N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

 

POTERI DELLO STATO, CHIESA CATTOLICA E CONFESSIONI RELIGIOSE NELLA COSTITUZIONE ITALIANA

 

RAFFAELE COPPOLA

Università di Bari

 

Sommario: 1.Impostazione costituzionalistica e prospettiva interordinamentale nello studio del diritto ecclesiastico; l’influenza degli ordinamenti religiosi sulle famiglie giuridiche dei diritti laici.  - 2. Sfera politica e sfera religiosa: due mondi a confronto; l’Imperatore Costantino ed il cristianesimo; sviluppi e obiettivo della relazione. 2. Poteri dello Stato, libertà ed eguaglianza delle confessioni religiose. - 3. Parallelismo fra l’art. 7, 2° comma e l’art. 8, 3° comma, della Costituzione italiana. - 4. Ordinamenti confessionali e consolidamento del principio pattizio. Limiti ai poteri dello Stato discendenti dall’art. 20 Cost.

 

 

1. Impostazione costituzionalistica e prospettiva interordinamentale nello studio del diritto ecclesiastico; l’influenza degli ordinamenti religiosi sulle famiglie giuridiche dei diritti laici

 

Lo svolgimento della relazione comporta un ridimensionamento di alcuni orientamenti (anche autorevoli), emergenti nel quadro della dottrina italiana, che portano al centro del diritto ecclesiastico i principi della libertà religiosa, dell’uguaglianza e del pluralismo, mortificando la prospettiva interordinamentale. Tali orientamenti, il cui peso non va misconosciuto per il deciso impulso a riconsiderare l’intero ambito della disciplina alla luce delle norme costituzionali concernenti i diritti di libertà[1], non pongono nel giusto rilievo il valore del sistema che fa capo all’art. 7 della Carta, frutto di approfonditi ed eloquenti dibattiti in seno all’Assemblea costituente[2], nonché l’influsso da esso esercitato sull’interpretazione giuridica concernente il fattore religioso[3], a prescindere dall’indirizzo volto a collocare i negoziati con le confessioni diverse dalla cattolica sul piano degli accordi politici esterni[4].

L’esame del quadro costituzionale rilevante dimostra ad oculos come sia impossibile non tenere in debito conto, salvo modificazioni radicali (che non trovano riscontro nella maggioranza delle forze politiche né del Paese reale), la concreta disciplina costituzionale della libertà religiosa nel suo profilo collettivo, con le varie conseguenze che ne discendono in sede di accordi o di rapporti inter potestates, prima fra tutte la delimitazione dei poteri dello Stato, titolare della sovranità nel proprio ordine, a fronte del parallelo riconoscimento della sovranità della Chiesa e, mutatis mutandis, dell’autonomia istituzionale delle confessioni di minoranza.

D’altra parte, non è possibile omettere che la classica distinzione del Ruffini fra libertà religiosa e libertà delle confessioni religiose, invero non trascurata dalla Costituzione (artt. 2, 3, 19 – 7, 8, 20), è posta in crisi dalle articolazioni concrete della libertà religiosa individuale, effettivamente regolate dal concordato e dalle intese con le confessioni diverse dalla cattolica[5]. Del pari, non è da passare sotto silenzio, nella cornice dell’attuale sistema di rapporti fra Stato e confessioni (in linea di continuità con la storia delle relazioni fra Stato e Chiesa in Italia ed in genere nell’Occidente cristiano), la motivata ed originale concezione di un chiaro autore, la cui importanza è di immediata evidenza non meno delle sue implicazioni[6].

Essa, formulata due anni avanti l’inizio dell’attività della Corte costituzionale (quindi risalente nel tempo), individua per i diritti di libertà, accanto ad un contenuto negativo, un contenuto positivo, «che per quanto riguarda la libertà di coscienza consisterebbe in una forma speciale di collegamento tra l’ordinamento confessionale e l’ordinamento statuale, determinato dal volontario comportamento dei soggetti titolari del diritto di libertà religiosa. Il concreto esercizio di tale diritto opererebbe … al centro della vita giuridica individuale un collegamento fra ordinamenti giuridici»[7].

Indipendentemente dalle osservazioni in contrario formulabili specie nella nostra epoca, che registra un progresso nella valorizzazione delle pertinenze individuali, appare da quanto complessivamente esposto che la vigenza del tradizionale assetto istituzionalistico, la prospettiva interordinamentale (i cui antecedenti si fanno risalire alla teoria del dualismo giurisdizionale) non escludono l’impostazione costituzionalistica, tesa alla valorizzazione della persona e dei suoi diritti fondamentali, fermo restando il problema naturale dei contorni della tutela predisposta, nella comune ricerca della funzione propria delle norme di diritto ecclesiastico, da inquadrare nella salvaguardia di quel sentimento religioso che la Corte costituzionale ha elevato fra i beni protetti dalla nostra legge fondamentale ed inteso quale sentimento che «vive nella coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della stessa fede»[8].

In ciò, nella possibilità di conciliare i due orientamenti, in un contesto volto a ridimensionare l’ipotesi separatista a vantaggio del regime convenzionale ecclesiastico-statale (espressamente valorizzato da un grande uomo politico della Sardegna contemporanea, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel discorso pronunciato dopo il giuramento di fedeltà alla Costituzione), il contributo di questa comunicazione al presente seminario sassarese. Detto contributo non sottovaluta l’influenza esercitata dagli ordinamenti religiosi sulle famiglie giuridiche dei diritti laici, romano-germanica - common law, con eccezione della famiglia sovietica prima degli odierni mutamenti dello status d’interesse ecclesiasticistico[9]; si tratta di un’influenza da porre sicuramente in relazione con la situazione di favore o di prestigio della confessione o delle confessioni istituzionalizzate, come si dava e potrebbe rinvenirsi in alcuni Paesi europei per la Chiesa cattolica, nonostante il crollo dell’unità medievale e le vicende successive, ma che non si è mai tradotta nell’identificazione della religione con lo Stato, come tuttora accade nell’universo islamico.

