ds_gen N. 7 – 2008 – D & Innovazione

 

DOVERELegislazione ‘religiosa’ del IV secolo:

la prospettiva di CTh. 16, 1 e 2 [*]

 

Elio Dovere

Università di Napoli

“Parthenope”

 

Sommario: – 1. Una prospettiva. – 2. CTh. 16, 1 De fide catholica. – 3. La rubrica di CTh. 16, 2. – 4. Religio del vescovo e normazione. – 5. Christiana lex e ius principale.

 

 

1. – Una prospettiva

 

Ringrazio anzitutto gli amici dell’Istituto “Augustinianum”, promotori dell’incontro odierno, poi il preside, i professori e gli studenti della Facoltà Teologica.

Sono grato, per la loro presenza, al presidente dell’Associazione di Studi Tardoantichi professor De Giovanni, ai colleghi giusromanisti e ad alcuni dei miei cari studenti della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Parthenope”; un ringraziamento particolare, per essere intervenuto, va al vescovo della diocesi di Nocera - Sarno: si tratta di una fortunata circostanza perché più avanti proprio di vescovi dovrò parlare.

Di séguito, devo confessare come io sia particolarmente lieto non solo per essere ora in questa sede (qui ho studiato spesso, ancora frequento la bella biblioteca che è ai piani inferiori, e d’altra parte non posso dimenticare di aver pubblicato alcune delle mie cose proprio su Asprenas), ma anche per essere stato invitato in compagnia di alcuni studiosi che, sia pure indirettamente, negli anni ho sentito come maestri non giuristi: Tonino Nazzaro e Vittorino Grossi (ed è giusto ricordare, con loro, Angelo di Berardino). Oggi, però, sono anche triste per il fatto che quest’aula ancora mi ricorda un evento distante da noi forse una ventina d’anni, e legato a una persona purtroppo prematuramente scomparsa e assai cara, nel ricordo, a non pochi tra i presenti; invero, sto pensando alla discussione dottorale condotta qui da Luigi Fatica, e con molta dottrina concentrata sulla Defensio di Facondo di Ermiane: un testo, questo, che solo da pochi mesi ha finalmente trovato la sua prima traduzione integrale a stampa in italiano, ma purtroppo non in quella versio che fu del nostro caro Gigi.

Per ciò che concerne l’odierna Lectio occorre dire sùbito come il tema di questo intervento non sia stato scelto da me, bensì ‘suggerito’ dall’amico Luigi Longobardo. Se è vero, infatti, che non sono pochi gli anni da quando la mia attenzione è in gran parte concentrata sulla politica normativa romana d’argomento religioso, è pur vero che lo spazio che normalmente è consueto ai miei studi non è certo quello del secolo costantiniano quanto, piuttosto, il ristretto e assai meno indagato tratto della metà del V secolo — il segmento, in particolare (davvero poco frequentato dalla ricerca), tra concilio efesino (a. 431) e sinodo calcedonese (a. 451) — o, tutt’al più, il periodo dei decenni immediatamente successivi: dunque, per quanto riguarda specificamente le fonti tecniche dello studioso di diritto romano, il Codex Theodosianus, le novellae post-teodosiane, le leggi religiose del Codice di Giustiniano e, relativamente solo ai materiali patristici, in special modo gli scritti storiografici degli Scolastici Socrate, Sozomeno ed Evagrio di Epifania.

Del resto, sul mio tema, il quale forse potrebbe tornare utile a una migliore contestualizzazione della lettura del De vera religione di Agostino (operetta, come sappiamo, composta circa un lustro prima della morte di Teodosio il Grande), esiste da qualche anno una importante bibliografia storico-giuridica ben nota agli specialisti: su questa, dunque, solo pochissime parole.

