ds_gen N. 7 – 2008 – Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro

 

Feliciano Serrao

Università di Roma “La Sapienza

 

Secessione e giuramento

della plebe al Monte Sacro[1]

 

 

Sommario: 1. Ambiente storico: il reclutamento anomalo delle forze di lavoro, i «feneratores», l’asservimento dei debitori. – 2. Dalle «coniurationes» alla secessione. Le trattative col senato. L’accordo. – 3. L’elezione dei tribuni, la «lex sacrata», il giuramento. - 4. La «lex sacrata» del 492 e i tribunali rivoluzionari. – 5. L’inizio di una grande lotta di classe, per una nuova «forma civitatis». – 6. Potere negativo e positivo espressione bifronte di un’unica esigenza di lotta. – 7. L’inizio di una rivoluzione. – 8. Ideologia plebea e movimenti democratici successivi. Da Sicinio a Giulio Cesare.

 

 

1. – Ambiente storico: il reclutamento anomalo delle forze di lavoro, i «feneratores», l’asservimento dei debitori[2]

 

Corre l’anno 494 a.C. La monarchia dei Tarquini è caduta da quindici anni e la repubblica, sorta ad opera delle antiche gentes, si è venuta assestando e strutturando come una tipica comunità egemonizzata dai principes dell’aristocrazia, che saldamente la occupano e la possiedono sia dal punto di vista politico sia da quello economico. Esclusivamente patrizi sono i supremi magistrati; in mano patrizia trovasi, per una via o per l’altra (sia in quanto ager gentilicius, sia in quanto ager publicus), quasi tutto il terreno destinato allo sfruttamento agricolo. I plebei non sempre riescono a mantenere i piccoli lotti loro assegnati dai re (a partire da Romolo): le guerre ne impediscono, spesso, la coltivazione e l’indigenza li costringe a cederli al vicino più forte. Ma, quel che più conta, la loro esclusione dall’occupazione di ager publicus, che man mano si aggiunge al territorio della città, li rende disoccupati e privi di mezzi di sussistenza. L’unica vita per sopravvivere è nell’offrire il proprio lavoro ai componenti della classe dominante che «possiedono la città, possiedono la terra» (così dicono i capi plebei secondo Dionigi di Alicarnasso), chiedendo in cambio un prestito. Ma di solito la richiesta di un prestito di danari o di derrate viene accettata solo a due condizioni: l’asservimento volontario al creditore-datore di lavoro e per tutto il tempo che egli stesso crederà necessario affinché il debito sia estinto col lavoro prestato. Il rapporto trova formalizzazione giuridica in un negozio solenne di asservimento, il nexum appunto, che rende il debitore sottoposto al ferreo potere (mancipium) del creditore. Si realizza un modo anomalo di reclutamento e mantenimento delle forze di lavoro, che costituisce il cardine intorno a cui, specialmente grazie alla struttura potestativa della famiglia, si afferma e si diffonde un vasto sistema che permea di sé e qualifica tutta la formazione economica dei primi due secoli della repubblica. È l’ambiente in cui, per gli stessi motivi del nexum, s’invera e si diffonde il ius vendendi senza limiti del pater; si pone ed assesta l’esecuzione personale sul debitore condannato, o allo stesso parificato ai fini di applicazione della manus iniectio; si inserisce la noxae deditio dei componenti del gruppo familiare (figli o schiavi) che hanno commesso delitti privati. Così una parte, e precisamente la parte più povera, della società viene ad essere formata da cittadini asserviti in un gruppo familiare diverso da quello naturale, nello status di personae in mancipio, quali i nexi, i figli venduti dal padre, i noxae dediti, o nello status di addicti. La ragione, diretta o indiretta, di queste situazioni è una sola: l’indigenza, la miseria di una larga parte del popolo e, dato il monopolio patrizio delle fonti di produzione di ricchezza, la necessità di ricorso al credito e l’indebitamento. Indebitamento disastroso per i debitori, in quanto anche il credito è solo nelle mani di un’oligarchia che governa il sistema (credito-forza di lavoro-sfruttamento dell’ager e, magari, piccole produzioni e forniture di servizi) manovrando sui modi di reclutamento del credito e delle forze di lavoro mediante l’esercizio del fenus nelle sue applicazioni più crude ed audaci e sovente (a stare alle fonti, pur se talvolta esagerate) violente e feroci. E così, nell’ambito della classe dominante (in cui forse si incominciava già ad inserire qualche ricco plebeo dedito al commercio e alla navigazione) la parte contro cui sono rivolti i maggiori strali della plebe, stremata dalla fame, che insorge e si ribella, è costituita dai feneratores di qualsiasi provenienza.

La comune situazione di asservimento e la comune funzione di forze lavorative sottoposte, in ogni gruppo familiare, alla ferrea potestà del capocasa, ha fatto si che mentre nelle fonti giuridiche i vari status siano precisamente distinti in quanto alla loro genesi, pur se alcuni di essi raggruppati in una categoria generale quali personae in mancipio, nelle fonti storiografiche e letterarie, che, per quell’epoca, sono poi le più numerose ed ampie, la loro distinzione genetica e giuridica non è perfettamente percepita e siano presentati come una categoria quasi unitaria, senza nemmeno troppo distinguere fra gli asserviti mediante forme negoziali, almeno apparentemente volontarie, come i nexi, e gli asserviti per atto magistratuale (addictio) a conclusione dell’esecuzione personale mediante manus iniectio. E di questo non v’è da meravigliarsi troppo, data la loro concreta posizione nella familia padronale e la loro comune funzione di forze di lavoro comunque vincolate: infatti, ripeto, si tratta di fenomeno sostanzialmente unitario, sia dal lato economico che dal lato sociale, in quanto espressione di una formazione economica egemonizzata da una sola classe, quella patrizia. Tale fenomeno unitario non sempre è stato tenuto presente dagli storici e dai giuristi moderni, che sovente hanno ripetuto e talvolta addirittura aggravato la confusione trovata in testi antichi.

