comprendano tutti, offrendo la maggiore soddisfazione possibile a tutte le esigenze. Insomma, l’uguaglianza deve rispettare le differenze, l’universalismo non deve annullare il particolarismo, l’unità e la molteplicità vanno tutelate e rappresentate contemporaneamente. Per poter soddisfare queste pretese contraddittorie, secondo il principio inclusivo che fonda il costituzionalismo contemporaneo, bisogna ricorrere a principi sempre più astratti, a sistemi istituzionali e a procedure decisionali sempre più complessi ed articolati. In questo modo, infatti, si rappresentano le diverse appartenenze sociali della stessa persona e si offre la tutela giuridica capace di abbracciare le molteplici differenze. Si comprendono sia l’unità che la diversità, sia l’universalismo che il particolarismo, si tutelano le diverse pratiche culturali comunitarie e insieme i diritti fondamentali che trascendono le appartenenze particolari.

Il pluralismo partitico, espressione e forma politica di integrazione dell’appartenenza di classe, è ormai inadeguato a rappresentare le complesse identità sociali che oggi domandano riconoscimento. L’inclusione di queste domande richiede la moltiplicazione dei luoghi della rappresentanza democratica, delle istituzioni politiche e dei procedimenti decisionali. Al pluralismo politico-partitico si aggiunge il multiculturalismo; alle politiche redistributive si sommano quelle di riconoscimento. Lo stato, dopo aver perso l’unità politica, sta smarrendo l’omogeneità culturale.

La norma costituzionale della massima inclusione in questa situazione di pluralismo ‘ultrapartitico’ esige un sistema costituzionale complesso, che può essere raffigurato metaforicamente con una rete o una matrice. In esso le molte e diverse istituzioni politiche sono poste su un piano paritario. Hanno la medesima legittimazione democratica. Nessuna di esse pertanto può giustificare la prevalenza sulle altre. Nessuna istituzione è intrinsecamente superiore alle altre. Sono uguali, secondo il principio democratico: ciascun cittadino è rappresentato democraticamente, quindi in modo eguale, da ognuna delle istituzioni politiche[8]. In conseguenza il sistema costituzionale reticolare o matriciale[9] non è gerarchico, non ha un vertice che si impone alla base; non ha neppure un centro che prevale sulla periferia. Insomma, non ha una base, né un vertice, né un centro, né una periferia. I processi decisionali, non sono lineari, non procedono dall’alto verso il basso, né dal centro verso la periferia. Sono invece circolari: vanno dall’alto verso il basso e viceversa e dal centro alla periferia e viceversa; vanno insomma in tutte le direzioni. Ciascuna istituzione stabilisce relazioni con tutte le altre, secondo schemi non di dipendenza o di indipendenza, ma di interdipendenza. Nessuna istituzione politica può porsi come unità o sintesi dell’intero sistema. L’unità non è data, ma è costruita con l’interazione tra i molti nodi del reticolo istituzionale.

Se si assume l’interpretazione secondo cui la Costituzione contiene o presuppone la norma fondamentale della massima inclusione, l’unità e l’intesa vanno conciliate con la frammentazione e l’antagonismo. Da questo punto di vista il pluralismo è non un fatto negativo da eliminare, da ridurre al minimo possibile o da tollerare, ma una condizione positiva da sviluppare, è quindi un obiettivo da raggiungere, una norma cui improntare l’azione[10]. Quindi l’unità non può essere l’opposto del pluralismo, cioè non può essere conseguita a discapito delle molte e diverse parti. La norma fondamentale esige che tutti agiscano inclusivamente, comprendendo gli altri, quindi le differenze rappresentate dalle molte istituzioni politiche. Essa prescrive che tutti agiscano collaborativamente, orientati verso l’intesa, verso l’unità. Questa peraltro, in quanto comprensiva della diversità, è un processo che non ha mai termine; è cioè un continuo processo inclusivo o, per usare un concetto di Smend, integrativo, i cui risultati sono sempre parziali e insoddisfacenti. E’ evidente dunque che l’unità è la conciliazione con la frammentazione pluralistica e che la disposizione verso la collaborazione non esclude la competizione[11]. Peraltro l’unità non è un compromesso, conseguito per sovrapposizione degli interessi delle parti, il minimo comun denominatore tra soggetti che agiscono strategicamente[12]. Infatti, questa unità non è inclusiva nel senso previsto dalla norma fondamentale: è il risultato della frammentazione competitiva e non dell’azione orientata all’intesa e alla collaborazione; è la registrazione della situazione di fatto pluralistica, nella quale il compromesso è una necessità perché nessun soggetto è tanto forte da prevalere sugli altri. Non è dunque il risultato auspicabile secondo il principio inclusivo. Insomma è la minima non la massima inclusione possibile. Perciò non esprime alcuna conciliazione tra l’unità e la diversità, ma solamente un accordo precario.

