N° 2 - Marzo 2003 - Memorie

Antonio Piras

Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna

 

 

IL SIMBOLO DI NICEA SECONDO UN'ANTICA VERSIONE LATINA IN LUCIFERO DI CAGLIARI (parc. 18.16-36)

 

 

 

1. Il Concilio di Nicea del 325, voluto e diretto da Costantino per risolvere diverse questioni di dottrina e di politica ecclesiastica, segnò la condanna di Ario, ma non la fine dell'arianesimo. Da come si era svolto il Concilio apparve chiaro che la vittoria della formula nicena era stata raggiunta grazie all'appoggio dell'imperatore, il quale mirava a consolidare la Chiesa sul fondamento di un’unità dottrinale più estesa possibile[1]; e proprio tale appoggio avrebbero cercato di guadagnarsi da quel momento i seguaci di Ario o quantomeno gli avversari dell'homoousios.

Fino a che punto vi riuscissero si può comprendere dal fatto che lo stesso Costantino venne battezzato poco prima di morire, il 22 maggio 337, da Eusebio di Nicomedia, che si attestava chiaramente su posizioni ariane[2]. I successori di Costantino, in particolare Costanzo, favorirono ancor più apertamente l'arianesimo. Il loro atteggiamento filoariano si spiega almeno in parte alla luce dei risvolti politici sottesi alla dottrina di Ario: il razionalismo di fondo, che sostituiva il mistero della generazione eterna col principio della creaturalità del Logos, riduceva l'elemento soprannaturale al punto da rendere la Chiesa un'istituzione tutta umana e come tale di competenza del potere politico[3].

 

2. Se in Oriente fu relativamente meno difficile imporre la dottrina di Ario, una volta eliminato Atanasio di Alessandria, in Occidente la resistenza fu più tenace. Le vicende convulse di questa resistenza videro tra i protagonisti anche Lucifero vescovo di Cagliari.

Le non molte notizie che lo riguardano si inseriscono tutte nel quadro più ampio degli eventi successivi a Nicea[4]. All’indomani del concilio di Arles della fine del 353, voluto da Costanzo per ribadire la condanna di Atanasio, Lucifero fu incaricato dal papa Liberio di recarsi presso l’imperatore allo scopo di persuaderlo a convocare un altro concilio per ridiscutere tutta la questione. Il concilio si tenne nel 355 a Milano e il vescovo di Cagliari vi partecipò come delegato del papa. Qui egli mostrò tutta la sua intransigenza: fu tra i pochissimi, insieme al sardo Eusebio di Vercelli e allo stesso papa Liberio, a non assecondare il volere di Costanzo, rifiutando di sottoscrivere la condanna di Atanasio, il difensore dell’homoousios e della fede di Nicea. Di qui l’esilio prima a Germanicia in Siria, poi ad Eleuteropoli in Palestina ed infine nella Tebaide egiziana.

Quando nel 362 apparve l’editto di Giuliano, succeduto a Costanzo, che consentiva a tutti i vescovi esiliati di rientrare nelle loro diocesi, Atanasio pensò di indire un sinodo ad Alessandria per ricucire gli strappi provocati all’interno della Chiesa dalle lunghe controversie attraverso la conciliazione dei partiti moderati. Lucifero, che pure era stato invitato, non vi andò di persona, ma si fece rappresentare da suoi diaconi; egli preferì invece recarsi ad Antiochia dove la comunità antiariana s’era spaccata in due fazioni in lotta tra loro. L’intransigenza di Lucifero, che appoggiava la fazione homoousiana, non fece altro che aggravare la crisi, che sfociò appunto nel cosiddetto scisma di Antiochia[5].

Quando Lucifero apprese le risoluzioni del concilio di Alessandria e i blandi provvedimenti che erano stati presi nei confronti dei vescovi già compromessi con l’eresia ariana, ruppe indispettito con gli amici di un tempo, compreso Eusebio di Vercelli, divenendo così fra gli intransigenti il vessillo di un movimento di protesta, che prese il nome di scisma luciferiano.

