Seconda-pagina1[ISSN 1825-0300]

 

N. 9 – 2010 – Cronache

 

 

Incontro di Studi

 

“Giurisdizione, Giustizia e politica”

 

Università Roma Tre, 22-23 luglio 2010

 

Presso l’Aula Magna dell’Università degli Studi Roma Tre, nei giorni 22-23 luglio 2010, si è tenuto un incontro sul tema “Giurisdizione, Giustizia e Politica”, promosso dalla Facoltà di Giurisprudenza e dal Centro di Eccellenza in diritto europeo “Giovanni Pugliese” dell’Università degli Studi Roma Tre.

Come suggerisce il titolo che si è scelto di dare alla sessione dei lavori, chiaro è l’intento che tale incontro si è prefissato: fare il punto della situazione sullo stato dei rapporti tra l’amministrazione della giustizia e la politica, rapporto di cui in tempi recenti non si è potuto fare a meno di constatare la crisi profonda e la spesso violenta conflittualità.

Al fine di dibattere questo nevralgico argomento e di analizzarlo sotto il profilo dei tre soggetti che l’attualità ha visto principalmente coinvolti – magistrati, politici e mass media – l’incontro si è articolato in tre diverse Tavole Rotonde: la prima, dal titolo “Una riflessione introduttiva”, ha visto come protagonisti esponenti del mondo politico; la seconda, “Giurisdizione, indipendenza e professionalità: attuazione di una riforma”, ha invece coinvolto i magistrati, in special modo membri laici e togati dell’uscente Consiglio Superiore della Magistratura; la terza, “Magistratura e giustizia nella percezione collettiva”, ha invece chiamato in conto rappresentanti degli organi di stampa, intesi come testimoni, interlocutori e interpreti della crisi succitata.

 

I lavori si sono aperti con il saluto di Guido Fabiani, rettore dell’Università degli Studi di Roma Tre, che si è fatto altresì portavoce dei saluti del Ministro Angelino Alfano e dell’Onorevole Michele Vietti, assenti per sopraggiunti impegni istituzionali. Il Rettore ha ricordato l’attualità e l’importanza di un tema che coinvolge la società civile tutta, e che non manca di rappresentare una fonte di preoccupazione costante per gli stessi cittadini, chiamati sovente a far da testimoni del conflitto in atto tra potere giudiziario e potere politico; un conflitto, questo, che altera i fragili equilibri alla base dello Stato democratico e della sua dialettica interna. Il Rettore ha poi sottolineato la pregnanza della scelta dell’Università come luogo di dibattito pubblico, poiché è nelle aule universitarie che non solo si tesaurizza e si trasmette il sapere, ma che soprattutto si forma la classe dirigente cui sono demandate le sorti di un Paese. Scegliere dunque l’Università per discutere un tema di immediato interesse sociale vuol dire coinvolgere direttamente il nucleo più fertile e ricettivo della società civile, chiamandola a essere artefice consapevole del proprio futuro.

La parola passa poi al preside della Facoltà di Giurisprudenza, il professor Paolo Benvenuti, che riprende le considerazioni già fatte dal Rettore per rimarcare l’attualità del tema dei rapporti tra giustizia, giurisdizione e politica. Il Preside sottolinea la longevità di un dibattito ormai secolare «ma che trova di volta in volta nella società nuovi spunti, poiché la giustizia è un elemento di equilibrio del sistema». Viene poi ribadito come la naturale mobilità di un tessuto sociale in costante evoluzione interessi direttamente la nozione di giustizia, incidendo sui suoi parametri di identificazione quale valore e sulle modalità del suo perseguimento. Come già il Rettore, così anche il Preside ribadisce l’importanza della partecipazione dell’Università a un dibattito d’interesse pubblico, poiché «l’Università appartiene essa stessa al sistema e dunque questi temi essenziali non debbono sfuggirle». L’intervento si chiude con un rapido sguardo al Diritto Internazionale, di cui il professor Benvenuti è docente presso l’Università degli Studi di Roma Tre, ricordando come il tema giustizia-politica abbia un ruolo centrale anche sul piano sopranazionale, sebbene oggetto di dibattito solo nell’ultimo quindicennio. Il Preside ricorda non a caso i più recenti sviluppi della giurisdizione del Tribunale Penale per la Jugoslavia e la scelta di sottoporre a un nuovo processo l’ex primo Ministro del Kosovo Haradinaj (decisione del 21 luglio 2010) quale esempio d’intersezione dei piani giustizia-politica.