 

2. Sfera politica e sfera religiosa: due mondi a confronto; l’Imperatore Costantino ed il cristianesimo; sviluppi e obiettivo della relazione

 

Le comunicazioni in precedenza ascoltate sui rapporti fra Islam e istituzioni politiche nell’area mediterranea esprimono una concezione tendenzialmente monista, esattamente l’opposto del menzionato sistema, proprio dell’Occidente, del dualismo cristiano di vincoli e di funzioni, che si riconduce comunemente a Gelasio I (494 d.C.), in forza del quale il confronto fra «le due spade», fra sacerdotium e imperium o, meglio, fra potere religioso e potere civile-politico è stato continuo, estremamente complesso e non infrequentemente conflittuale, onde affermare, con i mezzi di volta in volta consentiti, la supremazia dell’uno sull’altro e viceversa[10].

Occorre certo sfatare il mito dell’assoluta chiusura dei Paesi della riva sud del Mar Mediterraneo alla separazione della sfera politica da quella religiosa, le tesi estreme secondo cui in essi sia del tutto inconcepibile, in atto o in prospettiva, qualsiasi forma di laicità dello Stato e, conseguentemente, «il pluralismo dei culti, la concorrenza ideologica e la tolleranza nei confronti dell’indifferenza religiosa e dell’ateismo»[11]. Nondimeno, la legge sacra dell’Islam e l’ordine politico islamico, con la varietà di posizioni che abbiamo verificato anche in questa sede, rappresentano una realtà imprescindibile in tutti i Paesi mediorientali, non comparabile con l’atteggiamento dei Paesi della riva nord (europeo-cristiana) e di quelli occidentali in generale, tanto più perché occorre prendere atto dell’aperta reazione alle tendenze laiciste, registrata in questi ultimi anni anche sotto la spinta dei movimenti fondamentalisti. Non poche incrinature è possibile notare perfino nella Repubblica turca, principalmente per il vigore dell’antica distinzione fra turchi (cioè musulmani) e cittadini turchi (non musulmani), pur trattandosi di un Paese dove è stato formalmente adottato il principio giuridico della separazione fra religione e Stato[12].

Facendo il nostro seminario seguito a quelli che si sono tenuti per celebrare San Costantino Imperatore, a Oristano-Sedilo e a Roma (Ponte Milvio) nel luglio e nell’ottobre 1997, va al proposito ricordato che la communis opinio è nel senso di reputare confermata, con il dominato di Costantino, la politica di tolleranza verso la Chiesa fino a trasformarla, gradualmente, in concreto regime di favore. Tale regime di favore non ha impedito tuttavia di sostenere, con fondamento, che Costantino abbia lasciato alla sua scomparsa una «Chiesa incatenata», segno del dispotismo imperiale sulla religione[13].

Se questo può essere vero, non va dimenticato che siamo agli albori di una teorizzazione della libertas Ecclesiae, pressoché impensabile nell’ambito di una Chiesa di Stato quale fu quella costantiniana. Come elemento positivo, tendente ad evidenziare l’apporto dell’Imperatore al progresso del diritto in questo scorcio di fine millennio, che vede la Sardegna all’avanguardia dei rapporti interreligiosi fra Oriente e Occidente anche attraverso il culto di San Costantino, va messo in luce che, almeno in teoria, lo stesso non cessò mai di essere convinto che la Chiesa, nella sfera del suo potere (ossia in campo spirituale), dovesse essere libera nel modo più pieno da ogni forma di tutela statale, quantunque il corso degli eventi e le conseguenti determinazioni siano poi andati verso la direzione opposta.

Con riguardo agli sviluppi della relazione, incentrata sulla tricotomia poteri dello Stato, Chiesa cattolica e confessioni religiose nella Costituzione italiana, le tematiche oggetto di specifico approfondimento, nel testo riservato alla pubblicazione come già in sede congressuale, concernono l’uguale libertà delle confessioni religiose, i rapporti fra principio di uguaglianza, formazioni sociali e confessioni religiose, la disciplina costituzionale della libertà delle confessioni religiose. Inoltre la bilateralità pattizia della normazione di diritto ecclesiastico, con riferimento all’art. 7 e particolarmente all’art. 8 (più trascurato dalla dottrina), le confessioni legittimate a stipulare intese con lo Stato, la prescrizione delle intese fra legislazione unilaterale speciale e diritto comune. Infine i rapporti fra discipline bilaterali inerenti alle confessioni religiose e i procedimenti di produzione normativa di tipo contrattualistico, le intese come accordi di diritto esterno e, in corrispondenza, l’appartenenza dei concordati al genus degli accordi internazionali. Un cenno conclusivo riguarderà l’art. 20 della Costituzione.

L’esposizione tende a fornire elementi di valutazione, idonei a comprendere la diversità dei modelli, l’uno pertinente al ceppo romanista l’altro al sistema musulmano, che si confrontano anche dialetticamente, ma senza pretese egemoniche, in vista di una maggiore comprensione e della coesistenza fra i popoli. La speranza risiede, al di là delle dissomiglianze e delle tensioni, nella vittoria finale del diritto, dell’etica, del rispetto reciproco in quanto fattori impreteribili della riconciliazione e della pace mondiale.

 

3. Poteri dello Stato, libertà ed eguaglianza delle confessioni religiose

 

In una tale disamina, ribaltando l’ottica usualmente seguita (segnatamente nel passato), l’accento va posto in primo luogo sull’art. 8, 1° comma, Cost., non a torto ritenuto la regola fondamentale del diritto ecclesiastico italiano[14], applicabile a tutte le confessioni, compresa la cattolica. La norma, peraltro, come ebbe a chiarire la Corte costituzionale, fa riferimento a un’eguale libertà davanti alla legge, non sancisce un’identità di regolamento dei rapporti con lo Stato[15], anche se questo non può certo comportare una qualsivoglia differenziazione dall’angolo visuale delle garanzie effettuali di fruizione dei diritti, ove si considerino (come è giusto e opportuno) i diritti di libertà «non solo nel loro contenuto negativo… ma anche nel loro contenuto positivo», riconducibile appunto «al profilo della concreta fruibilità dei diritti stessi»[16].