Va peraltro ribadito, sulla scorta di Martin Schanz e Carl Hosius[6] e quindi di Simonetti[7], che è del tutto infondata l’attribuzione della responsabilità dello scisma “luciferiano” al vescovo di Cagliari, dal momento che le fonti più attendibili non consentono una tale interpretazione degli eventi[8]. La sua figura fu piuttosto strumentalizzata da alcune frange conservatrici che lo scelsero come vessillo della loro intransigenza.

Durante il lungo esilio Lucifero compose le cinque invettive contro Costanzo[9]: l'inaudita violenza delle espressioni[10] stupì lo stesso Costanzo, il quale volle accertarsi, tramite un suo funzionario di nome Florentius[11], se ne fosse stato autore proprio il vescovo di Cagliari[12]. Lucifero non solo non smentì la paternità degli insulti, ma ne rincarò anzi la dose dicendosi pronto al martirio[13]. Ma non era in realtà che un bluff, giacché il vescovo sapeva bene che in quel frangente far dei martiri era la peggior mossa che Costanzo avrebbe potuto fare.

Gli scritti luciferiani hanno indubbiamente importanza più per la storia della lingua latina che per quella della teologia[14]. Lo studio di Claudio Zedda[15] ha infatti chiarito che il vescovo di Cagliari non apporta alcun contributo alla definizione della teologia nicena, che anzi sembra frantumare in una serie di slogan meccanicamente ripetuti e spesso mal compresi.

Proprio la fermezza di Lucifero, e non la sua dottrina teologica, sembra essere stata dunque la ragione per cui Liberio lo scelse come suo delegato al concilio di Milano. Liberio sapeva bene che gli ariani avevano accettato la convocazione di quel concilio per ragioni puramente politiche e che avrebbero evitato una trattativa sul piano dottrinale. Lucifero non era un teologo, ma aveva in compenso un carattere tale da non arrendersi facilmente alle pretese degli avversari.

Gli scritti del vescovo di Cagliari sono inoltre particolarmente preziosi perché ci hanno conservato un’abbondante testimonianza di una delle versioni bibliche latine pregeronimiane. L’autorevolezza di questa versione consiste nel fatto che documenta delle varianti testuali non altrimenti conosciute e perché in taluni casi presuppone un originale greco e, risalendo a ritroso, un testo ebraico leggermente diverso da quello canonico[16].

 

3. Nella caterva di citazioni bibliche addotte da Lucifero troviamo nel XVIII capitolo del De non parcendo in deum delinquentibus, composto negli anni 355-361[17], una delle più antiche versioni latine della fede di Nicea[18]. Per comprendere l'importanza di questo testimone si consideri che si tratta di una delle sole tre o quattro versioni latine databili con sicurezza al IV secolo; gli altri testimoni si trovano nei Fragmenta historica di Ilario di Poitiers[19], assegnati agli anni intorno al 356[20], nel De fide orthodoxa di Gregorio di Elvira[21], databile tra il 360 e il 370, e nel cosiddetto Tomus Damasi[22], che presenta peraltro numerosi problemi riguardanti il processo di redazione e, di conseguenza, la sua stessa datazione[23].

La relazione tra queste versioni è stata studiata dal Wilmart[24] e dal Dossetti[25], i quali sono giunti a delle conclusioni se non proprio analoghe, certamente complementari. L'ipotesi di Dom Wilmart, secondo cui il testo dei Fragmenta historica di Ilario sarebbe il capostipite di un gruppo comprendente Lucifero, Gregorio di Elvira e il Tomus Damasi è ritenuta dal Dossetti verosimile, ma difficilmente verificabile[26]; mentre sembrano abbastanza certe la maggior sensibilità di questo gruppo all'influenza dell'antico credo romano, il cosiddetto Simbolo R, e la dipendenza di Lucifero da Ilario[27].

Il Dossetti avanza l'ipotesi più generale che verso la fine del IV secolo si sia stabilita in Occidente una forma standard del Simbolo sull'autorità del testo di Ilario, che pare essere la prima traduzione latina, e soprattutto del Tomus Damasi, che sappiamo molto diffuso in area occidentale. Tale forma standard sarebbe la base di diverse altre formule finché non furono fatte nuove traduzioni dal greco: nessuno dei testimoni patristici latini più antichi sembra infatti tradire una ricollazione sul greco e bisognerà arrivare a Rufino[28] e all'ingresso in Occidente dell'opera canonica orientale per trovare una traduzione del tutto nuova del Simbolo[29].