Terzo e ultimo intervento nel quadro della presentazione dell’incontro è quello della professoressa Letizia Vacca, già Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre e membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura uscente. L’intervento della professoressa Vacca si apre con un ringraziamento agli organi dell’Università per la disponibilità mostrata alla ricezione di stimoli provenienti non solo da ambito accademico, quanto anche da altre realtà istituzionali; una sinergia, questa, che, se tradotta in un impegno e in una collaborazione costanti, andrebbe a sanare la frattura troppo spesso esistente tra le due anime del diritto, quella teorica e quella pratica. La professoressa, non a caso, ricorda il personale impegno profuso sul piano del coordinamento di una serie di iniziative volte proprio a favorire e a rinvigorire il dialogo tra gli operatori pratici del diritto – avvocati e magistrati – e l’Università, intesa come luogo di formazione del giurista colto. La riflessione sull’esigenza di una convergenza operativa tra teoria e prassi del diritto, che ha preso le mosse dal convegno “Ius dicere: ritualità e verità nel giudizio” (Venezia, 9-10 maggio 2008), per poi svilupparsi ulteriormente nel convegno ARISTEC “Scienza giuridica e prassi” (Palermo, 26-28 novembre 2009), vede dunque nelle Tavole Rotonde del 22-23 luglio 2010 solo un’ulteriore tappa di un lungo e proficuo percorso di analisi del rapporto che intercorre tra interpretazione giudiziale e scienza giuridica. La professoressa Vacca richiama l’attenzione sul valore pregnante dei tre termini scelti per inquadrare l’oggetto dell’incontro: giurisdizione, giustizia e politica. Il termine giurisdizione, in particolar modo, «indica un’attività che nella formalizzazione dello ius dicere tende verso la giustizia», il che pone una serie di interrogativi circa l’effettiva possibilità di realizzare nel concreto un obiettivo tanto astratto, suscettibile d’essere per altro recepito in modo diverso a seconda della temperie storica di cui si parla. Non a caso, la relatrice individua il momento di sintesi tra la giustizia come valore astratto e la giurisdizione intesa come suo esercizio concreto, quando l’attività dichiarativa del diritto esercitata nelle aule dei tribunali si configura come «quanto di più vicino vi sia a ciò che la collettività percepisce come ‘giusto’». Come tuttavia ricorda ancora, lo ius dicere è solo uno dei poteri dello Stato sovrano, cui va necessariamente affiancato il potere legislativo, che è invece di competenza del Parlamento. Che rapporto esiste, dunque, tra la giurisdizione intesa come ‘dichiarazione del diritto’ e la politica, intesa come ‘luogo delle scelte’? Il potere giurisdizionale è meramente ricognitivo delle decisioni del Legislatore, ovvero integra, interpreta le norme e le riempie di ulteriori contenuti, sino ad avvicinarle quanto più possibile all’idea sociale e condivisa di giustizia? La professoressa Vacca sottolinea in tal senso il rischio di un pericoloso relativismo legato alla naturale fluidità del concetto di giustizia, cui va invece opposta la neutralità della funzione giurisdizionale. Tra giurisdizione e politica non deve infatti esistere un rapporto agonale e conflittuale, ma una sintesi sinergica che muova verso la realizzazione di una giustizia riconosciuta. A tal proposito, in chiusura del proprio intervento, richiama l’attenzione sulla responsabilità dei mass media, che troppo spesso sono portati a esasperare toni e posizioni di conflitto, offrendo alla collettività un’immagine distorta della necessaria e permanente riflessione sulla giustizia.

 

A questa presentazione generale dei temi oggetto del dibattito, segue la Tavola Rotonda, “Una riflessione introduttiva”, coordinata da Ernesto Lupo, Primo Presidente della Corte di Cassazione.

 

La riflessione di Ernesto Lupo apre con uno sguardo alla temperie storica attuale, la cui complessità sociale e politica direttamente incide sulla trasformazione e sull’ampliamento delle competenze della funzione giurisdizionale. La diffusione europea di tale fenomeno, che obbedisce all’inesorabile divenire della società, non ha impedito all’Italia di distinguersi per la violenta e patologica conflittualità con cui potere giudiziario e potere politico hanno teso a rivendicare i rispettivi ambiti di operatività, nel quadro di una profonda evoluzione delle strutture interne dello Stato. A tal proposito, il relatore individua alcune tipicità della situazione giuridica italiana, cui andrebbero demandate le ragioni del nevralgico rapporto tra giurisdizione e politica:

·     sottoposizione della classe politica alla giurisdizione penale (a seguito dell’eliminazione dell’autorizzazione a procedere in attuazione dell’art. 3 Cost.)

·     dilatazione degli spazi che la cultura giuridica (e politica) contemporanea riconosce all’interpretazione giudiziale, tanto da poter configurare il tempo presente come «età dell’interpretazione della legge» più che come «età della legge»

·     insufficienza o inidoneità della legge a disciplinare una realtà sociale e civile in continua evoluzione.

Il complesso di questi fattori ha senz’altro alterato gli equilibri sussistenti tra giurisdizione e politica, poiché tanto l’assoggettamento dei politici al potere giudiziario, tanto il sostituirsi di un’interpretazione con valenza talora nomopoietica a un’ermeneutica meramente ricognitiva del testo, definiscono i termini di una contrapposizione agonale dei poteri. Tale conflitto, d’altra parte, ingenera nella società civile diffidenza nei confronti dei rappresentanti dell’uno e dell’altro potere, e un diffuso sentimento di sfiducia nei confronti del Diritto e della giustizia, poiché, soprattutto agli occhi delle nuove generazioni, «perdono credibilità due valori di fondo dello Stato democratico: quello di chi realizza la giustizia e quello di chi gestisce la polis». Poiché non esiste senz’altro una risposta univoca alla domanda su come sia possibile uscire da una simile situazione di stallo, la scommessa per il futuro riposa dunque nella disponibilità dei rappresentanti dei diversi ordini alla riapertura di un confronto su tali temi.

La parola passa poi all’avvocato Gianfranco Anedda, componente laico del CSM uscente, che esordisce ricordando la latitudine delle problematiche in esame e la loro longevità storica. Il relatore sceglie di circoscrivere il proprio intervento al tema del conflitto in atto tra magistratura e politica, o meglio – come puntualizza subito – tra il Parlamento, i governi e la magistratura. Nello sforzo di indagare le cause – vere o presunte – di tale contrasto, e di valutare s’esso sia effetto della particolare temperie storica che sta vivendo l’Italia, o non abbia piuttosto concorso a fondare un clima di veleni e di sospetti spesso ulteriormente amplificati dalle cronache giornalistiche, l’Onorevole Anedda ricorda il valore sociale del processo, e l’anomalia tutta italiana della tendenza recente a «difendersi dal processo, anziché nel processo». In opposizione a quanto suggerito da Ernesto Lupo, Gianfranco Anedda sottolinea la persistenza, nella cultura collettiva, dell’idea di un giudice come Bouche de la Loi, e non quale artefice dinamico della legge attraverso la propria interpretazione della norma. Il relatore richiama poi gli articoli 101 e 104 della Costituzione come fondativi dell’indipendenza della magistratura, definita d’altra parte ‘ordine’ e non ‘potere’, e in tali articoli individua la radice del conflitto in atto. Se infatti i Padri Costituenti avevano costruito un sistema equilibrato, fondato su un controbilanciamento costante dei poteri, neutralizzando la forza politica della magistratura, ma assicurando per converso che quest’ultima fosse immune da qualsivoglia controllo esterno, il preteso acquisto di una competenza paranormativa da parte dei giudici per effetto dell’art. 12 delle Preleggi, ha innescato immediatamente una situazione di conflitto con il potere politico, che si è sentito in parte esautorato delle proprie prerogative. Un contrasto tra monadi, questo, che ha prodotto perniciose lesioni sul fronte della certezza del diritto e pregiudicato l’autonomia degli stessi magistrati.