 

 

2. – Dalle «coniurationes» alla secessione. Le trattative col senato. L’accordo[3]

 

Il quadro fin qui rapidamente indicato deriva dalla grande crisi economica succeduta alla caduta del dominio etrusco; dalla scomparsa della parentesi commerciale della «grande Roma dei Tarquini»; dall’avvento di una repubblica tipicamente classista, in quanto dominata economicamente e politicamente dai soli patrizi.

In un tale quadro la base sociale della comunità, esclusa dall’occupazione di ager publicus, priva di mezzi di sussistenza, priva di lavoro libero remunerato, costretta quindi a far debiti di derrate o di danari per far fronte alle necessità della vita, ravvisa la causa di tutti i mali che l’affliggono nei debiti, pur se necessitati dalle insopprimibili esigenze dell’esistenza. E così la lotta contro i creditori crudeli, che infieriscono sui debitori divenuti lavoratori asserviti, la lotta contro i feneratores, ossia contro gli usurai che praticano prestiti ad alti interessi, la lotta per calmierare gli interessi, la lotta per la liberazione dei debitori asserviti, che gli storici antichi spesso identificano tutti coi nexi, sono le parole d’ordine intorno a cui, per iniziativa di capi che si vanno affermando nel vivo della generale rivolta, si forma e consolida l’unità di tutta la classe plebea, che nella sua gran maggioranza insorge contro l’egemonia patrizia e ricorre ad un’arma rivoluzionaria nuova, originale e foriera di grandi, impensabili sviluppi futuri.

È la separazione territoriale dalla città patrizia e la minaccia di fondare una nuova e separata comunità cittadina, che non avrà il crisma ancestrale della società gentilizia, ma sarà libera e plebea. Così la maggioranza della plebe, in un giorno imprecisabile del 494, si ferma, rifiuta la leva, abbandona la città e si ritira sul monte sito al di là dell’Aniene ed ivi si accampa, quasi a voler fondare un’altra città se il senato patrizio non accoglierà le sue prime fondamentali rivendicazioni.

Il gesto non è frutto di improvvisazione agitatoria, ma sbocco di calcolate mosse rivoluzionarie. Delle riflessioni plebee e momenti organizzativi è l’eco inequivoca nelle voci, tramandate dalla dizione e raccolte dagli storici classici; sui coetus nocturni e sulle coniurationes che da qualche tempo si andavano organizzando nel popolo (Livio 2.28.1 e 2.32.1).

Tali sintomi di largo malessere e di conati rivoluzionari avevano indotto più di una volta i patrizi a cercare un diversivo forte, cui talvolta le classi dominanti, antiche e moderne, sogliono ricorrere: «la patria è in pericolo», «i nemici ci minacciano!», «Corriamo», «Tacciano i dissensi interni». Nel caso i nemici erano i Volsci, contro cui la plebe combatte, ma al rientro nella città, siccome il vaso è ormai colmo e trabocca, l’insurrezione, forse già studiata e preparata, è inevitabile. L’occasione non manca: è un ennesimo caso di soprusi e crudeltà di un creditore nei confronti di un nexus, che si ribella e diviene simbolo di tutti i lavoratori plebei asserviti al creditore per una o altra via (dai nexi agli addicti).

E così, nel pieno della generale indignazione del popolo plebeo contro i soprusi dei feneratores e di tutti i creditori, la secessione si consuma.

Che il monte su cui i reduci dalla guerra contro i Volsci e la moltitudine plebea proveniente dalla città si accampano sia quello al di là dell’Aniene, come un’accurata indagine critica sulle nostre fonti mi sembra suggerire, o l’Aventino, che la storia successiva colorirà di eventi luminosi e illuminanti, poco conta. L’essenziale è il fatto carico di creatività rivoluzionaria; è la secessione in sé e per sé; sono i suoi esiti sociali, economici, politici e costituzionali. L’uno e l’altro sono, nella storia di Roma, due monti plebei e diverranno due monti cui le «plebi» sofferenti e ribelli d’ogni paese, i militanti della libertà e dell’eguaglianza d’ogni luogo talvolta guarderanno nei momenti cruciali delle loro lotte, quasi a voler cogliere i raggi di ribellione e creatività rivoluzionaria che si irradiano da quei due monti.

Le rivendicazioni e le richieste esplicite che partono dal monte sono due, nette e precise, il resto, forse ancora più importante, è in re ipsa, nei fatti, e lo vedremo presto. I creditori dovranno liberare i debitori che si trovano attualmente asserviti mediante nexum o, in seguito a condanna, mediante addictio (Dionigi 6.83.4); la città patrizia, e per essa il senato, dovrà riconoscere il diritto della plebe di eleggere propri capi, che la difenderanno e la rappresenteranno nei confronti della città patrizia e dei suoi magistrati. Della realizzazione di tali richieste, se accettate, dovrà dare garanzia il senato.

In senato si fronteggiano opinioni e fazioni diverse. Di fronte alla decisa secessione plebea finisce col vincere la parte che cerca la trattativa e la conciliazione onde salvare l’unità cittadina, riavere le forze di lavoro. Di questa parte è rappresentante Menenio Agrippa. Il suo apologo famoso appartiene ad uno strato antico della tradizione (Dionigi 6.83), esprime il distillato delle teorie di ogni tempo sulla concordia ordinum, ma principalmente, com’è stato notato da Gaetano De Sanctis (Storia dei romani² II cit. 4), «rispecchia lo sfruttamento della plebe a profitto del patriziato e la ragione economica della lotta».

Menenio è bene accolto. Si scambiano legati fra plebe e senato che dà infine la richiesta garanzia e accoglie, con senatoconsulto, le richieste della plebe. In quest’accordo fra le due parti, più o meno formalizzato, da Livio (4.6.7) e, specialmente da Dionigi (6.89.1), è stato ravvisato sostanzialmente un foedus. La plebe continua ad occupare il monte della secessione pur nei primi mesi freddi del 493 e, prima di rientrare in città, procede alla realizzazione del suo programma.

