N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana

XU GUODONG

Università di Xiamen

 

 

Buona fede oggettiva e buona fede soggettiva nel diritto romano[1]

 

 

 

Sommario: 1. Gli usi della locuzione “buona fede” nelle fonti latine e nei codici di diritto civile moderni. – 2. La buona fede oggettiva nel diritto romano. – 3. La separazione della buona fede soggettiva da quella oggettiva nel diritto romano. – 4. Il problema dell’unificazione delle due nozioni di buona fede. – 5. Riflessioni finali.

 

 

 

1. – Gli usi della locuzione “buona fede” nelle fonti latine e nei codice di diritto civile moderni

 

L’espressione moderna “buona fede” deriva dalla locuzione latina bona fides. “Fides” deriva dal verbo latino fieri che significa «è stato fatto». Poi, questa parola cambia il suo senso in fiducia. Cicerone, perciò, dal punto di vista etimologico, spiega fides come «fiat quod dictum est, appellatam fidem»[2]. Parlando in termini moderni, la buona fede indica l’osservanza della propria parola. In questo caso, l’aggettivo bona funziona come un consolidamento di fides: la combinazione delle due parole possiede il senso di buona fiducia.

Nelle fonti giuridiche latine, la locuzione di bona fides è stata usata su vasta scala. Il suo uso è presente circa 38 volte nelle Iustiniani Institutiones, circa 117 volte nel Codex, circa 462 volte nei Digesta. Prendiamo come esempio le Institutiones, in cui i compilatori usarono questa locuzione rispettivamente in due aspetti. Il primo è quello del diritto reale che si distingue nei segmenti seguenti: 1. Possesso di cosa ed usucapione di essa (I. 2.1.33-34; 2.6.pr.); 2. Possesso di persona libera (I 2.9.pr). Colui che possiede inconsapevolmente questi due si chiamò possessore bonae fidei. La vendita era la causa più frequente di questo tipo di possesso. Colui che ha fatto tale vendita si chiamò bonae fidei emptor. Questi è la persona che considera come proprietario un non proprietario della cosa, con il quale conclude un contratto. 3. Atto di disposizione di una cosa in buona fede, come atto di accessione ed atto di consumo in buona fede: colui che semina o edifica senza sapere che la terra è altrui cade nella prima categoria (I. 2.1.29-30); colui che riceve in mutuo una somma di danaro da un pupillo, ignorando che il tutore di quest’ultimo non ne abbia dato l’autorizzazione, cade nella seconda (2.8.2). Il secondo aspetto è quello di diritto processuale che distingue actio bona fidei e actio stricti iuris. Nell’età giustinianea, c’erano 16 tipi di actio bona fidei: erano actio ex emptio venditio, actio locati, actio conducti, actio negotiorum gestorum, actio mandati, actio depositi, actio pro socio, actio tutelae, actio commodati, actio pigneraticia, actio familiae erciscundae iudicio, actio communi dividundo, actio praescriptis verbis, actio ex permutatione, actio hereditatis petitio e actio rei uxoris.

Insomma, nel diritto romano, ci sono principalmente due tipi di buona fede. La prima è quella che si applica al diritto reale. Tale buona fede è una situazione psicologica della parte che sia convinta di non avere violato i diritti altrui; dunque la si chiama buona fede soggettiva. Secondo l’opinione degli studiosi moderni, essa è dotata dei requisiti seguenti: 1. È una convinzione personale del soggetto sulla legalità e moralità del contenuto dei propri comportamenti. 2. Benché tale convinzione sia soggettiva, il processo in cui il soggetto la ottiene testimonia la sua onestà e ragionevolezza. 3. Nella formazione di tale convinzione, al soggetto non manca la diligenza. 4. Nel processo di formazione di tale convinzione non rileva il dolo o la culpa del soggetto. 5. Tale convinzione del soggetto può riferirsi non soltanto alla propria situazione, ma anche alla situazione delle persone che lo riguardano. 6. Tale convinzione determina i comportamenti del soggetto. La sua situazione psicologica ha un rapporto assolutamente corrispondente ai suoi comportamenti. 7. La legge riconosce al soggetto un trattamento favorevole per la sua convinzione[3].

La seconda è quella che si applica al diritto contrattuale. Gli obblighi delle parti di adempiere fedelmente ai propri doveri presuppongono la buona fede oggettiva. Secondo le opinioni degli studiosi moderni, anch’essa è dotata dei punti chiave seguenti: 1. È un obbligo di comportamento del soggetto di contenuto ovviamente morale. 2. Il contenuto di tale obbligo di comportamento è di astensione dal ledere gli interessi altrui, salva la protezione degli interessi legali propri. 3. Per valutare il comportamento del soggetto, si deve abbandonare il metro soggettivo e si deve utilizzare un criterio oggettivo; 4. Ma tale oggettività non esclude una considerazione sull’elemento soggettivo come dolo e culpa. 5. Tale criterio oggettivo consiste in un paragone fra i comportamenti del soggetto e il criterio giuridico o comportamento sociale medio tipico. 6. Per trovare un criterio giuridico applicabile ai comportamenti del soggetto, si deve considerare il contesto in cui lo stesso soggetto pone i suoi comportamenti[4].

Da qui si scopre la differenza grandissima tra i due tipi di buona fede: uno è una situazione interiore, l’altro è un comportamento esteriore; ambedue sembrano appartenere a due mondi diversi, ma li si denomina con la stessa locuzione di bona fides. Tale differenza tra i due tipi di buona fede nel diritto romano passa ai diritti civili moderni. Come eredi di primo grado del diritto romano, i popoli che parlano le lingue di origine latina (italiano, spagnolo, portoghese, francese, rumeno, etc.) denominano i due tipi di buona fede con la stessa parola “buona fede”, “buena fe”, “boa-fè”, “bonne foi”, “buna-credinta”[5].

La cosa va diversamente nel mondo di lingua tedesca. Da un lato, la sua cultura giuridica divide l’onore dell’origine del sistema giuridico continentale dal diritto romano; pertanto, i suoi istituti giuridici, spesso, adattarono gli istituti del diritto romano, anzi vi aggiunsero qualcosa. Dall’altro lato, i tedeschi, nel corso di recezione del diritto romano, si sforzarono di germanizzare i tecnicismi giuridici latini, rifiutando le parole straniere. Cosi, nei diversi paesi della lingua tedesca, o si cancellò l’espressione di bona fides nella legislazione, (l’ABGB del 1811 fece così) o si utilizzò una diversa denominazione ad esprimere i due tipi di buona fede sulla base della differenza tra essi. Il BGB del 1897 ed il Codice Civile Svizzero del 1907 seguirono questa via.

Evitando di utilizzare una definizione difficile da capire al popolo comune[6], l’AGBG non usò l’espressione astratta di buona fede; invece preferì utilizzare un termine più concreto per definire i significati di buona fede in diversi casi. Per quanto riguarda la buona fede oggettiva, l’articolo 863 prescrive che la prova della volontà deve essere fornita considerando i gesti comunemente praticati, i comportamenti impliciti, le usanze e le pratiche. L’articolo 897 prevede che le norme che regolano le condizioni apposte ad un testamento, regolano anche le condizioni di contratto. Per l’articolo 1435 colui che riceve un bene in consegna deve restituirlo appena la causa della consegna viene meno. L’articolo 1451 contiene la definizione di prescrizione. L’articolo 1501 prevede che il tribunale non può invocare ex officio la prescrizione senza che sia instaurato un processo o proposta una domanda da una delle parti. Nonostante questi articoli non si riferiscano alla nozione di buona fede, l’editore del codice li qualifica come articoli sulla buona fede nell’ “Index delle parole chiave”, alla fine del codice.

Anche per quanto riguarda la buona fede soggettiva, l’ABGB non utilizzò il tecnicismo buona fede, ma gli sostituì redlich, che testimonia la concezione moralizzante degli autori del codice sul senso di bona fides nel diritto reale. Nell’ “Index delle parole chiave” del codice, anche lo stesso editore fa corrispondere redlich e guter Glaube[7].