A seguire, l’intervento dell’Onorevole Oliviero Diliberto, segretario nazionale del Partito dei Comunisti Italiani, apre ricordando la longevità del dibattito sulla situazione di crisi della giustizia italiana, perniciosamente afflitta da arretrati giudiziari e lungaggini burocratiche. Accanto infatti alla specificità di un problema che attraversa la stessa storia del diritto – segue un breve excursus storico sulle voci autorevoli che dal Settecento in poi hanno analizzato i difetti e i limiti della giurisprudenza, proponendo eventuali misure rimediali – è innegabile come, negli ultimi venti anni, il sistema giudiziario italiano sia parso gravato da difetti strutturali che hanno senz’altro concorso a preparare l’attuale situazione di conflitto. L’Onorevole Diliberto fissa nella fine degli anni Ottanta il dies a quo della crisi della politica, intesa come progressiva delegittimazione della politica stessa; una crisi, questa, ostativa a un serio programma di riforme quale quello di cui il diritto – e in special modo la procedura – aveva bisogno. Se poi la debolezza della politica ha impedito che si attuassero sotto il profilo normativo snellimenti strutturali, a premere perché restassero nell’alveo della giurisdizione materie altrimenti suscettibili d’essere sottratte al processo, sono state le forze più conservatrici di magistratura e avvocatura, costituitesi come veri e propri gruppi di potere. Il relatore suggerisce come il contrasto tra i rappresentanti dei due ordini – politici e magistrati – sia successivo agli anni Settanta, allorché la progressiva ‘politicizzazione’ della magistratura comincia a essere vista come una qualità sociale condivisa, e si individua nell’autonomia del magistrato una garanzia per lo stesso cittadino. L’Onorevole Diliberto evidenzia come la tradizionale tripartizione dei poteri dello Stato debba oggi essere intesa come quadripartizione, poiché l’influenza dei media e dell’informazione è ormai tale nella vita delle collettività da incidere sulle stesse scelte politiche. Il relatore porta poi l’attenzione sull’anomalia tutta italiana per la quale il principale soggetto detentore del controllo sui media occupa anche un ruolo di primo piano nell’esecutivo del Paese, con una conseguente commistione dei poteri (economico, politico e istituzionale) che non ha eguali in alcun altro stato al mondo, e che in Italia si è tradotto nella graduale mortificazione della funzione parlamentare, di fatto assoggettata alle scelte governative. A fronte di questa concentrazione di poteri in un unico polo, la magistratura si è dunque sentita investita – e come tale è stata vista dalla collettività – come ultimo baluardo per la preservazione della democrazia. Da ciò, ricorda il relatore, l’attacco autoconservativo del gruppo di potere, che ha individuato nell’autonomia dei magistrati un pericolo per il perseguimento di una ‘politica dei privilegi’ e che dunque non ha esitato a ricorrere ai media per promuovere una campagna di delegittimazione degli stessi – definizione dei magistrati come toghe rosse.

Prende poi la parola l’avvocato Ubaldo Perfetti, vicepresidente vicario del Consiglio Nazionale Forense. Il relatore concorda nella sostanza con le riflessioni già offerte dal coordinatore Ernesto Lupo: preso atto dell’effettività di una situazione di conflitto, le ragioni sono senz’altro da ricercarsi nell’invasione progressiva da parte della magistratura degli spazi deputati tradizionalmente alla politica. L’avvocato Perfetti ritiene nei fatti come «il contrasto tra giurisdizione e politica sia frutto di un mutamento genetico indotto sulla giurisdizione dalla parabola dello stato legislativo di diritto che si trasforma in stato costituzionale». Mentre infatti lo stato liberale si concreta nell’esercizio della funzione legislativa, e dunque si identifica nell’attività del Parlamento, lo stato costituzionale è caratterizzato da un pluralismo delle fonti del diritto e da un allargamento dello spettro delle situazioni garantite. A fronte delle esigenze di una società più complessa di quella che apparteneva alla tradizione dello stato borghese, la politica si vede sovente costretta ad abdicare a una funzione che recupera l’interprete, mediando tra la norma e quegli elementi che, pur esterni al diritto, ne influenzano il contenuto e l’attuazione. Analogamente a quanto poi ricordato dall’Onorevole Diliberto, si imputa a una classe politica in crisi l’ontologica e perniciosa incapacità di adottare riforme in grado di migliorare la gestione della Cosa Pubblica, intesa purtroppo sovente come feudo personale e serbatoio di privilegi. Se queste sono le radici del conflitto in atto, più complesso è individuare le misure rimediali. Non convince la proposta avanzata in alcuni ambienti di abrogare la norma che sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale, poiché tanto importerebbe una subordinazione dell’attività delle procure alle decisioni della politica, che, sola, finirebbe con il vagliare l’opportunità o meno di procedere. Complesso anche definire la posizione del Consiglio Superiore della Magistratura, la cui terzietà come organo di vigilanza è stata spesso adombrata da accuse di correntismo. Il principio dell’autonomia della magistratura come ordine, nei fatti, deve attuarsi sotto un duplice aspetto: autonomia esterna rispetto agli altri poteri, e autonomia interna, intesa come indipendenza degli organi di autogoverno  dalle ingerenze della politica (modifica dei criteri di nomina dei membri del CSM). Se tuttavia la trasformazione degli equilibri che regolano i rapporti tra i poteri dello Stato finisce con l’imputare al magistrato una competenza paranormativa, il problema che si pone è soprattutto quello della responsabilità: manca infatti tra il giudice e il cittadino quello stesso rapporto di controllo–legittimazione che sussiste invece tra il Parlamento e la collettività in esso rappresentata.