La norma espressamente da invocare a proposito di eguaglianza delle confessioni religiose è, comunque, l’art. 3 Cost. (1° comma), sebbene in essa si faccia letterale menzione dei cittadini, i quali hanno pari dignità sociale e sono uguali, sempre davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. In effetti il criterio della parità di trattamento è valevole per tutti i soggetti dell’ordinamento, non solo per le persone fisiche (specificamente per i cittadini), dal momento che un’eventuale disparità di trattamento tra i diversi corpi sociali (in cui sono incluse le confessioni) sarebbe destinata ad incidere sulla condizione giuridica dei rispettivi membri, «titolari dell’interesse alla parità di trattamento»[17].

Restringendo il discorso al campo in questione (mettendo quindi da parte, in particolare, le interessanti problematiche sollevate nel diritto ecclesiastico dall’impegno racchiuso nel secondo comma dell’art. 3 in rapporto alla tutela della libertà psicologica), se è innegabile che al principio di eguaglianza risultano vincolate anche le discipline riguardanti le confessioni religiose, non è meno vero che la giurisprudenza considera l’eguaglianza non «un fine in sé e per sé ma un limite che impone il perseguimento di altre finalità costituzionali per rendere ragionevoli quelle differenziazioni che l’art. 3 di per sé vieterebbe»[18]. O meglio: sia la costante giurisprudenza della Corte costituzionale sia la tendenza interpretativa imperante non da oggi in dottrina continuano a reputare che il principio di eguaglianza vada inteso come criterio di ragionevolezza delle differenziazioni legislative, le quali devono essere fornite di una giustificazione adeguata alla sostanza della propria disciplina.

In definitiva, quel che l’ordinamento ha da esprimere pure in materia religiosa, benché non si tratti di ambito e finalità da porre in relazione dello Stato come in terra d’Islam, è la reciproca coerenza delle norme in riferimento all’obbiettiva diversità di situazioni e circostanze. Ciò significa, tenuto conto del tipo di pluralismo (non indifferenziato) desumibile dall’ordinamento, che le medesime esigenze conducenti, «in un quadro di coerenza coi fini-valori ai quali si uniforma un settore dell’ordinamento, all’emanazione di una specifica normativa per una certa confessione, dovranno essere prese in considerazione per ogni altra confessione che ne chieda il soddisfacimento, anche se potranno essere soddisfatte non necessariamente in modo identico, ma a mezzo di una disciplina ragionevolmente diversificata»[19].

Stabilita la portata della norma sull’uguaglianza, vengono in esame le disposizioni regolatrici della libertà delle confessioni religiose e, ancor prima, l’art. 2 Cost., norma che salvaguarda, oltre al pluralismo ideologico, il pluralismo istituzionale (l’autentica novità della vigente Costituzione italiana), allorché sanziona l’impegno della Repubblica di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Un disposto, quest’ultimo, a cui anche la più avvertita dottrina ecclesiasticistica, non diversamente da quella costituzionalistica, attribuisce la funzione di tutela di tutti i valori di libertà, «che vanno emergendo a livello di costituzione materiale»[20]. 

All’ambito delle formazioni sociali vanno ascritte le confessioni religiose, non esclusa la Chiesa cattolica. Come noto, alla base del rifiuto dell’inquadramento delle confessioni tra le formazioni sociali c’è il rigetto della tesi, che ha incontrato consensi e non pochi dissensi, incentrata sull’identificazione di queste con le comunità intermedie (intese nel senso di comunità intermedie fra lo Stato e il cittadino); una concezione che, in realtà, non si proponeva di svalutare le singole formazioni sociali (tanto meno le confessioni religiose) a vantaggio dello Stato, ma che si colloca in un’ottica privatistica[21], non sempre consentanea all’indole delle confessioni religiose (penso massimamente alla Chiesa cattolica e ad alcune Chiese storiche) e, soprattutto, incompatibile con le determinazioni costituzionali (art. 7, 1° comma – art. 8, 2° comma), afferenti alla libertà delle confessioni religiose in genere.

L’art. 7, 1° comma, sottolinea l’indipendenza e la sovranità dello Stato e della Chiesa cattolica ciascuno nel proprio ordine, quindi l’originarietà dell’ordinamento della Chiesa ed il criterio della separazione degli ordini e delle attribuzioni. Degna di menzione, al proposito, l’obiezione del Calamandrei alla Costituente: «… quando si arriverà su un terreno pratico in cui nascerà il conflitto e in cui si troveranno nei due ordinamenti norme divergenti e contrastanti, allora si tratterà di stabilire se devono prevalere gli ordinamenti dello Stato, la cui sovranità è stata riconosciuta dalla Chiesa, o se devono prevalere gli ordinamenti della Chiesa, la cui sovranità è stata riconosciuta dallo Stato»[22]. Tale attualissima obiezione è in effetto superata dalla tesi, la più vicina all’orientamento della Corte costituzionale, che vede nei Patti lateranensi «la misura costituzionale della competenza che lo Stato ha attributo all’ordine suo ed a quello della Chiesa»[23]; sicché il potere civile ed il potere ecclesiastico vengono limitati dalle norme dei Patti[24], i quali sono però subordinati ai principi supremi - inderogabili - dell’ordinamento costituzionale dello Stato, a somiglianza di «un varco nella cittadella, sinora inaccessibile, del sistema concordatario»[25].

L’art. 8, 2° comma, in corrispondenza, stabilisce il diritto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica di organizzarsi secondo i propri statuti, con il limite del non contrasto con l’ordinamento giuridico italiano; un limite, sul quale si articola la serie di poteri dello Stato, che odierne tendenze dottrinali tendono a situare in una sfera in cui sfuma la differenza rispetto al riconoscimento operato, per la Chiesa cattolica, dall’art. 7[26].

Nonostante l’autorevole, opposta interpretazione, che restringe (fino quasi ad annullare) la realizzabilità e la giuridicità delle norme di tali confessioni[27], deve perlomeno ritenersi ad esse applicabile il concetto di autonomia istituzionale, quando non si versi nell’ipotesi delle confessioni c.d. di fatto[28], dato che i loro ordinamenti «non sono derivati e quindi sono estranei all’ordinamento statuale», quantunque in posizione secondaria per il limite espresso dell’ordinamento giuridico dello Stato[29] a fronte di una categoria che, per quanto sempre meno indifferenziata rispetto al 1929-30 ed all’epoca stessa della costituente, si presenta tuttora aperta, con note anzi di maggiore variabilità a motivo del peso anche in Italia dei nuovi movimenti religiosi[30].