Come tutti sanno, non si pose il problema della comprensione del BGB per gli uomini comuni; perciò, nel suo famoso articolo 242, in tema di adempimento di obbligo, si fissò la buona fede oggettiva con la definizione di Treu und Glaube, che deriva dalla nozione di giuramento utilizzata dai mercanti tedeschi di età antica per garantire la sicurezza degli affari, che è simile alla parola di giuramento tra i patres familias romani:Uti ne propter te fidemve tuam capius fraudatusve sim! o Ut inter bonos bene agire oportet et sine fraudatione![8]. Pertanto, il legislatore del BGB la utilizzò, come nel diritto romano, per rendere l’idea di buona fede come regola di comportamento. Nell’articolo 932 dello stesso codice, sulla buona fede nel possesso, si esprime l’idea di buona fede soggettiva con l’espressione guter Glaube[9] che significa “buona fiducia”, il che ovviamente è una traduzione letterale della locuzione latina bona fides. In ragione dell’esistenza di una notevole differenza tra buona fede oggettiva e buona fede soggettiva, nel BGB sono denominate con i termini diversi. Ne risulta il modello della famiglia giuridica tedesca di trattare il problema della buona fede: si differenziano in modo assoluto la buona fede oggettiva e la buona fede soggettiva, non soltanto nel senso, ma anche nella denominazione. Fin qui è stato facile provare che il legislatore del BGB riconosce il problema dello scissione dei due tipi di buona fede e lo tratta in maniera negativa.

La soluzione di questo problema nel Codice civile svizzero è uguale a quella del BGB in qualche punto, ma ne differisce in qualche altro. Come elemento comune, anche questo codice utilizzò le espressioni “Treu und Glaube” e “guter Glaube” per denominare rispettivamente la buona fede oggettiva e la buona fede soggettiva. Il punto differente si trova nel fatto che questo codice elevò la posizione della buona fede oggettiva da principio relativo alla prestazione obbligatoria ad un principio basilare che governa tutti i rapporti civili; da un articolo del secondo libro, sui rapporti di obbligazione di questo codice ad un principio della parte generale (come articolo 2 paragrafo 1 di essa).

Inoltre, anche questo codice promosse il ruolo della buona fede soggettiva, da requisito per colui che riceve la prestazione, per l’acquirente e per il possessore, secondo gli articoli 933 ss., a principio basilare per tutti i soggetti del diritto civile, collocandolo come articolo 3, che è appunto dopo l’articolo 2 sulla buona fede oggettiva. Così, il Codice Civile Svizzero ha mostrato la coesistenza di due principi di buona fede in un codice. Il legislatore svizzero pone in luce che l’introduzione della buona fede nel diritto contrattuale, come principio basilare, implica l’eliminazione della buona fede dal diritto reale: però comprese il principio della buona fede troppo oggettivamente, così non credette che tale principio potesse essere applicato ai rapporti reali; pertanto in quel codice si introdusse anche l’applicazione della buona fede ai rapporti reali come principio basilare. In tal modo si ottenne un risultato negativo: l’articolo 3 neutralizzò quasi del tutto la portata dell’articolo 2 paragrafo 1, perché il principio della buona fede espresso in tale paragrafo doveva essere purgato dalle impronte del diritto di obbligazione e diventare un principio basilare che potesse essere applicato a tutti rapporti civili – inclusi i rapporti reali. Le promozioni parallele della buona fede oggettiva e della buona fede soggettiva nel Codice Civile Svizzero non sono altro che una dimostrazione della difficoltà di unificare due nozioni di buona fede. Infatti, nella vita reale del Codice Civile Svizzero, la buona fede oggettiva è ancora quella del diritto contrattuale; la buona fede soggettiva è ancora quella del diritto reale. Il cosiddetto principio di buona fede unificato pare solamente un fantasma.

La cultura giuridica della Cina è stata influenzata profondamente dalla cultura giuridica tedesca; così anche la legislazione cinese utilizza termini diversi per esprimere le due definizioni di buona fede. Si utilizzano i termini Chengxin e Shanyi (= buona volontà) per denominare rispettivamente la buona fede oggettiva e la buona fede soggettiva. Sotto l’influenza del Codice Civile Svizzero, i principi generali del diritto civile del nostro paese sono improntati al principio della buona fede per tutti i rapporti civili (articolo 4). Ciò che diverge dal Codice Civile Svizzero è che la Cina non ha promosso simultaneamente la buona fede soggettiva al rango di principio basilare anche per tutti i rapporti civili. Con tale decisione il legislatore ha voluto significare che il principio della buona fede espresso nell’articolo 4 deve essere applicato non soltanto nel diritto contrattuale, ma anche nel diritto reale, nel diritto di famiglia, nel diritto di successione e così via. Sicché la buona fede soggettiva deve essere cancellata del tutto. Ma a causa di una scarsa ricerca teorica su questo tema, esiste ancora una separazione e un contrasto dei due tipi di buona fede nella nostra legislazione e nella nostra dottrina.

Per quanto riguarda la legislazione, prendiamo ad esempio la Legge sul Diritto Contrattuale. Il suo articolo 6 prevede che «nell’esercizio del diritto e nell’adempimento degli obblighi, le parti devono comportarsi secondo il principio della buona fede». Questa è una norma sulla buona fede oggettiva. Nell’articolo 47, paragrafo 2, della stessa legge si prevede che: «…prima della ratifica del contratto, la controparte di buona volontà gode del diritto di rescindere tale contratto…». Questa è una regola sulla buona fede soggettiva[10]. Dal punto di vista dell’efficacia del principio basilare della buona fede, una volta che la locuzione ‘buona volontà’ presente nell’articolo 47, paragrafo 2, sia cambiata in buona fede, tale principio può assumere efficacia vincolante in tutta la legge. Purtroppo la legislazione non ha fatto così. Se essa avesse fatto così, naturalmente si dovrebbe di nuovo spiegare la buona fede dal punto di vista dell’integrazione dell’oggettività e della soggettività.

Per quanto riguarda la dottrina, da un lato, gli studiosi insistono sul fatto che l’applicazione del principio della buona fede non può limitarsi al diritto delle obbligazioni, ma debba riguardare tutto il diritto civile. Ad esempio, il prof. Liang Huixing ha scritto che il principio della buona fede si applica a tutte le manifestazioni del diritto ed a tutti gli adempimenti di obbligazioni[11]. Anche il prof. Li Kaiguo ha scritto che la finalità legislativa del principio della buona fede non è altro che quella di contrastare tutti i comportamenti immorali e ingiusti e mantenere l’ordine e la sicurezza della vita nella società civile[12]. Queste parole testimoniano la volontà degli studiosi di rilievo del nostro paese di superare il limite tra la buona fede oggettiva e buona fede soggettiva. Tale tendenza è molto avanzata e degna di lode. Ma gli stessi studiosi, quando fanno le ricerche sul diritto reale, che è un campo incentrato sulla buona fede soggettiva da un periodo lunghissimo, insistono ancora in una differenziazione dei due tipi di buona fede, considerando soltanto la buona fede oggettiva come buona fede, indicando la buona fede soggettiva con la locuzione di «buona volontà»[13].

Il contrasto tra la buona fede oggettiva e quella soggettiva deriva dal diritto romano, ove trova l’unificazione. Dunque, una ricerca sulla storia del contrasto ed unificazione dei due tipi di buona fede, nel diritto romano, è molto significativa per comprendere lo stesso problema nel diritto civile moderno.

 

 

2. – La buona fede oggettiva nel diritto romano

 

La buona fede oggettiva nel diritto romano deriva dall’actio bona fidei. Quintus Mucius Scaevola per primo insegnò che tale categoria di actio incluse sei tipi di azioni concrete: actio tutelae, actio pro socio; actio fiduciae; actio mandati; actio ex empto; actio venditi, actio conducti e actio locati[14]. Dopo Quintus Mucius Scaevola, l’ambito dell’actio bona fidei si ampliò sempre più. Dunque, nel periodo classico, a questa categoria, si aggiunsero due tipi di azioni: actio negotiorum gestorum e actio rei uxoriae. Nell’età di Severus, ad essa si aggiunse anche il iudicium communi dividundo e l’actio familiae ercisundae[15]. Gaius, nel II secolo d.C., aggiunse tre tipi di azioni, cioè iudicium contrarium depositi, actio commodati e actio pigneraticia[16]. Eliminando l’actio fiduciae dalla categoria, le Iustiniani Institutiones del VI secolo d.C., aggiunsero tre tipi di azioni: actio permutatione, actio aestimatoria ed actio hereditatis petitio. Così, nel diritto giustinianeo, la tipologia dell’actio bona fidei si ampliò fino a comprendere 16 generi[17]. Si può epitomarli in 4 classi: contratto reale, contratto consensuale, certi quasi-contratto e certi rapporti di diritto reale. Si può considerarli come rapporti di buona fede, dai quali nasce il principio moderno di buona fede.

