ds_gen N. 6 – 2007 – D & Innovazione

 

FOTO_BL’eredità perduta del diritto romano. Introduzione al tema[*]

 

Filippo Gallo

Professore Emerito

Università di Torino

 

L’argomento di cui mi occupo è un argomento nuovo o almeno è considerato sotto una prospettiva nuova. Giustiniano si è mostrato convinto di aver concentrato nelle tre opere, di cui consta la compilazione, tutto ciò che meritava di essere salvato del diritto romano dall’età di Romolo al suo tempo. In particolare il Digesto venne da lui considerato quale proprium et sacratissimum templum consacrato alla iustitia per il suo tempo e ogni evo futuro. L’asserzione di Giustiniano appare contraddetta dalle sue stesse Novellae constitutiones emanate successivamente ed impingenti sia sul piano normativo che su quello concettuale e dottrinale. Giustiniano si vantava peraltro, nel contempo, di aver apportato, nel campo giuridico, una radicale permutatio: una trasformazione prima mai vista e neppure pensata. Questa permutatio non è stata finora adeguatamente apprezzata; ancora oggi, in specie per quanto attiene ai problemi generali, non si ricerca se, con essa, Giustiniano avesse eliminato anche elementi di grande spessore e utilità del diritto antecedente, in quanto contrastanti con la sua concezione assoluta del potere, trasferito, per disegno divino, dal popolo all’imperatore.

Lo studioso che sostiene una soluzione o adotta una prospettiva nuova si colloca per forza di cose in posizione isolata e minoritaria. Egli tuttavia, pur con la consapevolezza di possibili errori, non può non nutrire fiducia nelle proprie controllate intuizioni e nei risultati della propria autonoma ricerca. Senza posizioni inizialmente isolate e minoritarie si ripeterebbero sempre le stesse cose e non potrebbe aversi, quindi, lo sviluppo scientifico.

La prospettiva da me assunta dell’eredità perduta del diritto romano, oltre a rappresentare, nel panorama degli studi giuridici, una novità, coinvolge una materia assai vasta, che non è possibile comprimere nello spazio di un’unica lezione. La mia esposizione odierna è limitata alla ‘introduzione’, anche se sono così costretto a sacrificare, in corrispondenza, il quadro sostanziale, augurandomi ovviamente, a Dio piacendo, di poter colmare la lacuna in futuri scritti o lezioni.

L’argomento affrontato richiede un chiarimento in relazione alla questione, al presente vivamente dibattuta, dei fondamenti del diritto europeo. Da vario tempo si assiste a una sorta di gara, tra i cultori di diversi settori della scienza giuridica, nell’individuare i predetti fondamenti. A questa gara partecipano a buon diritto i romanisti. Com’è noto, nell’ordinamento italiano vigente degli studi universitari, la materia «Fondamenti del diritto europeo» è inserita nel settore scientifico-disciplinare «Ius/18 Diritto romano e diritti dell’antichità». Indipendentemente da questo, è certo che il diritto romano (esattamente, come si dirà, il diritto giustinianeo, quale venne assunto nella scuola di Bologna) ha influito, in modo decisivo, sulla successiva evoluzione del diritto in Occidente. Con tutto ciò, non si può dire che esista chiarezza in ordine ai fondamenti del diritto europeo. Secondo una semplificazione, avente autorevoli sostenitori, ma, a mio avviso, inaccettabile, essi si risolverebbero nella vicenda storica antecedente. In coerenza ogni ricerca storico-giuridica attinente alla nostra tradizione avrebbe ad oggetto gli indicati fondamenti. A mio avviso, come, nel campo edilizio, le stesse fondamenta possono sostenere costruzioni diverse, così, in quello giuridico, sugli stessi fondamenti possono innestarsi norme e soluzioni disparate. Non ho difficoltà ad esplicitare che, a mio parere, la nozione di fondamento non trova corrispondenza in quelle, amplissime, di norma e di soluzione giuridica, ma piuttosto in quella, più ristretta, di idea guida o linea portante: penso cioè che possano indicarsi come fondamenti, in campo giuridico, le idee guida o linee portanti di un dato sistema o di un dato settore di esso. Ad esempio, il principio democratico basato sulla sovranità popolare può avere – e ha avuto storicamente – una pluralità di esplicazioni in merito alla produzione del diritto. il limite è la congruenza con tale principio. Inoltre l’impiego dell’espressione ‘fondamenti del diritto romano’ non appare sempre esente da ambiguità, oltre che in relazione al passato, tra il riferimento al presente e al futuro: agli elementi e criteri che stanno a base della situazione attuale ed a quelli da utilizzare per la prospettata unificazione del diritto europeo. Il che trova profili di spiegazione, se non di giustificazione, nel fatto che il tema in oggetto ha attratto l’attenzione degli studiosi ed è stato configurato come materia autonoma di insegnamento in connessione col processo di formazione dell’Unione europea, tendente, almeno nelle declamazioni, all’indicata unificazione sul piano giuridico.

La visuale dell’eredità perduta del diritto romano implica la presa di coscienza e la considerazione della vicenda storica di cui fu oggetto il medesimo diritto. In particolare essa conduce a discernere, in tale vicenda, la fase alla quale risalgono gli elementi che hanno maggiormente influenzato la successiva tradizione occidentale (e che è rappresentata, come si vedrà, dal diritto della compilazione giustinianea) e la fase in cui si erano formati gli elementi poi accantonati – e decisamente banditi da Giustiniano – e, quindi, non più recuperati dalla scienza giuridica (e che è rappresentata, come si dirà, dal diritto dell’età repubblicana, cogli sviluppi, o le involuzioni – a seconda dei punti di vista –, che seguirono nel principato).

La ragione del recupero dell’eredità perduta del diritto romano è duplice: da un lato, nella sfera per ora da me considerata delle concezioni generali del diritto, le dottrine dominanti sono tuttora inficiate da condizionamenti ideologici derivati da Giustiniano; dall’altro lato gli elementi perduti (la loro ispirazione), che mi propongo di recuperare, erano invece aderenti alla realtà e alle esigenze umane (al loro equilibrato bilanciamento). Credo che il diritto e la scienza giuridica debbano essere liberati dai condizionamenti ideologici che si sono via via accumulati nella storia. Il diritto è così com’è, non come si vorrebbe che fosse; gli strumenti ideologici portano a stravolgere la realtà, facendo apparire come esistenti elementi che non esistono e come non esistenti elementi che viceversa esistono.

