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Marina Evangelisti

Università di Modena e Reggio Emilia

 

Riflessioni in tema di ius adcrescendi (tra communio e coeredità)

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. Oggetto dell’indagine. – 2. Ipotesi di origine. Il concetto di ‘quota’. – 3. Operatività del ius adcrescendi attestata dalle fonti. – 4. D. 41.7.3 (Mod. 6 diff.): un’ulteriore applicazione? – 5. Parziale diversità di presupposti nella communio e nella coeredità: una possibile chiave euristica. – Abstract.

 

 

1. – Premessa. Oggetto dell’indagine

 

In dottrina la figura giuridica del ius adcrescendi è concordemente attestata come operativa sia all’interno della comunione quiritaria sia nell’ambito della successione mortis causa[1].

Come efficacemente rilevato da Giovanni Pugliese, nella magistrale voce dedicata a tale meccanismo giuridico[2], le condizioni necessarie affinché si possa riconoscere l’operare dell’accrescimento sono, da un lato, la presenza di una situazione di contitolarità in re ipsa implicante una pluralità di soggetti aventi diritto; in secondo luogo, il verificarsi di una vacanza di quota all’interno di tale struttura: lo scopo del nostro istituto è, appunto, quello di colmare il vuoto apertosi nelle maglie dei rapporti giuridici reciproci, con l’attribuzione ipso iure della quota rimasta priva di referente ai contitolari di quest’ultimo.

L’angolo di osservazione qui prescelto è volto a focalizzare il ius adcrescendi nella comunione quiritaria, pur nella consapevolezza che tale problematica risulta particolarmente ardua per via di un nucleo di fonti assai più esiguo rispetto a quelle di cui disponiamo per il campo ereditario.

Pur nell’indiscutibile comunanza di presupposti riscontrabile nei due citati settori, in questa sede, con le ovvie cautele del caso, si intende prospettare la suggestione che nell’accrescimento in ambito di comproprietà intravede più una vischiosa traccia identitaria legata all’origine dell’istituto che non l’indice di un’effettiva e permanente omogeneità di funzione e di condizioni applicative.

In altri termini, l’indagine sull’origine dell’accrescimento mi ha indotto a propendere per una visione che, se da un lato ricollega, nei limiti che si vedranno, la presenza dell’accrescimento nella comunione dalla discendenza di questa dall’antico consortium, stenta tuttavia a individuare una sicura e coerente operatività di tale criterio all’interno della comproprietà nella sua configurazione matura.

 

 

2. – Ipotesi di origine. Il concetto di ‘quota’

 

Concentriamo dunque, come anticipato, il nostro focus in modo da inquadrare la sola communio. Tradizionalmente si è rilevato come il più risalente modello di compartecipazione, il c.d. consortium ercto non cito possa concettualmente ascriversi sia al settore del diritto di famiglia, sia a quello delle obbligazioni, sia a quello del diritto ereditario[3].

Questo in special modo perché il consortium, pur non essendosi pienamente dipanato il mistero che ne avvolge la figura, è stato considerato il progenitore sia della societas omnium honorum, sia della comproprietà in senso proprio, o communio iuris romani[4].

Ancorché in questa sede non sia dato soffermarsi sulle caratteristiche e la struttura del consortium, è comunque necessario ai fini della presente indagine - e per l’aspetto che qui maggiormente interessa - ripercorrerne alcuni tratti salienti e distintivi, rivolgendo una particolare attenzione alla sua forma più antica, il c.d. consorzio fraterno o ereditario.

Esso si costituiva automaticamente tra fratelli che fossero anche heredes sui alla morte del paterfamilias e tale origine, strettamente intrecciata al tessuto connettivo della familia proprio iure al punto di rappresentare quasi un’emanazione della stessa, costituisce il fondamento e la giustificazione del regime giuridico che lo distingue e lo connota: ognuno dei compartecipi, legato agli altri dal vincolo di fraternitas[5], risulta referente di un diritto integrale sulla res communis e concorrente con quello degli altri su un piano di parità, in virtù del quale gli è consentito di compiere da solo atti validi di disposizione del patrimonio comune con riflessi conseguenti ed immediati nei confronti di tutti, secondo l’efficace conio onomastico bonfantiano della c.d. proprietà plurima integrale[6].

Data la complessità dei rapporti reciproci tra contitolari, al contempo personali e patrimoniali, il diritto di accrescimento avrebbe potuto trovare ragione d’essere e giustificazione all’interno della struttura consortile quale “valvola di sicurezza” e garanzia di tenuta dell’intero sistema nel caso del venire meno di uno degli aventi diritto. Posto che è da ritenersi assai improbabile un subingresso nel consortium degli eredi di quest’ultimo, allorché si apre una lacuna nell’ambito della contitolarità, la logica strutturale dell’istituto fa sì che esso ripristini ipso iure il rapporto parti-intero grazie a una sorta di vis espansiva dall’interno: di qui la persistenza della comunione tra i membri superstiti.

Tale criterio giuridico, applicazione diretta del principio dell’elasticità del dominium quiritario e volto a tutelare i membri della famiglia contro l’eventualità dell’ingresso in comunione di un estraneo al gruppo, è da ricollegarsi con un certo grado di verosimiglianza al dato, questo inconfutabile, per cui la forma più antica di contitolarità a noi nota è una coeredità e anticipa in certo modo l’ininterrotta, attestata continuità della presenza dell’accrescimento proprio nella sfera della successione e delle disposizioni mortis causa.

Meno sicura appare invece, a sommesso parere di chi scrive, l’operatività del ius adcrescendi nella communio di epoca successiva, sul presupposto critico della derivazione di quest’ultima dall’antica figura consortile.

Consideriamone quindi la struttura da un punto di osservazione più ravvicinato.

Ciò che sembra emergere per quanto concerne la struttura della comproprietà classica, è che essa si sviluppa coerentemente entro gli schemi propri del dominio quiritario individuale. Diversamente rispetto a quanto da taluni studiosi prospettato, essa non va vista come una sorta di anomalia della proprietà singola, bensì - ponendosi dall’angolo visuale di ogni compartecipe - come il dominio unitario ed esclusivo che, come la prima, nasce dal rapporto diretto dell’individuo con la res che gli appartiene[7].

La sua struttura si informa al principio logico per cui due o più rapporti giuridici patrimoniali rimangono concettualmente distinti se, pur coincidendo quanto all’oggetto, individuano nei soggetti titolari del medesimo referenti diversi.

E’, questo, un principio che nelle fonti troviamo più volte affermato:

 

D. 13.6.5.15 (Ulp. 28 ad. ed.) Lenel, Cels. 60, Ulp. 807

Si duobus vehiculum commodatum sit vel locatum simul, Celsus filius scripsit libro sexto digestorum quaeri posse, utrum unusquisque eorum in solidum an pro parte teneatur. et ait duorum quidem in solidum dominium vel possessionem esse non posse: nec quemquam partis corporis dominum esse, sed totius corporis pro indiviso pro parte dominium habere. usum autem balinei quidem vel porticus vel campi uniuscuiusque in solidum esse (neque enim minus me uti, quod et alius uteretur): (...).

 

Giuvenzio Celso figlio, riferito da Ulpiano[8], è investito di una questione relativa alla responsabilità per un veicolo dato in comodato o in locazione a due soggetti insieme: se, cioè, i comodatari o i conduttori siano per lo stesso tenuti in solidum o pro parte.

Il giurista del II secolo trae da ciò l’occasione per spiegare che non si può avere comproprietà o compossesso in solidum. Secondo Celso, quindi, non si può dare diritto di proprietà o situazione di possesso di due soggetti contemporaneamente sulla res considerata nella sua interezza, così come nessuno può essere considerato dominus di una parte fisica della res, ma unicamente gli è dato avere la proprietà di tutto il corpus in ragione di una quota[9].

Diverso discorso, egli conclude, vale per l’uso comune, esercitabile da ognuno per l’intero suo ambito potenziale e non condizionato sul piano quantitativo dall’analogo usus del contitolare.

Non è concepibile – si diceva – una proprietà unica ed integrale di più soggetti sulla stessa cosa. E’ possibile invece che i singoli condomini (che sono domini nel senso pieno del termine) siano proprietari, non ognuno dell’intera cosa, bensì di una parte ideale dell’intero diritto sulla res, la quale rimane pertanto indivisa.