Giacché tutti questi rapporti furono considerati rapporti di buona fede, essi dovettero presentare il requisito della buona fede oggettiva. Osservando i trattamenti giudiziari di questi rapporti da parte dei Romani, potremmo riconoscere il criterio della buona fede oggettiva nella loro regolamentazione. Sotto questo aspetto, le pratiche giudiziarie dei Romani sul contratto di compravendita ci danno prove preziose su tale criterio. La compravendita è il “re” di tutti i contratti onerosi. È contratto tipico e per questo, le regole sul contratto di compravendita possono essere applicate in un altro contratto oneroso quando quest’ultimo lasci una lacuna su qualche punto. Poiché il contratto di compravendita gode di tale posizione, anche il requisito della buona fede sarebbe tipico. È una fortuna che i Romani ci abbiano lasciato tre casi di questa categoria. Vediamo di esaminarli.

Prendiamo le mosse dal caso no. 1. In un tempo che non si può fissare esattamente, ma è sicuro che fu dopo il 235 a.C. (il giudice di questo caso, Catone il vecchio nacque in quest’anno), un augure romano chiese a Titus Claudius di distruggere la sua casa perché l’altezza di questa rendeva difficile fare l’augurio. Non contestando la richiesta dell’augure, Claudius vendette questa casa a Lanarius. Subito dopo l’acquisto, Lanarius dovette distruggere la casa. Egli intentò un processo contro Claudius secondo actio ex empto. Egli non poté accusarlo di dolo, perché in questo periodo i Romani usavano la definizione di dolo data da Servius: «Machinationem quandam alterius decipiendi causa, cum aliud simulatur et aliud agitur». Tale definizione poteva includere soltanto i comportamenti ingannevoli positivi, ma non poteva includere la reticenza. Dunque, per realizzare la sua finalità di proteggere i propri diritti, Lanarius non poté che allegare il principio di buona fede, chiedendo a Claudius «Quidquid sibi dare facere oporteret ex fide bona». Il famoso politico romano Catone il vecchio giudicò questo caso. Egli sentenziò che l’accusato avrebbe dovuto risarcire i danni all’accusatore[18]. A mio modesto avviso, questo precedente ci ha mostrato il criterio della buona fede oggettiva del diritto romano dell’epoca come segue: a) A causa della reticenza, nel caso non poteva ravvisarsi il dolo nel senso definito da Servius, ma una violazione del principio della buona fede; b) Secondo questo principio, il venditore avrebbe dovuto adempiere l’obbligo precontrattuale di comunicare al compratore i difetti della cosa venduta. Insomma, il principio della buona fede non è altro che un’imposizione degli obblighi che il contratto non prevedeva, ma che un buon padre di famiglia avrebbe dovuto praticare.

Caso no. 2. Il caso è forse una finzione scenica. Un mercante trasportò in una nave carica di granaglie da Alessandria a Rodi, che versava in condizioni di grave carestia. Egli sapeva che molti altri mercanti trasportavano granaglie con le loro navi verso Rodi, addirittura nel corso della sua navigazione, egli stesso vide diverse navi cariche di granaglie che navigavano velocemente in direzione di Rodi. Da qui emerge una domanda: egli doveva dire quello che sapeva ai cittadini di Rodi, o tacere, alfine di vendere le sue granaglie al prezzo più alto possibile?[19] La risposta a tale questione, data da Cicerone, fu che il mercante di granaglie avrebbe dovuto rivelare la verità. Solo nel caso in cui avesse fatto così, egli si sarebbe comportato secondo buona fede[20]. La narrazione di Cicerone insegna che in base alla buona fede oggettiva, i mercanti avrebbero dovuto riferire alle controparti negli affari le informazioni lucrative, nonostante tale rivelazione fosse sfavorevole a se stesso. Senza l’altro, tale criterio di comportamento è più alto di quello di honos aeconomicos.

Caso no. 3. I due casi seguenti ci spiegano quale è il comportamento che viola in maniera negativa la buona fede oggettiva; invece, questo caso ci spiega che cosa è un comportamento positivo di buona fede. La storia è così: il giurista Quintus Mucius Scaevola volle comprare un pezzo di terra chiedendo a un venditore di fargli un’offerta di prezzo. Il venditore fece come era stato richiesto; però Scaevola disse che la sua valutazione della terra era più alta di quella del venditore, perciò egli pagò un extra di 100.000 sesterzi più del prezzo richiesto[21]. Questo caso ci dimostra che la buona fede oggettiva impone a colui che riceve un vantaggio, un dovere di pagarlo sufficientemente, non gli consente di arricchirsi mediante negligenza o inesperienza della sua controparte.

Nell’ambito dei tre casi sopraccitati, si può dire che il criterio della buona fede oggettiva dei Romani è piuttosto alto, rispetto al criterio corrispondente nel diritto civile moderno, che solamente impone ai soggetti un dovere negativo di non ledere gli altri. Invece, i Romani adottarono il criterio del buon padre di famiglia, che significa che la legge impone a tutti i soggetti un dovere di comportarsi positivamente, nella maniera di colui che ama il prossimo. Credo che se le parti dei casi no. 2 e no. 3 fossero giudicate in un tribunale del nostro tempo, ad esse non verrebbe imputato di aver violato la buona fede oggettiva. La causa del contrasto tra antichità e modernità si trova nel fatto che i tribunali moderni si staccano di più dalla religiosità e dalla filosofia stoica.

 

 

3. – La separazione della buona fede soggettiva da quella oggettiva nel diritto romano

 

Nel diritto romano, la buona fede soggettiva fu un requisito che si sviluppò nel quadro dell’istituto dell’usucapione. La Legge delle XII Tavole nel versetto 3a della sesta tavola prevede:

usus auctoritas fundi biennium est, ... ceterarum rerum omnium ... annuus est usus.

Questo è la più antica regola sull’usucapione nella storia del diritto romano. Allora, fu certamente immatura la pratica di questo istituto, perché i cinque requisiti ben conosciuti ai moderni per completare l’usucapione, res habilis, titulus o causa, bona fides (soggettiva), possesso delle cose, decorso di un certo periodo di tempo, furono tutti costruiti dai giuristi del medioevo[22]; cioè, l’istituto dell’usucapione romano che noi oggi studiamo così sistemato, è soltanto un prodotto di derivazione dalla pratica romana ad opera dei giuristi di generazioni più tarde. Infatti, i tempi in cui si formò ciascuno di questi cinque requisiti furono diversi. Non esiste il requisito della buona fede soggettiva nell’età delle Leggi delle XII Tavole[23]. Il prof. M. Talamanca nota che all’istituto dell’usucapione nella sua forma originaria mancò il requisito della buona fede soggettiva, perché dal punto di vista soggettivo, nell’usucapione pro herede (cioè si possiede un eredità senza erede e la si usucapisce), usureceptio fiduciariae, tutti i possessori erano in male fede, in quanto essi sapevano che le cose da loro possedute appartenevano giuridicamente ad altre persone, ma tale male fede non costituì un ostacolo a compiere l’usucapione[24]. Per di più, la creazione dell’istituto dell’usucapione, ab initio, nacque per risolvere il problema di non potere ottenere una proprietà di ius civile[25] da parte del ricevente di res mancipi, che doveva essere trasferita tramite mancipatio o in iure cessio, e che invece era stata trasferita tramite traditio. Un possessore di tale res, sicuramente era in mala fede, perché il suo stesso possesso era un comportamento in frode al diritto. Nel 193 d.C., l’imperatore Pertinax inviò un’orazione alle province di Arabia e Syria in cui permetteva ai coltivatori delle terre abbandonate, di ottenere la proprietà dopo due anni, solo se i proprietari originari non le avessero mai rivendicate[26]. Ovviamente, tali coltivatori erano in male fede soggettiva, ma potevano guadagnare la proprietà della terra tramite un possesso di due anni. L’Imperatore Constantinus I, in età più tarda (285-337 d.C.), ordinò che una volta che un proprietario avesse abbandonato il possesso dei suoi beni, sia mobili che immobili, da quaranta anni, la legge non proteggesse più la sua proprietà; nonostante il possessore di questi beni avesse ottenuto il possesso dei beni in male fede, con furto o violenza, egli poteva rifiutare la rivendica da parte del proprietario originario[27]. Ciò è la c.d. longissimi temporis praescriptio. In questo istituto, il legislatore, per lasciare che le ricchezze sociali potessero essere utilizzate sufficientemente, non soltanto non richiese la buona fede soggettiva dei possessori, ma non richiese neanche la buona fede oggettiva. Pertanto il furto e la violenza non impedirono il compimento dell’usucapione.