In questo senso il limite dell’ordinamento dello Stato finisce con l’assumere la funzione di una garanzia per le confessioni di minoranza, un’esplicazione del principio di eguaglianza attraverso il filtro del sindacato sulle norme organizzative. L’opinione personale suppone l’inesistenza di confessioni carenti di un minimo di organizzazione giuridica (con esclusione nondimeno dell’obbligo di darsi uno statuto) e, in conseguenza, l’applicabilità della teoria ordinamentale pure alle confessioni non istituzionalizzate ed a prescindere dalla visione delle stesse al riguardo (confessioni le quali respingono la connotazione dell’ordinamento giuridico), dovendosi in ogni caso procedere secondo i parametri consueti della giuspubblicistica statuale. Una delle tesi più accreditate, che integra la fortunata concezione di Santi Romano[31], ravvisa le componenti dell’ordinamento giuridico nella plurisoggettività, nell’organizzazione, nonché nella normazione[32], in cui va ricompreso il ricorso alla consuetudine.

 

4. Parallelismo fra l’art. 7, 2° comma e l’art. 8, 3° comma, della Costituzione italiana

 

Il parallelismo verificato fra art. 7, 1° comma ed art. 8, 2° comma, Cost. si riproduce per il 2° comma dell’art. 7 nel collegamento con l’art. 8 , 3° comma. È possibile notare in primo luogo che alcuni suggerimenti de iure condendo circa la penultima delle disposizioni in parola prestano, ad avviso di chi scrive, il fianco a rilievi che non è lecito sottacere.

Mi riferisco all’argomentata tesi del Finocchiaro sull’esaurita funzione dell’art. 7 cpv. della Carta, tesi che sembra porre in secondo piano il valore della garanzia costituzionale, da conservare al Trattato del Laterano per l’unicità della posizione dell’Italia rispetto allo Stato Città del Vaticano, indipendentemente dall’asserita irrevocabilità ad nutum e in modo unilaterale dei trattati internazionali creativi di nuovi Stati[33]. L’altro presupposto, che ritengo sommessamente di non poter condividere, quantunque espresso più compiutamente in altra sede, concerne il dubbio sulla continuità di copertura costituzionale della legge di esecuzione del concordato del 1984 modificativa (non direi sostitutiva) di quella del 1929.

Tale continuità di copertura è stata ribadita dalla Corte costituzionale specialmente con la sentenza n. 203 del 1989, che non sarebbe riducibile ad impliciti obiter dicta o superabile con l’auspicio che la soluzione venga in futuro modificata[34], trattandosi di una precisa presa di posizione, consistente nell’affermazione che le modificazioni del concordato lateranense, recepite dalla legge di ratifica ed esecuzione 25 marzo 1985 n. 121 (ed analogamente dicasi forse per le leggi 20 maggio 1985 n. 206 e 20 maggio 1985 n. 222), rimangono nell’ambito della copertura sancita dall’art. 7 Cost.; tanto significa che siamo in presenza di vere e proprie modificazioni di uno dei Patti, non di un concordato che ha completamente innovato la materia[35].

Viene così confermato che in relazione a queste norme, di derivazione concordataria in senso stretto, il controllo di costituzionalità da parte dello Stato ha un oggetto necessariamente più limitato, costituito dal parametro dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato, già introdotto dalla precedente giurisprudenza della Corte nella vigenza del concordato lateranense[36].

Se il principio convenzionale (bilateralità pattizia) della normazione di diritto ecclesiastico trova accoglimento nella Carta, per la Chiesa cattolica, mediante lo storico richiamo ai Patti lateranensi[37], l’identico principio viene ad esprimersi, per le rimanenti confessioni, con l’istituto delle intese fra Stato e rappresentanze religiose. Un istituto indubbiamente  nuovo nel contesto costituzionale, sebbene siano stati intravisti dei precedenti, specie in alcuni ordinamenti pluriconfessionali e, storicamente, nelle condotte dei principi con le comunità ebraiche, proprie dell’Età di mezzo[38].

L’attuazione della Costituzione, con riguardo alla materia in discorso (tralasciando le inadempienze in ordine alla modificazione consensuale dei Patti lateranensi - rectius del concordato – prospettata fin dai dibattiti per l’approvazione dell’art. 7), avrebbe già da tempo dovuto comportare la stipulazione di intese con le minoranze religiose. Qui la dottrina non si manifestava né si manifesta univoca nell’individuazione dei requisiti propri delle confessioni: variano i criteri proposti, che appaiono più o meno elastici, a seconda della considerazione dell’interesse dello Stato alla disciplina bilaterale con tali minoranze, non occultate come in Francia.

Sulla base della differenziazione fra confessioni ex art. 8 ed associazioni ex art. 19 Cost. (giacché il diritto di libertà religiosa è protetto in qualunque forma, individuale o associata), è stata qualificata confessione idonea a stipulare intese la comunità, avente finalità religioso-trascendentale, quando sia dotata di «una propria organizzazione e normazione scritta da cui desumere i rappresentanti e sia consolidata nella tradizione italiana»[39]. Oppure si è invocato il criterio meno rigoroso, seguito dagli autori tedeschi, dei gruppi sociali religiosi muniti di «particolari caratteristiche strutturali e garanzie di durata»[40].

Indipendentemente da altre opinioni, pure registrate in proposito, sembra cogliere nel vero chi reputa legittimate a stipulare intese con lo Stato tutte le confessioni in senso funzionale, in quanto rivolte al soddisfacimento di un interesse religioso collettivo[41], ritenendosi del pari che l’autentica valutazione da parte governativa debba cadere non tanto sul fatto che un gruppo sia definibile o meno come confessione religiosa quanto sull’opportunità di addivenire ad una disciplina speciale, ovviamente di natura pattizia[42].