 

 

3. – L’elezione dei tribuni, la «lex sacrata», il giuramento[4]

 

Innanzitutto, sono eletti i tribuni: due, cui poi ne verranno aggiunti altri tre. Fra questi colui che viene tramandato come l’autore della secessione: C. Sicinio Belluto. Ma chi è questo creatore di uno strumento di lotta che diverrà da quel momento parte importante dell’ideologia plebea e a cui la plebe continuerà a guardare e ricorrere in altri momenti decisivi delle sue battaglie politiche? Dionigi d’Alicarnasso (7.33) lo presenta come «il più strenuo avversario dell’aristocrazia ... di infima nascita, educato poveramente». Certo è che egli verrà poi rieletto due volte tribuno e che la sua stirpe avrà, nella storia repubblicana, ben undici tribuni della plebe. Anche Sicinio, come i monti della libertà plebea, diverrà più d’una volta, in tempi e luoghi diversi, simbolo di lotta per la libertà e l’indipendenza dei popoli.

Una delibera della plebe riunita in assemblea (concilio tributo, è da pensare, pur contro Dionigi) inaugura la lunga serie dei plebisciti e stabilisce i poteri dei tribuni. Dionigi, come fa spesso, la riassume e la riporta: nessuno attenti alla libertà e indipendenza del tribuno, né lo fustighi, né lo faccia fustigare, né lo uccida, né lo faccia uccidere. Chi vi contravviene sarà sacer e potrà essere ucciso impunemente.

Così, con lex plebeia e sacratio del contravventore, la plebe garantisce la libertà e l’indipendenza dei suoi capi. Ma non basta. La plebe giura di osservare, fare osservare e non abrogare mai la lex votata. Si espressero e si fissarono, in tal modo, alcuni principii ideologici fondamentali, che guideranno la lotta di due secoli; si posero capisaldi importantissimi su cui progressivamente si costruirà la costituzione repubblicana.

E precisamente. Col fatto di redigere e votare una deliberazione con cui si ordinava e garantiva la «magistratura» plebea si affermava la raggiunta capacità della plebe di autonormarsi e si poneva il seme, gravido di sviluppi futuri, della sovranità popolare, che poi troverà, su iniziativa e pressione plebea, definitiva statuizione in una norma fondamentale delle XII tavole (Tab. 12.5 ex Livio 7.17.12; 9.33.9; 9.34.6-7). Si poneva il principio che il plebiscito è iussum plebis e quindi, ancor più, che la lex publica è iussum populi.

Non trattandosi di lex publica, vale a dire di tutto il popolo, e mancando la base giuridico-costituzionale su cui fondare la comminatoria di una pena per il contravventore, si riempiva il vuoto religione, ricorrendo al sacer esto del contravventore, con la conseguente non punibilità dell’uccisore dell’homo sacer. E questa una sanctio interna alla legge, cui si aggiunge una sanctio esterna e politicamente avvolgente, costituita dal giuramento di osservare la legge e, principalmente, di farla osservare e, con ciò, di ritenere sacer chi avesse attentato alla libertà ed indipendenza dei tribuni. E la più antica sanctio, intesa quale complesso apparato protettivo della legge e della sua effettività. Il sacer esto, ossia la sanctio interna, copre il vuoto di potere che impedisce la comminatoria di una pena e proclama rivoluzionariamente la validità di un atto di parte (ossia della sola plebe). Il giuramento della plebe, anche esso atto rivoluzionario in quanto proveniente da una sola parte sociale, è forte impegno per il futuro comportamento politico plebeo.

L’uno e l’altro (sacratio capitis e giuramento) atti di parte; l’uno e l’altro fuori dall’ordine costituito; ma entrambi squisiti esempi di creatività politica e culturale nella lotta di liberazione da un’egemonia opprimente della classe politicamente ed economicamente dominante. Ed infine l’uno e l’altro atti pervasi e fortificati da una innegabile carica religiosa: l’uccisione dell’uomo sacer è sacrificio del contravventore alle divinità della plebe; il venir meno al giuramento è offesa agli dei della plebe. Emerge la maiestas plebis.

Il sacer esto scomparirà dalla sanctio dopo l’integrazione dell’assemblea e delle magistrature plebee nella struttura costituzionale della repubblica. Il giuramento, in varie modalità e applicazioni, rimarrà e verrà più volta ripreso dai movimenti popolari quale presidio politico-religioso dell’applicazione di leggi riformatrici (specie di leges agrariae o, comunque, antioligarchiche).

Sacer esto e giuramento, e la carica religiosa di entrambi, rendevano sacrosancti i tribuni; la sacratio capitis dava a quella lex plebeia il carattere di lex sacrata; il monte della secessione, trans Anienem, diveniva mons Sacer (il Monte Sacro). Iniziava una nuova storia della repubblica. La secessione aveva posto tanti e rilevanti problemi economici, sociali e politici; aveva posto solidi fondamenti per la genesi e lo sviluppo di nuove strutture costituzionali; aveva tolto ogni velo all’ordine costituito mettendone a nudo tutta la sua natura classista.

 

 

4. – La «lex sacrata» del 492 e i tribunali rivoluzionari[5]

 

L’unica parte non toccata, o forse solo sfiorata con la creazione dei iudices decemviri, che rivendicavano la cognitio dei processi di libertà per i plebei asserviti ai creditori, era la competenza a conoscere e giudicare sui crimina in materia politica in danno alla plebe, funzione di sommo rilievo onde evitare che la lex sacrata, appena votata e giurata, venisse vanificata dai poteri giudicanti della città patrizia.

Ma l’occasione si presenta appena due anni dopo ed è data dagli eccessi turbolenti di giovani rampolli delle genti patrizie, che trovavano sollazzo nel disturbare i tribuni variamente concionanti col popolo plebeo. Nel 492 infatti la plebe riunita in assemblea, su proposta di un tribuno, pur egli della stirpe Sicinia, e quasi in applicazione del giuramento fatto sul Monte Sacro, approva una seconda lex sacrata con cui stabilisce che chiunque disturba il tribuno mentre parla alla plebe deve fornire vades (garanti) che garantiscano di pagare la multa a lui irrogata dai tribuni. In mancanza egli verrà giudicato dall’assemblea della plebe, che lo dichiarerà sacer e consacrerà il suo patrimonio alle divinità plebee.