La dimostrazione di tutto ciò potrà essere data solo con la compiuta trattazione del tema, la quale, come ho detto, non può essere svolta in questa lezione introduttiva. Rimedio, in qualche modo, anticipando almeno un argomento.

Nelle comuni rappresentazioni e definizioni del diritto appare tralasciato un dato elementare, ma al tempo stesso fondamentale, della realtà. Leggete i manuali, sia di diritto romano che di diritto civile, leggete le trattazioni circa la nozione di diritto (adduco, quale esempio, la diffusa voce Diritto, scritta con la consueta competente lucidità da Giovanni Pugliese per l’Enciclopedia delle scienze sociali) e ditemi se trovate, in esse, adeguatamente rappresentato il dato che il diritto ha natura artificiale: che è in tutto e per tutto un prodotto umano. Come ho detto, il dato risulta in generale trascurato.

Ci si può chiedere quali siano le conseguenze di questa deficienza. Il fatto che il diritto è un elemento artificiale è gravido di conseguenze. Come per costruire una nave (qui a Taranto navi e barche sono di casa) occorrono determinate tecniche e criteri, che si tramandano e perfezionano nelle successive generazioni (se pure non sono mancati e non mancano temporanei regressi), così per produrre (e applicare) il diritto occorrono un’apposita tecnica ed appositi criteri. Insomma, se il diritto è, come è, un prodotto umano, bisogna preoccuparsi, come avevano già percepito i giuristi romani, di elaborare la tecnica e acquisire i criteri per produrlo nel modo migliore possibile. Ed è grave, a mio avviso, che tutto ciò venga trascurato dalla scienza giuridica.

Ho appreso con piacere che nella Facoltà giuridica di Benevento viene insegnata la materia Interpretazione del diritto. Già negli anni 90 del secolo corso avevo lamentato, in uno scritto pubblicato sulla rivista Panorami, che nelle Facoltà giuridiche italiane non si studia o si insegna come si fanno le leggi (il modo principale, nel nostro e in altri Paesi europei, di produzione del diritto), osservando che non possiamo aspettarci che tale studio venga impartito in altre Facoltà, ad esempio di chimica e di medicina. E avevo pure osservato che, per lo più, nelle Facoltà giuridiche, non si insegna neppure come si fa l’interpretazione: si insegnano i contenuti delle norme e delle sentenze, destinati in molti casi a cambiare rapidamente, e non si insegna all’aspirante operatore del diritto e futuro giurista l’unica cosa che conta e gli servirà veramente nella vita, vale a dire a cavarsela da solo di fronte a un problema giuridico impostandolo e risolvendolo correttamente.

La fondatezza dei rilievi richiamati risulta anche dal libro di Natalino Irti, Nichilismo giuridico, sul quale ho espresso il mio radicale dissenso in uno scritto apparso da poco nella Rivista di diritto civile. Lo studioso ha creduto di scoprire che il diritto è fatto dall’uomo e sentite come egli si esprime in due distinti passi in argomento.

«L’età moderna ha esteso al diritto la parola più audace e crudele: ‘produrre’. Le norme giuridiche, al pari di qualsiasi bene di mercato, sono ‘prodotte’: vengono dal nulla e possono essere ricacciate nel nulla».

«La ‘tecnica’ del diritto si è fatta propriamente tecnica. Non serve più a conoscere la verità, o a dedurre norme da un ordine sopra – o extra – storico (divino o naturale che sia), ma a garantire la razionalità della produzione. Questa parola – terribile per l’immagine del distruggere e costruire, del trarre dal nulla e ricacciare nel nulla – ha preso possesso del diritto. Le norme sono ‘prodotte’: al apri di ogni merce, offerte ai consumatori, usate, logorate, sostituite».

Da quando esiste il diritto è sempre stato prodotto dall’uomo (non è mai esistito, nella realtà terrena, diritto prodotto altrimenti) e il dato era già pienamente percepito e valutato nella scienza giuridica romana. L’artificialità del diritto si trova espressa nella definizione celsina di esso come ars boni et aequi. Di per sé la produzione del diritto non è terribile, né audace o crudele; è un dato della realtà, come lo sono la costruzione di un aereo e quella di un edificio. Come il linguaggio si è rivelato uno strumento valido per le relazioni umane e creazioni artistiche, così il diritto è apparso uno strumento finora insostituibile per assicurare la pacifica convivenza nelle aggregazioni umane. Il linguaggio e il diritto sono oggettivamente prodotti utili. La malvagità risiede – può risiedere – nell’animo e negli intenti umani: nel loro uso distorto da parte dell’uomo, il che può verificarsi per ogni elemento da lui prodotto. Così è malvagia l’emanazione di norme per lo sterminio di un popolo, la costruzione di un aereo per lo sganciamento di bombe atomiche su popolazioni inermi e l’apprestamento di un locale sotterraneo per rinchiudervi persone sequestrate.

L’accantonamento del dato in esame, che Natalino Irti ha ritenuto di scoprire, ha dato luogo, nella scienza giuridica, a una lunga catena di travisamenti. Addirittura nella scuola storica è stato sostenuto che il diritto si autoproduce e, per la consuetudine, l’idea della formazione spontanea (suggerita dal raffronto con la produzione legislativa) continua tuttora ad essere sostenuta. Mi sovviene per un raffronto - ovviamente da farsi con le opportune cautele - l’episodio biblico del vitello d’oro. Ne riferisco i tratti salienti, per quanto notissimi.

«Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna» [dal monte Sinai], «si affollò intorno ad Aronne e gli disse: ‘Facci un Dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosé, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto’. Aronne rispose loro: ‘Togliete i pendenti d’oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie e portateli a me’. Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello fuso. Allora dissero: ‘Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto’. Ciò vedendo, Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: ‘Domani sarà festa in onore del Signore’. Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per darsi al divertimento».