Il relatore ribadisce con forza il principio per cui non può darsi alcun potere cui non si associ una responsabilità, sicché accanto all’indipendenza e all’autonomia necessarie all’espletazione delle funzioni demandate, la magistratura deve dotarsi di strumenti che ne regolino disciplina e funzioni. In particolar modo l’avvocato Perfetti auspica una riforma della normativa che disciplina la responsabilità dei magistrati; una riconfigurazione della funzione dei capi direttivi degli uffici, che devono essere assimilati ai manager e chiamati a garantire l’efficienza operativa del sistema; l’inserimento di regole per la valutazione della carriera sulla base di un criterio efficientista, nonché un potenziamento della funzione dei consigli giudiziari per evitare compenetrazioni tra valutatori e valutati. A ciò deve poi aggiungersi una necessaria riforma del codice deontologico del magistrato, soprattutto per quel che riguarda i profili che regolano i suoi rapporti con i media. Perché tuttavia queste riforme possano essere attuate, è necessario prima di tutto che lo scenario politico recuperi la propria credibilità: solo così, nei fatti, sarà possibile promuovere interventi strutturali che non vengano immediatamente avversati dalla controparte in quanto tacciati di opportunismo di casta.

Segue l’intervento dell’Onorevole Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Partito Democratico al Senato. La senatrice ricorda come appartenga alla fisiologia di ogni Stato democratico una certa tensione tra i poteri che ne vestono le diverse funzioni, poiché proprio tale tensione assicurerebbe il loro controbilanciamento e reciproco controllo. Al contempo, tuttavia, questa tenue tensione non dovrebbe innescare una situazione di conflitto, quanto essere «produttiva del risultato finale della riaffermazione dei principi costituzionali della fedeltà alla Costituzione nell’agire del potere politico», fungendo dunque da garanzia anche contro gli abusi del potere esecutivo. L’anomalia della contemporaneità – come tiene a sottolineare la relatrice, nei fatti, il contrasto tra giurisdizione e politica non è appannaggio del solo scenario italiano – si realizza nondimeno nell’esacerbazione di questa tensione, che diviene conflitto e innesca dunque una serie di conseguenze pregiudizievoli per la stessa dialettica istituzionale. L’Onorevole Finocchiaro richiama espressamente le responsabilità della politica in merito all’acuirsi del contrasto tra i poteri dello Stato, poiché la dilatazione degli spazi di apprezzamento dell’interprete è strettamente legata a un’attività legislativa poco rispettosa del dettato costituzionale, ovvero produttiva di norme ambigue, imprecise o in contrasto con il diritto comunitario. La relazione si concentra poi su quelli che sono gli effetti del conflitto succitato, isolati dalla relatrice nei seguenti punti:

·     angustia e parzialità del punto di osservazione.

Quando si parla di conflitto tra potere politico e giurisdizione, nei fatti, si sottintende in realtà sempre riferire di un contrasto tra politici e magistratura penale, con un conseguente impoverimento del dibattito sulla giustizia, poiché si marginalizza il ruolo altrimenti essenziale che le diverse giurisdizioni presenti nel nostro ordinamento ricoprono nella dialettica istituzionale del Paese. L’angustia di un simile punto di vista mortifica un dibattito secolare, che ha oggi una dimensione transnazionale.

·     Necessaria ridefinizione degli equilibri tra i poteri.

La dilatazione degli spazi di apprezzamento del giudice, in una società complessa e destinata a una sempre più rapida evoluzione, importa una nuova registrazione degli equilibri che regolano la tensione interna tra i poteri.

·     Voluto e colpevole fraintendimento sul tema delle riforme che dovrebbero interessare la giustizia italiana.

La trattazione di tale tema da parte dei mezzi di comunicazione di massa è stata tale da rendere impossibile isolare l’effettivo oggetto del dibattito, poiché alla voce di chi ritiene la riforma debba riguardare alcuni profili strutturali dell’Ordine, si è sovrapposta l’opinione di chi invece associa tale etichetta alla revisione dei principi costituzionali che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale.

In conclusione del proprio intervento, l’Onorevole Finocchiaro lancia un monito: il mancato superamento di questa tensione nefasta per l’ordinamento – nefasta perché dispone in modo agonale forze che dovrebbero piuttosto cooperare nel quadro degli equilibri costituzionali – finirebbe con il condannare l’Italia a un destino di povertà.

Nella relazione seguente, Nicola Mancino, vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura uscente, risponde alla domanda posta dal coordinatore Ernesto Lupo – se il CSM abbia o meno un ruolo attivo nel conflitto in atto – richiamando ancora una volta le responsabilità della politica. In un intervento sostanzialmente ricognitivo delle voci di chi l’ha preceduto, il vice Presidente sottolinea il peso che la dialettica costituzionale ha sul finale assetto dei poteri e sugli equilibri interni, ricordando ad esempio il valore della magistratura amministrativa come strumento di controllo attivo dell’esercizio della funzione esecutiva. Il relatore prende atto del peso che l’involuzione del quadro politico complessivo ha avuto sulla mancata attuazione di una serie di riforme strutturali che avrebbero reso più snello ed efficace l’esercizio della funzione giurisdizionale. Auspica dunque un ritorno alla Costituzione come valore consustanziale alla formazione dei politici e dei magistrati, nonché una nuova responsabilizzazione della classe politica che consenta la riapertura del dialogo tra i rappresentanti dei diversi ordini, e una loro convergenza operativa in vista dell’utile collettivo.

