ds_gen N. 6 – 2007 – Tradizione Romana

 

evangelisti-piccola.jpgMarina Evangelisti

Università di Modena e Reggio Emilia

 

Consortium, erctum citum: etimi antichi e riflessioni sulla comproprietà arcaica

 

 

 

SOMMARIO: 1. Accezioni e etimologie di consortium e erctum citum nelle fonti antiche. – 2. Riflessioni in particolare circa il problema della divisibilità-indivisibilità del consortium.

 

 

1. – Accezioni e etimologie di consortium e erctum citum nelle fonti antiche

 

Quello relativo al c.d. consortium ercto non cito è certo uno dei temi più affascinanti relativi al diritto privato romano dell’età arcaica, e, come è pure ampiamente risaputo, il ritrovamento nel 1933 dei frammenti pergamenacei di Antinoe, che hanno integrato la lacuna del Palinsesto Veronese delle Istituzioni di Gaio[1], hanno dato origine ad un lungo ed appassionante dibattito circa la natura e i caratteri di questa risalentissima figura giuridica[2].

Benché il sintagma consortium ercto non cito sia di uso frequente nella dottrina romanistica – e tanto più nelle trattazioni istituzionali[3] –, esso in realtà, in questa precisa veste comprensiva di tre vocaboli, non compare nel restituito dettato gaiano, né, ovviamente, in alcun’altra fonte giuridica. Figura invece in un celebre passo di Aulo Gellio, il quale resta tuttora il più forte argomento testuale che viene addotto da quanti in dottrina sostengono l'inseparabilità del vincolo consortile[4].

 

Gellio, Noctes Atticae 1.9.12: Sed id quoque non praetereundum est, quod omnes simul atque a Pythagora in cohortem illam disciplinarum recepti erant, quod quisque familiae pecuniae habebat, in medium dabat, et coibatur societas inseparabilis, tamquam illud fuit anticum consortium quod iure atque verbo Romano appellabatur ercto non cito.

 

Anziché di consortium, Gaio parla invece di (legitima simul et naturalis) societas, connotandola peraltro, allo stesso modo di Gellio, con il carattere legato all’ercto non cito.

 

Gai. 3.154,154a,154b[5]: (154) Sed ea quidem societas, de qua loquimur, id est quae nudo consensu contrahitur, iuris gentium est; itaque inter omnes homines naturali ratione consistit. (154a) Est autem aliud genus societatis proprium ciuium Romanorum. Olim enim, mortuo patre familias, inter suos heredes quaedam erat legitima simul et naturalis societas, quae appellabatur ercto non cito, id est dominio non diuiso; erctum enim dominium est, unde erus dominus dicitur; ciere autem diuidere est, unde caedere et secare dicimus. (154b.) Alii quoque qui uolebant eandem habere societatem, poterant id consequi apud praetorem certa[6] legis actione. In hac autem societate fratrum ceterorumue qui ad exemplum fratrum suorum societatem coierint, illud proprium erat, quod uel unus ex sociis communem seruum manumittendo liberum faciebat et omnibus libertum adquirebat. Item unus rem communem mancipando <eius faciebat qui mancipio accipiebat> ...

 

Nel brano delle Istituzioni sopra riportato emergono due tipologie che, pur accomunate dal giurista per alcuni elementi, presentano tuttavia sostanziali difformità: la societas fratrum suorum[7] e la societas ceterorum qui ad exemplum fratrum suorum societatem coierint.

Gli elementi di affinità tra le indicate sottospecie sono essenzialmente due, uno di natura terminologica, l’altro di natura sostanziale: entrambe vengono da Gaio definite societas e ambedue, in quanto aliud genus societatis, vengono contrapposte alla societas iuris gentium quae nudo consensu contrahitur[8].

Diversamente rispetto ad Aulo Gellio, l’istituzionista si addentra qui tra l’altro nel terreno delle etimologie, in un tentativo di marca filologica visto peraltro - come in genere avviene quando i giuristi romani compiono queste sortite – in chiave funzionale all’esposizione tecnica che sta conducendo.

Questo, precisamente, l’etimo che Gaio attribuisce all’espressione ercto non cito con cui qualifica la legitima quaedam et naturalis societas: ercto non cito, id est dominio non diviso («cioè da proprietà non divisa»).

La derivazione filologica proposta dal giurista desta, come è noto, profonde perplessità ed è considerata oggi inattendibile dalla dottrina maggioritaria[9], e ciò nonostante tale radice filologica appaia confermata da un testo di Servio, ad Aeneida 8.642[10]:

 

Donatus hoc loco contra metrum sentit dicens: “citae”, divisae, ut est in iure “ercto non cito”, id est patrimonio vel hereditate non divisa; nam “citus”, cum divisus significat, ci longa est. Ergo “citae” veloces intellegamus.

 

Il grammatico scoliaste di Virgilio sottolinea qui il diverso significato del vocabolo citus, con la i lunga[11], che vale ‘diviso’, rispetto al citus, con la i breve, che equivale a ‘veloce’, ed è ovviamente il primo che interessa in questa sede.

Tuttavia è lo stesso Gaio ad apportare, in un altro luogo delle Institutiones, un dato che si pone in contraddizione abbastanza evidente rispetto a quanto prospetterà sul nostro tema - in tema cioè di ercto non cito – nel successivo commentario del suo manuale.

 

Gai. 2.219: Item nostri praeceptores quod ita legatum est nulla alia ratione putant posse consequi eum cui ita fuerit legatum quam iudicio familiae erciscundae, quod inter heredes de hereditate erciscunda, id est dividunda, accipi solet.

 

L’istituzionista si sta occupando del legatum per praeceptionem, che, stando ai Sabiniani, può essere disposto esclusivamente a favore di un coerede, il quale può ottenerne l’oggetto esperendo l’actio familiae erciscundae[12]. Qui pure peraltro quanto rileva ai nostri fini è l’assimilazione di ercisci a dividere, sulla quale espressamente cade la sottolineatura gaiana nell’inciso.

Ma se ercisci vale dividere, difficilmente erctum appare ricollegabile ad erus, come poi vorrebbe Gaio (3.154a: unde erus dominus dicitur), e non piuttosto al già citato ercisci (de hereditate erciscunda, id est dividunda)[13].

Anche una testimonianza del grammatico Pompeo Festo ricollega l’espressione erctum citum al consortium del diritto romano arcaico.

 

Festo (Paolo Diacono) (Lindsay 72): ‘Erctum citumque’ fit inter consortes[14], ut in libris legum Romanorum legitur. Erctum a coercendo dictum. Unde et erciscendae et ercisci. Citum autem est vocatum a ciendo.

 

Ed è rilevante che lo stesso grammatico in un altro luogo del lessico ci dia inercta per ‘indivisa’ (Lindsay 97)[15].