Nella Lex Icilia de Aventino publicando del 456 a.C., cioè sei anni dopo le Leggi delle XII Tavole, la parola “buona fede” significa legittimità del modo di possesso, non significa invece ignoranza o errore: questi sono i significati di oggi della parola. Coloro che possedevano l’ager publicus in maniera violenta o clandestina erano possessori di male fede; invece coloro che possedevano l’ager publicus in maniera pacifica e pubblica erano possessori di buona fede.[28] Nonostante i Decemviri non usassero la parola buona fede nelle Leggi delle XII Tavole, il versetto 17 della sua ottava tavola previde:

furtivam (rem) ...usucapi prohibet ...

Credo che questa sia una regola indiretta sulla buona fede. Non si trattava di una richiesta ai possessori di essere nella situazione psicologica di convinzione di non avere leso i diritti altrui, ma di una richiesta di osservare l’obbligo di non possedere furtivamente i beni altrui. Bisogna precisare che nell’età arcaica, i Romani non distinsero il furto dalla rapina. Essi collocarono anche il comportamento di rapinare pubblicamente i beni altrui nella categoria del furto. Perciò, questo versetto fu un riconoscimento della buona fede che fu fissata nella Lex Icilia de Aventino publicando[29]. Il soggetto, il cui comportamento è regolato, dovrebbe essere il ladro stesso (cioè il primo possessore delle cose), ma non il possessore successivo (il secondo possessore). La sua finalità era di evitare che i ladri usucapissero le cose rubate e di impedire che l’istituto dell’usucapione diventasse un incoraggiamento a comportamenti in violazione della buona fede oggettiva[30]. Dunque, vale la pena di esplorare di nuovo i luoghi originari del versetto 3 della tavola sesta e del versetto 17 della tavola ottava. Gli studiosi palingenetici precedenti li hanno posti in due tavole diverse, ma dal punto di vista logico, preferisco ritenere che il versetto 17 della tavola ottava e il versetto 3 della tavola sesta, originariamente, fossero in una stessa tavola.

Certo, dal punto di vista della pura teorica possibilità, c’è spazio per spiegare il versetto 17 della tavola ottava come un’impostazione, secondo la quale, i compratori che acquistavano i beni rubati dai ladri non riuscivano ad usucapirli. Ma dobbiamo tenere presente che la Roma di allora era una società piuttosto piccola, in cui si praticava un rigoroso formalismo in affari. La forma stretta della mancipatio rese difficile per i possessori dei beni, ovviamente illegali, negoziarli. Rara fu poi la possibilità che i compratori ottenessero consapevolmente le cose con difetti legali. Come risultato, la buona fede da parte del compratore, allora, ancora non costituiva un problema che valeva la pena di regolare[31].

Qui bisogna domandarsi: Perché i legislatori romani dell’età delle Leggi delle XII Tavole non richiesero la buona fede soggettiva del possessore? La mia risposta è questa: nel periodo transitorio, dal regime di proprietà collettiva della terra al regime di proprietà privata della terra, l’appartenenza della terra non fu stabile. La “torta gratuita” dell’ager publicus fu causa, pertanto, di tanti eventi violenti tra i cittadini romani, dato che le Leggi delle XII Tavole non configurarono la buona fede soggettiva, essendo l’attenzione dei legislatori rivolta ad obbligare i primi possessori ad osservare la buona fede oggettiva.

Il processo di transizione dall’ager publicus all’ager privatus fu completato nel periodo basso della Repubblica (circa nel I secolo a.C.)[32]. La narrazione storica ci dice che questo processo fu pieno di violenza e di sangue. Nel Sul possesso di Savigny, leggiamo non poche notizie sui comportamenti violenti tra i contadini romani, causati dalle dispute per i problemi di fines, di acquedotti etc[33]. Le guerre, come le Guerre Puniche e la Guerra Sociale, giustificarono anche i numerosi eventi violenti. Gli esempi di tale aspetto apparivano ripetutamente nella storiografia[34]. Anche le fonti giuridiche sono piene delle discussioni sul fenomeno dell'impossessamento della terra altrui con violenza[35]. Queste informazioni ricostruiscono un’età instabile e anche una società instabile e ci danno l’impressione della ferocia e della inciviltà dei Romani di quel tempo. Tale età pare bisognosa di armi e non di menti raffinate.

Nel periodo più tardo della Repubblica, la privatizzazione dell’ager publicus si completò. Ora tutte le terre avevano un padrone, così l’appartenenza della terra diventò chiara. Proprio in questo momento la legge cominciò a distinguere il possesso lecito da quello illecito[36]; la differenza tra questi due dipese dal fatto che nel primo, i possessori osservarono la buona fede oggettiva, nel secondo no. L’età commerciale nella storia romana coincise con questo periodo. Questo fu un tempo in cui la società romana diventò stabile, si concludevano negozi di frequente. Così il centro di gravità del diritto romano si spostò dal diritto reale al diritto contrattuale: la base dell’ordinamento giuridico romano cambiò dall’esigenza di soddisfare la richiesta di una società agricola alla richiesta di una società commerciale.

Nello stesso tempo, gradualmente, la volontà sostituì il formalismo nella tipicità dei negozi giuridici. Pertanto, il diritto dell’usucapione raggiunse un traguardo più civile, cioè il traguardo della buona fede soggettiva. Certo, i primi possessori che ottennero le cose altrui, tramite furto o violenza, violarono anche la buona fede soggettiva, ma solo dopo che la chiarezza dell’appartenenza della terra fece venire meno l’impeto di violenza, la buona fede soggettiva poté diventare un problema autonomo. Insomma, la buona fede soggettiva, necessariamente è un prodotto di età stabile e di un popolo più civile.