Chiude la tavola rotonda un nuovo, breve intervento del coordinatore Ernesto Lupo, che porta l’attenzione dei convenuti su un tema che sarà poi ripreso nella seconda giornata di lavori: la centralità della formazione del magistrato nel superamento del conflitto in atto tra i poteri dello Stato. Il relatore sottolinea nei fatti come l’amplificazione della funzione giurisdizionale avrebbe dovuto associarsi a una maggiore selettività delle prove concorsuali, anziché a una riduzione delle stesse in vista di un ampliamento del bacino di reclutamento, necessario, d’altra parte, a garantire la copertura necessaria dei ruoli.

 

La seconda giornata di lavori si apre con la Tavola Rotonda “Giurisdizione, indipendenza e professionalità: attuazione di una riforma”, coordinata dalla professoressa Letizia Vacca, membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura uscente, in sostituzione del professor Salvatore Mazzamuto, assente per motivi di salute.

 

La relazione introduttiva della professoressa Letizia Vacca si apre con un richiamo al fondamentale valore paideutico dell’Università, che non deve essere intesa alla stregua di un ‘esamificio’, quanto piuttosto vista come un luogo di formazione della coscienza civile, e di riflessione sui temi di immediata attualità. Senza un autentico raccordo tra le aule dell’Università e la società civile, nei fatti, non potrebbe mai costituirsi una classe dirigente consapevole, in grado di interpretare le trasformazioni del Paese e di farvi fronte nel modo più opportuno. Non a caso l’intervento prosegue con un richiamo a quella che è l’attuale debolezza della politica: debolezza le cui radici vanno individuate proprio nello scollamento progressivo della vita parlamentare da un sistema di valori condivisi. Alla crisi del potere politico, d’altro canto, per riprendere alcuni dei temi affrontati nel corso della prima tavola rotonda, va associata la progressiva perdita di credibilità della magistratura, con un conseguente crollo della fiducia dei consociati nella terzietà dell’Ordine. Le cause di tale delegittimazione sono da ricercarsi, secondo la professoressa Vacca, anche nell’eccessiva esposizione mediatica di certuni magistrati, il cui protagonismo d’immagine ha finito con lo screditare l’Ordine tutto e appannare quella ch’è nei fatti l’autentica funzione della magistratura. La relatrice fa poi il punto su quello che è ormai da decenni l’invincibile male della giustizia italiana, sarebbe a dire l’assenza di una riforma strutturale che coinvolga prima di tutto la giustizia civile, i cui lunghi tempi di attesa finiscono spesso con il tradursi nei fatti in una vera e propria ‘negazione di giustizia’. Come ribadisce la professoressa Vacca, se «il processo tende alla realizzazione della giustizia, non vi può essere giustizia senza un (giusto) processo». Perché questa situazione di stallo venga superata è però necessario che vi sia una sinergia delle risorse materiali disponibili in vista di un bene collettivo, senza settarismi o ricerca di privilegi di casta, poiché «quando si perde la percezione delle regole (che, sole, devono disciplinare la dialettica dei poteri), si perde il tessuto connettivo della società civile», con il conseguente – e rovinoso – crollo culturale dell’intero sistema. L’esperienza quadriennale del CSM uscente si configura dunque, agli occhi della relatrice, come particolarmente fertile e proficua proprio sul piano della ricerca di una composizione negoziale dei contrasti: la ricerca costante dell’unanimità e di una condivisione democratica delle scelte; lo sforzo di superare la lottizzazione partititica, il serio e costante monitoraggio disciplinare, sono stati infatti solo alcuni degli elementi che ne hanno connotata l’attività nel quadro della sua azione di organo di governo e di controllo dell’Ordine. L’auspicio della professoressa Vacca è volto a un futuro in cui tale modus agendi trovi validi epigoni e in cui dunque resti alta l’attenzione per la formazione del magistrato – intesa come momento coessenziale alla costruzione di un operatore pratico consapevole e responsabile – e per il monitoraggio tecnico tanto dell’azione dell’esecutivo che della qualità dei magistrati.

Di parere quasi opposto Giuseppe Maria Berruti, magistrato e componente del CSM uscente, il quale ritiene che, per quanto animata da nobili intenzioni, la parabola del Consiglio Superiore della Magistratura di cui è stato membro si sia rivelata sostanzialmente fallimentare. Se non nei mezzi, senz’altro nei risultati. Il consigliere Berruti ricorda prima di tutto come la riforma dell’ordinamento giudiziario sia stata concepita in un momento di grave crisi del rapporto tra giurisdizione e politica, e sottolinea pure quanto questo abbia pesato sulle concrete possibilità di attuazione. Al contempo – e con rammarico – osserva come sia stata spesso la stessa magistratura a ostentare una reazione autoconservativa a fronte di un rinnovamento necessario della giurisdizione – necessità data dalla complessità di una temperie storica caratterizzata da un potere diffuso. Un CSM disponibile all’attuazione della riforma, persino in spregio a specifiche indicazioni politiche, si è dunque visto tacciato di correntismo proprio allorché ha tentato di andare oltre gli interessi di parte. Con lucidità e amarezza, il relatore porta di nuovo l’attenzione sulla centralità della formazione – permanente – del magistrato, poiché a fronte di «una democrazia moderna incapace di controllare e gestire la stessa libertà di scelta (…), un’ineccepibile professionalità diviene l’unica condizione per assicurare l’autonomia dell’ordine». Chiude con un monito diretto ai magistrati, posti innanzi a una scelta ineludibile, poiché «o comprendono che devono rilegittimarsi in forza di una lucida e controllabile professionalità, ovvero bisogna aspettarsi per il futuro che il richiamo a un criterio efficientista uccida l’indipendenza dell’Ordine».