Questa seconda lex sacrata completa le linee fondamentali delle forme di due anni prima. La plebe, pur senza trattative e pattuizioni col senato, sull’onda della vittoria del 494 e 493, con un atto del tutto unilaterale, mentre di fatto riafferma il conquistato seppur ancora limitato potere legislativo, mette la mano sulla repressione di tutti gli atti che l’offendono (economicamente e politicamente). Si va configurando il crimine di offesa alla plebe e si afferma una certa competenza giudiziaria in materia di reati politici.

La nuova lex sacrata rappresenta quasi una autotutela ai fini della realizzazione dei risultati conseguiti due anni prima. Autotutela in doppio senso: sia in quanto è creazione autonoma dell’assemblea plebea ed è votata senza alcun esplicito lasciapassare del senato, sia perché, in ordine agli attentati alla libertà ed autonomia del tribunato e della plebe, stabilisce la competenza dei tribuni ad applicare multe e la competenza del concili della plebe, in caso di omessa garanzia mediante vades, di giudicare e pronunciare la sacertà del contravventore e la sacratio del suo patrimonio alle divinità della plebe. Legge sacrata quindi nel senso più puro e rivoluzionario, che la plebe vara e subito applicherà consapevole della forza conquistatasi in seno alla comunità cittadina con la vittoriosa secessione sul Monte Sacro. È la genesi dei tribunali rivoluzionari, che tanta parte avranno nella lotta plebea e nelle vicende politico-costituzionali di tre secoli.

 

 

5. – L’inizio di una grande lotta di classe, per una nuova «forma civitatis»[6]

 

Ma che cosa fu tutto questo? Quale può essere la diagnosi storica? Quali saranno gli sviluppi futuri?

I fatti parlano da soli; meglio di qualsiasi commento. Per spiegarli sono state proposte fini e sofisticate costruzioni politico-giuridiche. Qualcuno (impressionato forse dal termine foedus tramandato dalle fonti) ha voluto ravvisare due Stati posti l’un contro l’altro. Qualche altro ha preferito parlare di Stato entro lo Stato. Altri ancora ha posto il problema se l’attacco allo stato patrizio veniva dall’esterno o dall’interno. E chi avesse la voglia di disquisire su sottili costruzioni potrebbe continuare e, magari, allontanarsi sempre più dalla concreta realtà storica inveratasi nella comunità romana in quell’inizio, burrascoso ma chiarificatore, del quinto secolo a.C.

Ove si esaminino e si analizzino nella loro realtà, nuda da veli politico-religiosi e da sottili ma evanescenti disquisizioni giuridiche, gli avvenimenti del 494-492 non si sfugge da una chiara quanto solida constatazione: essi segnarono, nella loro vera sostanza, l’esplosione di una grande, lunga, originale lotta di classe. Durerà circa due secoli, si colorerà continuamente, secondo il genio romano, di giuridicità, trasformerà dall’interno la dialettica fra le parti del populus, condurrà ad un nuovo assetto della società, determinerà progressivamente l’assetto definitivo della costituzione repubblicana.

Ma torniamo agli avvenimenti del 494-492, alla loro diagnosi storica. La plebe, pur stratificata economicamente ma unita politicamente e socialmente a causa della totale esclusione dal governo della comunità e dall’occupazione dell’ager publicus, prende coscienza del proprio essere di classe soggetta e dominata e inizia, con un’insurrezione originale quale la secessione, una lotta mirabile di quasi due secoli.

L’inizio è vittorioso e la prima grande vittoria è la lex sacrata di cui il giuramento è il DNA, il fulcro di una sanctio (ossia di un apparato protettivo) ampia e avvolgente, che varrà man mano a coprire tutte le rivendicazioni plebee di due secoli. La costituzione aristocratica di Publio Valerio Publicola è riformata e trasformata. Si pongono nuovi pilastri, fondamentali per gli sviluppi futuri.

E precisamente.

a) Il tribunato, creazione originalissima, cui viene riconosciuta la funzione di auxilium ferre alla plebe, intesa nella sua totalità e nei suoi singoli componenti, mediante l’esercizio di un forte potere negativo, espressione della resistenza all’egemonia patrizia, nei confronti degli organi e magistrature della città.

b) Col riconoscere il tribunato come suprema magistratura plebea si riconosce costituzionalmente la divisione della società cittadina in due classi distinte, oltre che nella struttura economica e sociale, anche nella dialettica politica. Con ciò mentre si dà per scontata la natura patrizia della repubblica, si costituzionalizza la presenza attiva della plebe nella politica. Questo segna l’inizio di un nuovo corso della vita politica nuovi e più democratici assetti costituzionali, sino ad arrivare, dopo un lungo cammino di quasi due secoli, alla struttura matura della costituzione repubblicana in cui le partes della comunità, pur avendo basi di classe, assumono carattere più preciso di movimenti politici e il tribunato, pur conservando almeno in parte le originarie funzioni di difensore delle classi popolari, si inserisce nella struttura costituzionale cittadina, divenendo spesso elemento importante di equilibrio democratico e di attività riformatrice anche se, almeno in una parte dei suoi componenti, talvolta cede alla sete di potere e s’infeuda a gruppi rilevanti dell’aristocrazia senatoria.

c) I tribuni, quali capi della classe, hanno il potere di convocare la plebe, ossia, per dirla in termini propri alle magistrature cittadine, hanno il ius agendi cum plebe, quasi specchio e contrapposto del consolare ius agendi cum populo. Con ciò si pone subito il problema di un’assemblea della plebe, anche essa specchio dell’assemblea di tutto il populus, con gli annessi problemi della sua competenza, oltre che elettorale, per l’elezione dei magistrati plebei, pure legislativa e giudiziaria. E qui la parificazione dei plebisciti alle leggi, che dalle leggi sacratae prende solido avvio, costituirà uno dei cardini della lotta di due secoli.

d) Col riconoscere validità alle leges sacratae, seppur dopo approvate dal senato (sí da dar luogo a leggi-contratto), ma talvolta (come per la lex del 492) fatte valere solo dalla forza rivoluzionaria della plebe, si afferma come principio generale la capacità autonormativa della plebe e quindi, a maggior ragione, del populus e si pongono gli incunaboli della concezione della lex publica quale iussum populi.

e) Infine il giuramento della lex sacrata e la comminatoria della sacertà al contravventore. Si crea il primo e più antico esempio di sanctio quale elemento strutturale importante della lex publica in quanto strumento diretto ad assicurarne l’effettività e a garantirne l’applicazione.