L’esplorazione dei poteri dello Stato nei riguardi delle confessioni religiose richiama alla mente il ritardo nell’avvio delle procedure di attuazione del terzo comma dell’art. 8 Cost. Tale ritardo va ricondotto, principalmente, a un’ingiustificata resistenza da parte dell’apparato statale, in aderenza a una linea di politica ecclesiastica sicuramente diffidente nei confronti delle confessioni non cattoliche; mentre l’interesse della dottrina e dell’intellettualità, salvo casi sporadici, era concentrato sulle problematiche scaturenti dal concordato lateranense e, comunque, sui rapporti Stato-Chiesa cattolica, in quanto religione della maggioranza dei cittadini. Detto ritardo assumeva una speciale gravità in relazione all’ebraismo e alle Chiese evangeliche, confessioni di antica tradizione e dotate di consolidamento storico in Italia, protagoniste - queste ultime - di una lunga e difficile battaglia per giungere alla situazione odierna, che costituisce (come già accennato) un’esperienza del tutto nuova nel ciclo costituzionale del nostro Paese[43], oltre che nella storia della riforma della legislazione ecclesiastica.

Per giunta le intese rappresentano il mezzo adatto, a giudizio degli interlocutori confessionali, per superare le restrizioni contenute nella legislazione fascista del 1929/30. Ed invero, come risulta dai lavori preparatori dell’art. 8, 3° comma (i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze), se con l’espressione «sono regolati», nonostante l’apparente senso perentorio, la commissione volle stabilire una facoltà, non un obbligo alla regolamentazione dei rapporti con lo Stato (Ruini), resta fermo che l’interpretazione in senso potestativo va corretta alla luce dell’altro principio accolto (formulato dall’on. Pajetta), secondo cui l’eventuale legge deve essere sempre preceduta, obbligatoriamente, da un’intesa con la comunità religiosa alla quale si riferisce[44].

Sui richiamati lavori preparatori, evidentemente, si basa la nota tesi dello Jemolo, che emerge fra le fondamentali posizioni intorno al contrastato disposto dell’art. 8, avendo egli esattamente puntualizzato che la norma costituzionale non prevede l’inderogabile necessità di una legislazione sulle confessioni diverse dalla cattolica, ma che ove occorra (ossia se è necessaria una legge, avente ad oggetto i rapporti fra queste confessioni e lo Stato), essa dev’essere formata sulla base d’intese con le rappresentanze delle confessioni considerate[45].

Ciò spiega l’ipotesi di uno stato di permanente e latente conflitto con la Costituzione, motivato dal carattere unilaterale della legislazione del 1929/30, per la maggior parte delle confessioni ancora in vigore. L’opinione prevalente ritiene, al contrario, l’esistenza di norme indirettamente rinforzate (l. 24 giugno 1929, n. 1159 – r.d. di attuazione 28 febbraio 1930, n. 289), facendo scattare il principio di bilateralità al momento dell’eventuale sostituzione di queste norme, che siano abrogate dal legislatore ordinario[46].

È chiaro che, ove si producesse l’abrogazione dell’intero corpo normativo di provenienza unilaterale statale (non di alcune norme soltanto), le confessioni prive d’intesa sarebbero sottoposte al diritto comune applicabile fino al sorgere, dandosi l’opportunità, dell’ordinamento speciale di carattere pattizio attraverso la stipulazione delle intese occorrenti con le confessioni, che giungano di volta in volta alla ribalta.

Un’altra ipotesi, fuori dell’ambito del ragionamento finora esposto (che pone in luce le consistenti, ma motivate differenze con il regime concernente la Chiesa cattolica), suppone la permanenza della competenza dello Stato a legislare in via unilaterale a livello di normazione speciale, onde consentire che le confessioni senza intesa possano subito attivarsi, mediante i rispettivi membri, per ottenere quei miglioramenti o quelle abrogazioni che altre confessioni hanno conseguito in via bilaterale. Tanto comporta una limitazione della sfera d’incidenza della fonte pattizia, che non coprirebbe dunque il complesso dei rapporti con le confessioni religiose; mentre l’attribuzione allo Stato della competenza legislativa al di là della prescrizione dell’art. 8, 3° comma (intese), pienamente discende, secondo la medesima impostazione, dal 1° comma dell’art. 8 (uguale libertà delle confessioni) e specialmente dall’art. 3 cpv. Cost., che sancisce l’impegno della Repubblica «di rendere effettive la libertà e la dignità sociale dei cittadini, nonché la loro partecipazione alla gestione del potere»[47].

 

5. Ordinamenti confessionali e consolidamento del principio pattizio. Limiti ai poteri dello Stato discendenti dall’art. 20 Cost.

 

Le sei intese, tradotte in leggi dello Stato (con la Tavola valdese, l’Unione avventista, le Assemblee di Dio, l’Unione delle Comunità ebraiche, l’Unione cristiana evangelica, la Chiesa evangelica luterana), realizzano un importante salto di qualità nella disciplina del fenomeno religioso, non difformemente dall’avvenuta revisione del concordato lateranense, frutto dei principi della Costituzione del ’47 e del processo di trasformazione politico-sociale degli ultimi decenni, oltre che della ventata di rinnovamento del Concilio Vaticano II. La stessa intesa prototipo, raggiunta il 21 febbraio 1984 con valdesi e metodisti, pur se tradotta anteriormente in legge dello Stato, non sarebbe stata possibile senza il rilevante cambiamento di rotta rispetto al concordato lateranense e alla legislazione coeva: contenuti più riguardosi della coesistenza e dignità dei differenti culti, considerazione della libertà di coscienza dei non credenti, assenza infine di riconoscimenti peculiari alla Chiesa cattolica privi di giustificazione razionale.

L’atteggiamento non muta rispetto alle rimanenti intese, successivamente stipulate e tradotte in legge in ottemperanza al disposto (per lungo tempo disatteso) dell’art. 8, 3° comma, della Costituzione. Il vantaggio, rispetto alle esperienze separatistiche, consiste «nella tutela e garanzia delle espressioni in positivo delle libertà di religione»[48], nell’operatività di normative promozionali, che si collocano in parallelo (esclusa ogni identificazione) con il procedimento, in espansione nel raggio delle democrazie occidentali, della negoziazione legislativa o della legislazione contrattata con le parti sociali.