Gli israeliti sapevano perfettamente che il vitello d’oro era stato fatto costruire da Aronne con la fusione dei pendenti muliebri da essi conferitigli. E sapevano pure che era stato Mosé a farli uscire dal paese d’Egitto, come da essi stessi premesso nella richiesta ad Aronne. Eppure non esitarono ad elevare il vitello in tal modo fuso a loro Dio, declamando che era stato lui a farli uscire dall’Egitto già prima di essere stato costruito.

Il diritto è uno strumento apprestato dall’uomo, che peraltro, rimovendo questo dato, tende, in base ad accreditata teoria, a farne il proprio padrone, ritenendosi assoggettato a qualsiasi norma da esso posta, anche se prescrivente crimini, purché risulti emanata nella forma prescritta. In questa raffigurazione la divinità o il padrone, verso cui si dichiara l’indiscriminata soggezione, diventa quest’ultima.

Cari giovani che i ascoltate, permettetemi che vi dica, con tutta l’energia di cui sono capace, di rifiutare le lusinghe delle teorie che, in qualsiasi modo, pervengono a giustificare la prescrizione e il compimento di crimini. Per quanto autorevolmente sostenute e, in apparenza, logiche, si tratta di  teorie che contrastano, in linea generale, con le esigenze umane e, specificamente, con i fini del diritto.

Alla luce dei rilievi fatti si deve dire che la supposta scoperta dell’Irti circa la produzione del diritto da parte dell’uomo non appare ingiustificata nel panorama circoscritto delle dottrine tuttora dominanti nella nostra attuale scienza giuridica, caratterizzate (a mio avviso, inficiate) dal distacco dalla realtà. Tuttavia, se la scienza romanistica, anziché attribuire al diritto romano l’attuale concezione corrente del diritto, avesse posto adeguatamente in luce quella trasfusa da Celso figlio nella definizione dello stesso come ars boni et aequi, verosimilmente lo studioso avrebbe evitato i travisamenti in cui è incorso.

Tale definizione, a lungo accantonata o considerata con sufficienza – sotto sotto talora schernita –, è, a mio avviso l’elemento da cui occorre iniziare il recupero dell’eredità perduta del diritto romano. In essa la sussunzione del diritto nel genere ars ne evidenzia l’artificialità, la sua produzione da parte dell’uomo, mentre la differenza specifica, individuata nel bonum et aequum, delinea nel contempo gli indispensabili connotati che lo caratterizzano (in assenza dei quali esso non si riteneva sussistere) e i supremi criteri per la sua produzione, interpretazione e applicazione. La concisione tacitiana e la stessa manchevolezza (in punto della prescrittività) della definizione non devono trarre in inganno: essa è uno scrigno prezioso, che non ha finora perso valore.

La ricerca dell’eredità perduta del diritto romano è per me rivolta alla revisione funditus della scienza giuridica attuale, a cercare – per quanto sommessamente, non posso fare a meno di dirlo – di promuoverne la rifondazione, eliminandone il difetto principale, costituito dal disancoramento dai dati reali, particolarmente palese nell’impostazione dei problemi generali, quali la concezione del diritto, la sua produzione, interpretazione e applicazione, i distinti compiti del legislatore, del giudice, del giurista, l’idea di giustizia. Nell’ottica adottata da Ulpiano, nei confronti degli astratti postulati della filosofia stoica, si deve dire che, negli ambiti considerati, l’attuale scienza giuridica non è vera (aderente ai dati della realtà) ma simulata (finta, in quanto non rispondente alla realtà di cui sono elementi le esigenze umane).

Adduco, come esempio, la persistente configurazione del diritto naturale nella nostra tradizione, secondo – in via di somma approssimazione – due linee principali: la riconduzione di tale diritto a Dio, o alla natura, e, rispettivamente, alla ragione umana.

A sostegno della prima posizione è stato autorevolmente rilevato (Tommaso d’Aquino) che il diritto è scritto nelle cose: all’uomo basta leggerlo. L’asserzione è però priva di riscontro nella realtà. Così non si scorge, nell’acqua che sgorga dal suolo o scorre su di esso, l’indicazione se sia pubblica o privata. Una stessa acqua, in base alle mutate esigenze e vedute, è stata considerata ora privata e ora pubblica. Tanto meno si trova indicato in qualche luogo se si debba ammettere o non ammettere l’usucapione e quale sia, nel primo caso, la durata del possesso per il suo compimento (uno, due, cinque, dieci o ancora più anni). Filosofi e teologi possono elaborare, riguardo al diritto, tutte le possibili teorizzazioni, ma non possono cambiare il dato di fatto che il diritto è un prodotto umano.

La seconda posizione è frutto di equivoco e lo alimenta. Non è dubbio che il c.d. diritto naturale è riconducibile alla ragione umana. Non sono però accettabili le illazioni che ne vengono tratte. In primo luogo il dato non caratterizza il diritto naturale rispetto ad altre parti o configurazioni del diritto. Anch’esso, infatti, come queste ultime, è prodotto dall’uomo con la peculiare facoltà, nella quale si ravvisa la ragione. In secondo luogo non appare idoneo a caratterizzarlo nei confronti di tutti gli altri prodotti umani, dal momento che pure questi vengono posti in essere con l’uso di tale facoltà. In terzo luogo non consente neanche di sceverare la produzione di diritto buono da quella di diritto cattivo (sia pure il più malvagio) e dalla stessa commissione di crimini. Anche per questi ultimi, infatti, l’uomo usa, seppure – si ritiene - in modo distorto l’indicata facoltà: si pensi alla progettazione ed esecuzione di un ‘omicidio perfetto’.

Emerge l’impiego improprio dell’aggettivo ‘naturale’, indice di una distorsione sostanziale, L’uomo ha creato il linguaggio, ma non può disattenderne le regole e convenzioni. Non si indica con lo stesso segno un dato e il suo contrario; non si indica un elemento col segno apprestato per esprimere il suo contrario: ad esempio, ciò che è buono col segno ‘cattivo’. Nel nostro caso, il segno ‘naturale’, evocante ciò che è prodotto dalla natura, viene impiegato per indicare un elemento artificiale, in tutto e per tutto opera dell’uomo. Non disconosco l’alta ispirazione della posizione giusnaturalistica considerata, ma non posso, come ho detto, non ritenerla frutto e fonte di confusione.