Ecco perché i contemporanei, e indi politici e storici successivi, nei fatti e negli atti, ossia nella secessione e nelle creazioni inveratesi con e durante la secessione sul Monte Sacro, videro una nuova forma civitatis (ossia una nuova costituzione) alla cui abrogazione saranno dirette le battaglie della parte più rigida del patriziato negli anni successivi (Livio 3.15.3).

Con la legge sacrata del 492, il quadro si completa. L’esigenza di intervenire nel campo giudiziario si era già affacciata nella secessione del 494 con la nomina dei iudices decemviri, cui è molto verosimile che si volesse devolvere la cognizione dei processi di libertà che in quel momento coincidevano coi processi relativi alla esistenza o meno di una situazione di asservimento dei debitori (nexi, personae in mancipio, addicti). Con la lex sacrata del 492 entra in campo la giurisdizione penale dei tribuni e del concilio, si pongono le premesse per la configurazione dell’offesa alla plebe come reato perseguibile dai tribuni dinanzi al concilio, si apre la via ai tribunali rivoluzionari.

 

 

6. – Potere negativo e positivo espressione bifronte di un’unica esigenza di lotta[7]

 

Nella secessione del 494-493, nell’elezione dei primi tribuni, nella lex sacrata che l’accompagnava e nell’accettazione della lex stessa da parte patrizia era la genesi e l’affermazione forte del potere negativo che da quel tempo i tribuni avrebbero potuto usare, nei confronti delle magistrature e del senato patrizi, in difesa della plebe. Potere originale e unico nella storia, rappresentativo della resistenza plebea all’egemonia della classe dominante.

Ma il potere e la funzione del tribuno non si esauriscono nella mera resistenza, così come la lotta plebea non è meramente difensiva, ma è lotta di avanzamento, di innovazione, di progresso della democrazia. In una parola è lotta rivoluzionaria in quanto tende al cambiamento della società romana del V secolo e del suo assetto politico-costituzionale. Ecco perché il potere dei suoi capi; vale a dire dei tribuni, non potrebbe mai essere meramente negativo. E infatti, sin dalle origini, essi hanno il potere di convocare l’assemblea della plebe e di proporre normazioni in posizione dialettica col ius preesistente, espresso dai mores delle genti patrizie e in cui s’identifica l’ordinamento della città.

Tali normazioni, costituenti leges plebeiae (la terminologia è di Livio 3.31.7), si affermano quali normazioni squisitamente rivoluzionarie (leges puramente sacratae) o vengono accettate dal senato (leggi-contratto) ed entrano costituzionalmente nell’ordinamento, sino a divenire uguali alle leges rogatae di tutto il populus (leges del comizio centuriato per cui è pur necessaria la ratifica senatoria) con le leges Valeriae Horatiae nel 449.

Da quel momento l’attività legislativa plebea sarà come un fiume in piena, si da costituire il filone più grosso ed importante della legislazione popolare (aggettivo, nel caso, da preferire a «comiziale»). Così, mentre da una parte la «sovranità plebea», sorta dagli eventi rivoluzionari del 494-492, sarà la base ideologica su cui si edificherà la «sovranità popolare» che troverà luminosa sanzione nelle XII tavole (quodcumque postremum populus iusserit id ius ratumque esto), dall’altra parte si esprimerà direttamente e positivamente attraverso una vasta e importante attività legislativa tribunizia in cui giustamente si ravviserà la massima espressione della libertas plebea.

Questa breve ma importante analisi storica mi suggerisce una riflessione. Il potere negativo dei tribuni, che esprime concretamente e simboleggia ideologicamente la resistenza e l’opposizione della plebe alla classe dominante, e la concezione della lex quale iussum populi aut plebis in opposizione e in contrasto dialettico col ius della città, espresso dai mores patrizi, e quindi la grande attività legislativa tribunizia, pur presentandosi il primo come potere negativo e la seconda (attività legislativa) come potere positivo, sono senza dubbio espressione della medesima dialettica sociale (fra le due classi), ma forse sono pure espressione della stessa «filosofia» politico-costituzionale (o, se si preferisce, della stessa matrice ideologica) che al potere e al ius della città (patrizia prima, nobiliare poi) oppone dialetticamente e l’intercessio tribunizia e la lex plebeia e, indi, publica, l’una e l’altra espressione della sovranità popolare che proprio negli avvenimenti del primo decennio del V secolo trova le sue radici.

 

 

7. – L’inizio di una rivoluzione[8]

 

Ma, per finire, torniamo al giuramento e agli avvenimenti di quell’inverno 494-493 sul monte della secessione. Fu l’inizio di una rivoluzione?

Anche per questo problema (come già sopra si è visto per i vari tentativi di qualificazione politica-giuridica della secessione), nella ricerca di una diagnosi storicamente solida, è necessario riflettere sulla sostanza degli avvenimenti iniziati con la secessione del 494 e sulle conseguenze che ne derivarono. E pertanto, a mio avviso, non bisogna fermarsi alle concezioni «leggere» ed elastiche del termine, per cui finisce con l’essere qualificato come «rivoluzione» ogni moto o rivolta, anche di mero carattere politico. Concezioni pur luminose e illuminanti, sorte e diffuse nel pensiero liberale dell’Ottocento, in cui senza dubbio furono apportatrici di programmi stimolanti e di idee nuove nella lotta per la libertà e la democrazia.