 

 



 

* Questo scritto riproduce gran parte dell’Introduzione alla seconda edizione del volume Il diritto costituzionale della Sardegna, che verrà pubblicato prossimamente da Giappichelli.

 

[1] C. Schmitt, Premessa all'edizione italiana, in Le categorie del 'politico', Bologna, 1972, 23.

 

[2] L’idea della corporativizzazione è di S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, in Lo Stato moderno e la sua crisi, Milano, 1969, 23.

 

[3] C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Milano, 1940.

 

[4] R. Smend, Verfassung und Verfassungrecht, München-Leipzig, 1928, trad it. Costituzione e diritto costituzionale, Milano, 1988.

 

[5] O. Chessa, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, Milano, 2002, 279.

 

[6] C. Taylor, The politics of recognition, Princeton, 1992, trad. It. J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo, Milano, 1998, 29.

 

[7] J. Habermas, Die Einbeziehung des anderei, Frankfurt am Main, 1996, trad. it, L’inclusione dell’altro, Milano, 1998, 133.

 

[8] Cfr. O. Chessa, Corte costituzionale e trasformazioni della democrazia pluralistica, in Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. Tondi della Mura, M. Carducci, R. G. Rodio, Torino, 2005, 69, per il quale, infatti, «siccome i diritti politici si esercitano ad ogni livello di governo, tutti gli organi rappresentativi ti tutti i livelli di governo ricevono lo stesso tipo di investitura politica. Guardando alla rappresentanza politica dalla prospettiva dei diritti politici, cioè dalla prospettiva dei rappresentati (coloro il cui consenso è fondativo della legittimazione del rappresentante), non c’è alcun motivo per differenziare qualitativamente ed assiologicamente le funzioni rappresentative degli organi elettivi comunali, provinciali e statali, secondo una scala gerarchica che va dal meno pregiato al più pregiato: ad uguale legittimazione deve corrispondere uguale valore rappresentativo; e quindi le prestazioni rappresentatovi del livello di governo nazionale non possono godere di nessun particolare plusvalore rispetto a quelle dei livelli di governo inferiori».

 

[9] Per la rappresentazione matriciale cfr. D.J. Elazar, Exploring Federalism, The University of Alabama Press, 1987, trad. it. Idee e forme del federalismo, Milano, 1998, 12 ss.

 

[10] Per questa concezione normativistica del pluralismo, cfr. M. Rosenfeld, Just Interpretations. Law between Ethics and Politics, Berkeley, 1998, trad. it. Interpretazioni. Il diritto fra etica e politica, Bologna 2000, 31 s. e 324 ss.

 

[11] Cfr. ancora O. Chessa, Corte costituzionale, cit. 73 ss.

 

[12] Forse l’unità compromissoria somiglia al modello del «libro delle regole» di cui parla R. Dworkin, Law’s Empire, Cambridge, 1986, trad. it. L’impero del diritto, Milano, 1989, 198: «Esso [il modello] presuppone che i membri di una comunità politica facciano proprio un impegno generale ad obbedire alle regole stabilite o che sono parti di un accordo commerciale limitato e temporaneo. Queste persone obbediscono alle regole che hanno accettato o negoziato per un senso di obbligo e non per una semplice questione d’opportunità, ma muovono dal presupposto che il contenuto di queste regole esaurisce il loro impegno. Non sono consci del fatto che le regole sono state negoziate sulla base di un impegno comune verso principi sottintesi che sono fonte di ulteriori obblighi; ritengono invece che queste regole rappresentino un compromesso tra interessi o punti di vista antagonisti. Se le regole sono il prodotto di una negoziazione particolare, come nel caso del contratto, ogni parte cerca di concedere il minimo e di ottenere il massimo e sarebbe quindi iniquo, e non semplicemente errato, da parte di entrambi sostenere che loro accordo è tutto ciò che non è stato esplicitamente stabilito».