A parte la monografia di Lucio De Giovanni sui rapporti chiesa-stato nel Teodosiano, apparsa ormai ventisette anni fa ma tuttora attuale nelle sue linee generali, all’interno del panorama letterario contemporaneo io credo che si debba senz’altro ricordare, e proprio sul nostro specifico arco temporale, un libriccino davvero prezioso, Legislazione imperiale e religione nel IV secolo: un lavoro, guarda caso edito dall’Istituto Patristico “Augustinianum” nel 2000 (n. 11 della collana dei Sussidi), che purtroppo, a mia scienza, deve però aver beneficiato di una diffusione davvero modesta. Il volumetto (scarse 200 pagine) accoglie tre diverse facce, ma ugualmente interessanti, dell’ampia questione riguardante la normazione religiosa tardoantica; si tratta di tre prospettive tracciate per un esemplare corso di perfezionamento patristico tenutosi nel 1996: Jean Gaudemet avrebbe offerto il quadro generale della legislazione emanata contro i religiosamente ‘diversi’, i contestatori, i separati (pagani, Giudei, eretici, donatisti); Paolo Siniscalco avrebbe ricostruito la collocazione personale dei sovrani-legislatori nei confronti del cristianesimo montante nel secolo dei costantinidi; Gian Luigi Falchi avrebbe esaminato in analisi — e questo, forse, già potrebbe rendere superfluo il mio intervento odierno — la diffusione della normazione di marca ecclesiastica nei secoli IV e V.

Ebbene, per non ripetere cose già dette egregiamente da altri, ho pensato che stavolta, grazie a qualche appunto tratto dalle mie ricerche pregresse, non sarebbe stato inutile tentare di gettare uno sguardo, fugace ma non superficiale, sulla politica delle cancellerie del IV secolo — come sostanzialmente mi è stato proposto — in una prospettiva parzialmente diversa da quella consueta a storici e giuristi: un punto di vista capace di lumeggiare a posteriori, partendo dall’insieme sistematico teodosiano delle costituzioni, entrando perciò in un paio di segmenti del Codice del V secolo, qualche aspetto primario dei rapporti constitutiones-religio negli anni precodificatòri (sostanzialmente fino al momento di passaggio fra Teodosio e Arcadio).

Per fare ciò, piuttosto che guardare al ‘solito’ titolo De haereticis, esuberante di leges negli anni della codificazione (ben sessantasei provvedimenti) e poi costantemente al centro dell’attenzione scientifica degli studiosi moderni, altre partizioni codificatorie, per esempio, sembrerebbero senza alcun dubbio più interessanti, non foss’altro che per la presenza di leggi del IV secolo particolarmente esplicite e ben più che significative sull’argomento che qui sollecita. Il titolo rubricato De fide catholica, cioè CTh. 16, 1 (e magari, aliunde, CTh. 16, 4. De his, qui super religione contendunt), è quello che già di primo acchito, e meglio di altri apparentemente più ‘intriganti’ (che so, il De apostatis), suggerisce l’inevitabile profondo rapporto corrente nel Tardoantico tra religio e attività normativa.

 

 

2. – CTh. 16, 1 De fide catholica

 

La prima costituzione del titolo De fide catholica, una legge di Valentiniano I dell’a. 364 — tra l’altro studiata in maniera impeccabile da Lucio De Giovanni —, sembrerebbe aver salvaguardato la libertà di coscienza individuale dei sudditi impedendo agli organi stessi dell’amministrazione imperiale di imporre ai soldati di fede cristiana la custodia dei templi pagani (in tale direzione, peraltro, nell’a. 323 già Costantino aveva fornito segnali sicuri: CTh. 16, 2, 5); dunque, con la legge in CTh. 16, 1, 1 la cancelleria occidentale avrebbe minacciato senza possibilità alcuna di equivoci, ammiccamenti o connivenze ‘interne’ i possibili contravventori della norma: «chiunque, giudice o apparitor, abbia posto degli uomini di religione cristiana a custodire i templi sappia che non si avrà riguardo né per la sua incolumità fisica, né per le sue ricchezze».