A favore di ercisci nel senso di dividere, depone anche un passo di Cicerone (De oratore 1.56.237: nec, si parvi navigi et magni eadem est in gubernando scientia, idcirco qui, quibus verbis erctum cieri oporteat, nesciat, idem erciscundae familiae causam agere non possit), nel quale l'oratore, in un discorso dalle venature polemiche verso l’arrogante ignoranza di certi avvocati, collega senza esitazione l'espressione erctum cieri al giudizio di divisione ereditaria, cioè la causa familiae erciscundae.

Fino qui, soprattutto, per quanto concerne l’accezione del vocabolo erctum.

Ora, spostando un poco l’angolo visuale, nemmeno appare probabile che il termine citum possa essere reso con divisum. Innanzitutto perché ciò, nel binomio erctum citum, darebbe luogo ad un’inspiegabile ripetizione, ma, poi, comporterebbe anche l’abbandono del suo significato primo e originario: ‘provocare’, ‘spingere’, che invece con l’altro vocabolo si coniuga in una espressione di senso compiuto sia sul piano logico sia su quello giuridico[16].

L’espressione “ercto non cito[17] può quindi essere resa con «da divisione non provocata» e, conseguentemente, l’erctum cieri che compare in Cicerone troverebbe il suo significato in «provocare la divisione», proprio il fine a cui tende la causa familiae erciscundae che appare nello stesso testo[18].

Peraltro la formula arcaica su un punto non lascia comunque dubbi: sul piano filologico l'espressione ercto non cito pone l'accento sul regime d’indivisione in cui si trovavano i beni che costituivano oggetto del consortium antico e che ne costituiva il dato strutturale[19].

Minore rilievo, almeno in base alla lezione da ritenersi preferibile, sembra rivestire un altro testo attinente al consortium:

 

Quintiliano, Institutiones oratoriae 7.3.13: Opus est aliquando finitione obscurioribus et ignotioribus verbis, ut quid sit clarigatio erct<us>cit<us>[20].

 

Gli apparati critici delle edizioni moderne specificano: A(mbrosianus) «erctus citus», G (supplemento del codex Bambergensis) «ercet ut», M(onacensis) «erat ut». La lezione probabilmente corretta è proprio la prima[21], e Quintiliano presumibilmente accosta in sequenza asindetica due esempi classici di obscuriora et ignotiora verba[22], al suo tempo pressoché misteriosi, che indicavano istituti distinti, ancorché risalenti alla medesima epoca lontana.

Venendo ora al termine consortium, ci sembra invece più suggestiva un’ulteriore fonte, ancora di Servio grammatico, che accosta questa volta il termine clarigatio, a cui allude Quintiliano nel passo riprodotto poco sopra, a sors:

 

Servio, Ad Aeneida 10.14[23]clarigatio’ autem dicta est aut a clara voce, qua utebatur pater patratus; aut a kl»rw, hoc est, sorte: nam per bellicam sortem invadebant agros hostium: unde et klhronÒmoi dicuntur Graece, qui iure sortiuntur bona defuncti.

 

Nel medesimo contesto, e precisamente nelle righe che precedono quelle citate, viene descritta, se pure con qualche inesattezza, la complessa procedura che dal res repetere (identificato da parte della dottrina con la clarigatio) conduceva alla vera e propria indictio belli[24]: la prima attività era presupposto necessario della seconda e ne costituiva la ragione.

 Non è questa la sede per addentrarsi nell’antico rituale dei feziali: ciò che si intende focalizzare è il singolare collegamento che Servio pone in essere, per fornire un etimo convincente del termine ‘clarigatio[25], con il termine greco klÁroj, cioè sors.

A chi scrive questo è apparso, come si diceva, un elemento testuale abbastanza suggestivo. Senza entrare nel merito circa la validità - certo assi discutibile sul piano filologico - della seconda proposta di etimologia serviana (aut a kl»rw, hoc est, sorte), resta sintomatico che per lo scoliaste di Virgilio il vocabolo greco equivale a quello latino in un contesto che, con l’accenno all’invasione dei territori nemici per bellicam sortem, ne induce un’accezione di natura, diremmo, ‘economico-patrimoniale’.

Il significato, pure ampiamente attestato (e anche oggi di uso comune), di sors come ‘ciò che ci viene attribuito dal caso’[26], trova nel testo serviano un punto di contatto con quello caratterizzato dalla valenza indicata poco sopra nel concetto di hereditas, che l’una e l’altra accezione si trova in certo modo ad assommare.

Quanto finora premesso può, insomma, indurre la suggestione che già in epoca molto risalente il termine sors indicasse, almeno con relativa frequenza, entità caratterizzate da una valenza economica, come appunto il patrimonio, e che la citata valenza ‘economico-patrimoniale’ presente nel linguaggio giuridico abbia visto nell’hereditas la cerniera con l’altra diffusa accezione – di fato, destino, caso, ventura – propria del medesimo vocabolo[27].

Sulla duplicità di significati che qui si focalizza una delle fonti più significative è ancora Festo (Paolo Diacono), Lindsay 381: ‘Sors’ et patrimonium significat. Unde consortes dicimus; et dei responsum et quod inique accidit in sortiendo. Nonostante l’aspetto bisemico che il lessico citato manifesta, è tuttavia interessante notare che il vocabolo consortes è direttamente fatto derivare dall’accezione di patrimonium[28].

In sintesi, sors come ‘bene’, o ‘cespite’, o ‘patrimonio’, che, come è il caso dell’eredità’, può giungere per attribuzione del fato. In tal senso, anche il termine ‘consortium’ potrebbe connotarsi di un’accezione non lontana da ‘patrimonio comune toccato in sorte’[29].

L’accezione di sors con valenza ‘economico-patrimoniale’ appare attestata in antico da Plauto[30] nonché, assai più avanti nel tempo e con una caratterizzazione ulteriore, da Isidoro di Siviglia (Etymologiae 10.51), il quale riconduce il termine consors a quello di sors intesa come ‘parte dei beni’: Consors, eo quod ad eum pars pertinet bonorum. Nam sortem veteres pro parte ponebant. Consors ergo, quod sit communis sorte, sicut dissors dissimilis sorte. E’, insomma, consors chi ha la titolarità di una parte dei beni, giacché per gli antichi ‘sorte’ valeva ‘parte’. ‘Consorte’ era dunque chi aveva ‘sorte’ (nel senso già visto) in comune, al contrario di dissors, che aveva ‘sorte’ differente.

Muovendo dalla piana testimonianza di Isidoro, si può quindi riconnettere il significato ‘concreto’ del termine all’antico consorzio ereditario, i cui membri, tra loro fratelli, si ritrovavano contitolari del patrimonio familiare ereditario, fratres consortes, appunto.

Lo stretto legame del ius fraternitatis è presupposto per la condivisione materiale dei beni e ragione portante della singolarità di struttura del consortium stesso. In un percorso logico (e cronologico) quasi circolare coloro che si trovavano ad essere comproprietari di un complesso di beni ricevuti ereditariamente, e perciò come in sorte, risultano in virtù di questo legati anche da un ‘destino’ comune.