Tuttavia, proprio in questo momento, la Lex Atinia de rebus sub reptis del 150 a.C. riafferma l’inusucapibilità delle cose rubate. Con l’impostazione della distinzione tra furto e rapina nella terminologia, la Lex Plautia de vi del 78-63 a.C., dopo un centinaio di anni, di nuovo stabilì l’inusucapibilità delle cose possedute mediante violenza. Fino al 17 a.C., Augustus promulgò ancora la Lex Iulia de vi publica et privata, ripetendo tale divieto[37]. Come si può interpretare tale ripetizione nella legislazione romana? Ci sono due spiegazioni possibili. Innanzitutto, per un lungo periodo, si rispettò il versetto 17 della tavola ottava delle Leggi delle XII Tavole, perciò, nel periodo tardo della Repubblica, si dovettero statuire tre leggi per ripetere la proibizione delle Leggi delle XII Tavole. Se è questa la verità, il valore delle Leggi delle XII Tavole sarebbe troppo basso. Dobbiamo ricordare che questa legge possiede una posizione di rilievo nella mentalità dei Romani, che la rispettarono come fonte di tutti i diritti pubblici e privati. Così, anche nell’età giustinianea, nel VI secolo d.C., il legislatore ancora divise il Codex in dodici libri per onorare questo codice più antico. Comunque, la teoria della ripetizione nella legislazione è priva di argomenti. In secondo luogo, nonostante queste tre leggi del periodo tardo della Repubblica abbiano trattato anche il tema dell’inusucapibilità delle cose rubate e rapinate, tuttavia i soggetti a cui esse si riferivano non erano gli stessi, cioè non erano i ladri stessi, ma coloro che avevano ricevuto tali cose. Dunque, esse non sarebbero leggi ripetute, ma un adattamento della norma della Legge delle XII Tavole. Per fortuna non sono io l’unico studioso a sostenere questa tesi; vi è anche il prof. H.F. Jolowicz, insigne romanista inglese. Egli crede possibile che la lex Atinia fosse una ripetizione di una legge esistente. È probabile che essa fosse una spiegazione del significato ambiguo del versetto 17 della tavola ottava delle Leggi delle XII Tavole. Questo versetto, originariamente, si applicò soltanto all’usucapione da parte dei ladri stessi. Invece, la Lex Atinia estese la sua efficacia all’usucapione dei possessori successivi delle cose rubate[38]. Nel suo commento alla Lex Iulia de vi publica et privata, il prof. Zhounan parla anche di questo punto, dicendo che «tutti i beni posseduti con violenza non potevano essere usucapiti, addirittura non facevano eccezione i beni di coloro che li avevano ricevuti in buona fede»[39]. Ovviamente, la prima parte della frase davanti ad «addirittura» si riferisce al primo possessore delle cose, la seconda parte dopo di «addirittura» si riferisce al possessore successivo. Così, anche il prof. Zhou ribadisce che la Lex Iulia de vi publica et privata spostò il requisito dalla buona fede oggettiva per il primo possessore, alla buona fede soggettiva del secondo possessore. Nonostante tale requisito della soggettività, questa era un obbligo secondario: essa dimostrò che il problema della buona fede soggettiva del secondo possessore, finalmente, fosse entrata nell’orizzonte del legislatore. È chiaro che tale buona fede non era altro che una convinzione del possessore di non avere leso i diritti altrui.

Senza dubbio, in un’età relativamente civile e pacifica, sarebbe naturale che i ladri non potessero usucapire le cose rubate. Il problema nuovo è questo: le persone che ottengono tali cose dai ladri tramite un accordo normale possono usucapirle? Certo, la tolleranza verso i compratori di male fede delle cose rubate sarebbe un incoraggiamento indiretto ai furti. La verità universale della politica criminale è questa: per controllare i crimini originari bisogna sopprimere i crimini derivati. Dunque, per controllare i furti, il diritto criminale cinese presuppone che colui che compra una cosa al prezzo straordinariamente basso, è consapevole di essere compratore della cosa rubata, per cui incorre nella responsabilità criminale. Credo che i Romani affrontarono il problema che noi affrontiamo oggi e lo trattarono nella stessa nostra maniera. A mio modesto avviso, la finalità delle tre leggi sopraddette non è altro che controllare ulteriormente i furti e le rapine. Così la buona fede, che fu originariamente un requisito per il comportamento esteriore del primo possessore, si trasformò in buona fede come requisito per la situazione psicologica interiore del secondo possessore. Infine, nell’età giustinianea, mediante una transizione da me sconosciuta, tale secondo possessore in buona fede delle cose illegali non poteva usucapirle, perché la legge sull’usucapibilità delle cose rubate o rapinate cambiò di nuovo il suo punto focale, dai comportamenti delle parti agli oggetti di tali comportamenti. Si formulò un requisito nuovo per compiere l’usucapione: res habilis, secondo il quale nessuno poteva usucapire le cose rubate o rapinate (Inst. 2.6.3); esse diventarono cose viziate che non potevano essere oggetto di usucapione, salvo che venissero purgate tramite la loro restituzione nelle mani del proprietario originario (Inst. 2.6.8).

Piuttosto, un possessore di buona fede non era certo di poter usucapire le cose illegali, perché per compiere l’usucapione, oltre al requisito della buona fede soggettiva, ancora, doveva soddisfare il requisito della giusta causa. Tale requisito appare soltanto nel periodo classico ed è più recente rispetto a quello della buona fede soggettiva. Infatti lo si utilizzò per limitare quest’ultima[40]. Essa non fu altro che una serie di circostanze legali per cui si poteva usucapire. Ci furono sette tipi di tali circostanze come segue: pro emptore, pro donato, pro herede gestio, pro derelicto, pro legato, pro dote, pro suo. La formulazione di tale requisito addizionale fu un compromesso di due sfide che il legislatore dovette affrontare: innanzitutto, agevolare le transazioni ed eliminare il formalismo. La funzione iniziale dell’istituto dell’usucapione fu di rimediare ai difetti formali dei negozi giuridici. Nella maggiore parte di tali sette circostanze, il legislatore lasciò sempre che i difetti formali dei negozi giuridici venissero sanati dal percorso del tempo. Così la rigidità delle norme legali sulle forme di accordo fu mitigata. In secondo luogo, si doveva mantenere il vigore della legge. I Romani compresero che l’istituto dell’usucapione era un’arma a doppio taglio: da un lato, essa facilitava gli accordi; dall’altro, essa tollerava utilitaristicamente i comportamenti illeciti. Allora, si dovettero limitare le circostanze dell’applicazione dell’istituto dell’usucapione, al fine di diminuire i suoi effetti distruttivi della legge. Grazie a tale considerazione, le cause giuste e la buona fede sono entrambi i requisiti indispensabili per compiere l’usucapione, cioè un possessore di buona fede non poteva usucapire senza soddisfare una delle cause giuste.

L’impostazione della causa come uno dei requisiti dell’usucapione testimonia ulteriormente che il diritto romano, già allora, comprese la buona fede nell’usucapione come buona fede soggettiva del secondo possessore. Anche tale impostazione causò questo problema: se un possessore si sbagliava sulla causa, cioè, considerava una causa ingiusta come giusta, egli poteva usucapire o no? Da qui emerse il problema del titolo putativo. Ad esempio, uno che credeva di avere comprato qualcosa ed infatti non l’aveva comprata poteva usucapirla pro emptore? Questo problema fu discusso tra i giuristi romani. Ulpianus e Paulus insistettero nella teoria negativa; invece, Neratius, Africanus e Iulianus proposero una teoria contraria[41]. A Iulianus parve che solo l’errore nella cognizione della causa del compratore avesse una giusta causa; egli poteva usucapire la cosa comprata (D. 41.4.11). Nelle sue Institutiones, Giustiniano adottò la teoria negativa (Inst. 2.6.11), con la finalità di mantenere una coesistenza di due requisiti (buona fede e giusta causa) per compiere l’usucapione. Perché, a seguito del riconoscimento del titolo putativo, si potesse cancellare il requisito della giusta causa, bastava usare il requisito della buona fede soggettiva. Si fa così nel diritto civile moderno. Così, l’applicazione dell’istituto dell’usucapione si estese e perse la sua funzione originaria di rimediare ai difetti formali dei negozi giuridici. Ciononostante, la disputa tra i giuristi romani, relativa all’errore sulla causa dei negozi giuridici, introdusse la teoria dell’errore nella buona fede soggettiva.

Per il suo speciale processo di formazione, la buona fede soggettiva dimostra un’artificiosità. Se la buona fede oggettiva ebbe un tecnicismo giuridico, derivato dall’uso comune della lingua latina, la buona fede soggettiva fu una concezione giuridica elaborata dai giuristi romani, perché nella letteratura latina non esiste una locuzione non giuridica in tal senso[42]. Credo che essa fu creata dai giuristi nel loro studio per perfezionare l’istituto dell’usucapione. Così, mediante l’elaborazione dei giuristi, il senso originario della buona fede cambiava costantemente dall’esterno all’interno, ossia dalla richiesta di «non ledere altri» per il primo possessore a «una consapevolezza di astenersi dal recare danno ai possessori legittimi»[43]. Infine essa fu utilizzata per denominare la situazione psicologica del possessore che ignorava la propria situazione reale o era in errore. Nel cambiamento del significato, il suo valore morale diminuì gradualmente. Infatti, tale tolleranza dei comportamenti di usurpazione di beni altrui era estremamente utilitaristica:

1. lasciare che i beni sociali fossero goduti sufficientemente da qualsiasi persona che ne avesse necessità. Per l’ideologia romana, ogni bene aveva contemporaneamente due padroni: il proprietario e la comunità. Se il primo non esercitava il proprio diritto attivamente, subentrava, al suo posto, il secondo. Per disciplinare ulteriormente la tolleranza all’uso dei beni sociali, il diritto giustinianeo richiese ai possessori di avere la buona fede soggettiva soltanto all’inizio dei loro possessi, quindi mala fede superveniens non nocet.