Nello stesso titolo, continuando, ci si può ancora soffermare su una constitutio di Teodosio I; questa, immediatamente, in qualsiasi ascoltatore presente in quest’aula non può che sollecitare il ricordo della impressionante mole bibliografica suscitata nel tempo: si tratta della celeberrima Cunctos populos, CTh. 16, 1, 2 del febbraio 380 (= CI. 1, 1, 1), altrimenti nota come Editto di Tessalonica. Di essa, però, quello che qui preme non è affatto ricordare la generale prospettiva ‘confessionale’ che pure solitamente si è voluta intravedere (sulla portata generale del provvedimento, d’altronde, come anche su altri argomenti omogenei, la dottrina non è punto concorde), quanto, viceversa, evidenziare il fulcro de fide; è interessante notare nel testo, cioè, l’atteggiarsi formale del legislatore rispetto al cuore del provvedimento medesimo (16, 1, 2 pr., che qui parafraso ovviamente abbreviando): «vogliamo che tutti i popoli restino fedeli a quel Credo tramandato dal divino apostolo Pietro e che è chiaramente seguito dal pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria». Per la cancelleria solo il vescovo romano e quello alessandrino avrebbero potuto sintetizzare l’assunto religioso che autoritativamente veniva suggerito ai sudditi: piuttosto che ricorrere a formule di fede astratte — invero, di séguito vi è solo un cenno, per quanto esplicito, al dogma trinitario —, essa preferiva ricorrere (come notava già Duchesne all’inizio del secolo passato) a punti di riferimento ben più concretamente rintracciabili, quegli orientamenti pastorali che altrove ho definito ‘teologicamente soggettivi’.

La scelta di fornire ai sudditi, e prima ancora ai funzionari periferici (esecutori nel quotidiano delle disposizioni normative centrali), alcuni exempla religiosi inequivocabili — il presule di Roma e quello di Alessandria, e ciascuno probabilmente scelto per motivi non irrilevanti — emerge come opzione per nulla casuale. E tanto essa appare poco casuale che la costituzione successiva nell’ordine del Codice, la 16, 1, 3 del 381, avrebbe poi indicato ben altro numero di vescovi come ancoraggio teologico per tutti i cristiani; undici sacerdotes, alcuni dei quali protagonisti del sinodo ecumenico non appena terminato a Costantinopoli (la legge è della fine di luglio, il concilio s’era chiuso all’inizio dello stesso mese), sarebbero stati indicati dal legislatore come le persone con le quali entrare necessariamente in comunione: Nettario, Timoteo, Pelagio, Diodoro, Amfilochio, Optimo, Elladio, Otreio, Gregorio, Terennio, Marmario. Solo la comunione con questi Padri, affermava la constitutio, sarebbe stato il metro dell’ortodossia: evidentemente per i cittadini, ma prima ancora per quei burocrati lontani dagli officia costantinopolitani; eretico, perciò, sarebbe stato solo colui che avesse dissentito — «fidei communione dissentiunt» sono le parole impiegate dalla cancelleria d’Oriente — dalla professione di fede dei vescovi contestualmente richiamati.

Nei fatti questa scelta comproverebbe quasi un atteggiamento, mi si lasci passare la locuzione, di ‘intima laicità’ del legislatore tardo; mai, infatti, egli avrebbe determinato nei testi normativi — non solo, dunque, nel luogo individuato — una specifica Formula per la religio dei sudditi, anzi egli avrebbe sempre e solo rinviati costoro al Simbolo proclamato dai Pastori. Tale opzione, stabilmente ribadita anche in séguito (sarà Arcadio, nell’a. 404, a proporre legislativamente la comunione con i vescovi Arsacio, Teofilo e Porfirio: CTh. 16, 4, 6), che nettamente e rispettosamente differenziava, presupponendole, sfere di competenza rigide tra palatium ed ecclesia, dunque tra ruolo dell’imperium e funzione del vescovo, troverà ulteriore, formale e definitiva conferma nel V secolo, col titolo appunto rubricato De religione (16, 11) a chiusura dell’intero Codice Teodosiano: ma questa è tutt’altra storia, che riguarda assai da vicino il sistema e ‘l’ideologia’ della prima codificazione ufficiale, e che ora porterebbe troppo lontano dalla nostra estensione temporale.