In effetti vuoi il concordato vuoi le intese, in sé considerate, si fondano su presupposti incompatibili con tale procedimento, esattamente riposti nella distinzione degli ordini, «che esige il confronto tra enti esponenziali di ordinamenti indipendenti», e nella delimitazione delle materie «che individuano il campo dei loro rapporti»[49], per quanto tendenzialmente connesse (con possibili straripamenti) al contenzioso globale fra Stato e confessioni.

Tralasciando per ora il secondo aspetto, il quale attiene (per ciò che qui importa) al tema dei contenuti delle intese con le confessioni di minoranza, è da dire che, nelle intese in questione (in sintonia con le anteriori acquisizioni), le confessioni non cattoliche si presentano con i caratteri dell’ordinamento giuridico, secondo posizioni formali di autonomia e d’indipendenza non dissimili dalle prerogative dell’ordinamento canonico.

Ricordo l’art. 2 della legge n. 449 del 1984, dove la Repubblica italiana dà atto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordinamento valdese; l’art. 18 della l. n. 101 del 1989, nel quale viene riconosciuto che le Comunità ebraiche, in quanto istituzioni tradizionali dell’ebraismo in Italia, sono formazioni sociali originarie che provvedono, ai sensi dello statuto dell’ebraismo in Italia, al soddisfacimento delle esigenze religiose degli ebrei secondo la legge e la tradizione ebraiche; l’art. 2 delle leggi 516 e 517 del 1988, per il cui tramite la Repubblica dà atto dell’autonomia delle Chiese cristiane avventiste e delle Assemblee di Dio in Italia, liberamente organizzate secondo i propri ordinamenti e disciplinate dai propri statuti; l’art. 2 della l. n. 116 del 1995, nel quale la Repubblica dà atto dell’autonomia dell’UCEBI, liberamente organizzata secondo il proprio ordinamento; l’art. 3 della l. n. 520 del 1995, in cui la Repubblica italiana dà atto dell’autonomia della CELI e delle Comunità che ne fanno parte, liberamente organizzate secondo i propri ordinamenti e tradizioni e disciplinate dai propri statuti.

Più che su queste norme, gran parte della dottrina ha posto l’accento sulle questioni procedurali per attribuire alle intese l’indole di convenzioni di diritto interno, riconoscibile, secondo una delle tesi meglio argomentate, fin dalle modificazioni apportate al primo progetto d’intesa fra Stato e Chiese rappresentate dalla Tavola valdese[50].

Nonostante le motivate controdeduzioni[51], l’asse del discorso critico non è stato spostato, risultando in un certo senso avvalorato dalla seconda fase del negoziato (di attuazione dell’art. 8 Cost.), relativa alle intese più recenti, in cui sono state seguite modalità differenti da quelle osservate in passato per l’intesa con la tavola valdese e la revisione del concordato lateranense. Non hanno più operato due distinte delegazioni, ma ha agito formalmente un’unica commissione di studio, di nomina governativa, integrata dagli esperti segnalati dalle confessioni man mano coinvolte.

Il fatto tocca, indubbiamente, il problema della natura giuridica delle intese, come ricavabile altresì dalla circostanza dell’approvazione articolo per articolo dei disegni di legge riguardanti le intese, preferita all’approvazione di un articolo unico di esecuzione, con allegato il testo dell’intesa. Al momento finale, tuttavia, la firma è rimasta ai due interlocutori, rispettivamente il Presidente del consiglio e le rappresentanze religiose.

Se tutto ciò esclude la natura internazionalistica delle intese (da attribuire invece, con le precisazioni del caso, al concordato con la Chiesa cattolica), non vuol dire, come pure è stato sostenuto, che ci si trovi sul piano «puramente procedimentale e interno non solo allo Stato-comunità, ma anche allo Stato-apparato»[52].

Le intese, quantunque fuori dall’ambito internazionale, si collegano pur sempre sul terreno degli accordi politici esterni, dei rapporti bilaterali fra ordinamenti indipendenti, salvo si voglia togliere qualunque peso alle determinazioni normative dietro rammentate, che escludono la possibilità di considerare le confessioni acattoliche in una condizione di sudditanza rispetto allo Stato.

Le intese, in definitiva, come è stato opportunamente posto in rilievo, «sono atti bilaterali che, per garantire in modo perfetto la libertà e l’indipendenza delle confessioni di minoranza, la Costituzione mostra di collocare in una sfera giuridica che non è quella dell’ordinamento statuale, ma è quella di un ordinamento che viene creato, di volta in volta, dall’incontro della volontà dello Stato e delle comunità confessionali»[53]. I princìpi fondamentali, che presiedono a tali atti, si riassumono nelle direttive di lealtà e di buona fede, mentre esiste una minore rigidità di forme al confronto con il concordato, in dipendenza dai criteri che le parti, nei diversi frangenti, ritengano di seguire; in sostanza l’ordine esterno, anteriormente sostenuto per i rapporti Stato-Chiesa cattolica da alcune correnti di pensiero onde rappresentarne la tipicità rispetto ai rapporti internazionali, diventa proprio dei rapporti Stato-confessioni di minoranza.

Le conclusioni accolte sono in sintonia con la moderna visione pluralistica e laica, nel senso di una pluralità esterna ed interna degli ordinamenti giuridici, senza che a nulla rilevi il carattere spirituale degli ordinamenti considerati. La visione in parola è pienamente compatibile con l’essenza del nostro Stato democratico pure nei conseguenti profili, relativi al consolidamento del principio pattizio (discendente dalle intese come dalle modificazioni consensuali del concordato lateranense), se ha un significato il deciso cambiamento di rotta, operato con l’avvento della Repubblica, di contro all’esclusivismo proprio della concezione dello Stato dominante dall’Unità d’Italia sino alla caduta del fascismo[54].

Nel quadro dei limiti ai poteri dello Stato un cenno conclusivo merita l’art. 20 Cost., secondo cui il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.