Il binomio ercto non cito, sia che si renda, come vorrebbero Gaio e Servio, «da dominio non diviso» sia che si renda, correttamente, «da divisione non provocata», accosta (in negativo), sul piano terminologico-concettuale, l’idea del dominio plurimo integrale alla categoria della divisione. Le due espressioni sottendono peraltro una diversa sfumatura semantica: nell’etimo gaiano e serviano l’indivisione è - o può essere - ontologica, e come tale non superabile[31]; nell’etimo oggi in genere accolto l’indivisione appare riferibile al permanere della volontà dei consortes.

Ci si riferisce, è ovvio, al consortium fratrum suorum. Per il consorzio imitativo, la cui introduzione difficilmente può risultare anteriore alla metà del V secolo a.C.[32], il problema, almeno sul piano logico, parrebbe non doversi porre: poiché esso nasce da un atto di volontà di più persone, riesce difficile credere che le stesse, decidendo di dar vita ad un tale sodalizio, si inserissero in un meccanismo che le rendeva prigioniere anche qualora venissero meno le condizioni che ne avevano suggerito la costituzione.

Per quanto i ceteri potessero essere liberi da legami familiari reciproci[33], è verosimile che quanto meno sussistesse tra loro un vincolo fiduciario, collaborativo, un incisivo intuitus personae che li induceva a dar vita al consortium. Se poi, per diverse vicende, questo rispetto o questa fiducia venivano meno non restava altro rimedio che sciogliere la comunione, riprendendo ognuno la propria strada[34].

 

2. – Riflessioni in particolare circa il problema della divisibilità-indivisibilità del consortium

 

Il precedente excursus può, con l’ovvia prudenza del caso, indurre alcune suggestioni.

Una prima, sulla quale tuttavia in questa sede non è possibile soffermarsi a lungo, è legata al testo di Isidoro di Siviglia (Etym. 10.51) che avvicina sors a pars, e che richiama l’idea che il consors è colui ‘che ha una parte’[35].

Ciò, sempre che sia possibile ricollegarlo al nostro antichissimo istituto, potrebbe costituire un elemento di riflessione circa la validità del diffuso assunto che la struttura del c.d. consortium ercto non cito sia concettualmente incompatibile con il concetto di quota[36]. Tanto più se si tende ad attribuire al termine sors quella accezione ‘economico-patrimoniale’ che altre fonti testimoniano con chiarezza: consorte è colui che ha una parte (una quota), nel nostro caso di un patrimonio indiviso.

Tra l’altro il principio della rappresentazione (Gai. 3.7-8) – sempre che non sia stato introdotto dalla legge delle XII tavole e non risalga invece a mores anteriori – in base al quale due, tre, o anche quattro nipoti succedono in luogo del loro ascendente premorto all’ereditanto, costituisce un elemento logicamente piuttosto forte a favore della presenza dell’idea di quota anche all’interno del consortium, perché si trova inevitabilmente connesso con l’idea delle frazioni di patrimonio e della loro equivalenza a prescindere dal numero dei soggetti a cui ciascuna di esse si riferisce.

Inoltre la la predetta matrice semantica, togliendo pressoché del tutto l’aura idealistica che talora – complice forse l’assimilazione al cenacolo pitagorico operata da Gellio[37] – si riconnette alla figura giuridica in oggetto, sposta l’angolo visuale su un terreno più ‘asettico’ e rafforza, rendendola in qualche misura più plausibile, l’idea della divisibilità originaria del consortium medesimo.

Quanto al modo di addivenire alla divisione del consorzio già operante, sembra venisse esperita la legis actio per iudicis arbitrive postulationem, in forza della lex Licinnia menzionata da Gaio in Inst. 4.17[38], ancorché essa non sia stata il rimedio originario: si può infatti pensare che prima lo scioglimento fosse legato quanto meno al consenso unanime dei comproprietari.

Il tema della divisibilità del consorzio fraterno è anche connesso, dal canto suo, a quello della coattività o meno del proprio sorgere: se si ritiene che i sui heredes non potessero, una volta morto il pater familias, impedire la costituzione del consorzio è anche più plausibile dedurne che tale struttura restasse poi indivisibile di diritto e di fatto[39].

Personalmente preferisco ritenere che l'antica comunità ereditaria si identificasse, al contrario, in una sorta di conseguenza ‘naturale’ (in senso giuridico) della successio mortis causa stante una pluralità di heredes sui[40]: una volontà – quanto meno una volontà collettiva – contraria valeva perciò ad eliminarla dall’inizio.

Il passo di Festo (Paolo Diacono [Lindsay 72]) di cui al paragrafo precedente – ‘Erctum citumque’ fit inter consortes … – sembra riferirsi ad un periodo in cui i consortes potevano provocare la divisione, dato che si tratta di un evento che ‘avviene’ tra di loro, o comunque che riguarda loro, come attestano, scrive il grammatico, i libri di diritto romano (ut in libris legum Romanorum legitur), ma ovviamente non esclude di per sé che si stia parlando di una possibilità sopravvenuta.

A partire dalla metà del V secolo a.C. è certo che i coeredi potevano opporsi allo stato di indivisione ricorrendo all'actio familiae erciscundae, il cui archetipo[41], ci dice Gaio (7 ad ed. prov. D. 10.2.1 pr.), proficiscitur e lege XII tabularum.

La testimonianza gaiana introduce però soltanto un termine non post quem non probante, procedendo a ritroso nel tempo, circa l’antichità della pratica relativa alla divisione ereditaria[42]. E’ lecito infatti, di nuovo, pensare che, prima della comparsa del citato rimedio, potesse operare uno scioglimento in via convenzionale, previo accordo di tutti i consortes.

Il frammento gaiano riportato sopra prosegue dicendo: namque coheredibus volentibus a communione discedere necessarium videbatur aliquam actionem constitui, qua inter eos res hereditariae distribuerentur, e anche questo è addotto come argomento a difesa dell’inseparabilità del consorzio anteriormente alle XII tavole, le quali avrebbero quindi fornito ai coeredi che volevano uscire dalla communio uno strumento di cui prima non disponevano in alcun modo[43].

Tuttavia, anche qui si tratta di vedere se con l’indicazione dei coheredes volentes a communione discedere si allude anche all’intera cerchia dei coeredi considerata nel suo complesso, la quale quindi sarebbe stata come tale impossibilitata a dividere lo stato di comunione pure di fronte a una volontà unanime, oppure se ci riferisce, come riteniamo preferibile, a ‘quei coeredi’ che intendevano porre fine al predetto stato; né ci sembra che quest’ultima soluzione dovrebbe presupporre necessariamente l’uso del termine coheres al singolare.

Conseguentemente, l’altro correlato passo del Gaio antinoese (4.17: Item de hereditate dividenda inter coheredes eadem lex [scil. XII tabularum] per iudicis postulationem agi iussit) induce a credere che l'innovazione legislativa abbia introdotto il citato specifico mezzo processuale per operare la divisione ereditaria e non anche la sostanziale possibilità di ottenere quest’ultima in via consensuale[44].