Dopo i pochi testi di cui ho rapidamente riferito traendoli, sostanzialmente, da uno solo fra i titoli del Teodosiano giusto per esemplificare una delle posizioni di fondo della politica normativa fino allo scorcio del IV secolo — atteggiamento allora importante, però, per la corretta individuazione della religio dei Romani delle due partes imperii —, dunque, dopo questa davvero essenziale rassegna, non mi pare inutile richiamare ora l’interesse non tanto su singoli altri documenti, come normalmente fa lo storico-giurista abituato alla esegesi del dettato imperatorio, quanto su una specifica rubrica ancora una volta rintracciata nel XVI libro del medesimo Codice. Quello che ora mi preme, cioè, in un modo per certi aspetti culturalmente complementare a ciò che finora ho detto sulla ‘scelta episcopale’ del legislatore tardo, è soffermarmi un momento sul semplice ma significativo dato rubricale del II titolo dell’ultimo libro teodosiano.

 

 

3. – La rubrica di CTh. 16, 2

 

De episcopis, ecclesiis et clericis è quanto si legge in capo al titolo successivo al De fide catholica, e infatti, come appunto anticipato dalla rubrica, si tratta di un segmento dedicato in via esclusiva alla gerarchia della ecclesia, tanto che al suo interno appaiono raccolti divieti e privilegia molteplici posti dalle cancellerie proprio per coloro che, istituzionalmente, alla realtà ecclesiastica strutturata afferivano. Orbene, già il semplice dato formale suggerisce un indizio efficace del corretto atteggiamento del ius principale nei confronti di quella materia religiosa che in qualche maniera esso era costretto a canalizzare, cioè a regolare seppure ‘esternamente’, per meglio disciplinare la vita dei sudditi (e così garantire, tra le altre cose, il corretto fluire dell’ordine pubblico): l’articolazione della rubrica implica una traccia per noi importante, e di sicuro omogenea con quanto finora evidenziato.

In essa, in successione, si trovano elencati tutti i soggetti sui quali era stata centrata la nutrita documentazione (si tratta di quarantasette leggi, di cui più della metà data tra Costantino e Teodosio I) che ivi veniva raccolta. Quasi che i commissari teodosiani del V secolo, guardando alla sostanza dei materiali selezionati per la specifica partizione codificatoria, avessero poi voluto effettuare un elenco per così dire ‘a scalare’, la rubrica suggerisce che sarebbero stati anzitutto condensati i provvedimenti riguardanti i vescovi; solo dopo, essa avverte che all’interno del titolo sarebbero state sistemate pure le norme relative alle ecclesiae e quelle poste per affrontare i non pochi problemi dei chierici. Se si riflette, anziché porre di séguito, gli uni dietro agli altri, gli uomini della struttura ecclesiastica e poi, magari in coda, l’organizzazione medesima che da questi era composta — oppure, e dal punto di vista strettamente istituzionale in un ordine (specialmente per il giurista) forse più appropriato, invece di porre la successione ‘chiese, vescovi e chierici’ (si pensi infatti, per esempio, ai futuri tituli giustinianei del Codex: 1, 2. De sacrosanctis ecclesiis ... e 1, 3. De episcopis et clericis ...) —, l’insieme esibito dalla rubrica di CTh. 16, 2 è quello che offre in posizione preliminare, e dunque idealmente privilegiata, i Pastori della catholica ecclesia.