 

4. Per tornare a Lucifero, la versione latina del Simbolo è addotta dopo un attacco contro l'adozionista Paolo di Samosata e il suo discepolo, di tendenze monarchiane, Fotino di Sirmio, che Lucifero, giocando sul nome e sull'antitesi biblica fîj- skÒtoj, altrove chiama sarcasticamente Scotinus[30]. All’eresia di costoro contrappone la fides apostolica evangelicaque, quale è compendiata nel Simbolo di Nicea[31]:

 

Credimus in unum deum patrem omnipotentem, visibilium et invisibilium factorem, et in unum dominum Iesum Christum filium dei natum de patre, hoc est de substantia patris, deum de deo, lumen de lumine, deum verum de deo vero, natum non factum, unius substantiae cum patre, quod Graeci dicunt o\moouésion, per quem omnia facta sunt, sive quae in caelo sive quae in terra sunt, qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit, incarnatus est, homo factus est, passus est, resurrexit tertia die, ascendit in caelum venturus iudicare vivos et mortuos; credimus et in spiritum sanctum.

 

Come abbiamo detto, il testo è praticamente la forma standard rappresentata anche da Ilario di Poitiers con qualche variante di minimo conto[32] e possiamo ragionevolmente ritenere che questa doveva essere la forma del Simbolo in uso in Sardegna, o quantomeno nella Chiesa di Cagliari, nella seconda metà del IV secolo. Occorre peraltro ricordare che tali formulari avevano, almeno in origine, un’indole piuttosto teologica che liturgica: erano cioè dei credo non tanto per i catecumeni, quanto per i vescovi come garanzia della loro ortodossia[33].

Separano gli articoli di fede veri e propri dagli anatematismi finali alcune interessanti riflessioni di Lucifero: dopo aver ribadito la perfetta consustanzialità della Trinità secondo lo spirito di Nicea ¾ anche se il concilio aveva glissato sulla questione pneumatologica ¾[34], il vescovo di Cagliari difende l'asserzione secondo cui semper filium cum patre regnasse et regnare[35]. Tale asserzione non intende solo riaffermare la piena divinità del Figlio e la sua sostanziale uguaglianza al Padre, ma sembra anche alludere alla teologia modalista di Marcello di Ancira secondo cui la processione del Logos dal Padre era solo temporanea per poi venire, una volta compiuta la sua missione, riassorbita nel Padre[36]. Le espressioni di Lucifero contro la dottrina di Marcello paiono anticipare l’articolo di Costantinopoli del 381, secondo cui «il regno del Figlio non avrà fine» (cuius regni non erit finis)[37].

Gli anatematismi conclusivi stigmatizzano alcune proposizioni della dottrina ariana, in particolare la negazione dell’eternità del Figlio e la sua posteriorità rispetto al Padre, espressa nello slogan Ãn pote Óte oÙk Ãn (erat quando non erat), la sua creazione ex nullis extantibus (™x oÙk Ôntwn) e la sua natura mutabile (treptÒj, mutabilis) e alterabile (¢lloiwtÒj convertibilis):

 

Eos autem qui dicunt: erat quando non erat et priusquam nasceretur non erat, et quia ex nullis extantibus factus est vel ex alia substantia, dicentes mutabilem et convertibilem filium dei, hos anathematizat catholica et apostolica ecclesia.

 

È lecito domandarsi se Lucifero comprendesse davvero queste sottigliezze dottrinali della controversia o se non le ripetesse piuttosto meccanicamente. Un dubbio serio nasce a proposito della prima formula Ãn pote Óte oÙk Ãn che il vescovo di Cagliari cita più volte nella veste latina erat quando non erat[38]. Tale slogan, studiato nelle sue varie sfumature dal Meijering[39], era utilizzato da Ario ad indicare che «vi era un tempo in cui il Figlio non esisteva», negando così l’eterna generazione del Logos, benché lo stesso Ario non fosse esente su questo punto da qualche contraddizione[40].