Nemmeno inoltre sarebbe irragionevole pensare – benché non si possa sottovalutare come lo stato lacunoso della fonte in argomento riduca alquanto la portata del rilievo – che Gaio avrebbe sottolineato una così singolare caratteristica del consorzio, quale la sua originaria indivisibilità, includendo anch'essa nell’illud proprium dell'istituto stesso. Tanto più che la medesima avrebbe costituito in tal senso un modello del tutto incompatibile non solo con quello della societas totorum bonorum, a cui il giurista accomuna il consortium, ma anche con quello della societas unius alicuius negotii, che pure si caratterizza per la connaturale possibilità di divisione (Gai. 3.151: Manet autem societas eo usque, donec in eodem consensu perseverant).

Il passo di Aulo Gellio (Noct. Att. 1.9.12), come si è accennato all’inizio, rimane il più solido argomento testuale che può essere addotto a sostegno dell'inseparabilità del legame consortile antico, e in un recente argomentato studio teso a dimostrare tale carattere del consortium anteriormente alla legge delle XII tavole, si ironizza sugli escamotage a cui sono ricorsi gli autori che ne difendono la “congenita separabilità”[45].

Che il passo delle Notti attiche apporti un dato pesante non si può certamente negare, si tratta tuttavia di vedere se, in sé e nell’apparato testuale complessivo, la fonte costituisca davvero un ostacolo insuperabile.

In primo luogo l'aggettivo inseparabilis si riferisce direttamente alla comunità pitagorica e non all'ercto non cito, che, in tale contesto, funge magari da semplice, più generale termine di paragone. Ciò che a Gellio preme sottolineare è il sentimento di φιλία che univa i discepoli pitagorici in un’unione morale di vita e di pensiero e che li portava alla rinuncia delle proprie ambizioni e sostanze personali in nome di un traguardo comune più alto.

L’antiquario infatti spiega (1.9) che l’ordine e il metodo di Pitagora prima, dei suoi successori poi, prevedeva per gli adepti che chiedevano di essere istruiti (qui sese ad discendum obtulerant) un severo giudizio di ammissione, il quale era teso a individuarne la natura e il carattere dall’espressione e dai tratti somatici (mores naturasque hominum coniectatione quidam de oris et vultus ingenio deque totius corporis filo atque habitu suscitari). Seguiva poi una sorta di lunga e rigorosa milizia, che prevedeva un periodo iniziale di almeno due anni in cui si doveva soltanto tacere, ascoltare quanto gli altri dicevano ma non rivolgere loro domande su ciò che rimaneva oscuro, né prendere appunti. Solo in seguito si poteva parlare, scrivere e formarsi nelle scienze. Infine si era in grado di procedere allo studio delle opere della natura e delle origini del mondo (exinde his scientiae studiis ornati ad perspiciendi mundi opera et principia naturae procedebant).

Con tali premesse, anche ammettendo che inseparabilis sia qui usato da Gellio in senso proprio e non prevalentemente in senso etico-descrittivo, come pure non si può escludere, ciò potrebbe giustificarsi proprio per questa sorta di ‘ordinazione’ - che come tale si poneva irreversibile: avviene anche oggi per talune appartenenze - a cui i discepoli, volontariamente e conoscendone tutte le conseguenze, si consegnavano. Il che appare alquanto diverso, almeno sul piano dei presupposti logici, dallo stato in cui, per volere della sors, vengono a trovarsi dei fratelli dopo la morte dell’avente potestà[46].

E pure concedendo che l’inseparabilis gelliano vada inteso alla lettera, detta inseparabilità, come è stato giustamente posto in rilevo «non è per nulla inconciliabile con il principio della divisibilità del patrimonio, poiché potrebbe far riferimento ad un regime in cui quella preclusione operava non già in ordine alla possibilità di uno scioglimento del consortium ‘voluto’ dagli heredes sui, bensì solo con riguardo alle ipotesi di scioglimento ‘coatto’», regolato in seguito dalla legge delle XII tavole[47].

Si può infine soggiungere che Gellio, se a conoscenza dell’etimo corretto, cadrebbe allora nella contraddizione di definire inseparabilis in senso tecnico-giuridico un legame connotato ‘dalla divisione non provocata’.

Anche l’argomento legato alla tautologia che deriverebbe dal ritenere la denominazione di consortium ercto non cito originaria, e non introdotta dopo che le XII tavole ne hanno effettivamente ammesso la divisibilità, non appare in ultima analisi invincibile[48]. Il termine consortium evoca infatti al contempo sia l’immagine dell’eredità mantenuta integra, che ne costituisce il presupposto, sia quella della comunione dominicale che ne segue con il coinvolgimento degli acquisti successivi dei fratres consortes, i quali diventano conferimenti automatici, e questo è del consorzio l’aspetto dinamico[49].

Pertanto il consortium (fratrum suorum) non solo c’è, necessariamente e ovviamente, perché non lo si è diviso, ma può anche dirsi che c’è perché non si è divisa l’hereditas alla morte del paterfamilias. Un conto sarebbe quindi parlare di ‘hereditas communisercto non cito, un poco diverso è parlare, come fa Gellio, di ‘consortiumercto non cito. La prima è indubbiamente un’espressione pleonastica, la seconda, benché certamente ellittica, non può definirsi tale senz’altro.

Senza contare che, in generale, valutando i passi di Gaio, Gellio e degli altri antichi autori, una probabilità un po’ maggiore sembrerebbe stare dalla parte di una denominazione originaria e non posteriore di secoli alla comparsa dell’istituto a cui si riferisce.

 

 



 

[1] V. ARANGIO-RUIZ, Il nuovo Gaio. Discussioni e revisioni, in BIDR, 42, 1934 [1935], 571 ss. Sulle fasi della pubblicazione dei frammenti gaiani di Antinoe cfr. L. MONACO, Hereditas e mulieres. Riflessioni in tema di capacità successoria della donna in Roma antica, Napoli 2000, 31 nt. 1. Sul contesto storico-culturale in cui avvenne, più in generale, il ritrovamento delle Gai Institutiones, nonché sulla storia delle loro edizioni e il ruolo dell’opera nella rifondazione della scienza giuridica legata alle idee della Scuola Storica, cfr. di recente C. VANO, “Il nostro autentico Gaio”. Strategie della Scuola Storica alle origini della romanistica moderna, Napoli 2000 (su cui A. GUARINO, in SDHI, 51, 2000, 223 ss.).