Ciò che intendo sottolineare è che, senza urgenza alcuna di entrare minutamente nel contenuto delle singole leggi ‘religiose’ del IV secolo, a noi basterebbe già solo osservare come il Codice del secolo successivo avrebbe confermato con un minimo ma ragionato dato formale quello che l’intera pregressa normazione, quella che stamattina ci interessa e che era stata emanata tra Costantino e Teodosio, non poteva non aver considerato.

Era sotto gli occhi di tutti la presenza nell’àmbito delle comunità cristiane di questi personaggi, i vescovi (i sacerdotes, come frequentemente appaiono registrati nel corpus teodosiano), personaggi ben distinti sia dai chierici sia dai diaconi: non a caso, al gruppo dei credenti, questi ultimi apparivano più semplicemente come meri collaboratori del vescovo stesso durante la celebrazione dell’Eucaristia. Come sappiamo bene, e come ancora ci attestano gli Atti degli Apostoli e Le lettere a Timoteo e a Tito, fin dagli ultimi anni dell’età apostolica la chiesa si era dotata di un particolare ministero al fine di garantire a se stessa chi potesse assicurarle la fedeltà alla Parola, chi potesse cioè assicurarle l’unità intorno alla testimonianza degli Apostoli: in specie alle origini, infatti, come ben si immagina, il messaggio cristiano, portato ovunque da tante persone diverse, avrebbe potuto pure disperdersi in mille interpretazioni e dar vita a tradizioni tanto contrastanti da non potervi più riconoscere il progetto di Gesù. A questo ministero, col rito dell’imposizione delle mani e con l’invocazione dello Spirito Santo, venivano destinati solo alcuni tra i fedeli; questi, da allora in avanti, rappresentavano gli opportuni anelli nella catena della successione apostolica.

E dunque, tornando all’avvio di CTh. 16, 2, pur riconoscendo alla catholica ecclesia caratteristiche proprie, tali da meritarle uno specifico insieme legislativo che in certo senso prescindesse dai relativi rappresentanti ufficiali, coerentemente con quanto operato dai legislatori del secolo precedente il codificatore teodosiano avrebbe pensato anzitutto ai Pastori delle comunità ecclesiali, e significativamente li avrebbe anteposti nel Codice in sede di rubrica. I sacerdotes, nelle previsioni autoritative dei prìncipi cristiani, quelle che appunto sarebbero poi confluite nei tituli del Teodosiano, talora erano stati accomunati ai più semplici chierici (basti pensare, per esempio, a CTh. 16, 2, 20, una lex occidentale dell’a. 370 che onnicomprensivamente aveva parlato di «ecclesiastici»); ai vescovi, tuttavia, ancor più di frequente era stata riconosciuta quella che oggi chiameremmo una situazione legale di assoluta preminenza sia morale, sia più ordinariamente materiale, rispetto a ogni altro membro appartenente alle chiese cattoliche (sarà Onorio, poco dopo i nostri anni, che con la legge in CTh. 16, 2, 38 avrebbe finanche riconosciuto ai sacerdotes veri e propri compiti generali di difesa dei diritti ecclesiastici).

Eppure, nonostante tutto ciò, a dispetto quindi dell’attenzione particolare rivolta dalla normazione ai vescovi quali autorevoli rappresentanti delle singole ecclesiae, almeno per ciò che concerne il dettato testuale più antico in séguito sistemato in CTh. 16, 2 appare comunque qualche sbavatura. Continuando infatti con un’analisi del tutto formale — talora di interesse estremo per lo storico-giurista —, le espressioni legislative più risalenti idonee a identificare le referenze ecclesiali cui destinare attenzione non paiono essere state sempre perfettamente acconcie: non lo sembrano, di sicuro, a termini dell’ultima legislazione poi inserita nei libri teodosiani né ai sensi della ricca normativa postcodificatoria della metà del V secolo, quella di Teodosio II e quella di àmbito calcedonese del successore Marciano.