Ciò che sorprende è che Lucifero, come ha osservato il Diercks[41], per tre volte vi introduce come soggetto il Figlio, rinfacciando agli ariani, e in particolare a Costanzo, il nonsenso di credere che «il Figlio esisteva quando non esisteva»[42]; mentre in altri due casi, con la stessa disinvoltura, il soggetto ne diviene addirittura l’anticristo[43].

Questa bizzarra utilizzazione dello slogan ariano, che il Diercks ha potuto riscontrare soltanto in un passo del De trinitate pseudoatanasiano[44], non ha paralleli presso la patristica greca e rappresenta un’ulteriore conferma dello scarso interesse del cristianesimo latino per le controversie dottrinali provenienti dall’Oriente. Non sarà un caso che dei circa 300 vescovi convocati da Costantino a Nicea solo sei rappresentavano l’Occidente[45].

Il vescovo di Cagliari, senza preoccuparsi del significato reale della formula erat quando non erat, la contorce a suo piacimento nella foga della polemica, impiegandola come uno stereotipo per esprimere il carattere non eterno e creato tanto del Figlio quanto dell’anticristo, a seconda del contesto[46].

Lucifero, insomma, non manca mai di stupire per taluni aspetti paradossali e contraddittori e, nonostante la sua approssimativa, spesso provocatoria interpretazione del dogma ariano, ha il merito di averci conservato una delle più autorevoli ed antiche testimonianze occidentali di quella fides Nicaena, la cui difesa ebbe a costituire il Leit-motiv della sua battagliera esistenza.

 



 

[1] Cfr. J.N.D. Kelly, I simboli di fede della Chiesa antica, trad. it. a cura di B. Maresca, Napoli 1987, p. 209; a questo proposito parla di una «strategia ecumenica di Costantino in materia di politica religiosa» Ch. Kannengiesser, Nicea (325) nella storia del cristianesimo, “Concilium” 14,8 (1978), p. 60 [1370].

 

[2] Cfr. M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975, p. 134 n. 105. Su Eusebio si veda anche Ch. Kannengiesser, v. Eusebio di Nicomedia, in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, a cura di A. Di Berardino, Casale Monferrato 1983, coll. 1296-1299.

 

[3] Cfr. A. Pincherle, Introduzione al cristianesimo antico, Bari 1974, p. 164. Sull’arianesimo e la fede di Nicea si veda anche lo studio di E. Boularand, L’hérésie d’Arius et la 'foi’ de Nicée, I-II, Paris 1972.

 

[4] Le fonti relative a Lucifero e al contesto degli eventi sono state raccolte da V. Ugenti, Luciferi Calaritani De regibus apostaticis et Moriundum esse pro dei filio, Lupiis 1980, pp. XVII-XXXV.

 

[5] Su questi eventi cfr. Simonetti, La crisi ariana cit. pp. 371-377.

 

[6] Cfr. M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur bis zum Gesetzgebungswerk des Kaisers Justinian, IV,1, München 1970, p. 305.

 

[7] Cfr. M. Simonetti, Appunti per una storia dello scisma luciferiano, in Atti del Convegno di Studi religiosi sardi, Padova 1963, pp. 67-83.

 

[8] Cfr. Ugenti, Luciferi Calaritani cit. pp. XXIV-XXXI.

 

[9] L’edizione critica più recente di tutte le operette, basata sui due codici superstiti, è quella di G.F. Diercks, Luciferi Calaritani opera quae supersunt, Turnholti 1978 (CCL VIII).

 

[10] Fra i tanti esempi si veda la serie di insulti in Ath. 1.19.42 sgg. Gli Schimpfwörter luciferiani sono stati studiati in particolare da I. Opelt, Formen der Polemik bei Lucifer von Calaris, “Vigiliae Christianae” 26 (1972), pp. 200-226.

 

[11] Nativo di Antiochia, Florentius ricoprì la carica di magister officiorum dal 359 al 361, anno in cui fu condannato dalla Commissione di Calcedonia ed esiliato in un’isola della Dalmazia; su di lui si veda A.H.M. Jones–J.R. Martindale – J. Morris, The Prosopography of the Later Roman Empire, I (A.D. 260-395), Cambridge 1971, p. 363 nr. 3.

 

[12] Cfr. epist. 1, p. 305 Diercks.