Ma pur al lume di una concezione densa e forte (e quindi rigida), come quella marxista, per cui v’è «rivoluzione» solo se si cercano e si inverano profondi cambiamenti, prima e oltre che negli assetti politici e costituzionali, nelle più profonde strutture dell’economia e della società, vale a dire non tanto cambiamenti «nel sistema», ma «del sistema», va notato che la lotta plebea sarà fattore importante e spesso decisivo (pur se non unico) della transizione ad una nuova formazione economica della società romana contrassegnata da mutamenti sostanziali nei modi di appartenenza e di sfruttamento dei beni, da nuove classi politiche dirigenti ed economicamente dominanti, da un cambiamento profondo delle forze di lavoro e della loro collocazione nella struttura sociale.

Infatti, in particolare:

a) il potere negativo dei tribuni si inserirà saldamente nella struttura costituzionale.

b) La plebe, principalmente nei suoi strati superiori, parteciperà, addirittura egemonizzandola, all’attività legislativa assembleare nonché al governo supremo della repubblica.

c) La plebe parteciperà, in un modo o nell’altro, allo «sfruttamento» dell’ager publicus.

d) Muteranno le forze di lavoro dominanti e, con esse, il modo di produzione. Non più liberi semiasserviti dai debiti di vario genere, ma schiavi stranieri o, in piccola parte, liberi non più asserviti.

e) Parte dell’antica plebe formerà la classe degli uomini di affari, che costituiranno la punta di diamante di un’economia che, dopo circa tre secoli dall’esordio rivoluzionario plebeo, andrà sempre più globalizzandosi.

 

 

8. – Ideologia plebea e movimenti democratici successivi.

       Da Sicinio a Giulio Cesare[9]

 

Nella nuova formazione sociale e, volgendo lo sguardo al suo assetto politico costituzionale (oltre che economico), potremmo dire nella «repubblica imperiale», centro politico ed economico di tanta parte del mondo allora conosciuto, e pur in una mutata stratificazione sociale e in una mutata coagulazione e ripartizione dei movimenti politici, c’e però un fenomeno, importante e macroscopico, che ancora illumina l’esordio rivoluzionario della secessione.

Un saldo filo rosso ideologico collega i movimenti democratici romani della seconda repubblica alla rivoluzione plebea. Da Caio Flaminio ai Gracchi e ai loro seguaci, a C. Mario, a P. Sulpicio Rufo, allo stesso Cesare, «dittatore democratico», il riferimento, l’ispirazione, l’attacco ai principali pilastri ideologici della lotta plebea e ai capisaldi politico-costuzionali fissati con le leges sacratae è costante come è pure costante il richiamo ai simboli dell’antica lotta. Perfino i due monti delle secessioni saranno meta dei democratici romani, e poi, spesso, simbolo dei ribelli di ogni parte del mondo.

Nella secessione e nel giuramento del 494-493 la memoria popolare troverà sempre la spinta ideologica alle battaglie per la libertà; i cittadini vi ravviseranno perennemente un grande esordio della loro costituzione; illiberale Teodoro Mommsen dirà che in quella «rivoluzione si rivela qualche cosa che tocca il sublime».



 

[1] Pubblicato in Index. Quaderni camerti di studi romanistici, 35, 2007, 13 ss.

È la ricostruzione scritta del discorso per la celebrazione del duemilacinquecentesimo anno del giuramento della plebe durante la secessione del 494-493 a.C. pronunciato nell’Aula Giulio Cesare in Campidoglio il 19 aprile 2007. Sono omesse le brevi parole introduttive. Le due fonti principali sono Livio e Dionigi. Livio dedica i capitoli 23-31 del libro 2 alle agitazioni contro i feneratores e poi, nei capitoli 32 e 33, narra gli avvenimenti del 494-493. Dionigi di Alicarnasso dedica alla secessione e alle ragioni che la determinarono, sia pure alternando narrazioni dei fatti ad ornati discorsi dell’una e dell’altra parte e sia pure fermandosi su particolari talvolta improbabili, quasi l’intero libro VI e specialmente dal cap. 26 al cap. 96, che si chiude con la morte di Menenio Agrippa. In particolare la secessione sul Monte Sacro, diretta da C. Sicinio Belluto, è al cap. 45; il lungo discorso di Menenio Agrippa ai cap. 83-86; le trattative col senato sono ai cap. 87-88; l’accordo, il foedus, l’elezione dei tribuni, la lex sacrata e il giuramento al cap. 89.

Fra le trattazioni di storia generale le esposizioni più penetranti, con diversi orientamenti e punti di vista, vanno da quelle classiche del NIEBUHR, Römische Geschichte I² (Berlin 1827) 595 ss. e 624 ss. [= Histoire romaine I (Bruxelles 1830) 536 ss. e 559 ss.] e del MOMMSEN, Storia di Roma II [traduz. Quattrini (Roma s.d.) 35-57], a quella di GAETANO DE SANCTIS, Storia dei romani² II (Firenze 1960) 1 ss.; a quelle del PAIS, Storia di Roma dall’età regia sino alle vittorie su Taranto e Pirro I (Torino 1934) 267 ss.; del PARETI, Storia di Roma I (Torino 1952) 374 ss.; del BARBAGALLO, Storia universale II (Torino 1955) 63 ss.; di H. STUART JONES e di H. LAST, nella Cambridge Ancient History VII (Cambridge 1954) 450 ss. e 476 ss.

Fra le monografie la più recente è J.-C. RICHARD, Les origines de la plèbe romaine (Roma 1978), a cui rinvio per la bibliografia precedente.

Fra le trattazioni storico-giuridiche, oltre TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht (Leipzig 1887-1888, rist. Basel-Stuttgart 1963) II 272 ss. e III 143 ss. [= Droit public romain (Paris 1893-1894) III 311 ss. e IV/1 160 ss.], è fondamentale F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana² I (Napoli 1972) 334 ss. (nonché 260 ss.) ed ivi la citazione e l’esame, spesso critico, della letteratura precedente, nonché P. de FRANCISCI, Storia del diritto romano I (Milano 1940) 227 ss. E da segnalare inoltre, per l’incisivo esame delle fonti, e specie di Dionigi, S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana I (Milano 1981) 157 ss., nonché P. FREZZA, Corso di storia del diritto romano (Roma 1974) 106 ss. Per una visione sintetica F. SERRAO, Diritto privato economia e società nella storia di Roma I (Napoli 2006) 83 ss. e bibliografia a p. 105 s. (in séguito citato solo Diritto privato).