Da tempo ho rilevato una corrispondenza  tra il bonum et aequum nella definizione celsina del ius e la ragionevolezza ed uguaglianza nella nostra carta costituzionale, alla quale limito il raffronto, che peraltro potrebbe essere esteso a carte costituzionali di altri Paesi e ad atti internazionali sui diritti dell’uomo. Aequum ed eguaglianza indicano l’eguaglianza nel campo giuridico. Bonum esprime, nella visuale del risultato, la soluzione buona (ottimale: quella migliore possibile), che si consegue con l’uso della ragione; da parte sua la ragionevolezza evidenzia, nella prospettiva della valutazione umana, la conformità alla ragione della soluzione adottata: ovviamente sempre con la tensione alla migliore possibile. Accanto ai fondamentali aspetti di convergenza rilevati, si colgono tuttavia, tra le due impostazioni, differenze che meritano di essere poste in luce.

Celso, definendo il diritto come ars boni et aequi (l’arte del buono e dell’equo: di ciò che è buono ed equo, si intende nella sfera giuridica), individuò parallelamente, nel bonum et aequum, sia gli indispensabili connotati del diritto (in assenza dei quali esso non esiste), sia i supremi criteri ai quali esso è (deve essere) improntato. Viceversa gli autori della nostra carta costituzionale esplicitarono soltanto l’eguaglianza (art. 3), nella quale, inoltre, non pervennero a percepire il supremo criterio ispiratore del diritto, limitandosi a collocarlo tra i «principi fondamentali» della costituzione e, quindi, dell’ordinamento. Alla prima deficienza ha ovviato la Corte costituzionale, enucleando dal principio di eguaglianza quello di ragionevolezza. Al superamento della seconda deve provvedere, in primis, la dottrina, così come ho mostrato nello scritto pubblicato negli Studi in onore di Pietro Rescigno. Effettivamente, come il bonum et aequum, la ragionevolezze a l’uguaglianza non attengono alla disciplina di determinate materie (proprietà, impresa, imposizione fiscale, pubblica istruzione, ecc.), bensì costituiscono i supremi criteri che debbono guidare nella posizione e applicazione di ogni singola norma, come reggere l’ordinamento nel suo insieme.

Bonum et aequum’ rispondono ad un’ottica più concreta che non ‘ragionevolezza e uguaglianza’. La lingua latina disponeva di più segni di quella italiana per esprimere diversi aspetti dell’uguaglianza. Come esempi di tali aspetti possono addursi l’eguaglianza , di carattere matematico, tra le quote ereditarie di due figli succeduti al padre morto intestato, e quella, a base valutativa, tra i beni, che vengono in concreto suddivisi tra essi: rispettivamente una casa in campagna e un alloggio in città, un prato e una vigna, un anello e due orecchini, ecc. A prescindere dalla serie aequabilis, aequabilitas, aequabiliter, si possono richiamare le catene ‘aequalis, aequalitas, aequaliter’ ed ‘aequus, aequitas, aeque’. L’aggettivo ‘aequalis’ e gli altri termini della prima catena erano idonei ad esprimere l’eguaglianza fisica o matematica, aequus e gli altri segni della seconda si attagliavano, viceversa, ad altri aspetti dell’uguaglianza, fra i quali quello dell’uguaglianza proporzionale, peculiare al fenomeno giuridico.

Nella lingua italiana la catena ‘uguale, uguaglianza, ugualmente’, solitamente usata nel linguaggio comune, come in quello giuridico, non offre, per forza di cose, una consimile duttilità.

La ragionevolezza indica la rispondenza alla ragione, sottintendendone l’uso per fini buoni. L’uomo usa però la facoltà, in cui si identifica la ragione, anche per fini cattivi, come, secondo l’esempio fatto, nell’ideazione di un delitto perfetto. La prospettiva del bonum (del buono, di ciò che è buono), adottata da Celso escludeva, o per lo meno, allontanava, la possibilità del riferimento alla ragione anche per fini cattivi, o addirittura malvagi.

Come ho detto, il mio disegno di promuovere una revisione (ho parlato sopra di rifondazione) della scienza giuridica è limitato, in questa fase, ai problemi generali del diritto. Rilevo tuttavia che essa, anche così circoscritta, influenza le soluzioni concrete. Esemplifico a proposito del problema delle lacune dell’ordinamento (se esse esistano e, in caso positivo, se e come possano essere colmate), adducendo, in argomento, la decisione emessa nel dicembre scorso dal tribunale di Roma nel procedimento cautelare N.R.G. 78596/2006, relativo al caso Welby, che aveva suscitato allora tanta attenzione e scalpore nell’opinione pubblica. L’argomentata decisione del giudice romano meriterebbe un esame dettagliato. Mi limito tuttavia a riferirne due brani particolarmente significanti in ordine al problema indicato, il secondo dei quali conclude (tralasciando la questione spese) la parte motiva.

– «Può … affermarsi che il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal Comitato Nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla Convenzione europea, nonché condiviso anche in prospettiva morale religiosa. Esso, tuttavia, sul piano dell’attuazione pratica del corrispondente diritto del paziente ad ‘esigere’ e a ‘pretendere’ che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita…, in quanto reputata di mero accanimento terapeutico, lascia il posto alla interpretazione soggettiva ed alla discrezionalità nella definizione di concetti sì di altissimo contenuto morale e di civiltà e di intensa forza evocativa …, ma che sono indeterminati e appartengono a un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall’intervento del Giudice, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all’analogia o ai principi generali dell’ordinamento».

– «In altri termini, in assenza della previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato ‘accanimento terapeutico’, va esclusa la sussistenza di una forma di tutela tipica dell’azione da far valere nel giudizio di merito e, di conseguenza, ciò comporta la inammissibilità dell’azione cautelare, attesa la sua finalità strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito. Solo la determinazione politica e legislativa, facendosi carico di interpretare la accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati terminali, di dare risposte alla solitudine e alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli operatori sanitari ed alle istanze di fare chiarezza nel definire concetti e comportamenti, può colmare il vuoto di disciplina, anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentono di prevenire abusi e discriminazioni…».