Su tale presupposto logico appare ovvio – e i testi in effetti lo affermano – che il diritto di proprietà sulla cosa comune non possa spettare per intero (in solidum) a ciascuno dei contitolari: infatti esso viene concepito come una frazione aritmetica del diritto sulla res communis, avente quindi ad oggetto non una parte materiale della cosa, ma l’intera cosa indivisa.

Consideriamo, sul punto, un’altra fonte paradigmatica:

 

D. 50.16.25.1 (Paul. 21 ad ed.) Lenel, Q. Muc. 51, Paul. 339

Quintus Mucius ait partis appellationem rem pro indiviso significari: nam quod pro diviso nostrum sit, id non partem, sed totum esse. Servius non ineleganter partis appellatione utrumque significari.

 

Il significato di pars proposto da Quinto Mucio corrisponde più al nostro concetto di ‘quota’ che a quello di ‘parte’. Esso richiama l’idea di un frazionamento ideale per cui, diremmo, su ogni atomo della res communis insiste, nei limiti fissati dalle rispettive proporzioni, il diritto di ciascuno: quindi non una ‘pars quanta’, ossia una porzione fisica di una res, bensì – secondo ancora l’efficace terminologia dei giuristi medievali, fatta propria dalla quasi totalità delle trattazioni moderne - una ‘pars quota[10].

Se infatti ognuno fosse proprietario di una parte materiale della res, ossia divisa fisicamente da un’altra, sarebbe in realtà proprietario di un intero – quello che Quinto Mucio Scevola chiama un totum – e il suo diritto si configurerebbe come una proprietà solitaria. Nella diversa impostazione, legata a un’accezione del vocabolo di portata più estesa, fatta propria da Servio Sulpicio Rufo – e condivisa da Paolo – tale sottile distinzione finisce per perdersi, anche se l’ambito terminologico non sembra incidere, su quello propriamente concettuale[11].

E’ dunque il concetto di quota a fissare il criterio discriminatore di fondo tra l’antico consortium e la comproprietà classica.

Si trova sovente espressa in dottrina l’idea che in origine il concetto di frazione sia apparso solo in sede di divisione, come misura della parte oggettiva spettante ad ognuno[12], e che solo più tardi essa abbia assunto un ruolo più esteso, arrivando ad incidere sulla struttura stessa della communio e diventandone il criterio informatore in sede di assegnazioni ai condomini anche manente communione.

Riconsideriamo la seconda parte del frammento ulpianeo (D. 13.6.5.15) riportato poco sopra:

 

(…) nec quemquam partis corporis dominus esse, sed totius corporis pro indiviso pro parte dominium habere, usus autem balinei quidem vel porticus vel campi unuscuiusque in solidum esse (neque enim minus me uti, quod et alius uteretur).

 

Nel testo con tutta evidenza pro indiviso va riferito a corpus mentre pro parte va riferito a dominium: ciascuno è referente di un diritto di proprietà parziaria sull’intero bene indiviso.

Tale concetto trova conferma in:

 

D. 45.3.5 pr. (Ulp. 48 ad Sab.) Lenel, Ulp. 2952

Servus communis sic omnium est non quasi singulorum totus, sed pro partibus utique indivisis, ut intellectu magis partes habeant quam corpore: et ideo si quid stipulatur vel quaqua alia ratione adquirit, omnibus adquirit pro parte, qua dominium in eo habent. licet autem ei et nominatim alicui ex dominis stipulari vel traditam[13] rem accipere, ut ei soli adquirat. sed si non nominatim domino stipuletur, sed iussu unius dominorum, hoc iure utimur, ut soli ei adquirat, cuius iussu stipulatus est.

 

Con riferimento specifico all’appartenenza del servo comune, Ulpiano ripete in buona sostanza quanto affermato dai suoi predecessori - in particolare Quinto Mucio e Giuvenzio Celso -; egli tuttavia ha il merito di sottolineare in modo perspicuo che le partes indivisae vanno considerate alla stregua di quote ideali piuttosto che fisiche (ut intellectu magis partes habeant quam corpore)[14].

Tenuto conto che la mentalità giuridica romana tende ad identificare la pars dominii con la pars rei - considerandosi con visione concreta il diritto reale primario ed il suo oggetto due aspetti della medesima realtà -, dal testo ulpianeo emerge che in realtà alla pars rei pro indiviso corrisponde la pars dominii sulla cosa di cui è titolare ciascun condomino.

Stante il principio generale secondo il quale la proprietà non può spettare in solidum ad ognuno, nell’ambito della propria quota ciascun titolare è padrone nel senso proprio del termine, onde può disporne come meglio crede e pretenderne il rispetto da parte dagli altri, esattamente come ogni dominus individuale riguardo all’oggetto del proprio diritto.

Il condominio è stato ricondotto alla categoria dogmatica della proprietà plurima parziaria: ogni contitolare è pienamente legittimato ad esercitare il proprio diritto indipendentemente dagli altri, purché nei limiti della propria quota. Il concetto di quota informa in tal modo di sé ogni fase di esistenza della comproprietà: essa rappresenta la misura della partecipazione di ciascun condomino rispetto ai frutti prodotti dalla cosa comune ed alle spese erogate per la medesima, ossia il diritto ‘economico’ del comproprietario all’intero oggetto[15].

Non siamo più, insomma, nel regime di indivisione, apparentemente indistinto, proprio del consorzio ercto non cito: ora il vero limite all’attività dispositiva di ciascuno è rappresentato dalla possibilità di collisione con il pari diritto degli altri contitolari.

A questo punto, sul dibattuto rapporto tra consortium e quota, ci sentiremmo di esprimere una suggestione: per quanto concerne il consortium non ci parrebbe del tutto azzardato ritenere operante, sul piano della mera organizzazione interna del novero dei contitolari, un embrionale concetto di quota, inteso non (ancora) come oggetto del dominium di ognuno dei compartecipi, ma - senza che ciò incida sul singolare regime dispositivo che conosciamo - come misura concreta e fattuale della partecipazione e del godimento di ciascuno rispetto ai beni consortili.

Da questo angolo visuale - in contrasto con quello che generalmente è ritenuto dalla dottrina come l’aspetto più evidente della comproprietà plurima integrale - sarebbe possibile intravedere una sorta di ‘interna parità di quote’ derivante, quale conseguenza - diremmo - necessaria e indotta, dal fatto che tutti i consortes hanno il medesimo potere di uso e godimento sul patrimonio comune.

Da ciò deriverebbe l’ulteriore corollario per cui la trasformazione di struttura che segna il passaggio dalla ‘proprietà plurima integrale’, rappresentata dal consortium, alla ‘proprietà plurima parziaria’, rappresentata dalla communio, potrebbe essere considerata meno radicale e ‘traumatica’ ove si ritenesse che la quota, come criterio di regolazione dei rapporti tra contitolari, si poneva come una sorta di presenza implicita anche nella forma più antica di comproprietà.

 

 

3. – Operatività del ius adcrescendi attestata dalle fonti

 

Nell’ambito del condominio ogni contitolare esercita sulla cosa comune indivisa le proprie facoltà di proprietario nei limiti della porzione di diritto spettantegli. Ne consegue che per gli atti di disposizione della quota (ossia per gli atti dispositivi pro parte) occorre e basta la volontà del suo titolare perché essi producano i propri effetti tipici. Pertanto ciascuno può alienare, a titolo oneroso o gratuito, la propria quota, nonché vincolarla a suo piacimento.

Perché invece l’atto giuridico produca effetti sulla cosa oggetto di communio nel suo complesso, si richiede la volontà di tutti i titolari, in quanto è impedito al singolo di disporre efficacemente della cosa comune.

Questo perché il diritto di proprietà di ognuno riguarda solo una frazione ideale e di essa sola egli può legittimamente disporre: non può conseguentemente invadere la sfera dell’altro o degli altri contitolari, cosa che invece accadrebbe se gli fosse dato di destinare l’intero con un atto unilaterale potestativo.

Un limite al regime dispositivo parziario è dato quindi dall’indivisibilità del diritto o della situazione che si intende costituire.

Esempi tipici sono la costituzione di servitù e la manumissione dello schiavo comune.

La servitù, sia essa positiva o negativa, non può costituirsi pro parte: tutti i condomini debbono parteciparvi, in quanto l’effetto di tale atto concerne sempre la res, il fondo, nella sua interezza[16].