Segue l’intervento del dottor Edmondo Bruti Liberati, Procuratore della Repubblica di Milano, la cui attenzione si è focalizzata soprattutto sui profili strutturali e tecnici della riforma dell’ordinamento giudiziario, nonché sull’analisi delle proposte avanzate in sede politica in merito a un’ulteriore trasformazione dell’assetto e delle competenze degli organi giurisdizionali. Il relatore richiama in apertura un articolo di Angelo Panebianco, apparso sul Corriere della Sera, in cui si auspica un sostanziale svuotamento delle competenze del CSM (competenze definite dall’art. 105 Cost.), senza che si indichi tuttavia un soggetto deputato a ereditarne la funzione. Il corollario di un simile disegno sarebbe, secondo la ricostruzione del dottor Liberati, una cooptazione tutta interna dei magistrati e un’azione di vigilanza esercitata direttamente dall’esecutivo; una scelta, questa, che decreterebbe pure il venir meno dell’indipendenza dell’Ordine. Il relatore sottolinea poi il rinnovamento dato dalla riforma dell’ordinamento giudiziario, come pure le difficoltà della sua messa in opera, imputabili senz’altro a una resistenza autoconservativa della magistratura agli elementi di novità introdotti, in special modo per quel che riguarda la temporaneità degli uffici direttivi e il nuovo assetto delle procure. Il dottor Liberati vede del resto nella nuova disciplina delle procure uno strumento valido, sebbene non esaustivo, per controllare alcune anomalie tutte italiane, come l’estrema disinvoltura mostrata da alcuni Pubblici Ministeri nell’esercizio dell’azione penale che, come ricorda il relatore, non può divenire lo strumento di una crociata politica senza che se ne snaturino profondamente le funzioni. Più complesso, invece, controllare il protagonismo mediatico di alcuni magistrati, problema già più volte analizzato e affrontato nel corso delle due tavole rotonde. Una lettura ‘personalizzata’ della giustizia non può d’altra parte prescindere da un’adeguata responsabilizzazione, e in tal senso dovrebbe essere proprio il CSM, nel dare attuazione alla riforma sopraccitata, a fornire indicazioni in merito ai rapporti che i magistrati dovrebbero intrattenere con la stampa. Consustanziale al recupero di una credibilità dell’Ordine resta comunque la sua orgogliosa indipendenza rispetto alle situazioni di conflitto innescate da una politica debole e corrotta. Perché tuttavia l’evanescente fantasma del ‘Partito dei Magistrati’, sovente evocato dagli scranni della politica, si mostri per quello che è – un fantasma inconsistente, appunto – è necessario che i magistrati per primi evitino di assumere quegli atteggiamenti non ragionati e non meditati, che li precipitano nel pieno di un agone politico da cui dovrebbero piuttosto, in ragione della loro funzione, mantenere le distanze.

Prende poi la parola Vincenzo Carbone, ex Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, che propone un intervento ricognitivo di molte delle opinioni già espresse, per portare poi l’attenzione su alcuni degli elementi nevralgici dell’attuale stato della giurisdizione. Il Presidente ricorda come quella tra potere politico e potere giurisdizionale sia una tensione secolare, connaturata agli stessi equilibri interni allo Stato; una tensione che coinvolge in particolar modo la giurisdizione penale, mentre quella civile, che pure tocca da vicino l’interesse dei cittadini, sembra periferica rispetto alle preoccupazioni della classe dirigente. Come già i relatori che l’hanno preceduto, Carbone pone l’accento sull’influenza che un sistema pluralista ha sullo stato della giurisdizione, poiché la proliferazione dei centri di potere importa una moltiplicazione degli organi necessari al loro autogoverno e pone dunque la necessità di una loro organizzazione sistematica. Il relatore rimarca il valore della terzietà accanto a quello dell’indipendenza del giudice, e ribadisce la centralità dell’interpretazione come condizione di vitalità del diritto. In chiusura del proprio intervento, il presidente Carbone ricorda poi la dimensione europea assunta ormai dal ruolo del giudice, che concorre dunque, con il proprio operato, alla formazione stessa diritto dell’Unione; una funzione, questa, che non può tuttavia prescindere da una stretta sinergia operativa con la scienza giuridica che, sola, può assicurare la razionalità sistematica delle regole così prodotte.