Anche in relazione ai brani riferiti la mia critica è ridotta all’essenziale.

Il giudice romano ha ragione nel ritenere illusorio e contraddire il convincimento del legislatore italiano del 1942, secondo cui il ricorso all’analogia e ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello stato consentirebbe in ogni caso la colmatura delle lacune, che si presentano (ma, in realtà, sarebbero solo apparenti) nella previsione normativa. Il futuro caso nuovo, proprio perché tale, è, per definizione, ignoto: nessuno può sapere, prima che esso si presenti, come sarà configurato e se, quindi, rientrerà o non rientrerà nell’ambito previsionale delle norme e principi stabiliti nel sistema. Nella nostra tradizione il rilievo di immancabili vuoti previsionali nel senso detto, in ogni sistema giuridico, risale per lo meno a Catone. Occorre peraltro precisare che, nella visione romana richiamata, i vuoti si rinvenivano nelle norme poste (noi diremmo nella legge), non nel diritto.

Il torto, se così si può dire, attribuibile al giudice, è stato di adagiarsi nell’alveo del comune sentire, non tenendo conto del mutamento recato nel nostro sistema giuridico dall’emanazione della carta costituzionale: precisamente nella recezione in essa – non importa se, come ho rilevato, senza la consapevolezza dei suoi autori – dei supremi principi della ragionevolezza e uguaglianza. Eppure si è trattato di un mutamento, in potenza, epocale, destinato ad incidere, con l’apporto della scienza giuridica, sull’intero sistema, capovolgendo, in apicibus, lo stesso rapporto tra legge e diritto. A proposito dei principi generali del diritto il legislatore del 1942 era ancorato alla visione giustinianea, secondo la quale esso è subordinato alla legge: in questa visione si è insegnato che il diritto dipende in toto dallo stato, che è opera esclusiva del legislatore, il quale lo pone (lo fa e lo disfa a proprio piacimento) mediante la legge. La posteriore introduzione nel sistema dei supremi principi indicati ha comportato il ritorno (del quale occorre finalmente mettere a frutto le implicazioni) alla prospettiva della definizione celsina del diritto come ars boni et aequi. Come ho già mostrato, in questa prospettiva il diritto sovrasta la legge, la quale deve rispettarne la sostanza, commisurata al bonum et aequum, a cui possono ricondursi la ragionevolezza ed uguaglianza.

La manchevolezza rilevata sta alla base della incoerenza, che la decisione presenta. La motivazione è costituita da un’argomentazione volta a dimostrare, in ordine al caso da decidere, l’esistenza, nel nostro sistema, di un vuoto normativo non colmabile da parte del giudice, ma solo ad opera del legislatore. Essa giustifica solo in apparenza (da un punto di vista estrinseco formale) l’«inammissibilità del ricorso», dichiarata, quindi, nella parte dispositiva. La portata pratica del dispositivo non cambia a seconda della motivazione. Nel caso il giudice, basandosi sul vuoto normativo, ha respinto il ricorso, così come avrebbe fatto se lo avesse giudicato in contrasto con una norma in vigore. E la stessa astensione del giudice dal decidere si tradurrebbe, in realtà, in una decisione, equipollente, per chi promuove la controversia (come in generale per le parti), al rigetto della sua domanda.

La motivazione del giudice romano sembra preludere (e si presente in ogni modo congrua) alla promozione di un’apposita procedura intesa a colmare il vuoto normativo, così come risultava previsto nel sistema giustinianeo della compilazione, a proposito dei casi nuovi o dubbi, e come lo è stato nell’esperienza francese, in forza dell’istituto del référé législatif, ed in altre esperienze giuridiche, grazie ad istituti consimili.

La verità è che, nei sistemi in cui non è prevista l’iniziativa del giudice per assicurare la colmatura dei vuoti normativi, egli deve pronunciarsi su tutti i casi, per i quali ha competenza, a lui sottoposti. Il che appare necessario per evitare la patente ingiustizia insita nell’indiscriminato costante rigetto della domanda proposta, in cui si concreta, in difetto della prevista colmatura, la constatazione del vuoto normativo. Com’è noto, l’art. 4 del titolo preliminare del codice civile francese prescrive che «le juge qui refusera de juger, sous prétexte du silence, de l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi, pourra être poursuivi comme coupable de déni de justice». Se pure la formulazione dell’articolo è da riconnettere storicamente all’abrogazione del référé législatif, esso è espressione di un principio generale, operante nei sistemi giuridici, nei quali non compete al giudice l’attivazione per la colmatura dei vuoti e la correzione delle storture legislative. D’altronde, come ho già rilevato, anche l’astensione dal decidere costituisce, in realtà, una decisione. E si tratterebbe, obiettivamente, della soluzione peggiore, a causa della necessaria uniformità di trattamento di tutti i casi, congiunta all’assenza di valutazione. Chiaramente l’apertura all’ingiustizia non appare limitata al déni de justice contemplato nella norma francese citata.

Gli elementi fondanti della definizione celsina sopra richiamata del diritto mostrano che le difficoltà incontrate, sia sul piano teorico che su quello pratico, dal giudice romano non hanno base nella realtà, ma nell’ideologia, che non ne tiene conto.

Il versamento del diritto nell’ars riflette il dato di fatto che il diritto, in quanto elemento artificiale, è opera dell’uomo, che lo produce, lo elabora, interpreta ed applica. La connessa precisazione che il diritto è l’ars boni et aequi esplicita gli imprescindibili requisiti della disciplina della convivenza umana, esprime la differenza specifica dell’ars iuris nei confronti delle altre artes ed enuncia i supremi criteri che guidano le attività in cui si esplica il fenomeno giuridico. Tali attività sono molteplici e svariate (ne sono esempi significativi i differenti compiti del legislatore, del giudice e della dottrina), ma hanno tutte, in comune, l’ispirazione e tensione al bonum et aequum nei profili indicati.