 

[13] Cfr. epist. 2, p. 305 Diercks.

 

[14] Fra gli studi più recenti sulla lingua luciferiana si veda in particolare G.F. Diercks, Enige bijzonderheden van het taaleigen van Lucifer Calaritanus, in Noctes Noviomagenses. Miscellanea J.C.F. Nuchelmans, Weesp 1985, pp. 75-82; F. Del Chicca, Per una valutazione della personalità linguistico-stilistica di Lucifero di Cagliari, in Sardinia Antiqua. Miscellanea P. Meloni, Cagliari 1992, pp. 455-464; A. Piras, Sul latino di Lucifero di Cagliari, “Vetera Christianorum” 29 (1992), pp. 315-343.

 

[15] C. Zedda, La dottrina trinitaria di Lucifero di Cagliari, Roma 1950.

 

[16] Sulla “bibbia di Lucifero” cfr. A. Piras, Bibbia e sermo biblicus negli scritti luciferiani, in La figura e l’opera di Lucifero di Cagliari: una rivisitazione. Atti del I Convegno Internazionale (Cagliari, 5-7 dicembre 1996), a cura di S. Laconi (Studia Ephemeridis Augustinianum 75), Roma 2001, pp. 131-144; e La circolazione del testo biblico in Sardegna in età tardoantica, in corso di pubblicazione.

 

[17] Sulla cronologia degli scritti luciferiani cfr. G.F. Diercks, Luciferi Calaritani opera quae supersunt, Turnholti 1978 (CCL VIII), pp. XVIII-XXV.

 

[18] Che per tutto il IV secolo non si parli, presso i Padri, di “simbolo” di Nicea, ma di “fede” di Nicea sostiene P.Th. Camelot, Symbole de Nicée ou Foi de Nicée?, “Orientalia Christiana Periodica” 13 (1947), pp. 425-433. Soltanto nel V secolo con Cirillo di Alessandria il termine “simbolo” divenne usuale.

 

[19] Cfr. CSEL 65, p. 150 Feder (PL 10.654); CPL 452. Un’altra recensione affine, che potrebbe appartenere a Ilario, ha ritrovato in due codici parigini (Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 2341 ff. 148v-149 e lat. 2076, ff. 50v-51v) Y.-M. Duval, Une traduction latine inédite du Symbole de Nicée et une condamnation d’Arius a Rimini. Nouveau fragment historique d’Hilaire ou pièces des actes du concile?, “Revue Bénédictine” 82 (1972), pp. 7-25.

 

[20] Un’altra redazione è nel De synodis (syn. 84 = PL 10.536), databile al 359, che appartiene tuttavia ad un ramo diverso della tradizione.

 

[21] De fide orthodoxa 1: cfr. V. Bulhart, Gregorii Iliberritani episcopi quae supersunt, Turnholti 1967 (CCL LXIX).

 

[22] Cfr. C. Turner, Ecclesiae occidentalis monumenta iuris antiquissima, I, Oxford 1913, pp. 283-294; una recensione coeva è ricavabile dall’anonimo Commentarius in symbolum Nicaenum: cfr. ibidem I,2,1, p. 330 (= PLS 1.219-240).

 

[23] Sulla problematica relativa al Tomus Damasi cfr. G.L. Dossetti, Il Simbolo di Nicea e di Costantinopoli, Roma 1967, pp. 94-111.

 

[24] Cfr. A. Wilmart, La tradition des opuscules dogmatiques de Foebadius, Gregorius Illiberitanus, Faustinus, “Sitzungsberichte der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in Wien” Philosophisch-historische Klasse, 159 (1907), I Abh., Wien 1908.

 

[25] Cfr. Dossetti, Il Simbolo di Nicea cit. pp. 258-262.

 

[26] Cfr. Wilmart, La tradition des opuscules dogmatiques cit. p. 17 n. 1.

 

[27] Cfr. Dossetti, Il Simbolo di Nicea cit. p. 259.

 

[28] Hist. eccl. 1.6 (PL 21.472-473)

 

[29] Cfr. ibidem p. 259 n. 4.