Le fonti attestano in modo pacifico che l’atto dispositivo del condomino ha efficacia reale solo nei limiti del diritto che effettivamente gli spetta sulla cosa comune.

La manumissione del servo comune richiede invece, ai fini dell’efficacia propria dell’atto di affrancazione, la volontà di tutti i contitolari del diritto di proprietà - nonché della potestas - sul mancipium: non si può compiere legittimamente né pro parte, poiché nessuno può essere in parte libero ed in parte schiavo, né in solidum, in quanto ciò comprometterebbe irrimediabilmente il diritto altrui.

Tuttavia, la manumissione solitaria non è priva di effetti.

Se infatti l’atto di manumissione viene compiuto da uno solo dei condomini, esso non renderà libero, e liberto nei confronti di tutti, il servus communis come avveniva nell’antico consortium, ma sortirà l’effetto di far perdere al manomissore la sua quota di proprietà a favore degli altri.

Proprio in tale contesto di comproprietà ricorre tra l’altro il solo caso in cui l’apparato testuale in nostro possesso in tema di communio comprova l’operatività dell’accrescimento[17].

Il ius adcrescendi rappresenta, insieme con il ius prohibendi, il grande ostacolo logico-concettuale che, secondo la dottrina dominante, osta ad una piana e coerente configurazione teorica della communio dominicale come proprietà plurima parziaria[18].

Esso, in costanza di communio, si ricollega ad un atto giuridico di disposizione della cosa caratterizzato da valenza abdicativa, ossia non diretto ad una trasmissione della stessa. In àmbito ereditario opera invece allorché qualcuno dei chiamati alla successione mortis causa non possa o non voglia acquistare.

Ritornando alla manumissione del servo comune, tale atto, se veniva compiuto da uno solo dei condomini, era inefficace rispetto al fine perseguito dal suo autore, ma produceva effetti su un piano diverso: la quota di proprietà del manomissore era da lui perduta e si accresceva proporzionalmente agli altri condomini[19].

Il risultato in oggetto peraltro si riscontrava soltanto nelle manumissioni giuste e legittime, le uniche che portavano alla cittadinanza romana. Se invece si trattava di una manumissio c.d. pretoria, l’atto in parola era inefficace sotto ogni punto di vista (vi era peraltro in merito una dissensio ricavabile dai Tituli ex corpore Ulpiani e, in forma più specifica, dal Fragmentum Dositheanum):

 

P.S. 4.12.1

Servum communem unus ex dominis manumittendo Latinum facere non potest nec magis quam civem Romanum: cuius portio eo casu, quo, si proprius esset, ad civitatem Romanam perveniret, socio adcrescit.

 

Tit. Ulp. 1.18 [20]

Communem servum unus ex dominis manumittendo partem suam amittit, eaque adcrescit socio, maxime si eo modo manumiserit, quo, si proprium haberet, civem Romanum facturus esset. Nam si inter amicos eum manumiserit, plerisque placet eum nihil egisse.

 

Fragm. Dosith. 10

Communis servus ab uno ex sociis manumissus, neque ad libertatem pervenit et alterius domini totus fit servus iure adcrescendi. Sed inter amicos servus ab uno ex sociis manumissus utriusque domini servus manebit: ius enim adcrescendi in hac manumissione non versatur. Quamvis Proculus existimaverit adcrescere eum socio ... qua sententia utimur.

 

Tale soluzione legata al ius adcrescendi viene comunque ripudiata da Giustiniano. La riforma imperiale nasce dalla volontà di rimediare alla palese ingiustizia della regola classica, dalla quale venivano penalizzati i padroni più umani a tutto vantaggio dei domini severiores, che invece si opponevano alla manumissione.

Con una costituzione del 1° agosto 530 Giustiniano stabilisce che la manumissione solitaria produca il pieno effetto che le è proprio, e quindi che il servus communis ottenga la libertà: in compenso i restanti comproprietari riceveranno il prezzo delle rispettive quote.

In questo modo si è cercato di conciliare gli opposti interessi in gioco, pur facendo prevalere il favor libertatis quanto al risultato di fondo.

Vediamone il testo, nella parte che più interessa.

 

C. 7.7.1.1b (1) (Imp. Iustinianus A. Iuliano pp.) (I. 2.7.4)[21]

His itaque apud veteres iuris auctores inventis decidentes tales altercationes generaliter sancimus, ut nulla inducatur differentia militis seu privati in servis communibus, sed in omnibus communibus famulis, sive inter vivos sive in ultima dispositione libertatem quis legitimam imponere communi servo voluerit, hoc faciat, necessitatem habente socio vendere partem suam, quantam in servo possidet, sive dimidiam sive tertiam sive quantamcumque, et si plures sint socii, uno ex his libertatem imponere cupiente alios omnes necessitatem habere partes suas, quas in servo possident, vendere ipsi, qui libertatem servo imponere desiderat, vel heredi eius (licet ipse communis servus institutus sit), si hoc moriturus dixerit, ita tamen, ut omnimodo ipse qui partes alias comparavit vel heredes eius libertatem imponant.

 

Intervenendo in una altercatio tra i veteres iuris auctores, la legge imperiale - una delle quinquaginta decisiones[22] - statuisce che lo schiavo manomesso anche da uno solo dei suoi domini acquisti la libertà; viene inoltre prescritto ai condomini non manomissori di vendere le proprie quote al manomissore (o al suo erede, in caso di manumissione mortis causa).

In ogni caso il ius patronatus sarebbe spettato solamente al manomissore o ai manomissori, mentre il peculio si sarebbe diviso tra i contitolari in ragione delle rispettive quote[23].

Un’altra, attestata, applicazione del diritto di accrescimento si riscontra talora in materia di acquisti del servus communis: di regola egli acquista ai singoli condomini pro portionibus dominicis, cioè secondo le quote di cui ciascuno di essi è titolare.

 

D. 45.3.5 (Ulp. 48 ad Sab.) Lenel, Ulp. 2952

... et ideo si quid stipulatur vel quaqua alia ratione adquirit omnibus adquirit pro parte, qua dominium in eo habent ...

 

Tale principio è talmente radicato che in un’altra fonte troviamo affermato che l'acquisto si verifica nei confronti di tutti i condomini in misura delle rispettive quote anche quando avviene ex re di uno solo di essi:

 

D. 10.3.24 pr. (Iul. 8 dig.) Lenel, Iul. 118

Communis servus si ex re alterius dominorum adquisierit, nihilo minus commune id erit ...

 

La regola generale trova due correttivi di diversa intensità: se vi è stato il iussus o (da parte del servo) la nominatio di uno solo dei condomini, l'acquisto si opera solo nei suoi confronti.

Se, invece, uno dei condomini è incapace di acquistare, per i Sabiniani l’acquisto si devolve ipso iure nella sua totalità a vantaggio dei contitolari capaci, mentre per i Proculiani l’acquisto da parte del contitolare idoneo resta entro i limiti della propria quota[24].

 

 

4. – D. 41.7.3 (Mod. 6 diff.): un’ulteriore applicazione?

 

La testimonianza maggiormente controversa in materia di accrescimento è legata a un frammento di Erennio Modestino tratto dai differentiarum libri:

 

D. 41.7.3 (Mod. 6 diff.) Lenel, Mod. 22 [25]

An pars pro derelicto haberi possit, quaeri solet. et quidem si in re communi socius partem suam reliquerit, eius esse desinit, ut hoc sit in parte, quod in toto: atquin totius rei dominus efficere non potest, ut partem retineat, partem pro derelicto habeat.

 

Non poca parte della dottrina ha messo in dubbio la genuinità di tale testo, che, nell’ambito tematico che qui interessa, può dirsi solitario[26]. Certo un po’ enigmatica suona a prima vista la frase ut hoc sit in parte, quod in toto, la quale non risulta tuttavia di interpretazione impossibile.

E’ altrettanto vero inoltre che, specie in un autore tardoclassico come Modestino, un linguaggio poco lineare non è affidabile indice di interpolazione.

Del passo si può proporre la seguente versione: “Si è soliti domandare se una parte si possa ritenere cosa abbandonata. Ed in effetti se in una cosa comune un socio abbia abbandonato la propria parte, questa cessa di essere sua, sì che avviene per la parte quel che avviene per l’intero: ma del resto il proprietario dell’intera cosa non può fare in modo di trattenere una parte e di renderne l’altra cosa abbandonata”.