Il giudice romano, ritenendo di individuare un vuoto normativo colmabile solo dal legislatore, ha argomentato nella linea della visione giustinianea, ponente la legge (e il legislatore) al di sopra del diritto. Viceversa, la definizione celsina, che risolve il diritto nell’attività umana indirizzata al bonum et aequum e da essi guidata, colloca, come ho già detto, il diritto al di sopra della legge. Sia il legislatore che il giudice sono persone umane (una singola persone o una pluralità di persone: collegio o assemblea); l’uno e l’altro assolvono compiti peculiari, non scambiabili o confondibili (il primo provvede alla emanazione di norme generali ed astratte e il secondo alla decisione di casi concreti), ma entrambi devono conformare la propria attività al bonum et aequum. Uno stesso soggetto può trovarsi, in contingenze diverse della vita, nell’esercizio della funzione di legislatore e di quella di giudice.

Non è vero, contrariamente a quanto supposto nella decisione in oggetto, che solo il legislatore disponga degli elementi necessari per intervenie in presenza di lacune normative. Intanto, nella prospettiva della divisione dei poteri, al legislatore è preclusa, anche in tale evenienza, la decisione di casi concreti. D’altra parte anche il giudice ha a disposizione ed è tenuto ad usare, nella propria attività, i supremi criteri del bonum et aequum, così come può procurarsi i necessari elementi conoscitivi.

Come ogni altra, pure le questioni poste dai vuoti normativi vanno risolte alla stregua del bonum et aequum, in aderenza alle oggettive esigenze umane, non in base a precostituite presupposizioni ideologiche.

Si profilano, in proposito, due ordini di constatazioni.

E’ assodato che nessun legislatore è stato ed è in grado di prevedere tutti i casi che potranno presentarsi in futuro, evitando così il profilarsi di lacune normative. Del pari nessun legislatore è stato ed è in grado di provvedere in anticipo, o comunque in modo tempestivo, all’adeguamento delle norme esistenti (si pensi alle decine di migliaia di quelle in vigore in Italia) ai mutamenti che intervengono nelle sottostanti situazioni ed esigenze sociali. Si danno quindi, in ogni sistema (se pure non vengono evidenziati per ragioni ideologiche), sia casi non rientranti nella previsione delle norme in vigore, sia casi, in ordine ai quali, l’applicazione delle norme, di cui entrano nella formale previsione, dà luogo a soluzioni contrastanti col bonum et aequum (secondo la rappresentazione romana, ad iniquitates).

Nei casi riferiti la via di non decidere, teorizzata dal giudice romano,ma da lui stesso non seguita in fatto, è la soluzione peggiore possibile. Come si è mostrato, il giudice, decidendo di non poter decidere, in realtà decide e decide male.

La conclusione si impone da sola. E’ ancora da richiamare, per completezza, in argomento, la funzione della iurisdictio (distinta dalla iudicatio), che ebbe tanto rilievo per lo sviluppo del diritto nell’esperienza romana e costituisce uno degli elementi più significativi dell’eredità perduta del diritto romano, di cui perseguo il recupero. La sua rimozione, consolidata nella compilazione giustinianea, non ne ha eliminata l’esigenza, com’è mostrato dal persistere, nell’esperienza storica, dei due ordini di casi richiamati, nei quali si presenta necessaria l’individuazione, in sede giudiziaria, del diritto da applicare nel caso concreto.

Osservo, infine, che l’auspicata rifondazione della scienza giuridica dovrà avere come corollario quella del corso degli studi nel campo giuridico (in contrasto, nelle Facoltà giuridiche italiane, di cui ho discreta conoscenza, con l’indirizzo prevalso negli ultimi decenni). Senza entrare nell’argomento, richiedente un’apposita trattazione, formulo il rilievo, di carattere preliminare e insieme generale, che gran parte del tempo al presente dedicato allo studio dei contenuti delle norme poste e delle sentenze pronunciate, dovrà essere destinato all’apprendimento, al livello teorico e nell’applicazione pratica, dell’ars iuris, sia in relazione alla produzione del diritto, sia, soprattutto, alla sua elaborazione, interpretazione e applicazione.

Passo ora a richiamare, per indicem e senza pretesa di completezza, la concatenazione di avvenimenti e ragioni, che hanno determinato e consolidato la perdita e, quindi, precluso – finora – il recupero degli elementi in considerazione del diritto romano.

La loro perdita si è avuta entro la vicenda storica del diritto romano.

Dapprima tali elementi sono stati via via rimossi dal sistema nel corso del mutamento istituzionale costituito dalla transizione dalla forma repubblicana, a base democratica, a quella del dominato, a carattere assoluto, attraverso la fase intermedia del principato. I termini essenziali del mutamento, esplicatosi in primis sul piano giuridico, sono noti anche a non romanisti. Meritano in particolare di essere ricordate la sottrazione al popolo della sovranità, a cui è inerente il potere di creare diritto, e la burocratizzazione sia della giurisprudenza che della funzione giudiziaria, con la conseguente esclusione di entrambe dal circuito della produzione del diritto, ora concentrata, grazie all’eliminazione anche nel concorso in essa del senato, nel potere imperiale a carattere assoluto.

Successivamente Giustiniano si propose, per quanto possibile, la definitiva cancellazione degli elementi in oggetto nei testi legislativi e scolastici apprestati con la compilazione. Possono in specie addursi, al riguardo, la consapevolezza, espressa nella costituzione disponente il riordino degli studi giuridici, di aver operato una trasformazione senza pari nel campo giuridico (detta, in aderenza alle nuove vedute, legum permutatio), la prescrizione, impartita ai commissari incaricati della compilazione, di apportare ai testi utilizzati tutti i tagli, aggiunte e modifiche occorrenti per il loro adeguamento alle nuove vedute ed esigenze, e il divieto, sanzionato penalmente, sia di confrontare la nuova scrittura dei testi con quella originaria, sia di consultare e utilizzare qualsivoglia testo, antico o nuovo, diverso da quelli della compilazione.