2. Tale norma prendeva in considerazione anche la sicurezza dei traffici. Se colui che riceveva delle cose, ne otteneva il possesso in buona fede, l’usucapione di esse doveva finire in seguito alla scoperta del suo errore ed egli doveva restituire le cose al proprietario originario, nonostante potesse chiedere un risarcimento al dans per i danni subiti? La sua posizione sarebbe stata troppo sfavorevole e sarebbe venuta meno la sicurezza dei traffici[44].

Quanto detto è il mio pensiero sul processo della buona fede soggettiva differenziata dalla buona fede oggettiva.

 

 

4. – Il problema dell’unificazione delle due nozioni di buona fede.

 

Fin qui possiamo dire che nonostante la buona fede oggettiva e la buona fede soggettiva, attualmente, abbiano significati abbastanza diversi, hanno tra loro una radice comune. La distinzione dei due tipi di buona fede è soltanto il risultato dello sviluppo del diritto dell’usucapione romano nel periodo classico. Questo evento accadde così presto, che la base comune dei due tipi di buona fede è stata dimenticata.

Nella lunghissima storia della giurisprudenza del diritto romano, i giuristi di solito studiarono la buona fede oggettiva e quella soggettiva separatamente, credendo che questi due fossero fenomeni indipendenti l’uno dall’altro; quasi nessuno tentò di trovare l’identità di entrambi. Solamente nel periodo del Rinascimento, il Ruffini fu la prima persona che sentì la necessità di impostare un concetto unificato dei due tipi di buona fede e tentò di farlo. Nella sua monografia “Buona Fede” egli lavorò sotto questo aspetto. A suo avviso, poteva coprire tutti i fenomeni della buona fede la definizione ciceroniana di fides, secondo la quale, la buona fede è: dictorum conventorumque constantia et veritas[45]. Quindi, se uno non onora quello che ha promesso si comporta in male fede[46]. Questa spiegazione si adatta in modo conveniente alla buona fede del diritto contrattuale, ma non si adatta alla buona fede nei rapporti di possesso. Se si volesse adattarla a quest’ultima buona fede, bisognerebbe riconoscere l’esistenza di un contratto sociale tra tutti i membri di una comunità, secondo il quale, questi membri hanno promesso l’uno all’altro di non usurpare i beni altrui. Comunque, se uno usurpa i beni altrui, ignorando che cosa abbia fatto, può sembrare che egli ancora abbia osservato il contratto sociale. Solo ragionando così, si può capire il significato della trasformazione delle nozioni della buona fede, dall’osservanza della parola, all’ignoranza o all’errore sulla natura delle cose.

Tale linea di pensiero non è una fantasia senza fondamento; invece è un’asserzione basata sulla storia del pensiero giuridico romano. In relazione al problema dell’origine dello stato, i romani, sotto l’influenza dell’Epicureismo, adottarono una visione contrattualistica. Titus Lucretius Carus (99-55 a.C.), filosofo e poeta romano, fu uno dei primi contrattualisti romani; egli espresse tale opinione nella sua Natura Rerum. Secondo lui, gli esseri umani ebbero un periodo di vita in cui vagabondavano qua e là come una bestia, quando

 

nec commune bonum poterant spectare neque ullis

moribus inter se scibant nec legibus uti[47].

 

Poi si cominciò a sapere come utilizzare il fuoco e si ebbero i vestiti, i domicili e le famiglie. Così il livello della civiltà progredì. Di seguito:

 

Tunc et amicitiem coeperunt iungere aventes

Finitimi inter se nec laedere nec violari,

inde magistratum partim docuere creare

iuraque constituere, ut vellent legibus uti.

nam genus humanum, defessum vi colere aevom,

ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum

sponte sua cecidit sub leges artaque iura [48].

 

Questi versi dimostrano che i Romani stipularono un contratto sociale ponendo fine allo stato naturale. Questa spiegazione della storia dell’evoluzione dell’umanità fu il punto chiave dell’Epicureismo. Ovviamente Lucretius recepì questa teoria e la diffuse tramite la sua poesia. Dunque, la teoria del contratto sociale dell’Epicureismo entrò nel mondo del pensiero romano e produsse un’influenza profonda.

Secondo lo spirito del diritto romano, anche Cicerone fu un contrattualista. Nel suo De Legibus, disse attraverso le parole di Scipione che «la natura di essere umano non desidera isolamento e solitudine». Tale natura spinse l’essere umano ad unirsi in una civitas, o in una società civile, tramite contratto sociale[49]. Prima di ciò, gli esseri umani vissero allo stato naturale, in cui erano isolati l’uno dall’altro. Dopo la fondazione della civitas, gli esseri umani abbandonarono la situazione di isolamento ed entrarono in una situazione di collaborazione. Per di più, egli disse nel suo De Officiis: «per quanto riguarda la città, se il popolo non si fosse unito in una comunità, non sarebbe stata possibile una costruzione o un denso centro abitato. Per mantenere questa vita comunitaria, si crearono la legge, si formarono i costumi, poi si distribuirono i diritti e si formarono certe regole di vita»[50]. Anche questo passo mostra che la società umana si formò mediante il contratto sociale. Quindi non è strano che il prof. Luigi Labruna sostenga giustamente che Cicerone è un contrattualista[51].

Tale pensiero fu assorbito dal diritto romano. Nelle Institutiones di Giustiniano, gli autori scrivevano:

 

Palam est autem vetustius esse naturale ius, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit: civilia enim iura tunc coeperunt esset, cum et civitates condi et magistratus creari et leges scribi coeperunt[52].

 

Questa frase ci rivela chiaramente un contrasto tra due situazioni: una è lo stato naturale senza la città, i magistrati e la legge scritta; l’altra è la situazione sociale, presenti tutte queste tre istituzioni. Nonostante gli autori non parlarono esplicitamente di transizione tra le due situazioni, considerato il contesto del pensiero romano, ho ragione di credere che il contratto sociale giocasse questo ruolo.

Risolta la questione dell’esistenza teorica del contratto sociale, il problema successivo è che cosa sia scritto in tale contratto. Dato che nella storia del pensiero occidentale, la teoria del contratto sociale è la dottrina più influente sulla spiegazione della genesi del fenomeno di società-potere, le teorie dei pensatori dell’età più avanzata, sotto quest’aspetto, potrebbero aiutarci a capire meglio l’idea dei pensatori antichi, che ci lasciarono poca letteratura. Infatti, la teoria di contratto sociale di Johann Gottlieb Fichte può giocare una parte positiva in questo punto. Egli distinse il contratto sociale dei pensatori antichi in tre contratti: il primo fu il contratto sui beni cittadini concluso da un cittadino con tutti gli altri cittadini e con i quali, tutti i membri sociali riconobbero reciprocamente le loro richieste di avere un diritto al possesso di beni; ognuno dà tutte le sue proprietà come garanzia di non danneggiare i beni di tutte le altre persone[53]. Il secondo fu il contratto protettivo, che fu una garanzia per realizzare il primo contratto, con il quale tutti i membri sociali garantirono reciprocamente protezione ai loro legittimi beni; per questo motivo si sentì la necessità di organizzare una forza protettiva pubblica. Il terzo fu il contratto associativo che unì tutti gli individui come una parte di un’unità organica, affinché garantisse l’adempimento del contratto dei beni cittadini ed il contratto protettivo[54]. A mio modesto avviso, tra questi tre contratti, il secondo contratto, cioè il contratto protettivo, era la base unificata della buona fede oggettiva e della buona fede soggettiva, ed entrambe osservavano questo contratto.