In realtà, il nodo del problema sta nello stabilire quale fosse la sorte della pars derelicta: se, cioè, essa fosse oggetto di libera occupazione[27], o se si verificasse automaticamente il ius adcrescendi a favore degli altri condomini.

Diversi studiosi, non soltanto del passato, concordano nel ritenere che il testo nella sua veste originaria recasse il principio per cui la parte abbandonata dal comproprietario va ad accrescere proporzionalmente le quote degli altri, come nella manumissione solitaria, di cui già si è detto[28].

Rimane però il dato per cui il testo di Modestino parla sì della perdita, che costituisce quindi un dato sicuro, ma nulla dice a proposito di un eventuale accrescimento tra contitolari, punto che in tutta evidenza non interessava al giureconsulto del III secolo[29]. Se ora si pone attenzione al dato palingenetico, si può rilevare come il frammento sia escerpito, come si diceva, dai differentiarum libri di Erennio Modestino, il quale con tutta evidenza intendeva rimarcare la differenza di regime giuridico tra il proprietario solitario e il condomino in tema di derelictio: quest’ultimo può abbandonare la sua pars, mentre il primo non può operare un abbandono pro parte.

Qui tuttavia l’interesse del giurista si ferma: non c’era in effetti ragione di parlare in quella sede di eventuale accrescimento, trattandosi di dato ulteriore e inconferente rispetto alla differentia che si intende tracciare: così è comprensibile che egli si limiti ad ammettere la possibilità, per il condomino, di derelinquere la sua quota, la quale in tal modo cessa di appartenergli[30].

La frase ut hoc sit in parte, quod in toto indica solo, verosimilmente, che l’abbandono della pars equivale all’abbandono dell’intero se si ha riguardo alla perdita della titolarità da parte del derelinquens.

Al dominus solitario - e qui sta la differentia - non è invece concesso abbandonare una parte del diritto a lui solo spettante, perché non è ammissibile che egli trattenga una frazione dell’intero e ne abbandoni un’altra con l’effetto di renderla res derelicta.

Se si ritiene - ed è opinione abbastanza diffusa[31] - che il testo abbia subìto un taglio compilatorio circa la menzione dell’accrescimento, si dovrebbe concludere che in diritto giustinianeo si sia, introdotta - in modo invero alquanto surrettizio - la regola dell’occupatio della quota abbandonata contro un precedente ius adcrescendi relativo alla stessa (non va dimenticato in proposito che i commissari giustinianei inseriscono il testo di Modestino sotto il titolo [41.7] Pro derelicto), ma è soluzione che in definiva appare poco convincente[32].

In realtà il passo, ai fini dell’operatività del ius adcrescendi nel condominio legata all’eventuale derelictio di una pars, non dimostra propriamente nulla. Può invece, crediamo, far riflettere il dato per cui proprio per questa evenienza, che è da ritenersi come la più tipica sul piano teorico, non si trovi in tutto l’apparato testuale una sola fonte idonea ad attestare l’accrescimento.

 

 

5. – Parziale diversità di presupposti nella communio e nella coeredità: una possibile chiave euristica

 

Come si diceva, la maggior parte della dottrina ritiene che il ius adcrescendi fosse principio di operatività generale, volto a regolamentare i casi in cui un condomino per qualche motivo perdeva la propria quota (intesa come pars dominii)[33].

Ai fini di una valutazione del fenomeno in esame che tenti di uscire da una prospettiva in buona misura tralatizia, ci sembra opportuno tuttavia distinguere, su un piano che diremmo, al contempo, strutturale e funzionale, tra il ius adcrescendi nell’ambito della communio e, parallelamente, il ius adcrescendi nel settore del diritto ereditario.

Nella comproprietà, infatti, si ritiene che vi sia accrescimento allorché uno dei condomini rinunci alla propria quota, o comunque ottenga l’effetto di perderla senza trasmetterla ad altri.

Nella coeredità peraltro, ad avviso di chi scrive, la situazione appare alquanto diversa[34].

Presupposto oggettivo perché vi sia accrescimento è la vacanza di una quota ereditaria, il che si verifica nel caso in cui un successibile, o istituito per testamento o chiamato per legge, non possa (per premorienza o incapacità) o non voglia (per rinuncia) accettare[35].

Il presupposto soggettivo è ovviamente costituito dalla presenza di due o più chiamati all’eredità, uno o, rispettivamente, più dei quali possano e vogliano acquistare quanto loro destinato.

L’accrescimento ereditario opera ipso iure, prescindendo dalla volontà dei destinatari, nel senso che il delato che accetti la propria quota di spettanza acquista anche ex necesse ciò che gli deriva dall’accrescimento in proporzione alle quote originarie di ciascuno[36]; ha inoltre effetto retroattivo, vale a dire che l’erede è considerato fin dal momento della delazione titolare della portio effettivamente acquistata[37].

Sussiste quindi una differenza - che potrebbe rivelarsi non del tutto trascurabile - tra ius adcrescendi nella comunione dominicale e ius adcrescendi nel settore ereditario: nella seconda ipotesi, infatti, si parte dalla premessa di una vacanza di quota antecedente all’acquisto[38].

In proposito le fonti chiariscono che il diritto di ogni chiamato è rivolto virtualmente all’intero e incontra un limite alla propria espansione nel concorrente diritto altrui, come attesta D. 32.80 (Cels. 35 dig. [Lenel, Cels. 249]): Coniunctim heredes institui aut coniunctim legari hoc est: totam hereditatem et tota legata singulis data esse, partes autem concursu fieri.

“Istituire congiuntamente degli eredi o disporre legati congiuntamente consiste in ciò: che a ciascuno è stata data l’intera eredità e sono stati dati gli interi legati, ma è dal concorso che derivano le parti”. E’, dinamicamente, il concorso (quasi in senso etimologico) dei chiamati all’eredità o degli onorati di legato congiunto che determina le quote, sul presupposto - questo invece ‘statico’ - di un’eredità destinata virtualmente per intero a ciascun chiamato o di un lascito parimenti destinato in modo virtuale per intero a ciascun collegatario congiunto[39].

Dalle fonti che abbiamo considerato sopra in tema di pars quota - in particolare D. 13.6.5.15, di Ulpiano che cita Celso, e D. 50.16.25.1, di Paolo che riporta il pensiero di Quinto Mucio e di Servio Sulpicio -, in ambito di communio non emerge in alcun modo, neppure latente, una costruzione concettuale per cui tutti i condomini sarebbero proprietari dell’intera res ma è a causa della inevitabile compressione che si ritrovano ciascuno ad essere titolari di una sola pars della medesima. Si rimarca, invece, coerentemente, la categoria dogmatica della frazione ideale, destituita, almeno in tali testimonianze, di ogni valenza di carattere espansivo.

Ricorrere in proposito al carattere dell’elasticità del dominium, come avviene di frequente[40], sembra più il frutto di una sorta di operazione di indiscutibile simmetria argomentativa, resa tuttavia solo astrattamente logica, nel nostro tema, dalla carenza specifica - per non dire dal difforme tenore - dei riscontri testuali.

Ecco allora che proprio nell’ambito ereditario il fenomeno dell’accrescimento trova in certa misura la più coerente collocazione, di cui peraltro nelle fonti è dato rinvenire un non labile punto di partenza in chiave euristica. Dal momento che il diritto spetta per intero, potenzialmente, ad una pluralità di persone e che il limite per ciascuno è rappresentato dal mero fatto del concorso - come, per intenderci, se in uno spazio determinato dovessero entrare insieme due o più entità che hanno ciascuna sul piano teorico la stessa superficie dello spazio che deve accoglierle -, qualora prima dell’acquisto venga meno uno dei partecipanti, il diritto degli altri che ‘concorrono’ si espande automaticamente fino ad assorbire la quota rimasta vacante.

E’ pressoché superfluo rilevare che tale situazione nella successio ab intestato poteva verificarsi non all’interno della cerchia dei sui heredes, i quali, deceduto il pater familias, erano necessariamente ed automaticamente eredi[41]. Peraltro in mancanza di sui è chiamato l’adgnatus proximus e, nel caso che ve ne sia più di uno e qualcuno rinunci, la quota vacante si accresce agli altri chiamati che adiscono: sussistono infatti le già viste condizioni che stanno alla base dell’accrescimento, ossia pluralità di chiamati e vacanza della quota anteriore all’acquisto[42].