 

[2] Si vedano, nel campo di una bibliografia imponente, gli esaurienti restatement dottrinali di L. MONACO, op. cit., 32 nt. 5; e di G. ARICO’ ANSELMO, “Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, in (AUPA, 46, 2000, 77 ss. =) Iuris vincula. Studi M. Talamanca, I, Napoli 2001, 151 nt. 2. Cfr. inoltre M. SALAZAR REVUELTA, Análisis de la copropiedad romana a través de las acciones divisorias, in AA. VV., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali, Napoli 2003, 310 nt. 11, con ulteriore letteratura in particolare di lingua spagnola. Adde J. PARICIO, El contrado de sociedad en derecho romano, Madrid 2002, 480 ss.; M. PENTA, Il diritto societario nel diritto romano e nel diritto intermedio, in Riv. on line della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, 1.10, ottobre 2004 (www.rivista.ssef.it).

 

[3] Cfr., a titolo di esempio, G. PUGLIESE (-F. SITZIA-L. VACCA), Istituzioni di diritto romano3, Torino 1991, 95, 128; A. BURDESE, Diritto privato romano4, Torino 1993, 220, 348; R. MARTINI, Appunti di diritto romano privato, Padova 2000, 140; G. FRANCIOSI, Corso istituzionale di diritto romano3, Torino 2000, 113; G. SCHERILLO-F. GNOLI, Diritto romano. Lezioni istituzionali, Milano 2003, 377; B. SANTALUCIA, in AA. VV., Diritto privato romano. Un profilo storico (cur. A. Schiavone), Torino 2003, 233; U. VINCENTI, ibid., 292; V. MAROTTA, ibid., 422; G. NICOSIA, Nuovi profili istituzionali essenziali di diritto romano4, Catania 2005, 250. Ma si vedano anche le precisazioni di A.D. MANFREDINI, Istituzioni di diritto romano3, Torino 2003, 168 nt.6; e di M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano3, Palermo 2006, 346 nt. 156.

 

[4] Sul punto si ritornerà infra, al § 2.

 

[5] Si è seguita qui l’edizione di P.F. GIRARD-F. SENN, Textes de droit romain, I7, Paris 1967, 154 s.

 

[6] E’ incerta la lezione tra certa e cepta (V. ARANGIO-RUIZ, op. cit., 575 nt. 31), ma il dato non rileva particolarmente.

 

[7] Osserva tuttavia R. LAMBERTINI, in D. DALLA-R. LAMBERTINI, Istituzioni di diritto romano3, Torino 2006, 270, che, benché Gaio parli di ‘società di fratelli’, bisogna tenere presente anche il principio della successio in locum, per cui al frater morto o uscito per capitis deminutio dalla familia prima della morte dell’ereditando subentravano i suoi discendenti rimasti in potestà del de cuius. Sostiene l’esclusione dal consortium di filiae e uxor in manu L. MONACO, op. cit., 31 ss.

 

[8] Il periodo che va da Sed ea a consistit collima quasi del tutto con quello corrispondente del Veronese (Sed haec quoque societas, de qua loquimur, id est quae consensu contrahitur nudo, iuris gentium est, itaque inter omnes homines naturali ratione consistit): le uniche differenze stanno nell’ea al posto di haec, nel quidem al posto di quoque e nella diversa posizione dell'aggettivo nudo. Proprio quest'ultima circostanza aveva confermato in S. SOLAZZI, in Atti Accad. Napoli, 57 1935, 444 ss. e 58 1937, 107 ss., la convinzione che l'intera frase fosse un glossema. In senso critico cfr. V. ARANGIO-RUIZ, op. cit., 587 s.

 

[9] Cfr., di recente, C.A. CANNATA, Corso di Istituzioni di diritto romano, I, Torino 2001, 530, il quale acutamente indica anche la possibile matrice dell’errore in cui è incorso Gaio.

Cfr. anche A. ERNOUT-A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots4, Paris 1959, cieo (119), ercisco (200); A. WALDE, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, Heidelberg 1965, cieo (213), (h)erctum (640). Sulle etimologie prospettate dai giureconsulti cfr. L. CECI, Le etimologie dei giureconsulti romani raccolte e illustrate, in St. Jurid., 9, Torino 1982 (rist. 1966); B. BIONDI, Valore delle etimologie dei giuristi romani, in Synteleia V. Arangio-Ruiz, II, Napoli 1964, 739 ss.; R. MARTINI, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, passim; A. CARCATERRA, Le definizioni dei giuristi romani, Napoli 1966, passim; R. LAMBERTINI, L’etimologia di ‘servus’ secondo i giuristi romani, in Sodalitas Guarino, V, Napoli 1984, 2385 ss.; M. BRETONE, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, 318 ss.; IDEM, La storia del diritto romano fra scienza giuridica e antichistica, in Iura, 38, 1988 [1991], 18 s. (con riferimento a Sesto Elio); S. QUERZOLI, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle ‘Institutiones’, Napoli 1996, 197 ss.

 

[10] Tali erronee direttrici etimologiche, ma anche in generale la varietà delle soluzioni proposte, sono in fondo indici dell’oscurità che circondava la formula, rendendola ormai pressoché incomprensibile agli stessi antiquari romani (paradigmatico in tal senso Quintil., Inst. orat. 7.3.13, su cui infra nel testo). Questo, tra gli altri, è un valido motivo che induce ad escludere che il consortium esistesse ancora, più o meno trasformato, all’epoca di Gaio. Quando l’istituzionista scrive ‘est’ autem aliud genus societatis proprium civium Romanorum, usa il verbo sum al presente, come bene spiega V. ARANGIO-RUIZ, op. cit., 592, «sub specie aeternitatis, come un dato scientifico». D’altronde, a proposito del consorzio imitativo, lo stesso Gaio scrive: alii quoque qui ‘volebant’ eandem habere societatem, ‘poterant’ id consequi (): cfr. anche L. MONACO, op. cit., 36 s.

 

[11] Secondo A. WALDE, op. cit., cieo, il supino con la i lunga di cui parla Servio è tuttavia una “Grammatikerconstruktion”.

 

[12] In argomento cfr. da ultimo M. D’ORTA, Il ‘legatum per praeceptionem’. Dal dibattito dei giuristi classici alla riforma giustinianea, Torino 2004, 34 ss.

 

[13] Il verbo (h)ercisco-or con identica accezione compare anche in Apul., Metam. 6.29: Sic nos diversa tendentes et in causa finali de proprietate soli, immo viae herciscundae contendentes rapinis suis onusti coram deprehendunt ipsi latrones. La situazione è quella di Lucio-asino e della fanciulla che, mentre tirano da parti diverse come se litigassero per i confini di due fondi o per la divisione di una strada, vengono sorpresi dai ladroni. Per quanto concerne il termine erus, si vedano le osservazioni di L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Proprietà e signoria in Roma antica, I, Roma 1994, 257 ss., circa un uso costante di erus nel senso di ‘padrone del servo’, mentre dominus, termine recenziore, assumerebbe un’accezione più ampia, nel senso di padrone di qualsiasi bene. Stando a E. LEVY, Neue Bruchstϋcke aus den Institutionen des Gaius, in ZSS, 54, 1934, 271, erctum deriverebbe invece dal greco είρκτος, ossia ‘recinto’, partendo dall’idea del gregge rinchiuso e poi messo in movimento.