 

[2] Per i rapporti di dipendenza, i modi di asservimento, le categorie di asserviti e le ragioni dell’asservimento dei debitori ai creditori rinvio all’ampia trattazione svolta nel mio Diritto privato cit. 171 ss., dove tutto il fenomeno è esaminato anche come reclutamento anomalo delle forze di lavoro qualificante tutta la struttura e la dinamica di quell’antica formazione economica della società romana. Questo, sulla funzione storica del fenomeno, è il problema più importante. Ma numerosi sono poi i problemi particolari al primo collegati. Basti qui indicarne solo due. La terminologia delle fonti non giuridiche relativa alle diverse categorie e la confusione talvolta esistente. Il nexum, come da qualcuno sostenuto, poteva dar luogo ad una manus iniectio pro iudicato o, addirittura, pura? Dalla soluzione di tale problema potrebbero derivare importanti deduzioni storiografiche. Ai rapporti di dipendenza sono strettamente collegati i problemi del credito e delle usurae, che saranno al centro della lotta politica dalle XII tavole all’abolizione del nexum (326 a.C.), salvo poi a riprendere di tanto in tanto, fino a Cesare. Anche per questi mi limito, ancora, a rinviare all’ampio esame che ne ho fatto in Diritto privato cit. 342 ss. e ivi, a p. 364, la bibliografia essenziale più recente. Ai rapporti di dipendenza e all’esecuzione personale contro i debitori nei primi due secoli della repubblica è dedicato il volume di L. PEPPE, Studi sull’esecuzione personale (Milano 1981), la cui impostazione e le cui conclusioni non si accordano con la funzione, per me chiara e indubitabile, del nexum e degli altri rapporti di dipendenza anche come modi anomali di reclutamento e mantenimento delle forze di lavoro.

 

[3] Il problema su cui si continua a discutere è quello del foedus. Vi fu? In caso affermativo come va qualificato? Si tratta di un uso atecnico del termine da parte delle nostre fonti? Certamente, come dico nel testo, vi fu l’accordo che, è bene tenerlo presente, al contrario di come da qualche parte, anche molto autorevole (es. dal De Martino), è stato sostenuto, non contrasta in modo alcuno con l’esistenza della lex sacrata. Come ho altrove (Diritto privato cit. 83 ss. e 99) rilevato, la lex sacrata del 494 è una lex plebeia la cui sanzione, che ne qualifica la natura, è il sacer esto ma, in quanto accettata dal senato, ossia dalla città patrizia, è anche una legge-contratto e tanto significa che la comunità tutta accetta e non contesta la sanzione plebea del sacer esto, che, in tal modo, finisce col penetrare, sia pure solo sostanzialmente e indirettamente, nell’ordinamento. Sui momenti di formazione del plebiscito come legge-contratto F. SERRAO, Classi partiti e legge nella repubblica romana (Pisa 1974) 39 ss.; Legge e società nella repubblica romana I (Napoli 1981) xiii ss.; nonché Lotte per la terra e per la casa a Roma dal 485 al 441 a.C., in Legge e società cit. 88 ss.; 121 ss. e 130 ss. e 133 ss. Escluso il contrasto sostanziale fra «accordo» e «lex sacrata» è da soggiungere che P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano I (Torino 1965) 30 ss. e, per il caso specifico, 199 e nt. 29, in una lucida indagine sul ius fetiale ha dimostrato come la tradizione «vedendovi l’intervento dei feziali» potesse parlare di foedus a proposito dell’accordo fra plebe e senato, senza con ciò ravvisarvi un atto internazionale. E se è così la tradizione è nel solco della più verosimile ricostruzione storica.

 

[4] Sugli argomenti cui è dedicato questo paragrafo, che poi costituiscono i punti centrali in cui si espresse l’azione rivoluzionaria del 494, sono fondamentali il volume di G. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe (Milano 1982), indagine approfondita ed equilibrata, a cui rinvio per la precedente bibliografia, e, specie per il modo come i concetti di potere negativo e resistenza hanno trovato elaborazione ideologica o realizzazione nel mondo moderno, il solido Tribunato e resistenza (Torino 1971) di Pierangelo Catalano. Sulla lex sacrata e il giuramento vedasi poi R. FIORI, Homo sacer (Napoli 1996) 293 ss., con analisi e problematiche puntuali e con ampia bibliografia. I problemi su cui più si discute sono parecchi e precisamente riguardano la critica del certe volte troppo particolareggiato racconto dionisiano; il numero iniziale dei tribuni (su cui T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic I [New York 1951] 15 ss.); la dubbia storicità di un giuramento di tutto il popolo romano sulla osservanza della lex sacrata.

 

[5] Sul carattere meramente sacrato della lex del 492 F. SERRAO, Diritto privato cit. 85 ss. Sul tribuno Sp. Sicinio quale proponente della lex del 492 vedasi T.R.S. BROUGHTON, MMR. I cit. 17 s. in base a Dionigi 7.14.2 e 7.17.2-6, che menziona come edile della plebe, nello stesso anno, L. Sicinius (Bellutus), poi di nuovo tribuno nel 491 e capo della lotta contro Coriolano. Tutto questo ha fatto pensare a qualcuno che il tribuno proponente della lex fosse uno Spurius Icilius (e non Sicinius). Anche questo nome plebeo è famoso: L. Icilius infatti sarà il tribuno autore della lex de Aventino publicando nel 456. Sui tribunali rivoluzionari e l’affermazione di competenza dei tribuni in materia penale il lavoro più recente è quello di R. PESARESI, Studi sul processo penale in età repubblicana (Napoli 2005) 1 ss. (con un elenco dei plebisciti sacrati) e 10 ss. (dove è un esame dei processi portati dai tribuni al iudicium plebis). Sui iudices decemviri eletti assieme ai tribuni, che avrebbero rivendicato la cognitio dei processi di libertà in materia di asservimento per debiti, pur dopo la diversa opinione di L. GAGLIARDI, Decemviri e centumviri (Milano 2002) 99 ss., non ho che da riaffermare quanto ho sostenuto in Diritto privato cit. 214 ss. e 419 nt. 23 in adesione all’intuizione del Mommsen.