Il Ruffini ha ragione! Due tipi di buona fede possono ancora unificarsi nel diritto romano sulla base della definizione ciceroniana della “fides”. Concludendo un contratto sociale gli uomini si associarono in una società per proteggere i propri beni. Per realizzare lo scopo associativo, ogni persona ebbe bisogno di obbligarsi a riconoscere il diritto di proprietà altrui. Nel campo del diritto reale, colui che possiedeva i beni altrui, sapendo che il proprietario legittimo aveva violato gravemente la buona fede, si era comportato in mala fides; in altre parole, questa persona era venuta meno alla propria promessa verso gli altri membri sociali del contratto sociale. Invece, se uno avesse ottenuto tale possesso per ignoranza o per errore, il suo comportamento avrebbe potuto essere considerato ancora di buona fede o di buona fiducia, perché non aveva intenzione di mancare alla sua promessa del contratto sociale. Nell’aspetto del diritto contrattuale, l’adempiere onestamente ad un obbligo contrattuale non è altro che rispettare i diritti di altri membri della società. Insomma, tanto la buona fede soggettiva quanto la buona fede oggettiva, tutte e due sono un’osservanza del contratto sociale. Prescindendo da tale interpretazione, non riesco a concepire che altre persone possano unificare i due tipi di buona fede in altra maniera.

 

 

5. – Riflessioni finali

 

In questa relazione, mi sono sforzato di rivelare il contrasto e l’unificazione della buona fede oggettiva e della buona fede soggettiva nel diritto romano e di spiegare il difficile problema della base unica dei due tipi di buona fede con la teoria di contratto sociale. È ben chiaro che nella storia del diritto romano il prototipo di buona fede fu oggettivo. Fino al periodo classico, tale buona fede si divise negli aspetti di oggettività e soggettività, che funzionarono rispettivamente nell’ambito del diritto contrattuale e del diritto reale.

Utilizzando il diritto romano, questa relazione tenta di testimoniare la necessità di unificare i due tipi di buona fede nei diritti civili moderni. Ciò è un tema non realizzato dalla maggiore parte dei giuristi della Cina. Ora è tempo di proporlo e di risolverlo.

Dal punto di vista della storia legislativa, il contrasto tra la buona fede oggettiva e la buona fede soggettiva esisteva costantemente, come due parallele; esse accompagnano l’una e l’altra per sempre, ma mai s’incrociano. La scelta del BGB di denominare queste due con linguaggi diversi dimostra chiaramente tale situazione. Il rilievo della posizione della buona fede oggettiva nel diritto civile moderno causò un incrocio dei due tipi di buona fede e ulteriormente causò il problema della necessità dell’esistenza della buona fede soggettiva. Dal punto di vista logico, giacché la buona fede nel diritto di obbligazione è stata elevata a principio basilare del diritto civile, la buona fede soggettiva dovrebbe perdere la sua stessa ragione di esistere. Nei paesi in cui si parlano lingue di origine latina, poiché tanto la buona fede oggettiva che la buona fede soggettiva hanno la stessa forma, si può superare tale dilemma tramite un’interpretazione di assimilazione. Ma, nei paesi di lingua tedesca, in cui i due tipi di buona fede hanno le forme simboliche diverse, non si può fare così; si deve fare una scelta tra i due tipi di buona fede. È sorprendente che il Codice Civile Svizzero abbia adottato una soluzione interessante nell’elevare i due tipi di buona fede come principi basilari: il suo articolo 2 (comportamenti di buona fede) paragrafo 1 statuì la buona fede oggettiva; il suo articolo 3 (guter Glaube) impostò la buona fede soggettiva; il suo articolo 4 (giudizio) riconobbe la discrezione dei giudici. Il contrasto dei due tipi di buona fede in questi articoli manifestò la difficoltà del legislatore ad unificare i due concetti. Ciononostante, il codice Civile Svizzero è il codice che ha considerato più profondamente il problema del rapporto dei due tipi di buona fede.

Influenzata dalla cultura giuridica tedesca, attualmente, la Cina appartiene ancora ai paesi che esprimono i due tipi di buona fede con denominazioni diverse, perciò abbiamo lo stesso problema della Germania e della Svizzera. L’articolo 4 dei Principi Generali di Diritto Civile presuppone che la buona fede sia il suo principio basilare, ma nello tempo stesso c’è il riferimento alla buona volontà tanto nella legislazione quanto nella dottrina[55]. Entrambi sono indifferenti uno all’altro. Questo è il risultato dell’ignoranza dei legislatori e degli studiosi sul problema del contrasto e dell’unificazione delle due buone fedi. Una volta che si riconosce questo problema, abbiamo bisogno di predisporre, nel nostro futuro codice, un unico articolo che stabilisca un unico principio di diritto civile di buona fede per l’oggettività e la soggettività. Innanzitutto, nel suo primo paragrafo, si dovrebbe definire la buona fede come «i comportamenti corrispondenti delle parti, ferme nell’idea di rispettare i diritti altrui»; il suo secondo paragrafo dovrebbe statuire la buona fede soggettiva come segue: “A coloro che credono di non aver violato i diritti altrui, mentre violano realmente tali diritti e possiedono la buona fede soggettiva, la legge riconoscerà, sulla base della loro buona situazione soggettiva, gli effetti favorevoli dei loro comportamenti”. Il suo terzo paragrafo dovrebbe prevedere questo: «i giudici giudicheranno discrezionalmente se le parti hanno la buona fede soggettiva o la buona fede oggettiva». Tale principio di buona fede avrà tre aspetti: soggettività, oggettività e discrezionalità dei giudici, così fonderà i contenuti dell’articolo 2, 3 e 4 del Codice Civile Svizzero in unico articolo. Logicamente, nel libro sui diritti reali di questo codice, tutte le espressioni della buona volontà usate nel passato dovrebbero essere sostituite dalla locuzione della buona fede. Ad esempio, l’espressione del possessore di “buona volontà” dovrebbe essere sostituita dall’espressione di “possessore di buona fede”; l’espressione di acquisizione di “buona volontà” di bene mobile dovrebbe essere sostituita dall’espressione di acquisizione di “buona fede di bene mobile”. Così, il principio unificato di buona fede del codice civile cinese regolerà due tipi di rapporti che nel passato si chiamavano rispettivamente “buona fede” e “buona volontà”. Infatti, il Progetto del Codice Civile Verde, da me diretto, ha già espresso l’idea suddetta.

 

 

 

 



        

[1] Testo della relazione «Unica nozione: il fondamento comune della buona fede oggettiva e della buona fede soggettiva nel diritto romano», letta nel corso dei lavori del “Colloquio dei romanisti dell’Europa Centro-Orientale e dell’Asia: La persona nel sistema del diritto romano. La difesa dei debitori. Lo studio e l’insegnamento del diritto romano”, tenutosi a Novi Sad (24-26 ottobre 2002) per iniziativa dei professori Antun Malenica (Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Novi Sad) e Pierangelo Catalano (Centro per gli studi su Diritto romano e Sistemi giuridici del CNR, Università di Roma “La Sapienza”).

 

[2]Cfr. Cicerone, De Officiis, 1.23, a cura di Wang Huansheng, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 1999 Beijing, pp. 22 s.

 

[3] Vedi M. De la Puente y Lavalle, El contrato en general, El fondo para publicacion del PUC del Perù, 1996, p. 30.

 

[4] Vedi M. De la Puente y Lavalle, op. cit., p. 33 s.

 

[5]A causa della limitatezza dello spazio, vorrei solamente prendere come esempio il Codice Civile Italiano per testimoniare questo punto. Nel senso della buona fede soggettiva, negli articoli 23, 25, 1445, 1479, 1776, 2377, 2391 etc. del codice si usa la parola buona fede. Nel senso della buona fede oggettiva l’articolo 1375 di questo codice usa la stessa parola nella maniera tipica: «il contratto deve essere eseguito secondo buona fede». Cfr. Adolfo di Majo (a cura di), Codice Civile con la costituzione, il Trattato C.E.E. e le principali norme complementari, VIII ed., Giuffrè, Milano, 1994. Tuttavia, i traduttori cinesi di questo codice hanno tradotto la prima buona fede in «buona volontà», la seconda con la locuzione «Chengshixinyong» che significa «buona fede». Cfr. la traduzione cinese di questo codice, a cura di Fei Anling e Ding Mei, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 1997, Beijing.