Anche nel campo degli acquisti del servo comune ci si trova in fondo di fronte a un diritto non ancora conseguito dai comproprietari e che gli stessi non conseguono ipso iure[43], e quindi a partes non ancora cristallizzate: siamo, cioè, in una situazione concettuale analoga rispetto a quella della successione ereditaria nella fase antecedente l’aditio. Ciò, peraltro, prescindendo dalla considerazione - tutt’altro che secondaria - che la scuola proculiana era contraria ad ammettere l’accrescimento.

Da questa breve disamina emerge un dato che può assumere un qualche rilievo, a cui del resto si accennava poc’anzi: stando all’apparato testuale complessivo, il ius acrescendi, anche a volerlo intendere quale ‘residuo’ della concezione della proprietà plurima integrale, più che nella comunione dominicale si verifica nella coeredità. Solo per quest’ultima ipotesi - giova ribadirlo - è comunque, e ampiamente, attestato[44].

E’ in questo senso sintomatico che - soprattutto con riferimento al caso già considerato degli acquisti del servo comune - uno studioso come Mario Bretone ritenga che il diritto di accrescimento non sia una caratteristica strutturale della communio, e in certo modo lo releghi ad oggetto di un contrasto di scuola tra Proculiani e Sabiniani[45].

In effetti tale dissensio riguardava, più che il ius adcrescendi in sé, la natura del rapporto di dominium su un oggetto particolare, ossia lo schiavo comune. Questo si trova ad essere al contempo sia persona sia res, con conseguente duplicità di angoli visuali circa il tipo di relazione con i domini: in un simile ambito il diritto proprietà si intreccia in modo non facilmente districabile con il rapporto potestativo e ne segna la peculiarità.

Ci sentiamo tuttavia di ribadire che, mentre da un lato non vi sono fonti da cui si possa ricavare il dato di un’applicazione generalizzata del ius adcrescendi nella comunione[46], sotto altro profilo, si può anche pensare che esso fosse operante nel caso di manumissio del servus communis a causa dell’inammissibilità giuridica della situazione che altrimenti si sarebbe venuta a creare in base ad una piana applicazione del principio della titolarità parziaria.

Così, poiché a seguito di una manumissione parziale, nessuno può risultare pro parte libero e pro parte schiavo, nel diritto classico si opta per l’accrescimento onde non ledere il dominium di coloro che non hanno preso parte all’atto, valorizzandosi in tal modo la valenza abdicativa di quest’ultimo. Il favor libertatis indirizza la legislazione giustinianea ad una scelta nella direzione opposta, privilegiandosi in tal modo la - necessariamente piena - affrancazione dello schiavo comune.

Si raggiunge così una curiosa identità di risultati rispetto a quanto avveniva nel consortium arcaico; ma è un alpha et omega solo apparente, perché connesso ad un percorso di logica e di politica giuridiche segnato da principi tra di loro assai diversi: nell’antica comproprietà familiare l’effetto liberatorio era la naturale e coerente conseguenza di quel regime giuridico; nel diritto giustinianeo la libertà che acquisisce lo schiavo comune è frutto di una precisa scelta legislativa, improntata ad un dichiarato ideale umanitario[47].

Dalle considerazioni finora allineate sulla base del quadro complessivo offerto dai testi in argomento, ci sembra che l’ultravalenza del consortium legata al ius adcrescendi possa ritenersi meno pacifica e meno incisiva rispetto a quanto in genere prospettato in dottrina, e, conseguentemente, che possa anche uscirne un poco ridimensionata la portata dell’accrescimento quale costante caratteristica ‘forte’ dei modelli di comproprietà presenti nell’esperienza giuridica romana.

 

 

Abstract

 

The purpose that aims this short article is to try to outline a supposition about the origin and the structure of the ius adcrescendi in Roman law: was it really present and operative in every case of co-ownership or its fields of application always remained the coinheritance? Starting from the analysis of the juridical sources (from Gai. 3.154a-154b, to D. 41.7.3  Mod. 6 diff.), we can suppose that this legal figure founded its origin in the most ancient form of co-ownership, the consortium ercto non cito, and its function was to preserve the composition of the familiar group, allowing the automatic allocation of the share remained vacant to the others coheirs/ co-owners. The impression I have had, studying this particular institute and its development during the ages is that when the consortium disappeared, the ius adcrescendi remained firmly present in the succession field, while is almost less secure its application in every situation of co-ownership: the only case certainly testified by the sources we have is the manumissio of a servus communis, maybe because there wasn’t another solution, since in Roman law the slaves were a particular object of the right of property.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

[1] Cfr. F. DE CILLIS, Del diritto di accrescere secondo la dottrina romana nel Codice Civile Italiano, in Arch. Giur., XXIII, 1879, 110 ss.; C.F. GLÜCK, Commentario alle Pandette (trad. Bonfante), XXIX, Milano 1907, 584 ss.; P. BONFANTE, Il regime positivo e le costruzioni teoriche del condominio, in Scritti giuridici varii, III, Torino 1921, 454-484; IDEM, Il ius adcrescendi nel condominio, ibidem, 434-453; IDEM, Il ius prohibendi nel condominio, ibidem, 382-433; G. SEGRÉ, La comproprietà e la comunione degli altri diritti reali, Torino 1931, 66 ss.; V. ARANGIO-RUIZ, ‘Societas re contracta’ e ‘communio incidens’, in St. S. Riccobono, IV, Palermo 1936, 357 ss.; G. ERMINI, Note sul diritto di accrescimento ereditario secondo la Glossa di Accursio, in St. E. Besta, I, Milano 1937, 378 ss.; S. SOLAZZI, In causa caduci, in SDHI, 6, 1940, 165 ss.; R. VACCARO DELOGU, L’accrescimento nel diritto ereditario romano, Milano 1941, 3 ss.; V. ARANGIO-RUIZ, La società in diritto romano, Napoli 1950 (rist. an. 1988), 3 ss.; U. ROBBE, Il diritto di accrescimento e la sostituzione volgare nel diritto ereditario romano, Milano 1953, 14 ss.; B. BIONDI, Diritto ereditario romano (parte generale), Milano 1954, 419 ss.; M. KASER, Das römische Privatrecht, I, München 1955, 607; M. BRETONE, ‘Servus Communis’. Contributo alla storia della comproprietà in età classica, Napoli 1958, 4 ss.; G. PUGLIESE, Voce Accrescimento, in ED, I, Varese 1958, 313 ss.; F. BONA, Società generale universale e società questuaria in diritto romano, in SDHI, 33, 1967, 366 ss.(ora in Lectio sua. Studi editi ed inediti di diritto romano, I, Padova 2003, 295 ss.); A. TORRENT, Notas sobre la relación entra Communio y Copropiedad, in Studi G. Grosso, II, Torino 1968, 99 ss.; R. ZIMMERMANN, Coniunctio iuris tantum, in ZSS, 101, 1984, 237 ss.; M. PEREZ SIMEON, Nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest, Barcellona 2001, 17 (nt. 11) e 48 (nt. 83); C. ORTÍN GARCIA, El derecho de acrecer entra coherederos, Malaga 2002, 18; S. LOHSSE, Ius adcrescendi. Die Anwachsung im römische Vermächtnisrecht, Köln 2008, 237 ss.; J.B.F. VIZCAINO, El ius adcrescendi en la sucesión ab intestato romana, Alicante 2010, collana Tesis Doctorales, http:hdl.handle.net/10045/1842, 106 ss.

 

[2] La voce è citata nella nt. precedente. A livello terminologico, nelle fonti a noi note non viene impiegato il sostantivo “accrescimento”, bensì è presente il verbo adcrescere, sovente impiegato per descrivere alcune tipologie di incrementi fluviali come l’alluvione e l’isola nata nel fiume; la sorte della quota resa vacante dalla manumissio solitaria di un servus communis effettuata da uno dei condomini; la sorte di una quota di coeredità resa vacante dall’incapacità o dal rifiuto di accettare di uno dei chiamati; idem in caso di legato per vindicationem o per praeceptionem; il ricongiungimento dell’usufrutto con la nuda proprietà, ad estinzione avvenuta del diritto parziario; la chiamata all’eredità per le figlie e/o i nipoti pretermessi dal testatore. A tale proposito, vedi G. PUGLIESE, op. cit., 313.