 

[6] Sulla natura e il carattere della lotta patrizio-plebea come lotta di classe, e nel senso esposto nel testo, F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana² I cit. 337 ss. (e già, in nuce, P. de FRANCISCI, Storia I [Milano 1936] 250), F. SERRAO, Lotte di classe e legislazione popolare cit. xiii ss.; Diritto privato cit. 83 ss. Diversa la concezione di A. GUARINO, La rivoluzione della plebe (Napoli 1975) 13 ss.; 259 ss. e 314 ss. che pur ravvisa nella lotta plebea una autentica lotta di classe e la collega al «concetto di classe e alla visuale della lotta di classe dell’ideologia marxista» (260 s.). La lotta iniziata con la secessione tende poi ad una profonda riforma costituzionale, anzi l’opinione pubblica e la tradizione, riportate da Tito Livio, videro già negli esiti immediati della secessione una nuova forma civitatis contro cui i patrizi si batteranno negli anni successivi (Liv. 3.93.1).

 

[7] L’impostazione data a questo paragrafo mi è suggerita dalla necessità di `collocare l’origine e lo svolgimento delle funzioni tribunizie nel quadro generale della lotta e dell’ideologia plebea e, principalmente, nella dinamica del suo slancio rivoluzionario verso il cambiamento (economico, sociale, politico). Senza attività positive non vi può essere rivoluzione. Col mero potere negativo si resiste, non si attacca. In particolare, inoltre, nella lotta della plebe l’attività positiva del tribuno, esplicantesi, in forma diretta o indiretta, in un’attività legislativa di attacco all’egemonia patrizia, non poteva andar disgiunta dal potere negativo. L’una e l’altro erano infatti esplicazione della libertas plebea quale si andava affermando proprio in quegli anni, in seguito alla spinta rivoluzionaria sprigionatasi dalla secessione del 494. Gli studiosi moderni, storici e giuristi, esaminano e analizzano tutti e sempre il potere negativo dei tribuni, che è il potere primigenio, da cui il resto nasce e si svolge, ma non sempre rilevano l’estrema importanza delle loro funzioni legislative, e, quindi, di un potere positivo dei tribuni, funzioni nate come rivoluzionarie, ma poi man mano inseritesi nella costituzione repubblicana. Sul tema, con impostazioni varie, sono da vedere principalmente gli scritti di Mommsen, Niebuhr, de Francisci, De Martino, Catalano e Lobrano già sopra citati. Da ultimo il mio saggio Ius e lex nella dialettica costituzionale della prima repubblica, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo II (Napoli 1997) 279 ss. ed ivi richiamati i miei precedenti scritti.

 

[8] Il giudizio sulla natura più o meno rivoluzionaria della secessione e di tutta la lotta plebea è strettamente collegato al concetto e al termine di «rivoluzione», variamente inteso nel mondo moderno dalle varie correnti di pensiero e dalle varie ideologie. A voler distinguere una concezione «leggera» da una concezione «densa e forte» di rivoluzione, esse sono ricollegabili rispettivamente a due grandi correnti di pensiero: quella liberale e quella marxista. Per una rassegna delle diverse concezioni e le innumerevoli sfumature emerse nel pensiero storiografico su Roma antica vedansi gli Atti dei convegni su Stato e istituzioni rivoluzionarie in Roma antica, in Index 3 (1972) e 7 (1977), nonché P. CATALANO, A proposito del concetto di rivoluzione nella dottrina romanistica contemporanea, in SDHI. 43 (1977) 440 ss.; G. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe cit. 106 ss.; A. GUARINO, La rivoluzione della plebe cit. 13 ss.; 238 ss. e 259 ss., libro denso di idee e di ipotesi originali, la cui impostazione e relativi risultati non riesco però a condividere a causa della totalmente diversa ricostruzione storica di tutto il periodo, dai re al III secolo a.C., dal Maestro napoletano ipotizzata in totale contrasto con la ricostruzione che a me sembra chiaramente emergere dalle fonti a nostra disposizione. Da ultimo R. FIORI, Homo sacer cit. 293 ss. ed ivi altra bibl.

 

[9] Per il problema posto in questo paragrafo cfr. F. SERRAO, I partiti politici nella repubblica romana, in Classi partiti e legge cit. 163 ss. Ma, a distanza di molti anni, in séguito alle ricerche da me stesso fatte sulla lotta plebea dei primi due secoli della repubblica nonché sul diritto tutto, pubblico e privato, di quei secoli (per cui mi limito a rinviare al mio recente Diritto privato cit. nonché al saggio Ius e lex cit. 279 ss.), il filo rosso che collega il pensiero, il programma e l’attività concreta dei movimenti popolari e democratici dei secoli successivi (da Caio Flaminio a Giulio Cesare) alle lotte, all’ideologia e alla creatività politica e culturale della plebe (su cui, illuminante, A. MOMIGLIANO, Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico [Roma 1969] 419 ss.) mi si è venuto sempre meglio e più nitidamente precisando. Anzi è diventato per me evidente. L’argomento meriterebbe di essere ripreso e approfondito. Cosa che io forse difficilmente riuscirò a fare, data la mia età e gli altri impegni scientifici presi con me stesso. Se non lo farò io spero comunque che altri lo faccia. Mi basti per ora segnalare un vasto campo di indagine tutto aperto. La frase del Mommsen con cui si chiude il mio discorso è nella Storia di Roma cit. 43 (= libro II cap. II § 5) [= Römische Geschichte6 (Berlin 1874) 270].