Giusto per esemplificare, in tale direzione si può guardare brevemente almeno un testo. Nella constitutio di CTh. 16, 2, 4 dell’a. 321 (= CI. 1, 2, 1), una legge della cancelleria costantiniana, si nota l’impiego di un lessico davvero generico nei suoi riferimenti ecclesiali: per indicare il privilegiato destinatario di alcune importanti previsioni il legislatore avrebbe utilizzato una locuzione dal senso assia ampio, ben nota al tradizionale glossario del ius publicum dei Romani ma appunto alquanto vaga per il contemporaneo contesto ecclesiale cristiano. Il provvedimento (di cui parafraso il testo) avrebbe stabilito quanto segue: «in punto di morte ognuno abbia la facoltà di lasciare ciò che vuole dei propri beni al santissimo e venerabile concilio della chiesa cattolica»; poiché «niente si deve maggiormente agli uomini rispetto al fatto che sia del tutto libera la volontà di testare, non foss’altro perché essa non torna due volte», a beneficiare dei bona testamentari, e «senza por limiti all’arbitrio» dei soggetti, perciò pur mancando il rispetto delle forme prescritte dal ius civile, avrebbe potuto senz’altro essere la catholica ecclesia. In effetti, e appunto questo va osservato, la legge parla esplicitamente del «venerabile concilio» anche se la volontà del principe appare senza alcun dubbio quella di favorire la comunità della specifica ecclesia dell’Urbe (non a caso il provvedimento, dato a Roma, risulta formalmente indirizzato «ad populum»); di sicuro aveva ragione Gaudemet nel sostenere che qui gli uffici burocratici ancora non si muovevano perfettamente a proprio a agio con la nomenclatura ecclesiastica: essa, per buona quota, doveva esser loro a quel tempo abbastanza sconosciuta.

Le leggi successive, viceversa, e comunque tutte quelle del II titolo del XVI libro teodosiano, appaiono di certo meno ‘tecnicamente’ imprecise nel riferirsi alle comunità cattoliche, a cominciare dalla constitutio 6, appunto del De episcopis (ancora di Costantino, a. 326), che avrebbe parlato di ecclesiae (ma, volendo, si può ricordare anche la c. 29 del 395 e altre ancora); esse, tuttavia, con lectores e hypodiaconi (16, 2, 7 a. 330), clerici (16, 2, 9 a. 349), presbyteri e diaconi (16, 2, 24 a. 377 [= CI. 1, 3, 6]), avrebbero sempre e più che su ogni altro focalizzato comunque un’attenzione privilegiata e forte su antistites (16, 2, 11 forse a. 354) ed episcopi (16, 2, 12 a. 355).

 

 

4. – Religio del vescovo e normazione

 

In definitiva, e a parte quanto or ora detto circa l’imprecisione formale della legge del 321 in CTh. 16, 2, 4, in tutte le altre costituzioni del De episcopis — con atteggiamento costante, dunque, per l’intero IV secolo — sono riconosciuti e tutelati il vescovo, la sua personalità, il ruolo significativo da lui tenuto nel contemporaneo mondo cristiano. E tali norme vanno idealmente affiancate all’attenzione che altri provvedimenti pure sistemati nel Corpus Theodosiani, ma sparsi in libri diversi dall’ultimo, avevano manifestato nei riguardi dei sacerdotes, attribuendo loro taluni oneri dall’importante evidenza civile; un rilievo tale, quello dei vescovi, che in certi casi esso era apparso perfettamente omogeneo con quello di altre attribuzioni che, solitamente, costituivano invece appannaggio proprio dell’imperium: si pensi solo alle importanti manifestazioni connesse, ratione materiae e ratione personae, con l’episcopalis audientia e perciò con le disposizioni più tardi contenute, per esempio, in CTh. 1, 27, 1 e nella Sirmondiana 1 (peraltro in CTh. 16, 2, 23, una legge occidentale dell’a. 376, era finanche riconosciuto un certo tipo di competenza giurisdizionale al sinodo diocesano).