Il disegno giustinianeo di utilizzare i testi antichi per rappresentare il diritto nuovo si presentava obiettivamente irrealizzabile. In esso l’ambiguità e la contraddizione tra la reverentia all’antiquitas e l’innovazione sono in re ipsa. Peraltro, la prima, come risulta dal luogo (§10) della costituzione Tanta, dove è enunciata, si estrinsecò per forza di cose solo negli aspetti esteriori, coprenti le modificazioni ordinate dall’imperatore e costituenti oggettivamente falsificazioni, aggravate, a ben vedere, dal divieto del loro accertamento. Giustiniano perseguì una nuova teorizzazione nel campo giuridico, rappresentata come legum doctrina, in consonanza con l’assetto del dominato, nel quale tutto il potere – che lo stesso Giustiniano disse, a proposito delle esplicazioni giuridiche, di non voler dividere con chicchessia – era concentrato nella carica imperiale. Già poco dopo la pubblicazione del primo Codice egli respinse e derise, nella prospettiva della nuova teorizzazione, i dubbi avanzati da taluni circa l’esclusiva spettanza all’imperatore, in una con la conditio legum, della loro interpretatio (C. 1,14,12).

Il metodo usato per la compilazione spiega il fatto che in essa sono rimasti elementi del diritto antico. Sovente peraltro uno stesso elemento ha assunto, nel sistema della compilazione (il dato va accertato caso per caso), un significato diverso da quello che aveva avuto in quello repubblicano e imperiale. E lo studioso deve tenerne conto nella ricostruzione, secondo un’abusata semplificazione, sia del diritto classico che di quello giustinianeo.

Adduco, quale esempio, la definizione celsina del diritto, la quale nella veduta del giurista classico esprimeva, in consonanza al sistema allora in vigore, la preminenza del diritto sulla legge, mentre nel sistema giustinianeo appare conformata all’avvenuto capovolgimento, che ha portato la legge al di sopra del diritto. La conformazione risulta da una serie di elementi che richiamo brevemente.

La definizione celsina del diritto è riferita nel titolo primo, de iustitia et iure, del Digesto, ma è omessa nel titolo corrispondente delle Institutiones, contenenti, secondo quanto ideato da Giustiniano, i prima legum cunabula (detti anche totius legitimae scientiae prima elementa e totius eruditionis prima fundamenta atque elementa).

Nel sistema della compilazione l’ars iuris, così rimossa dai fundamenta della legitima scientia, era affare esclusivo dell’imperatore (legislatore); in coerenza anche la rispondenza delle norme poste al bonum et aequum risultava affidata, per l’avvenuta eliminazione della iurisdictio, al suo esclusivo giudizio (in definitiva al suo volere), sottratto ad ogni controllo. Non solo non esistevano più le condizioni per un influente controllo politico-sociale sull’attività legislativa, il più possibile compresso in sistemi quale il dominato, ma era venuto meno anche quello tecnico-giuridico esercitato dal magistrato, che svolgeva l’indicata funzione, su ogni pretesa fatta valere in giudizio, al fine di assicurare che il ius ad essa applicato fosse consono al bonum et aequum, anche in assenza di una pertinente previsione normativa o in difformità da quelle esistenti. Ed era esclusa la stessa critica da parte dei giuristi. Appare chiaro che, nel sistema della compilazione, la definizione celsina del ius aveva perduto rilievo sia teorico che pratico: non era più percepito il significato pregnante che essa aveva avuto nella raffigurazione del giurista classico e non ne emergeva un altro ritenuto meritevole di attenzione. Il che spiega la sua successiva rimozione dalla scienza giuridica, benchè sia riferita nel Digesto e lo sia con indubbio rilievo nell’incipit del titolo di apertura de iustitia et iure.

In Occidente, per la consolidazione della perdita degli elementi in oggetto del diritto romano, è stata determinante la ripresa degli studi giuridici a Bologna, e poi in Europa, sulla base della compilazione giustinianea. La vicenda, fino a quasi la metà del 1800, quando era già in corso la fase della codificazione, è stata tratteggiata con efficacia dal Savigny nel primo volume del System des heutigen römischen Recht. Lo studioso pose in luce che il diritto giustinianeo differiva, da un lato, dall’anteriore diritto romano e, dall’altro, dal diritto romano attuale (aggettivo con cui si rese in italiano quello tedesco heutig). Nel diritto raffigurato come diritto romano attuale non era confluito tutto il diritto giustinianeo, e aveva avuto ingresso anche diritto di altra derivazione, inoltre gli stessi elementi che erano derivati dalla compilazione giustinianea avevano sovente assunto un significato diverso da quello che avevano avuto in essa.

Parallelamente lo studioso rilevò che gran parte del diritto in vigore si era formato sulla base dei testi della compilazione, «nei limiti e nella forma speciale, che» avevano «ricevuto nella scuola di Bologna», aggiungendo che, «quando, quattro secoli dopo, a quelle fonti, ne furono, a poco a poco, aggiunte delle nuove, l’esclusivo dominio di quelle precedenti era da sì lungo tempo e così universalmente riconosciuto, anzi esse erano tanto penetrate nella pratica giuridica, che fu del tutto impossibile attribuire alle nuove scoperte un uso, che non fosse meramente teorico», e sottolineando ancora «che è solo per questo motivo che il diritto antegiustinianeo è stato escluso da qualunque applicazione e» che questa «esclusione è ammessa da tutti senza eccezione».

L’espressione heutiges römisches Recht, usata dal Savigny ( e prima da G. Hugo), non è forse la più felice. Con essa, tuttavia, il massimo esponente della scuola storica ha indicato elementi chiari e aventi base nella realtà, se pure essi sono stati in seguito trascurati e travisati. La stessa distinzione tra diritto romano e diritto romano attuale, ribadita con forza dallo Scialoja, è stata ben presto obliterata dagli studiosi, come mostra ancora il recente saggio di T. Giaro, Diritto romano attuale. Mappe mentali e strumenti concettuali (in P. G. Monateri, T. Giaro, A. Somma, Le radici comuni del diritto europeo. Un cambiamento di prospettiva, Roma 2005).