La tesi sostenuta dall’Onida, favorevole all’eliminazione di tale articolo[55], sembra contrastare con le ulteriori potenzialità, che la migliore dottrina oggi riconosce alla norma. Mi riferisco specialmente alle osservazioni sull’importanza di essa ai fini della tutela dei nuovi movimenti religiosi, ma diverse annotazioni (che l’economia del contributo non permette di approfondire) sono state svolte con puntualità ed efficacia. Non si tratta d’interpretazioni forzate del dettato costituzionale, bensì di un nuovo e arioso quadro[56], che va oltre l’insuperabile ostacolo alla formula organizzatoria del giurisdizionalismo e alla politica eversiva dell’asse ecclesiastico, perseguita nel secolo scorso dallo Stato liberale.

 

 



[1] Nel senso di un superamento dell’impostazione formale (in chiave di rapporti fra ordinamenti) delle problematiche del diritto ecclesiastico cfr., principalmente, L. DE LUCA, Diritto ecclesiastico ed esperienza giuridica, Milano 1976, p. 135 ss.; ID., Il diritto ecclesiastico e la società degli anni ’80, Roma 1984, p. 108 ss. Intorno all’insufficienza del diritto ecclesiastico come legislatio libertatis nell’odierno assetto trilatero, Stato-gruppo-individuo, rivendicando la necessità dello studio specializzato di questo organico sistema di norme, cfr. R. BOTTA, Manuale di diritto ecclesiastico. Valori religiosi e società civile, II ed., Torino 1998, p. 12 ss.

 

[2] Cfr., per la cognizione dei lavori preparatori intorno all’art. 7 Cost., F. MARGIOTTA BROGLIO, Stato e confessioni religiose. I/Fonti, Firenze 1976, p. 119-132.

 

[3] Cfr. G. SARACENI, Introduzione allo studio del diritto ecclesiastico, V ed., Napoli 1986, p. 123 ss.

 

[4] Cfr. G. CASUSCELLI, Concordati, intese e pluralismo confessionale, Milano 1974, p. 238 ss.; F. FINOCCHIARO, “Le intese nel pensiero dei giuristi italiani”, Le intese fra Stato e confessioni religiose. Problemi e prospettive (a cura di C. MIRABELLI), Milano 1978, p. 22 s.; più recentemente ID., Diritto ecclesiastico, VI ed., Bologna 1997, p. 135 ss.

 

[5] Cfr. R. BACCARI, “Gli strumenti giuridici previsti dalla Costituzione per l’esercizio concreto della libertà religiosa (concordato per la Chiesa cattolica e intese per le confessioni acattoliche)”, Gli strumenti costituzionali per l’esercizio della libertà religiosa (a cura di R. COPPOLA), Milano 1982, p. 3 ss.; S. MARTUCCI, “Problematiche emergenti in tema di confessioni acattoliche e libertà religiosa”, Lo studio del diritto ecclesiastico. Attualità e prospettive (a cura di V. TOZZI), II, Salerno 1996, p. 265 ss.

 

[6] Cfr., nel vasto assetto delle relazioni fra Stato e Chiesa cattolica quali entità sovrane, G. SARACENI, “Libertà religiosa e rilevanza civile dell’ordinamento canonico”, Il diritto ecclesiastico, 65 (1954), parte I, p. 196 ss.

 

[7] G. CATALANO, Il diritto di libertà religiosa, Milano 1957, p. 5.

 

[8] Corte costituzionale, 8 luglio 1975 num. 188, Giurisprudenza costituzionale, 20 (1975), p. 1512 s.

 

[9] Circa le tappe evolutive del sistema e sul nuovo modello di relazioni fra Stato e confessioni religiose, secondo una legge che emargina quelle Chiese e confessioni considerate estranee alla tradizione russa, cfr. G. CODEVILLA, Dalla rivoluzione bolscevica alla Federazione russa, Milano 1996; ID., Stato e Chiesa nella Federazione russa, Bergamo 1998.

 

[10] Cfr. P. GISMONDI, Lezioni di diritto ecclesiastico. Stato e confessioni religiose, III ed., Milano 1975, p. 27 ss.; G. GAUDEMET, Il diritto canonico (a cura di R. BERTOLINO e L. MUSSELLI), Torino 1991, p. 116 ss.; S. GHERRO, Stato e Chiesa ordinamento, Torino 1994, p. 10 ss.; G. LEZIROLI, Relazioni fra Chiesa cattolica e potere politico. La religione come limite del potere (cenni storici), III ed., Torino 1996, p. 15 ss.; C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna 1996, p. 35 ss.

 

[11] A. CHARFI, “Religioni e Stato nei Paesi del Maghreb”, Il Mediterraneo nel Novecento. Religioni e Stati (a cura di A. RICARDI), Cinisello Balsamo 1994, p. 152.

 

[12] Cfr. B. LEWIS, “Musulmani, cristiani ed ebrei: coesistenza e laicità”, ibidem, p. 77.

 

[13] Cfr. T. BRIEGER, Kostantin der Grosse als Religionspolitiker, Zeitschrift für Kirchengeschichte, 4 (1980), p. 190.

 

[14] Così S. BERLINGO’, Il potere autorizzativo nel diritto ecclesiastico, Milano 1974, p. 15 ss.; G. CASUSCELLI, Concordati, intese, p. 140 ss.

 

[15] Cfr. Corte costituzionale, 30 novembre 1957 num. 125, Raccolta Corte costituzionale, vol. IV, 1957, p. 252.

 

[16] V. ONIDA, “Profili costituzionali delle intese”, Le intese tra Stato e confessioni religiose, p. 39.

 

[17] S. LARICCIA, “L’eguaglianza delle confessioni religiose di fronte allo Stato”, Atti del convegno nazionale di diritto ecclesiastico «Individuo, gruppi e confessioni religiose nello Stato democratico», Milano 1973, p. 423.

 

[18] A. AGRO’, “Contributo ad uno studio sui limiti della funzione legislativa in base alla giurisprudenza sul principio costituzionale di eguaglianza”, Giurisprudenza costituzionale, 12 (1967), p. 927.