 

[14] I termini consors e consortium compaiono ancora in diversi testi letterari, ma con accezioni variabili. Vedi, ad esempio: Cic., Verr. II. 3.57: Sostratus et Numenius et Nymphodorus eiusdem civitatis cum ex agris tres fratres consortes profugissent; Liv. 41.27.2: L. Fulvi, qui frater germanus et, ut Valerius Antias tradit, consors etiam censoris erat; Propert. 1. 21. 1-2: Tu, qui consortem properas evadere casum, miles, ab Etruscis saucis aggeribus); Tibull. 2.5.23: Romulus aeternae nondum formaverat urbis moenia, consorti non habitanda Remo; Tac., Ann.4.3: Hanc ut amore incensus adulterio pellexit, et postquam primi flagitii potitus est… ad coniugi spem, consortium regni et necem mariti impulit; Vell. Pat. 1.2.6: Aspera circa haec tempora censura Fulvii Flacci et Postumii Albini fuit: quippe Fulvii censoris frater, et quidem consors, Cn. Fulvius senatu motus est ab iis censoribus.

 

[15] In passato la dottrina aveva considerato herctum un supino finale coordinato al verbo di movimento cieri (vedi, ad esempio, O. KARLOWA, Der römische Civilprozess zur Zeit der Legisactionen, Berlin 1872, 143 nt. 2). S. TONDO, Ancora sul consorzio domestico nella Roma antica, in SDHI, 60, 1994, 604, interpreta invece herctum come nome d’azione soggetto della proposizione oggettiva ‘cieri’: la forma primaria sarebbe quindi erctus-us, e la seconda (erctum) sarebbe un volgarismo da essa derivata. Secondo P. VOCI, Diritto ereditario romano, I2, Milano 1967, 62, herctum sarebbe la porzione di terreno oggetto dell’adsignatio di ager publicus: in tal modo, a giudizio dell’autore, pur attribuendo al vocabolo erctum l’accezione originaria di divisum, sarebbe possibile giungere ugualmente a un significato, derivato, di dominium. In merito, si veda anche M. SALAZAR REVUELTA, op. cit., 313.

 

[16] Conforme all’etimo gaiano, vedi ancora tuttavia Non. 265. 24 “citum, divisum vel separatum”. Tuttavia l’accezione propria del verbo è comunque ‘mettere in movimento’. E. FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, I, Padova 1940, (612), infatti fornisce come primo significato di citus: motus, permotus, citatus; e come secondo, incitatus, celer, velox. Il verbo cieo (cio) è posto in relazione con il greco κίω, κινέω, ossia mettere in moto, muovere, provocare. Il significato ‘dividere’ è solo secondo e derivato, tanto che per l’espressione herctum ciere si dà la seguente spiegazione: est hereditarium as movere adeoque in singulos heredes dividere. A favore dell’interpretazione proposta nel testo cfr. ora anche le pertinenti considerazioni di M. SALAZAR REVUELTA, op. cit., 313 s.

 

[17] La formula, tradizionalmente considerata un ablativo assoluto in cui erctum è un participio passato sostantivato e citum un participio puro (in tal senso B. ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 210; ed anche M. BRETONE, Consortium e communio, in Labeo, 6, 1960, 169 nt. 5). Contra, S. TONDO, Il consorzio domestico nella Roma antica, in Atti e Memorie Accad. ‘La Colombaria, 40 n.s. 26, Firenze 1975, 142, e bibliografia ivi citata.

 

[18] Cfr. B. ALBANESE, La successione ereditaria in diritto antico, in AUPA, 20, 1949, 9 ss.; L. MONACO, op. cit., 35. L’aspetto semantico di ‘ercto’ si coordina quindi al carattere di comunione ereditaria dell’istituto, in quanto si ricollega ad hercisco-r, verbo che designa l’operazione del dividere non beni qualsiasi ma beni ereditari. E. FORCELLINI, Lexicon, cit., II (649), riporta come possibile etimo di hercisco-r appunto herctum + cio (in assonanza col greco σχίω, σχίζω), col significato di ‘dividere il patrimonio’.

 

[19] S. TONDO, op. ult. cit., 143, afferma che risolvere ‘ercto non cito’ in ‘divisione non provocata’ porta ad una tautologia, in quanto significherebbe affermare che la comunione è conseguenza dell’indivisione. Sul punto si può rinviare alle considerazioni di cui infra.

 

[20] B. ALBANESE, op. cit., 156; S. TONDO, op. cit., 146; M. SALAZAR REVUELTA, op. cit., 315 (quest’ultima però con non poche perplessità) accettano la lezione clarigatio ercti citi, secondo l’edizione a cura di E. Bonnel, menzionata dal secondo autore. Tale espressione non trova però spiegazione convincente (neanche – ci sembra – quella di ‘intimazione di divisione provocata’ ipotizzata dall’Albanese). Il primo termine si riferisce infatti ad un complesso rito, che vedeva come protagonista il pater patratus: essa era la formula finale, che con le parole ‘bellum indico facioque’ concretava la vera e propria dichiarazione di guerra. In proposito vedi G. DONATUTI, La “clarigatio” o “rerum repetitio” e l’istituto parallelo dell’antica procedura civile romana (1955), ora in Studi di diritto romano, Milano 1977, 863 ss. Cfr. anche la nota seguente.

 

[21] Cfr. P. VOCI, op. cit., 60; L. MONACO, op. cit., 36 nt. 20.

 

[22] Chi intende fare un esempio di «parole dal significato alquanto oscuro e sconosciuto» ricorre più probabilmente a una successione di vocaboli staccati l’uno dall’altro e come in serie, piuttosto che ad un unico sintagma composto da diverse parole unite tra di loro.

 

[23] Ed. Thilo-Hagen, II, Hildesheim 1961, 384. Sulla problematica giuridico-militare implicata dal testo cfr. E. VOLTERRA, L’istituto della clarigatio e l’antica procedura delle legis actiones, in Scritti Carnelutti, IV, Padova 1950; L. FASCIONE, Bellum indicare e tribù (509-367 a.C.), in Legge e società nella repubblica romana, I, 1981, 226 ss.; B. ALBANESE, Res repetere-bellum indicere, in AUPA, 46, 2000, 7 ss.; A. CALORE, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, Milano 2003, 43 ss. (= ‘Bellum iustum’ e ordinamento feziale, in Diritto@Storia, 4, 2005 [www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Calore-bellum-iustum-ordinamento-feziale.htm]); IDEM, ‘Bellum iustum’ tra etica e diritto, in Diritto @ Storia, 5, 2006 (www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Calore-Bellum-iustum-etica-diritto.htm). Del res repetere si occupa anche F. SINI, ‘Ut iustum conciperetur bellum’: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, in Seminari di storia e di diritto, 3, “Guerra giusta”? Le metamorfosi di un concetto antico (cur. A. Calore), Milano 2003. (= Diritto @ Storia, 2, 2003 [www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Iustum-bellum.htm.]), 64 ss.; IDEM, Pace, guerra, diritto. Sulla teoria dei rapporti internazionali nella ‘Storia della costituzione romana’ di Francesco De Martino, in Diritto@Storia, 5, 2006 (www.dirittoestoria.it/Tradizione-Romana/Sini-Teoria-rapporti-internazionali-De-Martino.htm). La funzione dei feziali – spiega A. CALORE, ‘Bellum iustum’ e ordinamento feziale, cit. – «non era quindi di decidere l’azione bellica quanto piuttosto di approntare le procedure rituali, preparatorie alla guerra. Un’attività più giuridica, o meglio giuridico-religiosa se riferita alla storia arcaica di Roma, che politica».