 

[6] Nell’ordinanza imperiale di promulgazione del codice (1 giugno 1811), l’articolo 1 dichiarava che il diritto civile «deve essere composto nella lingua comprensibile per i cittadini…». Cfr. Parker School of Foreign and Comparative Law, The General Civil Code of Austria, Revised and Annotated by Paul L. Baeck, Oceana Publications, Inc. New York, 1972, p. 1.

 

[7] Walter List, Zivilrecht, 6. Auflage, Manz·Wien 1997, pp. 488 ss.

 

[8] Cicero, De Officiis, cit., p. 309.

 

[9] Bürgerliches Gesetzbuch, 43 Auflage, München 1998, Beck-Texte im dtv, p. 45; 189.

 

[10] I traduttori di questa legge hanno tradotto la parola «Chengxin» nell’articolo 6 come «Good faith»; «Shanyi» nell’articolo 47 paragrafo 2 con Bona fides. «Good faith» è una parola inglese, Bona fides è una parola latina, ambedue hanno un senso affatto uguale. Cfr. La Legge di Diritto Contrattuale di PRC (a confronto con la traduzione inglese). Casa Editrice delle Leggi, 1999, Beijing, pp. 7, 25.

 

[11] Cfr. Liang Huixing, Il principio della buona fede e ripianamento delle lacune, in Rivista di Diritto Civile e Commerciale, Vol. II, 1994, a cura di Liang Huixing, Casa delle Leggi, Beijing, p. 62.

 

[12] Cfr. Jiang Ping, a cura di, La Giurisprudenza del Diritto Civile, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 2000, p. 67.

 

[13] In Liang Huixing (sotto la direzione di), Lo studio del diritto reale della Cina, tomo II, Casa Editrice delle Leggi, 1998, Beijing, p. 473 c’è l’espressione «acquisizione di buona volontà» che testimonia come il prof. Liang Huixing ancora insista nella scissione dei due tipi di buona fede. Lo stesso problema esiste nel Progetto del diritto reale per La Cina: suggestione degli studiosi. Tuttavia, nell’ambiente dei traduttori, c’è stato un tentativo di unificare i due concetti di buona fede. I traduttori di Harold Barman, Legge e rivoluzione, a cura di He Weifang et al., (Casa Editrice dell’Enciclopedia della Cina, Beijing 1993) hanno tradotto «Good Faith» nel possesso con Chengxing (=buona fede), perciò a p. 424 si legge: «il diritto del compratore di Chengxin di cosa mobile prevale su quello del vero proprietario». Purtroppo, a p. 296 dello stesso libro, si legge invece: «se ha comprato un pezzo di terra in Shanyi (= buona volontà)».

 

[14] Cicerone, Dei doveri, a cura di Dario Arfelli, Bologna 1994, pp. 258 s.

 

[15] Cfr. Bonfante, Istituzioni del Diritto Romano, A cura di Huangfeng, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 1992, Beijing, p. 89.

 

[16] Gaius,  Istitutiones, a cura di Huangfeng, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 1996, p. 320.

 

[17] Cfr. Giustiniano, Istitutiones, a cura di Xu Guodong, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 1999, p. 473.

 

[18]Cfr.Cicerone, De Officiis, cit., pp. 303 ss. Per quanto riguarda la definizione di dolo di Servius, cfr. Corpus Iuris Civilis Fragmenta Selecta, Negozio Giuridico, a cura di Sandro Schipani, Traduzione di Xu Guodong, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 1998, p. 53.

 

[19]Cfr. Cicerone, Dei Doveri, cit., p. 243.

 

[20] Cfr. Cicerone, Dei Doveri, cit., p. 305.

 

[21] Cfr. Cicerone, Dei Doveri, cit., p. 253.

 

[22] Alberto Burdese, Manuale di diritto privato romano, UTET, Torino, 1993, p. 310.

 

[23] Cfr. Zhounan, Tratatto Originale del Diritto Romano, tomo II, Casa Editrice Commerciale, 1994, Beijing, p. 323.

 

[24] Cfr. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Giuffrè, Milano, 1990, p. 424.

 

[25] Cfr. Gaio, op.cit., p. 90.

 

[26] Cfr. Thompson, La Storia Economica-Sociale di Medioevo, tomo I, a cura di Gen Danru, Casa Editrice Commerciale, 1961, Beijing, p. 63.

 

[27] Cfr. Zhounan, op. cit., tomo I, p. 332.

 

[28] Per quanto concerne la Lex Icilia de Aventino publicando del 456 a.C., cfr. Aldo Petrucci, Un breve quadro del regime giuridico della terra dalle origini di Roma alla fine della Repubblica, in Diritto Romano e Diritto Civile Moderno, Traduzione di Xu Guodong, Casa Editrice del Sistema Giuridico della Cina, 2002, Beijing.

 

[29] Bonfante ha sostenuto che solamente nel periodo classico, nel criterio di non ledere altri nel possesso si cominciava a dividere l’aspetto soggettivo da quello oggettivo. Cfr. Bonfante, op. cit., pp. 218 s. Per quanto rigurda l’indifferenza tra rapina e furto nell’antichità romana, cfr. Zhounan, op.cit., tomo II, p. 786.

 

[30] Cfr. Volterra, Istituzione del diritto privato romano, Roma, 1960, pp. 402 s.; anche Talamanca, op. cit., p. 422.

 

[31] Cfr. Talamanca, op.cit., pp. 424 s.

 

[32] Cfr. Aldo Petrucci, op. cit.; vedi anche H.F. Jolowicz and Barry Nicholas, Historical Introduction to the Study of Roman Law (Third Edition), Cambridge University Press, Cambridge, 1972, p. 261.

 

[33] Cfr. Zhounan, op.cit., tomo I, p. 421.

 

[34] Cfr. Zhounan, op. cit., tomo I, pp. 424, 426.

 

[35] Ad esempio, D. 47.2.25.1; 43.16.1.3; 43.16.1.4.

 

[36] Cfr. Zhounan, op. cit., tomo I, p. 409, p. 423.

 

[37] Cfr. Volterra, op. cit., p. 402.

 

[38] Vedi H.F. Jolowicz and Barry Nicholas, op. cit., p. 153.

 

[39] Cfr. Zhounan, op. cit., tomo I, p. 329.

 

[40] Cfr. Volterra, op. cit., p. 403.

 

[41] Cfr. Bonfante, op. cit., p. 225.

 

[42] Cfr. Luigi Lombardi, Dalla 'fides' alla 'bona fides', Giuffrè, Milano, 1961, pp. 209 s.

 

[43] Cfr. Bonfante, op. cit., p. 219.

 

[44] Cfr. Zhounan, op. cit., tomo I, p. 327.

 

[45] Cicerone, De Officiis, 1.23.

 

[46] Vedi Josè Carlos Moreira Alves, A Boa-fè objetiva no sisitema contratual brasileiro, in Sandro Schipani (a cura di), Roma e America, Diritto romano comune, Vol. VII, Mucchi Editore, Modena, 1999, p. 188.

 

[47] Lucretius, Rerum Natura, a cura di Fang Shuchun, Casa Editrice Commerciale, 1981, p. 322.

 

[48] Lucretius, op. cit., p. 330 ss.

 

[49]Cicerone, De Legibus, De Republica, a cura di Wang Huangsheng, Casa Editrice dell’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, 1997, Beijing, p. 39.

 

[50]Cicerone, De Officiis, cit., p. 167.

 

[51]Cicerone, De Legibus, De Republica, cit., introduzione alla traduzione, p. 6.

 

[52] Giustiniano, op.cit., p. 115.

 

[53] Cfr. Fichte, La base del Diritto Naturale secondo il principio di conoscenza, a cura di Xie Dikun e Chen Zhimin, In Opera Selecta di Fichte sotto la direzione di Liang Zhixue, tomo II, Casa Editrice Commerciale, 1994, pp. 457 ss.

 

[54]Cfr. Fichte, op. cit., pp. 454 ss.

 

[55] Cfr. Il Progetto del Diritto Reale per La Cina: La Suggestione degli Studiosi. Sotto la direzione di Liang Huixing, Casa Editrice di Documentazioni delle Scienze Sociali, 2000, Beijing, pp. 363ss , in cui ci sono una serie di regole sull’acquisizione della buona volontà.