Dopo un breve intervento di raccordo della coordinatrice professoressa Letizia Vacca, prende la parola la dottoressa Ezia Maccora, magistrato e componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura uscente. Come già il consigliere Berruti, la relatrice inaugura il proprio intervento con un bilancio dell’esperienza quadriennale maturata nel CSM uscente, sottolineando in particolar modo le difficoltà incontrate dall’organo nel dare attuazione a una riforma aspramente avversata sovente dagli stessi magistrati. La dottoressa Maccora pone l’accento sulla patologica resistenza opposta da certuni ambienti al cambiamento; resistenza che alimenta la crisi dei poteri al pari di alcuni fattori già ricordati dai relatori della prima giornata. In particolar modo la relatrice rinviene le ragioni del conflitto tra giurisdizione e politica, da un lato, nella massiccia sottoposizione della classe politica al processo penale; dall’altro, nell’evoluzione della società che ha portato con sé anche un’evoluzione dello spettro dei diritti. La giurisprudenza, chiamata a colmare lacune normative e a dare risposte immediate a problematiche contingenti, si è dunque sovente trovata in una posizione concorrenziale al potere legislativo. Ha poi concorso a esacerbare ulteriormente il conflitto il crescente peso dei media, che andrebbero, al pari delle parti in causa, adeguatamente responsabilizzati. La dottoressa Maccora cita Gustavo Zagrebelsky, e la sua lucida definizione della democrazia come del «sistema che maggiormente sviluppa oligarchie, perché è proprio la richiesta diffusa di giustizia che genera patronati». La relatrice analizza poi nello specifico l’esperienza del CSM, rilevando come la messa in opera da parte di quest’ultimo di una riforma di costume e di professionalità, improntata a un criterio meritocratico, gli abbia sottratto i consensi degli stessi magistrati, ancorati a un conservatorismo dispensatore di privilegi. La dottoressa Maccora invita tuttavia a rifiutare la lusinga di un retropensiero preconfezionato per riflettere piuttosto sui fatti concreti e sulle responsabilità individuali: una riflessione, questa, che induce purtroppo a ritenere fallimentare l’esperienza del CSM uscente per effetto di un fraintendimento istituzionale – in buona parte alimentato dai media – legato a una volontà passatista e conservatrice. La relatrice chiude il proprio intervento con una provocazione, adombrando l’ipotesi che il conflitto agonale tra politica e giurisdizione sia espressione di un preciso disegno di non facere. Il mantenimento di tale contrasto, nei fatti, rappresenterebbe un alibi per non affrontare gli autentici problemi che affliggono la dialettica istituzionale del Paese.

La coordinatrice Letizia Vacca chiosa rilevando come il quadro prospettato dalla dottoressa Maccora sia in realtà il corollario di un problema culturale. In Italia si assisterebbe cioè, a tutti i livelli e non solo all’interno della magistratura, a un rifiuto per le riforme dettato da un istinto autoconservativo. In particolar modo, la protezione dello status quo apparirebbe come l’unico mezzo certo per assicurarsi una rapida e facile carriera, con un pernicioso accantonamento di quel criterio meritocratico che, solo, può assicurare la modernità e la crescita democratica di un Paese.

Interviene poi Antonio Patrono, consigliere togato del Consiglio Superiore della Magistratura uscente. Quella del relatore è una valutazione complessivamente positiva della consiliatura, anche se viene sottolineato come manchi ancora un riscontro dell’operato del CSM nella pratica della giustizia. Il consigliere Patrono ritiene che quello della giustizia italiana non sia tanto un problema di uomini, come sembra suggerire il trattamento mediatico del tema, quanto di strutture, sulla cui revisione, nondimeno, grava un’impasse di matrice chiaramente politica. Il suo intervento si concentra nei fatti soprattutto su quelle riforme che, pur necessarie, non hanno mai trovato attuazione:

·     non basta ridisegnare l’organico interno delle procure, lasciando intoccato un assetto strutturale che risale al Codice Rocco: proficuo sarebbe, agli occhi del consigliere, un rimodellamento degli uffici su base territoriale, per venire incontro alle esigenze investigative.

·     Utile sarebbe, sempre ai fini dell’indagine e del processo, un’unificazione del ruolo del PM nei diversi gradi di appello. Se esigenze di giustizia legittimano nei fatti un mutamento del giudice, esigenze di contingentamento dei tempi processuali suggeriscono sia più utile che l’azione resti nella disponibilità di chi ha acquisito ab origine gli elementi di indagine.

Secondo elemento ostativo a un ammodernamento della giustizia italiana è poi dato da una resistenza culturale alla composizione stragiudiziale del conflitto, sicché l’aver riformato la procedura in chiave accusatoria non si è accompagnato, nel nostro Paese, alla predisposizione di quei mezzi tecnici alternativi al processo e deflativi  delle lungaggini burocratiche ch’esso comporta. L’intervento si chiude infine con una difesa appassionata dell’autonomia del CSM, soprattutto per quel che riguarda la nomina del vice Presidente, la cui sottrazione alla disponibilità del Parlamento rappresenta senz’altro la prima forma di garanzia per l’indipendenza dell’Ordine.

Prima di una breve pausa, la coordinatrice Letizia Vacca chiosa l’intervento del consigliere Patrono e sottolinea come il quadriennio della consiliatura uscente abbia comunque concorso, almeno in parte, a modificare l’atteggiamento dei magistrati, lasciando dunque sperare in un futuro di maggiore apertura verso le riforme e il rinnovamento. La professoressa Vacca evidenzia però come nel novero non debbano essere compresi coloro che hanno spettacolarizzato una funzione pubblica attraverso i media, quanto piuttosto quelli che hanno silenziosamente operato nelle procure per il concretarsi del nuovo assetto.

 

Dopo qualche minuto di intervallo, la Tavola Rotonda riprende con l’intervento di Giorgio Santacroce, Presidente della Corte di Appello di Roma, la cui relazione si articola su tre punti essenziali:

·     la necessaria valutazione delle qualità professionali del magistrato, come condizione per esaurire o almeno arginare le situazioni di conflitto;

·     il doveroso rispetto delle regole da parte degli agenti nel quadro – e politici e magistrati – nella consapevolezza del ruolo istituzionale ricoperto;

·     l’ostracismo e la delegittimazione di quei magistrati che assumono iniziative che esulano dai loro specifici compiti istituzionali.

Quello rivolto dal Presidente della Corte di Appello di Roma ai magistrati è l’invito appassionato a recuperare la consapevolezza del ruolo ricoperto nella dialettica istituzionale, e dunque a vestire un abito confacente all’alto compito cui l’Ordine è chiamato, resistendo da un lato alle lusinghe della spettacolarizzazione mediatica della giustizia, dall’altro, a vetusti e superati privilegi di casta.

 

All’ultimo intervento, segue un breve dibattito tra i relatori:

Giuseppe Maria Berruti, in replica ad Antonio Patrono, sottolinea la responsabilità di quei poteri che non hanno difeso l’operato del CSM nell’attuazione di una riforma impopolare ma necessaria.