Quello che dalle fonti appare con decisione estrema è che i vescovi — coloro che poi, nel V secolo, sarebbero stati legislativamente chiamati dal secondo Teodosio (CTh. 16, 2, 45 a. 421) a interpretare i canones dei concìli — avevano trovato una particolare predilezione con un insieme di carichi morali, sociali e giuridici loro assegnati, o più semplicemente ammessi come già esistenti, dal ius principale del IV secolo, e con la contemporanea (nei fatti preliminare) attestazione formale del loro altissimo ruolo a un tempo ecclesiale e civile. Non solo al vescovo (e talora al chierico) era garantita, rispetto a ogni altro suddito, una situazione del tutto singolare in merito alla imposizione fiscale oppure alla tutela giurisdizionale, ma in lui — e questo ai nostri fini, per certi aspetti, conta ancora di più — era formalmente ravvisata la posizione di interlocutore privilegiato del principe-legislatore: per esempio CTh. 16, 2, 10 da Costantinopoli si era rivolta «universis episcopis per diversas provincias»; CTh. 16, 2, 14, forse dell’a. 357 (= CI. 1, 3, 2), era stata indirizzata «Felici episcopo» mentre CTh. 16, 2, 20 «ad Damasum episcopum Urbis Romae»; CTh. 16, 2, 23, dell’a. 376, avrebbe finanche avuto in indirizzo una consistente serie nominativa, appunto, di altri sacerdotes (Artemio, Eurydico, Appio, Gerasimo et ceteris episcopis).

Questa posizione, per così dire, di centralità legislativa, e ugualmente le immunità che con larghezza era state via via attribuite ai Pastori — beninteso, sempre con forti salvaguardie a favore degli interessi statuali (penso, giusto per esempio, agli obblighi posti agli ecclesiastici nelle costituzioni presenti in CTh. 12, 1. De decurionibus, come pure in 7, 20. De veteranis o in 14, 3. De pistoribus) —, avevano trovato la loro ratio profonda in alcune valutazioni che il legislatore postdioclezianeo, evidentemente, non poteva non aver effettuato: considerazioni, va evidenziato, riguardanti sia i delicatissimi compiti che ben conosciamo e che del vescovo erano tipici all’interno del mondo ecclesiale cristiano, sia quelle altre attribuzioni che nel tempo, con importanti riverberi di natura civile, gli erano via via sempre più andate appartenendo (si pensi, in primis, alle funzioni giudiziarie ma pure a quelle generali di controllo su tutta la vita, anche familiare, del suo gregge, sulle attività dei chierici e, tendenzialmente, su quelle delle sempre più numerose e ‘rumoreggianti’ aggregazioni monastiche; ma si ricordino pure, e non secondariamente tra le altre competenze, tutti i compiti connessi all’amministrazione degli ormai ingenti patrimoni appartenenti a ogni singola ecclesia).

Il principe del IV secolo non solo non aveva disconosciuto tale posizione socialmente apicale, in qualche caso facendosene persino esplicito carico formale (ricordo CTh. 16, 2, 31 di Onorio [= CI. 1, 3, 10 a. 398], con l’assunzione civile della difesa dell’onorabilità del vescovo nel caso in cui essa fosse stata lesa da una iniuria alla quale, proprio per la sua posizione, l’ecclesiastico non avesse reagito), anzi, e qui vengo al nocciolo del discorso riallacciandomi a quanto detto all’inizio, egli aveva elevato il ruolo del sacerdos a proprio punto di riferimento nell’attività di normazione de religione. Il Pastore diveniva centralmente ineludibile in quell’attività della cancelleria che avrebbe riguardato da vicino il nucleo dell’intera materia religiosa; il vescovo, cioè, era sentito come imprescindibile dal legislatore nel momento della identificazione formale del Simbolo, la Formula del Credo, e della cogente proposizione di esso ai sudditi.