 

[19] E. VITALI, “Accordi con le confessioni e principio di uguaglianza”, Studi in memoria di Mario Petroncelli, II, Napoli 1989, p. 954.

 

[20] E. VITALI, op. cit., p. 952.

 

[21] Cfr. P. RESCIGNO, “Interesse religioso e formazioni sociali”, Atti del convegno nazionale di diritto ecclesiastico, p. 51 ss.

 

[22] Atti dell’Assemblea costituente, Discussioni dal 4 marzo al 15 aprile 1947, vol. III, p. 2285.

 

[23] M. PETRONCELLI, Diritto ecclesiastico, Napoli 1975, p. 34.

 

[24] P. GISMONDI, op. cit., p. 70.

 

[25] P. BELLINI, “Sul sindacato di costituzionalità delle norme di derivazione concordataria”, Il diritto ecclesiastico, 82 (1971), parte I, p. 325.

 

[26] Cfr. N. COLAIANNI, Confessioni religiose e intese. Contributo all’interpretazione dell’art. 8 della Costituzione, Bari 1990, p. 122 ss.

 

[27] Cfr. G. CATALANO, Lezioni di diritto ecclesiastico. Parte prima, Milano 1989, p. 25-28.

 

[28] Cfr. in argomento (sia pure con essenziale riferimento alle comunità del dissenso ecclesiale) N. COLAIANNI, “La legislazione ecclesiastica fra modello corporativo e modello democratico (contributo allo studio delle confessioni di fatto)”, Atti del II convegno nazionale di diritto ecclesiastico «Nuove prospettive per la legislazione ecclesiastica», Milano 1981, p. 277 ss.

 

[29] Cfr. P. GISMONDI, op. cit., p. 103 s.

 

[30] Cfr. AA.VV., Diritti dell’uomo e libertà dei gruppi religiosi. Problemi giuridici dei nuovi movimenti religiosi (a cura di S. FERRARI), Padova 1989; AA.VV., Sectas y derechos humanos, Cordoba 1997, p. 195 ss. (nella sezione curata dall’Università di Milano).

 

[31] Cfr. S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, III ed., Firenze 1977.

 

[32] Cfr. M.S. GIANNINI, “Gli elementi degli ordinamenti giuridici”, Rivista trimestrale di diritto pubblico, 8 (1958), p. 259 ss.

 

[33] Cfr. F. FINOCCHIARO, “Ipotesi di una revisione dell’articolo 7 della Costituzione”, Politica del diritto, 27 (1996), p. 77

 

[34] Cfr., sull’intera questione, F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, p. 121-125.

 

[35] Sul punto, circa il differente significato delle espressioni «nuovo accordo – nuovo concordato», cfr. R. COPPOLA, “Introduzione”, Atti del convegno nazionale di studio «Il nuovo Accordo tra Italia e Santa Sede», Milano 1987, p. 39 s.

 

[36] Per l’analisi di tale giurisprudenza cfr. R. COPPOLA, I principi della Corte costituzionale in materia ecclesiastica (venticinque anni di attività), Milano 1982 (ristampa 1992), p. 13-22.

 

[37] Ci limitiamo a ricordare, per i contenuti ed i possibili risvolti di tale richiamo sotto il profilo giuridico e politico, anche nell’evoluzione giurisprudenziale, R. PASCALI, Patti lateranensi e custodia costituzionale, Napoli 1984.

 

[38] Cfr. R. BACCARI, op. cit., p. 11.

 

[39] P. GISMONDI, op. cit., p. 98.

 

[40] C. MIRABELLI, “Osservazioni conclusive”, Le intese tra Stato e confessioni religiose, p. 158.

 

[41] Cfr. N. COLAIANNI, Confessioni religiose e intese, p. 77 ss.

 

[42] Cfr. V. ONIDA, op. cit., p. 40.

 

[43] Cfr. S. LARICCIA, “L’attuazione dell’art. 8, 3° comma, della Costituzione: l’intesa tra lo Stato italiano e le Chiese rappresentate dalla Tavola valdese”, Atti del convegno nazionale di studio, p. 527 s.

 

[44] Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, op.cit., p. 135 s.

 

[45] Cfr. A.C. JEMOLO, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano 1979, p. 117. Per il complesso delle posizioni della dottrina, su cui si basa il dibattito successivo anche al di là dello specifico problema, cfr. F. BOLOGNINI, I rapporti tra Stato e confessioni religiose nell’art. 8 della Costituzione, Milano 1981.

 

[46] Per tutti cfr. F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, p. 141 s.

 

[47] P. BELLINI, “Nuova problematica della libertà religiosa individuale nella società pluralistica”, Atti del convegno nazionale di diritto ecclesiastico, p. 11-21.

 

[48] G. CASUSCELLI, “Libertà religiosa e fonti bilaterali”, Studi in memoria di Mario Condorelli, I, Milano 1988, p. 333.

 

[49] G. CASUSCLELLI, “Libertà religiosa”, p. 331.

 

[50] Cfr. N. COLAIANNI, “Le intese con le confessione religiose diverse dalla cattolica nel pluralismo statale”, Gli strumenti costituzionali, p. 93 ss.

 

[51] Cfr. G. CASUSCELLI, “L’intesa con la Tavola valdese”, Concordato e Costituzione. Gli Accordi del 1984 tra Italia e Santa Sede (a cura di S. FERRARI), Bologna 1985, p. 323 ss.

 

[52] G. LONG, “Le intese con l’Unione avventista e con le Assemblee di Dio in Italia”, Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 4 (1987), p. 120.

 

[53] F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, p. 138.

 

[54] Cfr. O. FUMAGALLI CARULLI, “Pluralità degli ordinamenti e concordato”, Atti del XXXIII convegno nazionale di studio dell’U.G.C.I. «La Costituzione fra attuazione e revisione. Lo Stato in una società pluralistica», Milano 1983, p. 159 s.

 

[55] Cfr. F. ONIDA, “L’articolo 20 della Costituzione”, Politica del diritto, 27 (1996), p.111.

 

[56] Cfr. R. BOTTA, op. cit., p. 339 ss.