 

[24] Cfr. la nota precedente. Vedi anche Liv. 1.32.5-14, su cui diffusamente A. CALORE, ‘Bellum iustum’ e ordinamento feziale, cit. (Cfr. anche A. CALORE, ‘Per Iovem lapidem’. Alle origini del giuramento. Sulla presenza del sacro nell’esperienza giuidica romana, Milano 2000, 51, 118 nt. 33).

 

[25] «Enigmatica figura» è definita la clarigatio da A. CALORE, ‘Bellum iustum’, cit.

 

[26] E. FORCELLINI, Lexicon, cit., IV, sors (427); A. ERNOUT-A. MEILLET, op. cit., sors (637); A. WALDE - J.B. HOFMANN, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, II, Heidelberg 1972, sors (563); G. SEMERANO, Le origini della cultura europea, II. Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indoeuropee. Dizionario della lingua latina e di voci moderne, Firenze 1994, sors (571).

 

[27] Sors è anche la tavoletta, in genere di legno, che serviva per le risposte degli oracoli; nonché la tessera di cui ci si valeva nelle votazioni. Nel linguaggio filologico, sors indica anche i ciottoli recanti epigrafi in rilievo, aventi contenuto oracolare, quale quello analizzato da E. PERUZZI, Un’antichissima sors con iscrizione latina, in PP, 14, 1959, 212 ss., e da M. GUARDUCCI, Ancora sull’antichissima sors col nome di Servio Tullio, in PP, 15, 1960, 50 ss. Sul punto vedi anche una breve menzione in C. AMPOLO, La città riformata e l’organizzazione centuriata. Lo spazio, il tempo, il sacro nella nuova realtà urbana, in Storia di Roma (direz. A. Momigliano - A. Schiavone), I. Roma in Italia, Torino 1988, 214. Sui diversi significati di sors cfr. anche C.A. MASCHI, Disertiones. Ricerche intorno alla divisibilità del ‘consortium’ nel diritto romano antico, Milano 1935, 39 nt. 1.

 

[28] Non ritengo sia invece possibile, anche a causa di un guasto del testo, ricavare indicazioni affidabili da Varr., De ling. Lat. 6.64-65 (Sic conserere manum dicimur cum hoste; sic ex iure manum consertum vocare; hinc adserere manum in libertatem cum prendimus. Sic augures dicunt: ‘Si mihi auctor es[t] verbenam manu[m] asserere, dicit<o> consortes’. Hinc etiam a[d] quo ipsi consortes, sors; hinc etiam sortes, quod in his iuncta tempora cum hominibus ac rebus; ab his sortilegi; ab hoc pecunia quae in fenore sors est, impendium quod inter se iungit), che viene posto in relazione con Festo, ‘sagmina’ (Lindsay 424), in particolare per quanto riguarda la pretesa testimonianza di un rituale idoneo a dare vita al consortium tra fratres. Le parole degli auguri riportate da Varrone potrebbero essere rese: «Se mi autorizzi a prendere in mano la fronda sacra, dirai chi sono i miei consortes», ma si tratta di un testo con gravi guasti, che si riferisce a una situazione indecifrabile, e che non si può contrapporre al chiaro dettato di Gaio, il quale depone per la formazione automatica del consortium fratrum suorum: in critica a P. COLLINET, Les nouveaux fragments des Institutes de Gaius (PSI 1182), in RH, 4, 1934, 102 ss., cfr. V. ARANGIO-RUIZ, op. cit., 598 ss. Nel passo varroniano si può tuttavia rilevare (6.65) l’accezione per cui pecunia quae in faenore sors est.

 

[29] Abbastanza curioso si presenta in tal senso un passo dello Pseudo Quintiliano, Min. decl. 320.4: consortes enim potest facere casus; ove però, a differenza di quanto ci si potrebbe attendere, si ricollega il sodalizio a duo homines che omnes fortunas suas contulerunt.

 

[30] Come riportato anche nel Lexicon Plautinum (cur. G. Lodge), Hildesheim 1972, 665, nella Mostellaria Plauto utilizza il vocabolo in esame con lo specifico significato di ‘capitale’: ad esempio, Most. 592: sortem accipe; 588-599: sortem accipere iam licet; 612: is tibi et fenus et sortem dabit.

 

[31] In argomento vedi infra al §2.

 

[32] In genere si ritiene infatti che la legis actio con cui si affratellavano gli extranei fosse una in iure cessio (Gai. 2.24: idque [il rituale dell’in iure cessio] legis actio vocatur), per la quale Paolo (1 man., Frag. Vat. 50) attesta il riconoscimento già da parte della legge delle XII tavole: cfr. M. TALAMANCA, Società (Diritto romano), in ED, 42, Milano 1990, 817. Acuta disamina sulla funzionalità dell’in iure cessio per la costituzione del consortium in V. ARANGIO-RUIZ, op. cit., 596 ss.; IDEM, La società in diritto romano, Napoli 1950, 9 s. Cfr. inoltre, L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà e la formazione dei ‘iura praediorum’ nell’età repubblicana, II, Milano 1976, 101 ss. Per altre opinioni espresse in dottrina relativamente alla natura di tale legis actio cfr. anche L. GUTIÉRREZ-MASSÓN, Del ‘consortium’ a la ‘societas’, I. ‘Consortium ercto non cito’, Madrid 1987, 81 ss.; e L. MONACO, op. cit., 35 nt. 16. Si veda pure tuttavia lo scetticismo di fondo che sul problema sembra esprimere G. FRANCIOSI, Ancora sul ‘consortium’ (rec. di L. Gutiérrez -Massón, cit.), in Labeo, 37, 1991, 271.

 

[33] Bisogna tenere conto anche dell’ipotesi che essi siano coeredi non sui, nel qual caso il vincolo familiare (familia communi iure) sarebbe stato comunque presente.

 

[34] Cfr. le considerazioni in argomento di A. BISCARDI, La genesi della nozione di comproprietà, in Labeo, 1, 1955, 162.