D’altro canto, invece, la locuzione ius adcrescendi si riscontra essenzialmente nei casi di ambito ereditario (sia in senso soggettivo, ad indicare il diritto del coerede/collegatario alla quota vacante; sia in senso oggettivo, ad indicare il principio e le regole operanti nell’ambito dell’accrescimento) e ciò ha probabilmente contribuito a originare il lungo travaglio della dottrina tra un tentativo di ricostruzione unitaria dell’istituto ed una spiegazione diversificata delle singole ipotesi in cui lo si riscontra, quasi ci si trovasse di volta in volta di fronte ad un fenomeno giuridico specifico e distinto.

 

[3] Non di rado infatti nella manualistica la trattazione del consortium ha sede, sia pure con diversa estensione, in tutti i capitoli summenzionati: cfr. ad esempio G. FRANCIOSI, Corso istituzionale di diritto romano, 3ª ed., Torino 2000, 111 ss.; 215; 219; 227 s.

 

[4] La letteratura cui ha dato origine la scoperta del c.d. Gaio Antinoese è vastissima; si vedano pertanto gli esaurienti restatement dottrinali di L. MONACO, Hereditas e mulieres. Riflessioni in tema di capacità successoria in Roma antica, Napoli 2000, 32 nt. 5 e di G. ARICò ANSELMO, “Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, in (AUPA, 46, 2000, 77 ss. =) Iuris vincula. Studi M. Talamanca, I, Napoli 2001, 151 nt. 2. Sul tema, adde M. BRETONE, “Consortium” e “communio”, in Labeo, 6, 1960, 165 ss.; G. FRANCIOSI, La famiglia romana. Società e diritto, Torino 2003, 21 ss.; M. SALAZAR REVUELTA, Análisis de la copropiedad romana a través de las acciones divisorias, in AA.VV., Modelli teorici e terminologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali, Napoli 2003, 310 nt. 11; EADEM, La cohesion familiar a través del consortium inter fratres y su posible pervivencia histórica, in Actas del XI Congreso IberoAmericano, Huelva 2003, 683 ss.; EADEM, Evolución histórico-juridica del condominio en el derecho romano, Jaén 2003, 38 ss.; M. EVANGELISTI, Consortium, erctum citum: etimi antichi e riflessioni sulla comproprietà arcaica, in Diritto @ Storia, 6, (on-line dal 20/02/2008)-Tradizione Romana < http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Evangelisti-Consortium-erctum-citum-compropriet-arcaica.htm >.

In prospettiva di una nuova ricostruzione del testo delle Istituzioni di Gaio, si veda F. BRIGUGLIO, Gaius. Ricerche e nuove letture del Codice Veronese delle Institutiones, Bologna 2008.

 

[5] L’elemento chiave della fraternitas è, a ragione, considerato dalla dottrina quale simbolo del rapporto storico-giuridico tra consortium e societas omnium bonorum (significativo in tal senso D. 17.2.63 (Ulp. 31 ad ed. [Lenel, Ulp. 323], ove si menziona il ius quodammodo fraternitatis come elemento caratterizzante il rapporto tra i socii).

Su tale aspetto, cfr. E. BETTI, Istituzioni di diritto romano, I, 2ª ed., Padova 1942, 426 ss.; P. FREZZA, Actio communi dividundo, in (RISG, 7, 1932, 3 ss. =) Scritti [cur. F. Amarelli-E. Germino], I, Roma 2000, 134 ss.; IDEM, Il ‘consortium ercto non cito’ ed i nuovi frammenti di Gaio, in (RFIC, 62, 1934, 37 ss. =) Scritti, cit., I, 255 ss.; IDEM, Consortium, in (NNDI, IV, Torino 1959, 246 ss. =) Scritti, cit., II, 269. Per una ricostruzione della diatriba sulla natura del consortium, cfr. E. ALBERTARIO, I nuovi frammenti di Gaio (PSI XI. 1182), in Per il XIV centenario della codificazione giustinianea, Pavia 1934, 515 ss. e, contra V. ARANGIO-RUIZ, ‘Societas re contracta’ e ‘communio incidens’, in Studi S. Riccobono, IV, Palermo 1936, 357 ss. (replica di P. FREZZA in [SDHI, 1, 1935, 188 ss. =] Scritti, cit., I, 355 ss.); IDEM, La società, cit., 32 ss. Per una visuale prospettica più ampia sui rapporti tra consortium e societas, cfr. M. BRETONE, op. cit., 14 ss.; M. BIANCHINI, Studi sulla societas, Milano 1967; F. BONA, op. cit., 295 ss.; F. CANCELLI, Società (diritto romano), in NNDI, XVII, Torino 1970, 495 ss.; M.R. CIMMA, Ricerche sulla società di pubblicani, Milano 1981; A. GUARINO, La società in diritto romano, Napoli 1982 (rist. an. 1988); M. TALAMANCA, Voce Società, in ED, 42, Milano 1990, 817 ss.; G. SANTUCCI, Il socio d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità, Padova 1997, passim; J. PARICIO, El contrado de sociedad en derecho romano, in De la Justicia y el Derecho. Escritos misceláneos romanísticos, Madrid 2002, 480 ss.; C. CASCIONE, Consensus. Problemi di origine, tutela processuale, prospettive sistematiche, Napoli 2003, 399 ss.; P.P. ONIDA, Tensioni non risolte nel nuovo diritto societario: una lettura romanistica, in Diritto@Storia, 3, 2004 –Tradizione Romana; M. PENTA, Il diritto societario nel diritto romano e nel diritto intermedio, in Riv. on-line della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, 1.10, ottobre 2004 (www.rivista.ssef.it); M. SCOGNAMIGLIO, L’economia di scambio nell’antica Roma, in Riv. on-line della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, 12, dicembre 2004; P.P. ONIDA, La causa della societas tra diritto romano e diritto europeo, in Diritto@Storia, 5, 2006-Memorie; M. EVANGELISTI, Sull’origine policentrica della societas consensu contracta, in Liber amicorum per M. Bione, Milano 2011, 193 ss.

 

[6] Vedi P. BONFANTE, Corso di diritto romano, II. 2 La proprietà, Roma, 1928, 14.

 

[7] R. AMBROSINO, ‘Usus fructus’ e ‘communio’, in SDHI, 1950, 16, 191 ss., ritiene possibile che, originariamente, vi fosse un’analogia di struttura tra usufrutto e comunione, tale per cui l’usufruttuario ed il proprietario si sarebbero trovati in una posizione paritetica di godimento comune della cosa. A tale tesi sono state tuttavia mosse critiche puntuali: cfr. M. BRETONE, La nozione romana di usufrutto, Napoli 1962, 11 nt. 43; G. PUGLIESE, Usufrutto, uso e abitazione, in Tratt. dir. civ. it., IV2, Torino 1972, 26, ntt. 13-14. Per un’interessante quanto esauriente ricostruzione critica della lunga diatriba in merito alla tormentata materia del condominio, adde C. CASCIONE, Consenso, ‘mezzo consenso’, dissenso. Una disputa romanistica di primo Novecento su collegialità e condominio, in AA.VV., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali, Napoli 2003, 39 ss.

 

[8] Nel prosieguo del passo, che in questa sede non interessa, Ulpiano esprime circa l’usus un parere difforme rispetto a quello di Celso.

 

[9] Cfr. C.A. CANNATA, Corso di Istituzioni di diritto romano, I, Torino 2001, 534 (ivi “D. 1.6.5.15” va corretto in “D. 13.6.5.15”).

 

[10] Cfr. di recente C.A. CANNATA, op. cit., 535. Si vedano anche: E. VOLTERRA, Istituzioni di diritto privato romano, Roma s.d. (1961), 307 nt. 1; M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 410; A. GUARINO, Diritto privato romano, 11ª ed., Napoli 1997, 552.

 

[11] Sui punti di dissenso tra Quinto Mucio e Servio Sulpicio cfr. V. SCARANO USSANI, Tra ‘scientia’ e ‘ars’, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Atti Seminario S. Marino (cur. D. Mantovani), Torino 1996, 247.

 

[12] Così, ad esempio, V. ARANGIO-RUIZ, La società, cit., 15.