Dopo la cessazione, anche in Germania, con l’emanazione del BGB, dell’usus modernus pandectarum (secondo la rappresentazione della scuola storica, dell’heutiges römisches Recht) si è delineata la prospettiva – inaccettabile in senso rigoroso – dell’attualizzazione del diritto romano. Solo in apparenza la vicenda ad essa sottesa (venuto meno il diritto romano attuale, subentra, in suo luogo, l’attualizzazione del diritto romano) si presenta lineare. In realtà essa riposa su un equivoco ed è fonte di confusione. Il c.d. diritto romano attuale era diverso dal diritto romano , il generico riferimento a quest’ultimo non tiene conto delle differenze, coinvolgenti anche elementi fondamentali, che esso aveva presentato nelle successive fasi , e, soprattutto, la declamata attualizzazione del diritto romano è un evento oggettivamente non realizzabile, anche a prescindere dagli elementi ritenuti estremi, quali la schiavitù e le discriminazioni nei confronti del sesso femminile.

Si deve però aggiungere che anche la critica dell’attualizzazione è andata oltre il segno, colpendo bersagli inesistenti. Appare sicuro, in specie, che non rientra nell’attualizzazione l’utilizzazione di elementi del diritto romano per la valutazione di elementi dell’attuale esperienza giuridica. Se, infatti, fosse non solo declamata, ma realizzata l’attualizzazione del diritto romano, non vi sarebbe più spazio per l’utilizzazione nel senso detto. Si chiudono gli occhi di fronte al fatto che essa è ammessa senza riserve nello studio del diritto comparato e si opera una discriminazione, in proposito, nei confronti dello studio storico (della comparazione diacronica di cui esso sta a base).

Alla prospettiva dell’attualizzazione è sottesa la ragione di fondo che ha precluso, anche dopo la cessazione, nei Paesi di civil Law , dell’usus modernus pandectarum (non ebbe influenza, sul punto, l’eccezione della Repubblica di San Marino), il recupero degli elementi del diritto romano della fase repubblicana e imperiale rimossi dalla compilazione giustinianea. Essa è costituita dall’idea, per lo più latente, ma largamente radicata, dell’esistenza di forme giuridiche sganciate dalla realtà sociale e, come tali, applicabili a tutte le fasi del diritto romano, alla posteriore tradizione romanistica e ancora al presente. Avevo già osservato, in altri contributi, che tale idea sta alla base dell’elaborazione, negli ultimi due secoli, sia della dogmatica giuridica che della dottrina pura del diritto. Aggiungo, in questa lezione, che essa è pure presupposta dal posteriore indirizzo, che nega l’esistenza di interpolazioni, almeno sostanziali, nella compilazione giustinianea ed è sostenuto con particolare vigore da fautori dello storicismo puro. La negazione di interpolazioni sostanziali presuppone, in effetti, una corrispondenza sostanziale tra il diritto dell’epoca classica e quello della compilazione. Sono per contro indiscusse, numerose e, in molti casi, rilevanti le differenze intercorrenti, sia a livello teorico che normativo, tra l’uno e l’altro diritto. E non è possibile ritenere, a proposito del Digesto, che i giuristi classici, anziché riferire il diritto, anche controverso, del proprio tempo, o del passato, avessero anticipato le soluzioni e innovazioni scelte e  operate da Giustiniano, negli appositi interventi ufficiali attestati, per guidare l’esecuzione della compilazione. Si tratta, com’è noto, delle quinquaginta decisiones e delle plurimae aliae constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes: non poche, tenuto conto della prescrizione generale, già impartita nella costituzione Deo auctore, di apportare ai testi utilizzati tutte le modifiche, integrazioni e tagli occorrenti per adeguarli alle nuove esigenze e vedute. Anche la negazione di interpolazioni sostanziali, nella compilazione, è frutto di inavvertiti condizionamenti ideologici.

L’avvenuto radicamento nella tradizione occidentale di idee guida giustinianee o da esse derivate emerge, per la fase storica considerata dal Savigny, dalla stessa critica rivolta da F. Hotman, esponente dell’umanesimo giuridico francese, all’opera di Triboniano. Si è trattato, all’epoca, di una critica durissima. Ricordo l’accusa di soppressione ed eliminazione di tutte le leggi antiche, degli editti del pretore e dei senatoconsulti, giudicate nel loro insieme «un acte…autant digne du nom de Sacrilège, qu’il en fut oncques». Eppure, come enunciato nel titolo dato allo scritto in argomento (Antitribonian ou discours d’un grand et renommé Jurisconsulte…sur l’étude des loix…), la sua critica appare svolta all’interno della prospettiva giustinianea della scientia legum (non iuris).

Ancora al presente Aldo Schiavone, propugnatore fra i più tenaci dello storicismo nello studio del diritto romano, muove la propria critica all’attualizzazione dello stesso diritto dall’interno di concezioni elaborate nella nostra tradizione derivata dal diritto giustinianeo. Nella conclusione del suo ultimo libro (Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005) egli indica il lascito del diritto romano all’Occidente nel formalismo giuridico, che – rilevo io – si coniuga con visioni positivistiche nel ritenere decisivo, per l’esistenza del diritto, l’elemento formale (la sua posizione nelle forme previste) ed indifferente il contenuto prescritto, anche se iniquo. Il messaggio dello studioso è stato da me sottoposto ad esame critico in un saggio pubblicato negli Studi in onore di L. Labruna, al quale rinvio. Sintetizzando al massimo, si può dire che, all’insegna dello storicismo puro, è stato, da un lato, travisato il diritto romano (con l’attribuzione ad esso di un elemento estraneo, quale risulta il formalismo giuridico) e si è dato, dall’altro, un implicito avallo (quello di una storia bimillenaria) a storture tuttora presenti nella nostra scienza giuridica.

Come conclusione della mia lezione desidero esprimere a voi giovani, che mi ascoltate, l’augurio che il recupero dell’eredità perduta del diritto romano possa contribuire a sostituire alla dottrina del formalismo giuridico e della supremazia della legge sul diritto, quella dell’ars iuris e della soggezione della legge al diritto (ai supremi criteri che lo informano), non soltanto declamata, ma assicurata da un efficace controllo nella decisione dei casi, e che voi stessi possiate concorrere, in un futuro prossimo, al rinnovamento auspicato.

 

 



 

[*] Lezione tenuta il giorno 3 maggio 2007, su invito del Prof. Sebastiano Tafaro, Preside della II Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari con sede a Taranto, nel Salone degli Stemmi del Palazzo della Provincia di Taranto. [Il testo scritto, rivisto, è destinato agli Studi in onore di Remo Martini].