Il ius principale, in buona sostanza, da un lato poneva in essere tutto quanto potesse rivelarsi funzionale alla massima tranquillità quotidiana dei vertici tra gli operatori ecclesiastici, i quali sempre più apparivano impegnati in compiti di grande rilievo sul terreno del sociale; d’altro canto, per quello che qui interessa, la burocrazia cancelleresca si serviva della serenità ecclesiale così garantita per rintracciare comodi poli di orientamento, sempre e inequivocamente disponibili, per l’individuazione ‘ufficiale’ del Simbolo ortodosso della vera religio.

 

 

5. – Christiana lex e ius principale

 

Solo in CTh. 16, 5, 6, 2 (= CI. 1, 1, 2, 1), dell’inizio dell’a. 381, sembrerebbe di poter scorgere uno sbilanciamento di tale politica normativa, per così dire un apparente guizzo verso una sorta di propensione ‘teologica’ del legislatore teodosiano: «... qui omnipotentem deum et Christum filium dei uno nomine confitetur, deum de deo, lumen ex lumine: qui spiritum sanctum ...» avrebbe recitato il paragrafo della costituzione immediatamente successivo al principium. Tuttavia, la modestissima porzione del Simbolo di fede ivi trascritta non aveva affatto comportato alcuna compromissione teologica da parte del dominus imperiale; si trattava, infatti — e la legge esplicitamente lo ricordava (Is autem Nicaenae adsertor fidei ...) —, di una rapida tranche della Formula nicena che, appunto perché testualmente riportata in maniera del tutto incompleta, non poteva che essere canonicamente inefficace.

In realtà, nel IV secolo (ma sarà così almeno fino al latrocinium conciliare di Efeso del 449, e alla connessa legislazione oggi esclusivamente reperibile negli Acta Conciliorum Oecumenicorum riguardanti il sinodo calcedonese), solo grazie all’adesione dei singoli cittadini, di ogni suddito dello smisurato regnum, alla religio nelle forme professate da ciascuno dei vescovi prescelti dalla cancelleria, ed elencati nelle costituzioni — tutti sacerdotes, com’è ovvio, reciprocamente in comunione, — i pubblici funzionari, e specialmente i lontani rectores provinciarum, sarebbero stati in grado di individuare coloro da considerare ‘fuori’ dalla ecclesia, con tutte le gravi conseguenze del caso: per l’imperium il dissenso dei sudditi-fedeli dalla forma (il Credo), e dunque dalla sostanza, della religio del Pastore diveniva inammissibile. Riunirsi a discutere de fide negli spazi esterni alle ecclesiae (Arcadio lo avrebbe vietato in quella legge che ho richiamato prima, CTh. 16, 4, 6) avrebbe significato porsi fuori dall’esattezza della Christiana lex, e per conseguenza fuori dalla perfetta osservanza del diritto imperatorio che aveva ‘optato’ per i sacerdotes; sarebbe stato — ed era aspramente vietato che così fosse (CTh. 16, 4, 2 e 3, aa. 388 e 392) — come volersi occupare della religio in luogo altro da quello a ciò deputato, separati dalla ecclesia catholica, fuori dalla possibilità di verifica del Simbolo professato: una verifica naturalmente operata, a voler stare con l’orientamento costante della normazione del IV secolo, solo ed esclusivamente dal vescovo cattolico.

 

 



 

[*] Pubblico qui senza modifiche (perciò privo d’apparatus) il testo letto in occasione della Lectio Augustini Neapolitana, «Il De vera religione nel dibattito tra le religioni», tenutasi il 14 gennaio 2008 presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Sezione “San Tommaso d’Aquino”; fonti e bibliografia essenziali di riferimento, comunque, sono comodamente rintracciabili nel mio Ius principale e catholica lex (secolo V), 2a ed., Napoli 1999.