 

[30] Cfr. parc. 28.43, su cui si veda Zedda, La dottrina trinitaria cit. p. 31. Sull’impiego di tali Wortspiele cfr. Diercks, Enige bijzonderheden cit. p. 81 e A. Piras, Luciferi Calaritani de non conveniendo cum haereticis, Roma 1992, pp. 239-240. La menzione di Paolo di Samosata e di Fotino si ritrova anche nell’aggiunta al testo del Simbolo presente nel frammento pubblicato da Duval, Une traduction latine inédite cit. p. 10.

 

[31] Che Nicea abbia sbarrato la strada non solo all’arianesimo, ma a tutte le altre eresie è un concetto presente anche in Ilario e in alcuni scrittori dell’Italia del Nord: cfr. Duval, ibidem p. 19. Per quanto riguarda Lucifero, si veda anche Ath. 1.27.15; parc. 32.44; mor. 4.35.

 

[32] Rispetto a Lucifero Ilario presenta le seguenti varianti: 9 sive quae in caelo sive quae in terra, ( ¾ sunt); 12 passus est et resurrexit; 12 ascendit in caelos; 14 et in spiritum sanctum ( ¾ credimus).

 

[33] Cfr. Kelly, I simboli di fede cit. p. 203.

 

[34] Un merito che viene riconosciuto a Lucifero è l’aver sostenuto con fermezza, in un momento in cui la divinità dello Spirito era generalmente taciuta, la consustanzialità della terza Persona (cfr. ad es. conv. 9.77-90, su cui si veda Zedda, La dottrina trinitaria cit. pp. 70-71); un’affermazione che peraltro manca di un’approfondita riflessione e che pare invece «attratta» dalla successione ternaria delle Persone nella formula di fede: è pertanto forse eccessivo collocare Lucifero «tra i primi oppugnatori degli Pneumatomachi» (cfr. Zedda, ibidem p. 41).

 

[35] Cfr. parc. 18.27.

 

[36] Sulla posizione teologica di Marcello d’Ancira si veda Simonetti, La crisi ariana cit. pp. 66-71.

 

[37] Cfr., più chiaramente, anche parc. 24.38-39 cum illum (scil. dei filium) sine initio credat cum patre regnasse et regnaturum sine fine. Le parole sono riprese da Lc 1.33 e con tutta probabilità erano già presenti nel testo-base adottato dai 150 padri a Costantinopoli: questo comma doveva già trovarsi in alcuni credo gerosolimitani, poiché ad esso sembra alludere Cirillo di Gerusalemme in cat. 15.27 (PG 33.909). Non è escluso che Lucifero, durante il suo esilio in Palestina, sia venuto a conoscenza di una versione locale del simbolo che comprendesse appunto questo comma. Su quest’aspetto cfr. Pincherle, Introduzione cit. p. 177 n. 4 e p. 178 n. 7; e soprattutto Kelly, I simboli di fede cit. p. 335.

 

[38] Su questo punto cfr. Diercks, Luciferi Calaritani cit. pp. CXVI-CXVIII.

 

[39] Cfr. E.P. Meijering, Ãn pote Óte oÙk Ãn Ð uƒÒj. A Discussion on Time and Eternity, “Vigiliae Christianae” 28 (1974), pp. 161-168.

 

[40] Cfr. ibidem p. 165.

 

[41] Cfr. Diercks, Luciferi Calaritani cit. p. CXVII.

 

[42] Cfr. reg. 7.67-70; Ath. 2.20.5-9; parc. 28.42-45.

 

[43] Cfr. Ath. 1.33.29-32; 1.34.1-4.

 

[44] Cfr. 11.24.10 Bulhart (CCL 9 = 51.4 Simonetti) Arriani dicunt quod filius erat quando non erat. Cfr. Diercks, Luciferi Calaritani cit. p. CXVIII n. 13.

 

[45] Cfr. Simonetti, La crisi ariana cit. p. 78. Sul numero tradizionale di 318 si veda lo studio dettagliato di M. Aubineau, Les 318 serviteurs d’Abraham et le nombre des Pères au Concile de Nicée, “Revue d’histoire ecclésiastique” 61 (1966), pp. 5-43.

 

[46] Questa è l’opinione di P. Smulders espressa epistolarmente al Diercks: cfr. ibidem p. CXVIII n. 13.