 

[35] Un significato in certo modo analogo di consortes si trova in Sid. Apoll., Epist. 4.24.8: Non est cur dicere incipias: “Habeo consortes necdum celebrata divisio est; avarius me constat esse tractatum quam coheredes (…)”. La lettera di Sidonio è ricordata anche da Jacopo Gotofredo nel commento a C.Th. 3.1.6 (= C. 4.38.14) (Grat. Valentin. Theod., a. 391). Così viene definita la parola consortibus che compare all’inizio della costituzione: ‘Consortes’ sunt (…) qui alicubi ‘Personniers’ vocantur, σύγκληροι, quibus sors aut patrimonium resque aliqua communis est: quibus vel omnia bona communia sunt, vel quaedam, et quidam pro indiviso, de quibus est etiam locus apud Sidonium Apollinarem (segue citazione dell’epistula).

 

[36] Cfr. tuttavia, in senso parzialmente contrario al citato assunto, i rilievi di M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 409; IDEM, Società, cit., 816 nt. 28 (in fine). Valorizza particolarmente l’insussistenza del concetto di quota nel consortium per sostenerne l’inseparabilità G. ARICO’ ASELMO, op. cit., 158 ss. (160-161: «è proprio l’estraneità dell’idea di quota al primitivo consortium che, non solo spiega quell’integralità del potere dispositivo di ogni consorte, ma postula anche, in immancabile connessione, una radicale impossibilità di divisio»).

 

[37] In proposito si veda infra. Ciò peraltro non esclude che nuclei di fratres siano potuti restare insieme nel consortium indipendentemente da una finalità di conservazione patrimoniale, ma anche, o soprattutto, per il legame affettivo che li univa e per il decoro della famiglia; come sembra deporre, per un’epoca più avanzata, Val. Max., Fact. dict. mem. 4.8.8: Quid Aelia familia, quam locuples! XVI eodem tempore Aeli fuerunt, quibus una domuncula erat eodem loci, quo nunc sunt Mariana monumenta, et unus in agro Veiente fundus minus multos cultores desiderans quam dominos habebat inque circo maximo et Flaminio spectaculi locus. Quae quidem loca ob virtutem publice donata possidebant. Cfr. anche Plut., Paul. Aem. 5.4; 28.12.

 

[38] F.M. DE ROBERTIS, Situazioni condominiali e disponibilità dell'intero: il richiamo alla lex Licinia, in Studi Grosso, V, Torino, 1972, 121 ss., ritiene che la lex Licinnia in questione possa essere la lex Licinnia de sodaliciis del 55 a.C.

 

[39] Sul punto si veda, di recente, G. ARICO’ ANSELMO, op .cit., 151 ss., secondo la quale il consorzio tra sui era, prima dell’introduzione decemvirale dell’actio familiae erciscundae, inscindibile. Cfr. anche infra nel testo.

 

[40] Non sembra convincente, come si è detto (supra nt. 28), la tesi, sostenuta nel passato dal Collinet, circa la necessità di un atto formale per la costituzione del consorzio fraterno.

 

[41] L’actio familiae erciscundae come tale appartiene infatti alla procedura formulare: opportuno in questa direzione il rilievo di G. ARICO’ ANSELMO, op. cit., 157.

 

[42] In tal senso, S. TONDO, op. cit., 208 s., secondo il quale il richiamo alle XII tavole potrebbe essere espressione di una prospettiva comune ai giuristi dell’età antoniniana, che li conduceva ad additare nel testo decemvirale le prime scaturigini del diritto romano. Cfr. anche M. TALAMANCA, Società, cit., 816 nt. 28; contra G. ARICO’ ANSELMO, op. cit., 156 nt. 17.

 

[43] Cfr. G. ARICO’ ANSELMO, op. cit., 156 s.

 

[44] E fors’anche coattiva: cfr. M. TALAMANCA, Società, cit., 816 nt. 28.

 

[45] G. ARICO’ANSELMO, op. cit., 158: «Il testo ha dato, comprensibilmente, parecchio filo da torcere ai sostenitori della congenita “separabilità” dell’antichissima comunione fraterna. I quali, di fronte a questo lampante richiamo gelliano all’“inseparabilitas” del consorzio, hanno tentato di liberarsi dell’ingombrantissimo ostacolo “anche a costo di negare l’evidenza”. Le parole or ora citate appartengono ad uno degli stessi fautori della tesi accennata [si tratta di S. Tondo], il quale con questa generosa ammissione ci dispensa adesso dal ricordare i molteplici tentativi vanamente profusi per neutralizzare la testimonianza di Gellio». Anche secondo L. MONACO, op. cit., 37-38, «La pretesa atecnicità di Gellio, comprensibile al limite per un uso tecnico di un termine giuridico, non coinvolge l’uso di un termine che rappresenta piuttosto un concetto, estremamente chiaro anche nel suo significato “volgare” (…) I fratres dunque vivono in un regime di comunione forzosa, inscindibile, che riserva ad ognuno di essi amplissimi poteri sull’intero patrimonio». Si veda inoltre G. FRANCIOSI, Corso, cit., 113.

 

[46] A. PERNICE, Zum römischen Gesellschaftsvertrage, in ZSS, 3, 1882, 48, afferma che in questo caso inseparabilis è «eine reine Redensart», un semplice modo di dire; a parere di A. DE MEDIO, Contributo alla storia del contratto di società in Roma, Messina 1901, 22, inseparabilis significa che il consorzio era destinato a durare a lungo. Nel senso difeso nel testo cfr. L. GUTIÉRREZ-MASSÓN, op. cit., 122 ss. (a p. 123 “Festo” va corretto in “Gellio”); M. SALAZAR REVUELTA, op. cit., 315 s. Contra ARICO’ ANSELMO, op. cit., 158 nt. 23, il cui studio non sembra tuttavia noto alla precedente autrice.

 

[47] I. PIRO, ‘Consortium’, ‘heredium’ e storia dello ‘ius gentilicium’, in Labeo, 45, 1999, 281 nt. 18. S. PEROZZI, Istituzioni di diritto romano, II2, Roma 1928 (rist. Roma 2002), 653 nt. 2, interpreta l’inseparabilis di Gellio in senso letterale, ricavandone tuttavia la conclusione che fossero stati in questo caso i coeredi stessi a stabilire che il patrimonio nella cui titolarità erano subentrati non potesse essere diviso: si parlava allora di consortium ercto non cito. Si veda anche supra ntt. 28, 40.

 

[48] G. ARICO’ ANSELMO, op. cit., 155: «Ora, se i consortes avessero avuto ab initio la suddetta facoltà di scelta tra rimanere in comunione o scioglierla, sarebbe davvero curioso che si fosse designato il consorzio con l’aggiunta di quel sintagma alludente al suo stato di non-divisione e cioè in sostanza … alla sua stessa esistenza. (…) da qui, ipotizzabilmente, l’uso, diffusosi in seguito e registrato da Gaio e da altri scrittori, di riferirsi all’originario regime del consorzio con la non originaria espressione di “ercto non cito”».

 

[49] Cfr. M. TALAMANCA, Società, cit., 816.