Antonio Patrono conviene con la chiosa del consigliere Berruti e parla di una vocazione politica alla ‘destrutturazione’ della magistratura, in ragione dell’emanazione di provvedimenti che in modo diretto o indiretto finiscono con l’osteggiarne l’azione o ridurne i mezzi.

La consigliera Ezia Maccora consente in parte con l’analisi fatta da Antonio Patrono, sottolineando le difficoltà attuative della riforma laddove le procure mancano di uomini e di mezzi. In particolar modo rimarca però il valore fondante della formazione del magistrato, quale principale attore del rinnovamento in atto.

La coordinatrice Letizia Vacca chiude la Tavola Rotonda auspicando un futuro interlocutorio tra le diverse anime e poteri dello Stato, poiché è solo da una loro sinergia che può nascere un autentico e funzionale rinnovamento della giurisdizione, nonché una compiuta realizzazione dell’ideale di giustizia.

 

L’incontro di chiude nel pomeriggio del 23 luglio 2010 con la terza Tavola Rotonda, “Magistratura e giustizia nella percezione collettiva”, coordinata dal professor Eligio Resta, professore di Filosofia e Sociologia del Diritto presso l’Università degli Studi di Roma Tre.

 

Il coordinatore, professor Eligio Resta, apre sottolineando il valore di una convergenza operativa tra l’Università e la magistratura, poiché in tale incontro risiedono pure le due anime del diritto: il suo profilo teorico e la sua traduzione operativa nella prassi. In merito ai rapporti giustizia-Informazione e giustizia-Politica, il relatore sottolinea come questa sia una temperie storica in cui si assiste a una «compensazione in sede stampa delle contrazioni della democrazia». L’informazione costituirebbe dunque un momento della rappresentazione democratica, l’espressione di una «tribunalizzazione della Storia» e dell’idea di giustizia come di un «teatro pubblico». Il rischio insito in tale lettura è tuttavia quello che si sovrappongano i piani della legalità e del consenso, tra i quali, in un ordinamento autenticamente democratico, non deve sussistere alcun rapporto («la legalità non ha bisogno del consenso, poiché poggia su di un’aggiudicazione»).

Interviene poi Lionello Mancini, giornalista de Il Sole 24 ore. Il relatore pone in evidenza alcuni dei nodi problematici del rapporto tra informazione e giustizia:

·     la giustizia non viene più percepita, né rappresentata come un servizio al cittadino.

·     Vi è una scarsa sensibilità per i profili economici della giurisdizione e i costi reali della giustizia.

·     La delegittimazione della magistratura è in buona misura legata alla sovraesposizione mediatica di alcuni magistrati.

Prende poi la parola Liana Milella, giornalista de La Repubblica, con un intervento che mira a individuare le radici del conflitto tra magistratura e politica nell’avvento al potere di Silvio Berlusconi. La relatrice individua nel millenovecentonovantaquattro una linea spartiacque oltre la quale la tensione fisiologica tra i poteri dello Stato si è tradotta in una contrapposizione agonale. Liana Milella sottolinea nei fatti come vi sia nell’azione di governo uno specifico interesse a impostare la dialettica istituzionale nel senso di uno scontro senza condizioni. La sovraesposizione di tale profilo, d’altra parte, va tutta a discapito di una seria indagine sui costi e sulle perdite della giustizia.

Interviene di seguito Dino Martirano, de Il Corriere della Sera, il quale minimizza i termini con cui si è parlato del conflitto dei poteri, sottolineando come vi sia alla base soprattutto un problema culturale italiano, un progressivo imbarbarimento e involgarimento tanto della dialettica politica che della comunicazione.

Prende poi la parola Luca Palamara, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, che si trova in parte a concordare con l’analisi di Liana Milella, in parte con l’opinione espressa da Dino Martirano. Per il relatore è essenziale che si superi una lettura autoreferenziale della giustizia e che la magistratura torni a dare di sé al cittadino un’immagine funzionale. Non ritiene tuttavia che il berlusconismo – e la conseguente reazione allo stesso – sia stato determinante nel riassetto organizzativo della giurisdizione.

Il coordinatore Eligio Resta interviene e rimarca l’esigenza di una convergenza operativa dei poteri, perché dall’alto e dal basso si cooperi a un rinnovamento istituzionale che muova prima di tutto da un criterio meritocratico. Al contempo sottolinea le responsabilità dei media, troppo spesso interessati ai profili del conflitto e troppo poco ai temi davvero rilevanti della giustizia.

Lionello Mancini dissente con Luca Palamara sul fronte del berlusconismo, sottolineando come lo stesso riassetto organizzativo delle procure possa essere inteso alla stregua di una sua ricaduta – la risalenza dei problemi non elimina il fatto che per affrontarli si sia dovuta attendere una situazione di vera e propria emergenza democratica.

Liana Milella cita Ezia Maccora, ma ricorda pure l’estrema difficoltà di far approdare sui quotidiani di regolare diffusione notizie che analizzino gli aspetti più tecnici della giurisdizione. La relatrice rimarca pure la pesante ricaduta del berlusconismo non solo sul lessico della politica, ma soprattutto sul metro espressivo dei media.

Dino Martirano imputa alla magistratura una certa chiusura apparente nei confronti degli organi di stampa. Gli risponde in ultima battuta Luca Palamara evidenziando come, in una società moderna, pluralista e caratterizzata da una presenza diffusa dei mezzi di comunicazione, la sfida da raccogliere sia proprio quella di regolare i rapporti di scambio tra l’Ordine e i media. Solo fissando regole deontologiche che disciplino l’esposizione mediatica dei magistrati si potrà pensare a una lettura davvero trasparente della giurisdizione.

 

 

Sara Galeotti

Università Roma Tre