 

[13]Traditam’ va forse sostituito con ‘mancipio’: cfr. Gai. 3.167 (e la nota seguente).

 

[14] Quae tamen partes magis intellectu, quam sensu percipi possunt, spiegherà secoli dopo la Glossa (casus a. h. l., ed. Lione 1551, 468). Quanto alle deroghe rispetto al canone generale legate a stipulatio e acquisto del servo con nomina espressa di uno dei domini, nonché, analogamente, al iussus di un solo padrone - che non interessano in questa sede - cfr. anche Gai. 3.167-167a, ove peraltro si riferisce della disputa tra Sabiniani e Proculiani circa l’effetto prodotto dall’ordine di un solo padrone. I primi ritenevano che il comando individuale producesse lo stesso effetto della nominatio, gli altri erano invece del parere che il iussus fosse del tutto privo di effetti e che l’acquisto andasse a vantaggio di tutti i proprietari pro quota. Il frammento ulpianeo in D. 45.3.5 pr., nonché I. 3.17.3 e 3.28.3, risentono della decisio giustinianea di cui a C. 4.27.2(3), del 530, che accoglie la soluzione sabiniana, e di cui del resto il secondo passo istituzionale dà specificamente conto. Con riferimento alla citata costituzione del 530, C. RUSSO RUGGERI, Studi sulle ‘Quinquaginta decisiones’, Milano 1999, 25 ss., ritiene che il suo testo originariamente contenesse il riferimento alla decisio che ne consente l’identificazione (tale termine compare invece solo in I. 3.28.3), ma che esso si sia perduto in seguito ad una manipolazione o ad uno smembramento del testo della legge. Cfr. anche M. VARVARO, Contributo allo studio delle ‘Quinquaginta decisiones’, in AUPA, 46, 2000, 432 e nt. 164.

 

[15] In tale senso vedi anche, di recente, S. LOHSSE, op. cit., 143.

 

[16] Per tutti: G. GROSSO, Le servitù prediali nel diritto romano, Torino 1969, 151 ss.

 

[17] In G. SCHERILLO-F. GNOLI, Diritto romano. Lezioni istituzionali, Milano 2003, 378, si parla in proposito di “esempio classico” di ius adcrescendi nella communio. Tuttavia, da altro angolo visuale – e, ripetiamo, sulla base dei testi -, potrebbe anche parlarsi di esempio … unico.

 

[18] Cfr. P. BONFANTE, Il ‘ius adcrescendi’ nel condominio, cit. (supra nt. 1), 434 ss. Ampia trattazione anche in E. VOLTERRA, op. cit., 311 ss.

 

[19] Per un esame complessivo della tematica relativa all’affrancazione del servo comune cfr. C.A. MASCHI, Sull’origine del regime giustinianeo della ‘manumissio’ del servo comune, in Studi Albertoni, II, Padova 1937, 421 ss.

 

[20] Sulla fonte cfr. M. BALESTRI FUMAGALLI, Lex Iunia de manumissionibus, Milano 1985, 166 s. Le Istituzioni imperiali (2.7.4) parlando del problema in chiave storica, recitano: si communem servum habens aliquis cum Titio solus libertatem ei imposuit vel vindicta vel testamento, eo casu pars eius amittebatur et socio adcrescebat. Come si può notare si accenna anche qui solo alle affrancazioni valide per il ius civile.

 

[21] E’ interessante notare che il passo istituzionale definisce questa forma di acquisto che ora si abolisce come un alius modus civilis adquisitionis per ius adcrescendi e ne tratta nel titolo De donationibus.

 

[22] Cfr. C. RUSSO RUGGERI, Studi sulle ‘Quinquaginta decisiones’, cit., 30 s.; M. VARVARO, Contributo allo studio delle ‘Quinquaginta decisiones’, cit., 436.

 

[23] Cfr. G. LUCHETTI, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1996, 182. Ivi anche ampia trattazione della riforma giustinianea nel suo complesso.

 

[24] In altri termini, nel caso di acquisti del servus communis, l’accrescimento è oggetto di un articolato dibattito di scuola. Cfr. D. 31.20 (Cels. 19 dig. [Lenel, Cels. 158]): Et Proculo placebat et a patre sic accepi, quod servo communi legatum sit, si alter dominorum omitteret, alteri non adcrescere: non enim coniunctim, sed partes legatas: nam ambo si vindicarent, eam quemque legati partem habiturum, quam in servo haberet; D. 35.2.49 pr. (Paul. 12 ad Plaut. [Lenel, Paul. 1188]): (…) communi autem servo cum legatum sit, totum pertinere ad socium, quia in eam personam legatum consistere possit: (…); D. 30.81.1 (Iul. 32 dig. [Lenel, Iul. 457]): Si servo communi res legata fuisset, potest alter dominus agnoscere legatum, alter repellere: nam in hanc causam servus communis quasi duo servi sunt; D. 33.5.11 (Iul. 36 dig. [Lenel, Iul. 524): Si Eros Seio legatus sit et Eroti fundus, deinde optio servi Mevio data fuerit isque Erotem optaverit, fundus ad solum Seium pertinebit, quoniam aditae hereditatis tempore is solus erit, ad quem posset legatum pertinere. Nam et cum servo communi alter ex sociis legat, idcirco ad solum socium totum legatum pertinet, quoniam die legati cedente solus est, qui per eum servum possit adquirere. In argomento si veda ampiamente M. BRETONE, Servus communis, cit., in particolare 22 ss.

 

[25] Il Lenel, loc. cit., colloca il frammento sotto la rubrica congetturale De toto et parte.

 

[26] Cfr. Index Interpolationum, III, Weimar 1935, ad h. l. (214).

 

[27] Almeno in età giustinianea la res derelicta appare, senza eccezioni, oggetto di occupazione: I. 2.1.47. Cfr. anche M. TALAMANCA, Istituzioni, cit., 416; A. BURDESE, Diritto privato romano, 4ª ed., Padova 1993, 347 s.; G. NICOSIA, Nuovi profili istituzionali essenziali di diritto romano, 4ª ed., Catania 2005, 168 e nt. 115; R. LAMBERTINI, in D. DALLA-R. LAMBERTINI, Istituzioni di diritto romano, 3ª ed., Torino 2006, 248. Secondo L. SOLIDORO MARUOTTI, Studi sull’abbandono degli immobili nel diritto romano. Storici giuristi imperatori, Napoli 1989, 222 ss., il testo istituzionale citato riguarda solo le cose mobili.

 

[28] Cfr.: S. RICCOBONO, Dalla ‘communio’ del diritto quiritario alla comproprietà moderna, in Essays in Legal History, Oxford 1913, 53 s., che ritiene di completare il passo con la frase seguente: verius est partem pro derelicto haberi non posse, nam socius communis, si alter partem suam reliquerit, totius rei solus dominus efficitur; P. BONFANTE, Il ‘ius adcrescendi’ nel condominio, in Scritti giuridici varii, III, 446, che lo integra invece con questa chiusa, pure congetturale: si in re communi socius partem suam reliquerit, eius esse desinit, eaque adcrescit socio; J.J. MEYER-COLLINGS, Derelictio. Die Dereliktion im römischen Recht bis zu Corpus Iuris Civilis, Erlangen 1932, che analogamente inserisce et socio adcrescit, o altra chiusa analoga; V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di diritto romano, 14ª ed., Napoli 1960, 231 nt. 2, il quale, seguendo il Bonfante, ritiene «che le parole insignificanti “ut hoc sit in parte quod in toto” siano state sostituite dai compilatori alla frase “et socio adcrescit” o ad altra simile». Per la totale genuinità del testo cfr. invece S. ROMANO, Studi sulla derelizione nel diritto romano, Padova 1933, 52 ss., che tuttavia esclude che dal testo si possa ricavare la possibilità di derelictio della pars sia ad opera del dominus solitario sia ad opera del condomino, il quale può solo relinquere la sua quota, ossia con un atto unilaterale di disposizione (appunto relinquere, che non vale affatto derelinquere) rinunciare ad essa; M. BRETONE, Servus communis, cit., 182 ss., secondo il quale la differentia di Modestino nulla dice, né a favore né contro, circa l’operatività del ius adcrescendi in caso di derelictio della quota; L. SOLIDORO MARUOTTI, op. cit., 217, che non prende posizione circa la genuinità totale o parziale del testo, ma ritiene operante l’accrescimento.

 

[29] Mi sembra che S. ROMANO, Studi sulla derelizione, cit., pur nel contesto di una teoria di fondo non del tutto convincente, sia, tutto sommato, da seguire su due punti: a) (54) «se si ammette l’operatività per Modestino del ius adcrescendi, viene a mancare uno degli effetti comuni della “derelictio”, che, qualunque essi siano, non implicano certo l’accrescimento medesimo»; b) (57) «se è vero che il punto di cui si occupava Modestino era quello concernente la questione se l’unico domino di una cosa potesse derelinquerla in parte, è da dubitare che la sede più propria per parlare del diritto di accrescimento del condomino fosse proprio questa».

 

[30] Cfr. la nota precedente.

 

[31] Cfr. supra nt. 28.

 

[32] G. SEGRÈ, La comproprietà e la comunione degli altri diritti reali, Torino 1931, 74 ss., riconosce che D. 41.7.3 depone in senso contrario riguardo all’operatività del ius adcrescendi nella comproprietà. Egli ricollega tale risultato ad interventi giustinianei, ma, ciò nonostante, conclude che da parte dei giuristi classici l’accrescimento non era considerato una necessità logica, e che doveva essere oggetto di dissensiones. Cfr. anche G. GROSSO, Rec. a G. Segrè, La comproprietà, cit., in (AG, 107, 1932, 112 ss. =) Scritti storico giuridici, IV. Recensioni e ricordi, Torino 2001, 22.

 

[33] P. BONFANTE, Il ‘ius adcrescendi’, cit., 434 ss.; U. ROBBE, Il diritto d’accrescimento e la sostituzione volgare nel diritto romano classico, Milano 1953, 124 ss. Nell’ambito di una moderna manualistica che nel caso della derelictio di una pars considera certa l’operatività dell’accrescimento, è sintomatica la posizione di P. VOCI, Istituzioni di diritto romano, 4ª ed., Milano 1994, 300, che scrive: «La quota che uno derelinque è acquistata dagli altri» e ivi, alla nt. 9, aggiunge: «La norma non è enunciata: ma non poteva essere diversa». Un poco più sfumata, se abbiamo ben colto, l’impostazione di A. GUARINO, Diritto privato romano, cit., 554; mentre una chiara perplessità si avvertiva in S. PEROZZI, Istituzioni di diritto romano, I2, Roma 1928 (rist. Roma 2002), 751: «Un socio può derelinquere la sua quota, perché è una cosa. Si sostiene che in questo caso la quota accresca ai soci; ed è probabile, ma mancano le fonti».

 

[34] P. VOCI, Diritto ereditario, I2, Milano 1960, 690, così definisce in generale l’accrescimento nel campo ereditario: «in una nozione complessiva, l’accrescimento può essere definito come il fatto che, per una serie varia di cause, aumenta la quantità della delazione effettiva di fronte a quelle che erano le prospettive originarie». L’accrescimento opera anche tra collegatari, in caso di legati ad effetti reali.

 

[35] La stessa situazione si verificava nel caso in cui il testatore avesse omesso di assegnare una quota, data l’inammissibilità del concorso di delazione testamentaria e delazione ab intestato.

 

[36] Cfr., ad esempio, D. 29.2.53.1 (Gai. 14 ad legem Iuliam et Papiam) Lenel, Gai. 473: Qui semel aliqua ex parte heres exstitit, deficentium partes etiam invitus excipit, id est tacite ei deficientium partes etiam invito adcrescunt. Va detto che, nella successione testamentaria, all’accrescimento si derogava nel caso in cui il testatore avesse provveduto alla nomina di un sostituto che subentrasse al posto del coerede istituito; nell’eredità intestata la successio in locum prevaleva sull’accrescimento; particolari regole aveva poi introdotto la legislazione caducaria. Cfr. P. VOCI, Diritto ereditario, cit., I2, 691 ss. 

 

[37] Cfr. B. BIONDI, Diritto ereditario romano, cit., Milano 1954, 413 ss.; P. VOCI, Diritto ereditario, cit., 692. 

 

[38] P. BONFANTE, Il ‘ius adcrescendi’, cit., 435 ss., distingue tra un accrescimento generale e tipico, operante nell’ambito della comunione e dell’eredità, ed un accrescimento speciale, il cui ambito applicativo si limiterebbe alla chiamata congiuntiva all’eredità o al legato; U. ROBBE, op. cit., 77 ss. sostiene invece che l’accrescimento si verifichi riguardo a situazioni di natura reale e condivida la natura dell’accessione, scorgendo all’interno di tale istituto uno stretto collegamento non solo con l’elasticità del dominio bensì anche con la valenza assorbente del medesimo; G. PUGLIESE, Accrescimento, cit., 313 ss., riassumendo in sintesi le diverse posizioni degli studiosi su questo tema, sceglie di aderire alla concezione unitaria dell’accrescimento, che consiste nel considerare tale fenomeno dipendente dal carattere virtualmente integrale del diritto di proprietà di ciascun compartecipe: questa idoneità a reintegrarsi sarebbe un’ineffabile caratteristica del condominio e troverebbe ragione storica nella struttura dell’antico consortium familiare. Nella comunione di diritto classico il diritto del singolo viene ridotto ad una quota che però, virtualmente, si estende a tutta la cosa comune: virtualità che diventa realtà tangibile nel momento in cui la diminuzione o scomparsa dei limiti rappresentati dal concorso con i pari diritti altrui consentono l’espandersi all’interno del diritto del singolo. Resta tuttavia, a mio parere, da valutare il dato per cui nelle fonti il concreto operare del diritto d’accrescimento nella communio si mostra, in fondo, così sporadico: volendo poi andare oltre, esso risulta territorio d’elezione del ius controversum anche nei rarissimi casi in cui appare attestato (manumissione del servo comune e - se lo si concede - acquisti da lui compiuti). Per il ius prohibendi, legato agli atti di disposizione materiale della cosa e garanzia preventiva di un ordinato svolgersi dei rapporti tra condomini, il passaggio storico-concettuale dall’antica comunione fraterna a quella più evoluta sembra presentare minori zone d’ombra rispetto a quanto non si possa dire per l’accrescimento, che pure al primo viene sovente associato.

 

[39] Cfr. P. VOCI, Diritto ereditario, cit., 701: «a ciascuno è assegnato l’intero; ma poiché ciascuno non può conseguire l’intero, il concorso dei coniuncti produce la ripartizione tra essi. Ciò significa che il conseguimento dell’intero sarebbe, in sé, il risultato normale della coniunctio: solo il concorso apporta limitazioni; sicché il mancato acquisto tende a riportare la situazione al suo stato normale».

 

[40] Cfr., ad esempio, G. SCHERILLO-F. GNOLI, op. loc. cit.

 

[41] Per gli heredes sui che operino l’abstentio l’accrescimento avviene solo iure praetorio: P. VOCI, Diritto ereditario, I2, cit., 583. L’accrescimento è ammesso, tra i sui, nel caso del postumo, qualora concorra con i sui già esistenti: in caso di mancata nascita del postumo, o di nascita in numero minore di quello atteso, le quote originariamente riservate si accrescono agli altri.

 

[42] Tit. Ulp. 26.5 (prima parte).

 

[43] Si veda D. 30.81.1 (Iul. 32 dig.), citato supra a nt. 24.

 

[44] Se si volge lo sguardo all’ordinamento attuale, si può osservare che l’accrescimento trova posto in ambito successorio e non in quello della comunione (art. 674 c.c.). Sul punto, vedi infra nt. 48.

 

[45] M. BRETONE, Servus communis, cit., 7 ss.

 

[46] Lascia un po’ perplessi l’affermazione di S. DI MARZO, Istituzioni di diritto romano, 5ª ed., Milano 1946 (rist. 1968), 220, secondo il quale, con riferimento all’esaminato frammento di Modestino in D. 41.7.3, il diritto di accrescimento «è attestato dalle fonti per il caso di abbandono della sua parte, fatto da uno dei condomini». La nt. 1, che dovrebbe essere esplicativa di tale assunto, in realtà finisce quasi con il contraddirlo.

 

[47] Così U. ROBBE, Il diritto d’accrescimento e la sostituzione volgare nel diritto romano classico, Milano 1953, 100 ss.